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Feb 10, 2025

VI Domenica - Anno C - "Beati i poveri... Guai a voi, ricchi" - 16 febbraio 2025

Le letture liturgiche di questa domenica ci portano ad interrogarci su dove si fonda la nostra speranza, proponendoci due modi opposti di impostare la vita: possiamo confidare in noi stessi (e questo lo possiamo vedere nella prima lettura), condannandoci però ad una vita sterile; oppure possiamo riporre la nostra fiducia in Dio per essere come un albero che non smette di produrre frutti.
Nella prima lettura, il Profeta Geremia, ci invita ad avere più confidenza nelle cose divine che in quelle umane. Confidare nel Signore vuol dire ascoltare la Sua parola e farne regola della nostra vita. .
Nella seconda lettura, l’apostolo Paolo continuando la sua lettera ai Corinzi, ci dice che la risurrezione di Cristo è la garanzia della risurrezione di tutti gli uomini. e afferma che “se Cristo non è risorto, vana è la nostra fede! ”
Nel Vangelo di Luca troviamo la celebre pagina evangelica delle Beatitudini, che ci parlano di una felicità che è generata dalla nostra relazione con Dio. Il messaggio delle Beatitudini è un appello sintetico e radicale rivolto a coloro che hanno già fatto la prima scelta per Gesù e per il Regno e che ora devono impostare la loro esistenza di creature nuove.
Dal 15 al 18 febbraio si celebra il Giubileo degli Artisti

Dal libro del profeta Geremìa
Così dice il Signore:
«Maledetto l’uomo che confida nell’uomo,
e pone nella carne il suo sostegno,
allontanando il suo cuore dal Signore.
Sarà come un tamerisco nella steppa;
non vedrà venire il bene,dimorerà in luoghi aridi nel deserto,
in una terra di salsedine, dove nessuno può vivere.
Benedetto l’uomo che confida nel Signore
e il Signore è la sua fiducia.
È come un albero piantato lungo un corso d’acqua,
verso la corrente stende le radici;
non teme quando viene il caldo, le sue foglie rimangono verdi,
nell’anno della siccità non si dà pena,
non smette di produrre frutti.
Ger 17,5-8

Nel libro del profeta Geremia troviamo raccontata in modo autobiografico la sua vita. Sappiamo così che la sua chiamata avvenne intorno al 626 a.C. quando ancora era un ragazzo e desiderava sposarsi con la sua Giuditta, ma Dio stesso glielo proibisce, ed è per questo che è stato l’unico profeta celibe dell’A.T a differenza di tutti gli altri. Aveva un carattere mite e, all'inizio della sua missione, in cui era giovane inesperto, dovette affrontare il momento più difficile e decisivo della storia della nazione giudaica, quello che conduce all'esilio in Babilonia (587 a.C.). Egli tenta di tutto: scuote il torpore del popolo con una predicazione che chiede una radicale conversione; appoggia la riforma nazionalista e religiosa del re Giosia (622 a.C.); cerca di convincere tutti alla sottomissione al dominio di Babilonia dopo la morte del re (609 a.C.). Viene però accusato di pessimismo religioso e di disfattismo politico.
In questo brano di stile sapienziale, Geremia invita ad avere più confidenza nelle cose divine che in quelle umane ed usa parole alquanto forti che colpiscono: “Maledetto l’uomo che confida nell’uomo, e pone nella carne il suo sostegno, allontanando il suo cuore dal Signore. Sarà come un tamerisco nella steppa; non vedrà venire il bene, dimorerà in luoghi aridi nel deserto,in una terra di salsedine, dove nessuno può vivere.” Geremia fa un quadro molto eloquente: parla di calura e di siccità, cita il tamarisco , che è un arbusto sterile e di nessun valore che cresce in luoghi aridi e da lui non sboccia nulla di buono.
Poi passa a descrivere il lato positivo dell’uomo che confida nel Signore, che trova eco nel salmo 1
Benedetto l’uomo che confida nel Signore e il Signore è la sua fiducia. È come un albero piantato lungo un corso d’acqua, verso la corrente stende le radici; non teme quando viene il caldo, le sue foglie rimangono verdi, nell’anno della siccità non si dà pena,non smette di produrre frutti.
Viene descritto l'effetto delle opere compiute con giustizia e con fiducia nel Signore. Per questo la benedizione dell'uomo che confida nel Signore viene opposta alla maledizione di chi si fida solo dell’ uomo e si allontana dalla via del Signore. Sottolinea in particolare il fatto che "confidare nel Signore" significa non solo mettere in pratica i suoi comandamenti, ma anche trovare in Lui la fonte di quell'acqua fresca e permanente che gli permette di "portare frutti" in qualsiasi stagione della vita. La persona che agisce in questo modo, allora, trova nella Legge del Signore anche la fonte di gioia, e non può fare a meno di meditarla, giorno e notte affidandosi pienamente a Colui che veglia sul suo cammino.
Per mettere in pratica noi oggi questo concetto dobbiamo cercare di capire cosa significa vivere, come dice Geremia, riponendo la fiducia nell’uomo, e cosa significa invece vivere per il regno di Dio riponendo la fiducia solo in Lui.

Salmo 1,1,4-6 Beato l’uomo che confida nel Signore

Beato l’uomo che non entra nel consiglio dei malvagi,
non resta nella via dei peccatori
e non siede in compagnia degli arroganti,
ma nella legge del Signore trova la sua gioia,
la sua legge medita giorno e notte.

È come albero piantato lungo corsi d’acqua,
che dà frutto a suo tempo:
le sue foglie non appassiscono
e tutto quello che fa, riesce bene.
Non così, non così i malvagi,
ma come pula che il vento disperde;
poiché il Signore veglia sul cammino dei giusti,
mentre la via dei malvagi va in rovina.

Il salterio comincia con un salmo che presenta la beatitudine di chi rimane fermo nella meditazione della legge e la mette in pratica. Ancorato all’osservanza della Parola di Dio, non si perde il vero credente ad ascoltare il consiglio degli empi, poiché la Parola è luce ai suoi passi. Egli medita la legge giorno e notte per poter affrontare le varie vicende della vita con rettitudine. La meditazione della Parola lo rende fecondo, al riparo dall’arsura e dai venti tempestosi delle prove. Gli empi, che sono coloro che fanno ostacolo con la loro sufficienza alla Parola, non avranno argomenti davanti al giudizio di Dio, e quali colpevoli verranno dispersi finiranno nella tomba della storia. Per quanto vorranno radicarsi all’interno dell’assemblea dei giusti per potere illudere gli inesperti della Parola, andranno ugualmente in rovina davanti al giudizio di Dio, poiché Dio nessuno lo può ingannare.
E’ un salmo che dona pace, invito alla perseveranza. Non andrà deluso chi medita la legge d’amore nella quale si riflette Dio, che è Amore. E la legge è stata portata a compimento da Cristo; e di più la nuova legge, che perfeziona l’antica, si trova in Cristo, nella sua vita, nei suoi gesti, nelle sue parole. Meditare la legge giorno e notte è meditare quanto ha fatto, detto Cristo; è desiderio di vivere Cristo nell’imitazione di lui. Chi medita Cristo di fronte ad un’azione da compiere non si pone precisamente la domanda: “Cosa farebbe Cristo”, quasi che considerasse Cristo essendo “esterno” a Cristo, ma trova la sua risposta da quello che ha fatto e detto Cristo, poiché egli è “in Cristo”. In lui c’è ogni luce e tesoro di sapienza su come essere graditi al Padre e su come essere aperti nella carità ai fratelli.
Meditare giorno e notte la legge non è opera di giurista, ma è l’opera d’amore che avviene nella comunione con Cristo
Commento tratto da Perfetta Letizia

Dalla lettera di S.Paolo apostolo ai Corìnzi
Fratelli, se si annuncia che Cristo è risorto dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non vi è risurrezione dei morti?
Se infatti i morti non risorgono, neanche Cristo è risorto; ma se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati.
Perciò anche quelli che sono morti in Cristo sono perduti.
Se noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto per questa vita, siamo da commiserare più di tutti gli uomini.
Ora, invece, Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti.
1Cor15,12.16-20

Continuando la sua 1^ lettera ai Corinzi, nel capitolo 15, che abbiamo iniziato domenica scorsa, San Paolo in questo brano afferma che negare la risurrezione dei morti implica la negazione della risurrezione di Cristo e della veracità della testimonianza apostolica.
Il brano inizia con una domanda: “se si annuncia che Cristo è risorto dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non vi è risurrezione dei morti?”
La cultura greca aveva molte difficoltà ad ammettere la possibilità della risurrezione, ma anche fra i cristiani l’argomento della risurrezione incontrò molte difficoltà per superare i pregiudizi esistenti.
I membri del sinedrio di Gerusalemme condannavano e perseguitavano il messaggio cristiano e alcuni ateniesi all’areopàgo quando sentirono parlare di risurrezione di morti, avevano deriso Paolo. In tutti i tempi la superficiale ragione umana ,che misura la sapienza e la potenza di Dio alla propria stregua, ha sollevato le stesse obbiezioni contro alla dottrina della risurrezione dei corpi. Qui Paolo fa notare a quei cristiani che si lasciavano travolgere dall'incredulità del mondo, come la negazione della risurrezione in genere sia in contraddizione col fatto ben costatato della risurrezione di Cristo.
“Se infatti i morti non risorgono, neanche Cristo è risorto;”
È probabile che i sostenitori di questa teoria non si rendessero ben conto delle gravi conseguenze che ne sarebbero derivate, ecco perchè Paolo inizia con una supposizione molto forte.
“ma se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati.”
L'Apostolo adopera parole diverse per indicare la vanità della fede cristiana qualora non fosse risorto Cristo, la fede cristiana sarebbe senza fondamento e poggerebbe sul vuoto. Ma soprattutto sarebbe anche vana, in quanto non potrebbe condurre ad alcuno dei risultati promessi. Se Cristo non fosse risuscitato non avremmo più certezza alcuna che Dio abbia gradito il suo sacrificio quale espiazione dei nostri peccati e la tomba di Gesù rimasta chiusa starebbe ad indicare che anche Lui è rimasto preda della morte. Tolta dunque la risurrezione, crollerebbe la giustificazione dei peccatori ed essi sarebbero ancora nei loro peccati non espiati.
“Perciò anche quelli che sono morti in Cristo sono perduti. Se noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto per questa vita, siamo da commiserare più di tutti gli uomini.”
Se tanti cristiani morti nella pace del Cristo in cui hanno creduto, se la loro fede è vana, sarebbero nella perdizione anziché nel riposo eterno e nella gloria di Dio. E non è pietosa soltanto la sorte di coloro che sono morti in Cristo, ma lo è anche quella di chi vive tuttora nella fede in Lui. Vale a dire, se, nel corso di questa vita terrena, abbiamo concentrato in Cristo la nostra unica speranza di futura felicità e gloria, se, in vista di questa speranza, fondata in Cristo, noi sopportiamo fatiche, derisioni e persecuzioni, noi siamo degni di compassione più degli altri uomini poiché se Cristo non è risuscitato, la nostra speranza non ha fondamento e noi sacrifichiamo affetti, fatiche, beni e vita per una pia illusione; mentre gli altri che vivono per le cose della terra, sono felici, senza farsi troppe illusioni .
“Ora, invece, Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti.”
Dopo aver mostrato a quali terribili conseguenze conduce il falso principio che non c'è risurrezione di morti, Paolo ritorna sul terreno dei fatti che nessuna teoria vale a smuovere, e nel fatto ben provato della risurrezione e della susseguente esaltazione del Cristo, egli scorge la garanzia della finale vittoria dell'umanità redenta sulla morte.

Dal Vangelo secondo Luca
In quel tempo, Gesù, disceso con loro, si fermò in un luogo pianeggiante. C’era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidone.
Ed egli, alzàti gli occhi verso i suoi discepoli, diceva:
«Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio.
Beati voi, che ora avete fame,
perché sarete saziati.
Beati voi, che ora piangete, perché riderete. Beati voi, quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e vi insulteranno e disprezzeranno il vostro nome come infame, a causa del Figlio dell’uomo. Rallegratevi in quel giorno ed esultate perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nel cielo. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i profeti.
Ma guai a voi, ricchi,perché avete già ricevuto la vostra consolazione.Guai a voi, che ora siete sazi, perché avrete fame.Guai a voi, che ora ridete,perché sarete nel dolore e piangerete.Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i falsi profeti.
Lc 6,17.20-26

Continuando la sua 1^ lettera ai Corinzi, nel capitolo 15, che abbiamo iniziato domenica scorsa, San Paolo in questo brano afferma che negare la risurrezione dei morti implica la negazione della risurrezione di Cristo e della veracità della testimonianza apostolica.
Il brano inizia con una domanda: “se si annuncia che Cristo è risorto dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non vi è risurrezione dei morti?”
La cultura greca aveva molte difficoltà ad ammettere la possibilità della risurrezione, ma anche fra i cristiani l’argomento della risurrezione incontrò molte difficoltà per superare i pregiudizi esistenti.
I membri del sinedrio di Gerusalemme condannavano e perseguitavano il messaggio cristiano e alcuni ateniesi all’areopàgo quando sentirono parlare di risurrezione di morti, avevano deriso Paolo. In tutti i tempi la superficiale ragione umana ,che misura la sapienza e la potenza di Dio alla propria stregua, ha sollevato le stesse obbiezioni contro alla dottrina della risurrezione dei corpi. Qui Paolo fa notare a quei cristiani che si lasciavano travolgere dall'incredulità del mondo, come la negazione della risurrezione in genere sia in contraddizione col fatto ben costatato della risurrezione di Cristo.
“Se infatti i morti non risorgono, neanche Cristo è risorto;”
È probabile che i sostenitori di questa teoria non si rendessero ben conto delle gravi conseguenze che ne sarebbero derivate, ecco perchè Paolo inizia con una supposizione molto forte.
“ma se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati.”
L'Apostolo adopera parole diverse per indicare la vanità della fede cristiana qualora non fosse risorto Cristo, la fede cristiana sarebbe senza fondamento e poggerebbe sul vuoto. Ma soprattutto sarebbe anche vana, in quanto non potrebbe condurre ad alcuno dei risultati promessi. Se Cristo non fosse risuscitato non avremmo più certezza alcuna che Dio abbia gradito il suo sacrificio quale espiazione dei nostri peccati e la tomba di Gesù rimasta chiusa starebbe ad indicare che anche Lui è rimasto preda della morte. Tolta dunque la risurrezione, crollerebbe la giustificazione dei peccatori ed essi sarebbero ancora nei loro peccati non espiati.
“Perciò anche quelli che sono morti in Cristo sono perduti. Se noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto per questa vita, siamo da commiserare più di tutti gli uomini.”
Se tanti cristiani morti nella pace del Cristo in cui hanno creduto, se la loro fede è vana, sarebbero nella perdizione anziché nel riposo eterno e nella gloria di Dio. E non è pietosa soltanto la sorte di coloro che sono morti in Cristo, ma lo è anche quella di chi vive tuttora nella fede in Lui. Vale a dire, se, nel corso di questa vita terrena, abbiamo concentrato in Cristo la nostra unica speranza di futura felicità e gloria, se, in vista di questa speranza, fondata in Cristo, noi sopportiamo fatiche, derisioni e persecuzioni, noi siamo degni di compassione più degli altri uomini poiché se Cristo non è risuscitato, la nostra speranza non ha fondamento e noi sacrifichiamo affetti, fatiche, beni e vita per una pia illusione; mentre gli altri che vivono per le cose della terra, sono felici, senza farsi troppe illusioni .
“Ora, invece, Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti.”
Dopo aver mostrato a quali terribili conseguenze conduce il falso principio che non c'è risurrezione di morti, Paolo ritorna sul terreno dei fatti che nessuna teoria vale a smuovere, e nel fatto ben provato della risurrezione e della susseguente esaltazione del Cristo, egli scorge la garanzia della finale vittoria dell'umanità redenta sulla morte.
“Rallegratevi in quel giorno ed esultate perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nel cielo. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i profeti.”
L'invito alla gioia in questo versetto è intenso. Luca usa il verbo esultare (letteralmente saltellare), perché il tempo della prova dà la certezza di ricevere il dono dell'amore di Dio Padre, la grande ricompensa nel cielo.
Il riferimento alla persecuzione sofferta dai profeti è un'idea comune al tempo di Gesù e da Lui condivisa. Il Nuovo Testamento la riprende in diversi passi (cfr. Mc 6,4; Lc 11,47; At 7,51; 1Ts 2,15, ecc) e sebbene il testo si riferisca chiaramente alla situazione della Chiesa primitiva, non si esclude che Gesù abbia previsto l'opposizione che avrebbero incontrato gli apostoli (e di conseguenza tutti i discepoli) e l'abbia espressa con il tema del giusto perseguitato.
“Ma guai a voi, ricchi, perché avete già ricevuto la vostra consolazione. Guai a voi, che ora siete sazi, perché avrete fame. Guai a voi, che ora ridete,perché sarete nel dolore e piangerete.”
Luca costruisce i quattro guai sulla base delle precedenti beatitudini. La ricchezza è presentata come un rischio reale e pericoloso perché dà una falsa sicurezza; il ricco si sente autosufficiente e ritiene superfluo rivolgersi a Dio, non si cura dei bisogni dei poveri, e chiudendosi nell'egoismo, non pensa al suo destino eterno. Per questo i ricchi hanno già ricevuto quanto è loro dovuto e non si aspettano niente oltre la morte.
Per l'evangelista la ricchezza è un pericolo permanente per tutti; egli è preoccupato che il cuore delle persone si chiuda al dono di Dio, un dono che viene loro incontro nel vangelo di Gesù.
“Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i falsi profeti.”
Quest’ultima minaccia si riferisce ai figli di coloro che nel passato elogiavano i falsi profeti e alcune autorità dei giudei usavano il loro prestigio e la loro autorità per criticare Gesù.
Per riassumere possiamo dire che Gesù nel Vangelo di Luca ribadisce: beati i poveri, perchè avranno il regno di Dio; beati coloro che hanno fame, perchè saranno saziati; beato chi piange perchè riderà; beato chi è perseguitato a causa di Cristo perchè sarà ricompensato in Cielo; e guai al ricco, che non avrà altra gioia, guai al sazio, che non potrà soddisfare altri desideri; guai a chi ride, perchè conoscerà solo l’afflizione; guai a chi è lodato, perchè circuito dall’adulazione, sarà vittima, della falsità.
Gesù non contrappone qui quattro maledizioni a quattro beatitudini: Gesù ricorda soltanto che la consolazione viene da Dio, che solo Dio realizza il riscatto dei poveri, degli emarginati, degli offesi, delle vittime: Gesù garantisce il riscatto del male in bene, perchè Gesù è il risorto, colui che ha riscattato anche la morte: per questo San Paolo afferma che “se Cristo non è risorto, vana è la nostra fede” Ma Cristo è risorto, e la nostra fede è il fondamento della beatitudine, cioè della speranza.

*****

Le Parole di Papa Francesco

“Al centro del Vangelo della Liturgia odierna ci sono le Beatitudini. È interessante notare che Gesù, pur essendo attorniato da una grande folla, le proclama rivolgendosi «verso i suoi discepoli». Parla ai discepoli. Le Beatitudini, infatti, definiscono l’identità del discepolo di Gesù. Esse possono suonare strane, quasi incomprensibili a chi non è discepolo; mentre, se ci chiediamo come è un discepolo di Gesù, la risposta sono proprio le Beatitudini. Vediamo la prima, che è la base di tutte le altre: «Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio» . Beati voi, poveri. Due cose dice Gesù dei suoi: che sono beati e che sono poveri; anzi, che sono beati perché poveri.
In che senso? Nel senso che il discepolo di Gesù non trova la sua gioia nel denaro, nel potere o in altri beni materiali, ma nei doni che riceve ogni giorno da Dio: la vita, il creato, i fratelli e le sorelle, e così via. Sono doni della vita. Anche i beni che possiede, è contento di condividerli, perché vive nella logica di Dio. E qual è la logica di Dio? La gratuità. Il discepolo ha imparato a vivere nella gratuità. Questa povertà è anche un atteggiamento verso il senso della vita, perché il discepolo di Gesù non pensa di possederlo, di sapere già tutto, ma sa di dover imparare ogni giorno. E questa è una povertà: la coscienza di dovere imparare ogni giorno. Il discepolo di Gesù, poiché ha questo atteggiamento, è una persona umile, aperta, aliena dai pregiudizi e dalle rigidità.
C’era un bell’esempio nel Vangelo di domenica scorsa: Simon Pietro, esperto pescatore, accoglie l’invito di Gesù a gettare le reti in un’ora insolita; e poi, pieno di stupore per la pesca prodigiosa, lascia la barca e tutti i suoi beni per seguire il Signore. Pietro si dimostra docile lasciando tutto, e così diventa discepolo. Invece, chi è troppo attaccato alle proprie idee, alle proprie sicurezze, difficilmente segue davvero Gesù. Lo segue un po’, soltanto nelle cose in cui “io sono d’accordo con Lui e Lui è d’accordo con me”, ma poi, per il resto, non va. E questo non è un discepolo. E così cade nella tristezza. Diventa triste perché i conti non gli tornano, perché la realtà sfugge ai suoi schemi mentali e si trova insoddisfatto. Il discepolo, invece, sa mettersi in discussione, sa cercare Dio umilmente ogni giorno, e questo gli permette di addentrarsi nella realtà, cogliendone la ricchezza e la complessità.
Il discepolo, in altre parole, accetta il paradosso delle Beatitudini: esse dichiarano che è beato, cioè felice, chi è povero, chi manca di tante cose e lo riconosce. Umanamente, siamo portati a pensare in un altro modo: è felice chi è ricco, chi è sazio di beni, chi riceve applausi ed è invidiato da molti, chi ha tutte le sicurezze. Ma questo è un pensiero mondano, non è il pensiero delle Beatitudini! Gesù, al contrario, dichiara fallimentare il successo mondano, in quanto si regge su un egoismo che gonfia e poi lascia il vuoto nel cuore. Davanti al paradosso delle Beatitudini il discepolo si lascia mettere in crisi, consapevole che non è Dio a dover entrare nelle nostre logiche, ma noi nelle sue. Questo richiede un cammino, a volte faticoso, ma sempre accompagnato dalla gioia. Perché il discepolo di Gesù è gioioso con la gioia che gli viene da Gesù. Perché, ricordiamoci, la prima parola che Gesù dice è: beati; da qui il nome delle Beatitudini. È questo il sinonimo dell’essere discepoli di Gesù. Il Signore, liberandoci dalla schiavitù dell’egocentrismo, scardina le nostre chiusure, scioglie la nostra durezza, e ci dischiude la felicità vera, che spesso si trova dove noi non pensiamo. È Lui a guidare la nostra vita, non noi, con i nostri preconcetti o con le nostre esigenze. Il discepolo, infine, è quello che si lascia guidare da Gesù, che apre il cuore a Gesù, lo ascolta e segue la sua strada.
Possiamo allora chiederci: io – ognuno di noi – ho la disponibilità del discepolo? O mi comporto con la rigidità di chi si sente a posto, di chi si sente per bene, di chi si sente già arrivato? Mi lascio “scardinare dentro” dal paradosso delle Beatitudini, o rimango nel perimetro delle mie idee? E poi, con la logica delle Beatitudini, al di là delle fatiche e delle difficoltà, sento la gioia di seguire Gesù? Questo è il tratto saliente del discepolo: la gioia del cuore. Non dimentichiamoci: la gioia del cuore. Questa è la pietra di paragone per sapere se una persona è discepolo: ha la gioia nel cuore? Io ho la gioia nel cuore? Questo è il punto.
La Madonna, prima discepola del Signore, ci aiuti a vivere come discepoli aperti e gioiosi.”

Papa Francesco Parte del’ Angelus del 13 febbraio 2022

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