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S.Messe (settimana)
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KRZYZ

Elena Tasso

Elena Tasso

Celebriamo oggi, la solennità dell’Immacolata Concezione della beata Vergine Maria, il cui dogma fu promulgato da Pio IX nel 1854, ma già nel IX secolo si celebrava in Inghilterra e Normandia una festa della Concezione di Maria e il Concilio di Basilea (1439) sancì questo evento come verità di fede. Si afferma che Maria è nata senza colpa originale, concepita senza peccato: colei che doveva dare alla luce il Figlio di Dio fu preservata da ogni macchia di peccato per essere la degna dimora di Gesù.
Celebrare l’Immacolata Concezione nel tempo di Avvento è quanto mai rilevante perché ci prepara a rivivere il “mistero della Redenzione” in avvenimenti dove la grazia fa irruzione in modo sovrabbondante sull’umanità.
Nella prima lettura, tratta dal libro della Genesi al primo peccato, dovuto alla disobbedienza di Adamo ed Eva, Dio non rimane indifferente e nella pienezza dei tempi manda la nuova Eva, Maria, che schiaccerà la testa al serpente.
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera di S. Paolo agli Efesini, possiamo comprendere che ciò che si è realizzato in Maria attende oggi di realizzarsi in ciascuno di noi, anche se non come lei al momento del concepimento, ma a quello del battesimo. E’ un dono e una chiamata che ci proietta nella meravigliosa avventura della costruzione prima di noi stessi e poi del mondo, secondo il progetto di Dio e quindi nella direzione dell’amore che non conosce tramonto.
Nel Vangelo di Luca troviamo il racconto dell’annunciazione dell’Angelo Gabriele a Maria, che obbedì totalmente all’annunzio della sua maternità divina.
In questa giornata che celebra la sua concezione, e quindi tutta la sua esistenza immacolata e gradita a Dio, la liturgia ci conduce nelle stradine di questa cittadina della Galilea, alla ricerca delle tracce di Maria e di quel grande giorno in cui ha pronunciato il suo sì e nella onniscienza di Dio tutti noi eravamo presenti.

Dal Libro della Genesi
Dopo che l'uomo ebbe mangiato del frutto dell'albero, il Signore Dio lo chiamò e gli disse: «Dove sei?». Rispose: «Ho udito la tua voce nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto». Riprese: «Chi ti ha fatto sapere che sei nudo? Hai forse mangiato dell'albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?». Rispose l'uomo: «La donna che tu mi hai posto accanto mi ha dato dell'albero e io ne ho mangiato». Il Signore Dio disse alla donna: «Che hai fatto?». Rispose la donna: «Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato». Allora il Signore Dio disse al serpente:
«Poiché hai fatto questo, maledetto tu fra tutto il bestiame e fra tutti gli animali selvatici!
Sul tuo ventre camminerai e polvere mangerai per tutti i giorni della tua vita.
Io porrò inimicizia fra te e la donna, fra la tua stirpe e la sua stirpe:
questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno».
L’uomo chiamò sua moglie Eva, perché ella fu la madre di tutti i viventi.
Gen 3,9-15.20

Il Libro della Genesi (che significa: "nascita", "creazione", "origine"), è il primo libro della Torah ebraica e della Bibbia cristiana. E’ stato scritto in ebraico, e secondo molti studiosi, la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata intorno al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte. Nei primi 11 dei suoi 50 capitoli, descrive la cosiddetta "preistoria biblica" (creazione, peccato originale, diluvio universale), e nei rimanenti la storia dei patriarchi Abramo, Isacco, Giacobbe-Israele e di Giuseppe, le cui vite si collocano nel vicino oriente (soprattutto in Palestina) del II millennio a.C. (la datazione dei patriarchi, tradizionale ma ipotetica, è attorno al 1800-1700).
Il libro della Genesi è suddiviso in due grandi sezioni. La prima, corrispondente ai capitoli 1-11, comprende il racconto della creazione e la storia del genere umano. La seconda sezione, dal capitolo 12 al capitolo 50, narra la storia del popolo eletto, mediante i racconti sui patriarchi.
Questo brano tratto dal Capitolo 3 descrive la convinzione d’Israele che la condizione umana (quale appariva allora) fosse una partecipazione alla punizione meritata dalla prima trasgressione.
La scena inizia subito dopo che Adamo ebbe mangiato dell’albero, quando Dio scende nel giardino e l'uomo e la donna si nascondono per non farsi vedere. La venuta di Dio evidenzia l'intimità, ormai distrutta, che univa Dio ai nostri progenitori! Dio chiama l'uomo come se non sapesse cosa fosse successo e gli chiede persino “Dove sei?”. L'uomo risponde di aver avuto paura e di essersi nascosto perché era nudo. Più che la paura del castigo, possiamo anche pensare che ciò che lo trattiene dal presentarsi a Dio è anche il timore reverenziale, lo stesso che in Israele impediva di esporre il proprio corpo in un luogo sacro (v. Es 20,26).
Dio allora gli chiede: “Chi ti ha fatto sapere che sei nudo? Hai forse mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?”. L'uomo però non si assume la responsabilità di ciò che ha fatto e risponde: “La donna che tu mi hai posto accanto mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato”, quasi per evidenziare che il vero colpevole è Dio stesso, che gliel'ha data come compagna. Il peccato, invece di provocare solidarietà fra coloro che lo commettono, li pone inevitabilmente l'uno contro l'altro.
Anche la donna non assume la sua responsabilità quando risponde: “Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato” gettando la colpa sul serpente.
Dio emettendo la sentenza comincia col condannare il serpente, anche se non era stato neppure interrogato, che viene maledetto con una sentenza irrevocabile: “Sul tuo ventre camminerai e polvere mangerai per tutti i giorni della tua vita”. Poi Dio continua affermando: “Io porrò inimicizia fra te e la donna, fra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno”,
Leggendo questo brano nel contesto di tutta la Bibbia, che narra la storia della salvezza, il testo diventa un annunzio di speranza per l'umanità peccatrice. Il racconto termina riportando alcuni dettagli complementari.: “L’’uomo chiamò sua moglie Eva, perché ella fu la madre di tutti i viventi”.
La donna è chiamata Eva (vita), poiché è destinata a diventare la madre di tutti i viventi: nonostante il peccato continua dunque la vita, che è il più grande dono di Dio!
Leggiamo poi che l'uomo e la donna sono rivestiti da Dio con tuniche di pelle, e ciò vuol dire che l’amore di Dio per loro non è venuto meno. Infine, perché l'uomo non abbia accesso all'albero della vita, Dio lo scaccia dal giardino e lo manda a coltivare la terra “perché lavorasse il suolo da dove era stato tratto” (3,23)
I cherubini posti a custodia del giardino e dell'albero della vita sono figure mitologiche reminiscenza delle figure babilonesi, mentre la fiamma della spada folgorante rappresenta il fulmine (vv. 22-24). L'allontanamento dal giardino si ispira al tema della rottura dell'alleanza, che comportava per Israele l'abbandono della terra donatagli da Dio (Vv. Dt 11,17; 28,15-68).
L’autore con questo racconto ha voluto dirci qualcosa riguardo l’uomo di tutti i tempi e di tutte le culture, e cioè ha voluto spiegare la sua situazione di sofferenza e di morte. A tale scopo egli ha immaginato che all’inizio della storia l’uomo si trovasse in una situazione ideale, dalla quale è decaduto a causa di un suo peccato. Così facendo egli vuol far vedere che la presenza del male, in tutti i suoi aspetti, non deriva da Dio, ma dall’uomo stesso, il quale si è precluso quella felicità che Dio gli aveva concesso all’inizio. Questo modo di raccontare, tendente in qualche modo a scagionare Dio, ha uno scopo ben preciso: mostrare come Dio, non essendo responsabile del male presente in questo mondo, continua ad offrire all’uomo la possibilità di superare i suoi limiti e di raggiungere una condizione di vita adeguata alla sua dignità.
I profeti annunzieranno una salvezza piena che si attuerà in un futuro imprecisato (vv. Is 11,6-9) e quello che per l’autore della Genesi era un paradiso perduto, per i profeti diventa un paradiso che Dio donerà un giorno al Suo popolo e a tutta l’umanità: agli esseri umani non resta che prepararsi a questo evento finale. Mediante questi due modi simbolici di esprimersi gli autori biblici vogliono semplicemente far comprendere che l’uomo è chiamato alla felicità, ma la raggiunge solo se saprà distaccarsi da tutta una serie di pesanti condizionamenti, che provengono dal suo intimo e dalla società in cui vive.
Il rapporto con Dio ha quindi significato e deve essere vissuto in questa prospettiva: il “paradiso terrestre” è sempre disponibile a tutta l’umanità, pur in mezzo a tante difficoltà e sofferenze, a patto però che sia fedele a quei principi di amore e di giustizia che Dio ha scritto nel cuore di ogni uomo.

Salmo 98 (97) Cantate al Signore un canto nuovo, perché ha compiuto meraviglie.
Cantate al Signore un canto nuovo,
perché ha compiuto meraviglie.
Gli ha dato vittoria la sua destra
e il suo braccio santo.

Il Signore ha fatto conoscere la sua salvezza,
agli occhi delle genti ha rivelato la sua giustizia.
Egli si è ricordato del suo amore,
della sua fedeltà alla casa d’Israele.

Tutti i confini della terra hanno veduto
la vittoria del nostro Dio.
Acclami il Signore tutta la terra,
gridate, esultate, cantate inni!

Il tempo della composizione di questo salmo è probabilmente quello del postesilio. Il motivo del suo invito ad un “canto nuovo” non è però ristretto al solo ritorno dall'esilio, ma nasce da tutti gli interventi di Dio per la liberazione di Israele dagli oppressori e dai nemici.
E' Dio stesso che, come prode guerriero, ha vinto i suoi nemici, che sono gli stessi nemici di Israele: “Gli ha dato vittoria la sua destra”.
Il “canto nuovo” celebra le “meraviglie” di Dio, tuttavia è aperto al futuro messianico, che abbraccerà tutti i popoli.
“La sua salvezza”, mostrata ai popoli per mezzo di Israele, ridonda già su di loro: “Tutti i confini della terra hanno veduto la vittoria del nostro Dio”. Il Signore è colui che viene, che viene costantemente a giudicare la terra; e che verrà nel futuro per mezzo dell'azione del Messia, al quale darà il potere di giudicare nell'ultimo giorno la terra: “Giudicherà il mondo con giustizia e i popoli con rettitudine”.
Ogni episodio di liberazione il salmo lo vede come preparazione della diffusione a tutte le genti della salvezza del Signore. E' una salvezza universale che tocca anche il creato, che deve fremere di fronte agli eventi finali che lo sconvolgeranno: “Frema il mare...”; ma anche esultare, perché sarà sottratto dalla caducità introdotta da Adamo (Cf. Rm 8,19): “I fiumi battano le mani, esultino insieme le montagne”.
Noi, in Cristo, recitiamo il salmo nell'avvento messianico. La salvezza di Dio, quella che ci libera dal peccato - male supremo - è quella donataci per mezzo di Cristo.
La giustizia che si è mostrata a noi è Cristo, che per noi è morto e ci ha resi giusti davanti al Padre per mezzo del lavacro del suo sangue. Dio, è il Dio che viene (Cf. Ap 1,7; 4,8) per mezzo dell'azione dello Spirito Santo, che presenta Cristo, nostra salvezza e giustizia.
Commento tratto da Perfetta Letizia

Dalla lettera di S.Paolo apostolo agli Efesini
Benedetto Dio,
Padre del Signore nostro Gesù Cristo,
che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo.
In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati
di fronte a lui nella carità,
predestinandoci a essere per lui figli adottivi
mediante Gesù Cristo,
secondo il disegno d’amore della sua volontà,
a lode dello splendore della sua grazia,
di cui ci ha gratificati nel Figlio amato.
In lui siamo stati fatti anche eredi,
predestinati – secondo il progetto di colui
che tutto opera secondo la sua volontà –
a essere lode della sua gloria,
noi, che già prima abbiamo sperato nel Cristo.
Ef 1,3-6.11-12

La Lettera agli Efesini è una delle lettere che la tradizione cristiana attribuisce a S.Paolo, che l'avrebbe scritta durante la sua prigionia a Roma intorno all'anno 62. Gli studiosi moderni però sono divisi su questa attribuzione e la maggioranza ritiene più probabile che la lettera sia stata composta da un altro autore appartenente alla scuola paolina,forse basandosi sulla lettera ai Colossesi, ma in questo caso la datazione della composizione può oscillare, tra l'anno 80 e il 100. La lettera agli Efesini si può dire che è la” lettera della Chiesa” del suo mistero e vita, tanto che anche il Concilio Vaticano II se ne è ampiamente ispirato
Il brano che abbiamo, è uno dei tre grandi inni Cristologici, che preghiamo anche durante i Vespri ogni settimana e che ci fa riflettere sul ruolo di Gesù nel progetto di amore del Padre. In particolare questo inno ci parla della predestinazione dei credenti. E' il Padre che sin dall'inizio dei tempi aveva pensato a noi, per renderci santi, per renderci suoi figli. Questo inno si adatta bene in particolare a Maria che nel piano della creazione-redenzione del mondo ha avuto un ruolo molto importante perché Dio Padre l‘ha scelta per essere santa e immacolata sin dal concepimento.
Il brano inizia con una invocazione benedicente: “Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo.”
La benedizione di Dio significa comunicazione di vita, e trova il suo compimento quando torna a Dio sotto forma di benedizione da parte dell'uomo. Il movimento della benedizione è prima discendente, poi ascendente: il dono è infatti completo solo quando è riconosciuto come tale, e il segno del riconoscimento è la lode. La comunicazione di vita, la benedizione, consiste nella chiamata alla santità. C’è un invito a contemplare in Maria la primizia, colei in cui il sogno di Dio ha trovato piena attuazione.
“In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità”,
Paolo ci spiega ora in cosa consista questa benedizione: Dio ci ha scelti, ci ha eletto, come aveva scelto il popolo di Israele. C'è un'iniziativa gratuita di Dio che previene ogni pretesa umana. E' una gratuità che parte dal Padre e ha avuto inizio prima della creazione del mondo!
“predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo, secondo il disegno d’amore della sua volontà, a lode dello splendore della sua grazia, di cui ci ha gratificati nel Figlio amato”.
Il progetto di Dio si attua per mezzo di Gesù Cristo e consiste nel far partecipare tutti i credenti alla sua condizione di figlio unico e amato. Se si parla di adozione, non è per sminuire la realtà dell'essere figli ma per sottolineare la differenza con la figliolanza di Gesù, che è modello e fonte di quella di tutti gli altri figli. C'è un amore gratuito che si espande in tutta la sua pienezza!
“In lui siamo stati fatti anche eredi,predestinati – secondo il progetto di colui che tutto opera secondo la sua volontà – a essere lode della sua gloria, noi, che già prima abbiamo sperato nel Cristo”
Non sono riportati i vv 7-10, che parlano del perdono dei peccati che abbiamo ricevuto grazie a Cristo. Con il v. 11 torniamo all'argomento dell'adozione e dell'eredità che riceviamo in quanto figli di Dio.
L’essere preservata immacolata fin dal concepimento non ha esonerato Maria dall’impegno di corrispondere alla grazia. Se l’onda che aveva preso a scorrere in lei ha potuto diventare torrente e traboccare benefica su tutta l’umanità, è stato per il suo incondizionato abbandonarsi allo Spirito. Questo è il potere di un “Sì” che eleva a collaboratori di Dio, non solo nel tessere la nostra santità, ma anche nel portare avanti il Suo disegno di salvezza a favore dell’umanità intera.
Ciò che si è realizzato in Maria attende oggi di realizzarsi in ciascuno di noi, anche se non come lei al momento del concepimento, ma a quello del battesimo. Ognuno di noi è chiamato a questa via di santità, cioè a quella relazione di amore forte e incondizionato che ha legato Maria con il Signore. Riflettendo su di lei, sulla sua esperienza di vita e di fede riusciremo a camminare nelle vie che portano alla nostra pienezza e felicità.

Dal vangelo secondo Luca
In quel tempo, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: «Rallègrati, piena di grazia: il Signore è con te».
A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo. L’angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine».
Allora Maria disse all’angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?». Le rispose l’angelo: «Lo Spirito Sato scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio».
Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola». E l’angelo si allontanò da lei.
Lc 1,26-38

L’evangelista Luca inizia così il suo racconto:“l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazareth, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria.” L’angelo Gabriele, il cui nome derivante dall’ebraico significa “la forza di Dio” “Dio è forte”, viene mandato da Dio a Nazareth, che era in realtà un piccolo villaggio rurale della Galilea, ad una vergine , e al tempo stesso promessa sposa.
L’angelo apparendo a Maria si rivolge a lei con l’usuale saluto greco: kaire, che significa “Rallègrati” e aggiunge un elogio inusuale, unico “piena di grazia: il Signore è con te”. Le parole che l’angelo le rivolge, provocano il turbamento di Maria, per cui l’angelo la invita a non temere, sottolineando che ha “trovato grazia presso Dio” per cui Dio vuole stabilire un rapporto speciale con lei per assegnarle un compito unico e straordinario nel Suo progetto di salvezza.
L’angelo glielo annunzia con queste parole: “concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine”
Queste parole alludono all’oracolo di Isaia 7,14: Maria è dunque la vergine di cui parla il profeta e suo figlio, non è un semplice discendente della casa davidica, ma il Messia atteso per gli ultimi tempi. In sintonia poi con il testo ebraico dell’oracolo e in forza del ruolo di madre che le è assegnato, sarà lei che gli darà il nome.
All’annunzio messianico dell’angelo, Maria risponde con una domanda: “Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?”
In risposta alla domanda di Maria, l’angelo dà i chiarimenti che, solo chi è immerso completamente nel mistero di Dio, può accettare senza comprendere pienamente: “Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio”. Dopo aver indicato nel nascituro il Figlio dell’Altissimo, l’angelo spiega che questo appellativo è dovuto al fatto che lo Spirito santo interverrà in modo speciale nel momento stesso del suo concepimento.
Al termine del suo annunzio l’angelo rivela a Maria la gravidanza di Elisabetta, sua parente. Questo evento, tenuto gelosamente segreto dai diretti interessati, diventa il segno visibile che conferma l’autenticità della rivelazione dell’angelo. Esso infatti mostra nel modo più convincente che ”nulla è impossibile a Dio” (Gen 18,14).
Alle parole dell’angelo Maria risponde: “Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola”.
Maria si rende così disponibile al progetto di Dio e ne diventa partecipe fino in fondo.
Il termine“serva” con cui Maria si autodefinisce non deve far pensare ad esortazioni sull’umiltà, la modestia, o il nascondimento. Maria ha la coscienza che in lei donna semplice e comune, Dio ha realizzato l’intervento definitivo e grandioso del suo progetto di salvezza “atteso da tutte le generazioni”.
Nella sua preghiera, il “Magnificat” che pronuncerà nell’incontro con Elisabetta, Maria intuisce di essere il terreno ideale in cui Dio celebrerà i trionfi e offrirà la salvezza del Suo Regno: “Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente …” L’immacolata concezione è, allora, la storia di una donazione totale ad un piano tracciato da Dio, è la storia di una grazia e di una vocazione eccezionale.
Alla luce di questo modello di “serva del Signore”, oggi l’Adamo-Eva che è in ognuno di noi è invitato a ritornare allo splendore del paradiso terrestre, cioè alla grazia. Là potrà incontrare Dio in un dialogo familiare, intimo, di amore, là potrà vivere in armonia con il creato e con il suo prossimo.
totalmente trasformato in figlio, in una nuova creatura , in erede della gloria divina.

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“L’odierna festa liturgica celebra una delle meraviglie della storia della salvezza: l’Immacolata Concezione della Vergine Maria. Anche lei è stata salvata da Cristo, ma in un modo straordinario, perché Dio ha voluto che fin dall’istante del concepimento la madre del suo Figlio non fosse toccata dalla miseria del peccato. E dunque Maria, per tutto il corso della sua vita terrena, è stata libera da qualunque macchia di peccato, è stata la «piena di grazia» , come l’angelo la chiamò, e ha goduto di una singolare azione dello Spirito Santo, per potersi mantenere sempre nella sua relazione perfetta con il suo figlio Gesù; anzi, era la discepola di Gesù: la Madre e la discepola. Ma il peccato non c’era in Lei.
Nel magnifico inno che apre la Lettera agli Efesini, San Paolo ci fa comprendere che ogni essere umano è creato da Dio per quella pienezza di santità, per quella bellezza di cui la Madonna è stata rivestita fin dal principio. La meta alla quale siamo chiamati è anche per noi dono di Dio, il quale – dice l’Apostolo – ci ha «scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati»; ci ha predestinati, in Cristo, ad essere un giorno totalmente liberi dal peccato. E questa è la grazia, è gratuito, è un dono di Dio.
E quello che per Maria è stato all’inizio, per noi sarà alla fine, dopo essere passati attraverso il “bagno” purificatore della grazia di Dio. Quello che ci apre la porta del paradiso è la grazia di Dio, ricevuta da noi con fedeltà. Tutti i santi e le sante hanno percorso questa strada. Anche i più innocenti erano comunque segnati dal peccato di origine e hanno lottato con tutte le forze contro le sue conseguenze. Loro sono passati attraverso la «porta stretta» che conduce alla vita . E voi sapete chi è il primo di cui abbiamo certezza che sia entrato in paradiso, lo sapete? Un “poco di buono”: uno dei due che furono crocifissi con Gesù. A Lui si rivolse dicendo: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». Ed Egli rispose: «Oggi con me sarai nel paradiso» .
Fratelli e sorelle, la grazia di Dio è offerta a tutti; e molti che su questa terra sono ultimi, in cielo saranno i primi .
Attenzione però. Non vale fare i furbi: rimandare continuamente un serio esame della propria vita, approfittando della pazienza del Signore – Lui è paziente, Lui ci aspetta, Lui c’è sempre per darci la grazia –. Noi possiamo ingannare gli uomini, ma Dio no, Lui conosce il nostro cuore meglio di noi stessi. Approfittiamo del momento presente! Questo sì è il senso cristiano del profittare del giorno: non godere la vita nell’attimo che fugge, no, questo è il senso mondano. Ma cogliere l’oggi per dire “no” al male e “sì” a Dio; aprirsi alla sua Grazia; smetterla finalmente di ripiegarsi su sé stessi trascinandosi nell’ipocrisia. Guardare in faccia la propria realtà, così come siamo; riconoscere che non abbiamo amato Dio e non abbiamo amato il prossimo come dovevamo, e confessarlo. Questo è iniziare un cammino di conversione chiedendo prima di tutto perdono a Dio nel Sacramento della Riconciliazione, e poi riparare il male fatto agli altri. Ma sempre aperti alla grazia. Il Signore bussa alla nostra porta, bussa al nostro cuore per entrare con noi in amicizia, in comunione, per darci la salvezza.
E questa è per noi la strada per diventare “santi e immacolati”. La bellezza incontaminata della nostra Madre è inimitabile, ma nello stesso tempo ci attira. Affidiamoci a lei, e diciamo una volta per sempre “no” al peccato e “sì” alla Grazia.”
Papa Francesco Parte Angelus dell’’8 dicembre 2020

*****

Madre Immacolata,
nel giorno della tua festa, tanto cara al popolo cristiano,
vengo a renderti omaggio nel cuore di Roma.
Nel mio animo porto i fedeli di questa Chiesa tutti coloro che vivono in questa città, specialmente i malati e quanti per diverse situazioni fanno più fatica ad andare avanti.
Prima di tutto vogliamo ringraziarti per la premura materna con cui accompagni il nostro cammino: quante volte sentiamo raccontare con le lacrime agli occhi da chi ha sperimentato la tua intercessione,
le grazie che chiedi per noi al tuo Figlio Gesù!
Penso anche a una grazia ordinaria che fai alla gente che vive a Roma:quella di affrontare con pazienza i disagi della vita quotidiana.
Ma per questo ti chiediamo la forza di non rassegnarci, anzi,di fare ogni giorno ciascuno la propria parte per migliorare le cose,perché la cura di ognuno renda Roma più bella e vivibile per tutti;
perché il dovere ben fatto da ognuno assicuri i diritti di tutti.
E pensando al bene comune di questa città,ti preghiamo per coloro che rivestono ruoli di maggiore responsabilità:ottieni per loro saggezza, lungimiranza, spirito di servizio e di collaborazione.
Vergine Santa, desidero affidarti in modo particolare i sacerdoti di questa Diocesi:
i parroci, i viceparroci, i preti anziani che col cuore di pastori continuano a lavorare al servizio del popolo di Dio,
i tanti sacerdoti studenti di ogni parte del mondo che collaborano nelle parrocchie.
Per tutti loro ti chiedo la dolce gioia di evangelizzare
e il dono di essere padri, vicini alla gente, misericordiosi.
A te, Donna tutta consacrata a Dio, affido le donne consacrate nella vita religiosa e in quella secolare,che grazie a Dio a Roma sono tante, più che in ogni altra città del mondo,
e formano un mosaico stupendo di nazionalità e culture.
Per loro ti chiedo la gioia di essere, come te, spose e madri,
feconde nella preghiera, nella carità, nella compassione.
O Madre di Gesù,
un’ultima cosa ti chiedo, in questo tempo di Avvento,
pensando ai giorni in cui tu e Giuseppe eravate in ansia
per la nascita ormai imminente del vostro bambino,
preoccupati perché c’era il censimento e anche voi dovevate lasciare il vostro paese, Nazareth, e andare a Betlemme…
Tu sai, Madre, cosa vuol dire portare in grembo la vita
e sentire intorno l’indifferenza, il rifiuto, a volte il disprezzo.
Per questo ti chiedo di stare vicina alle famiglie che oggi
a Roma, in Italia, nel mondo intero vivono situazioni simili,
perché non siano abbandonate a sé stesse, ma tutelate nei loro diritti,
diritti umani che vengono prima di ogni pur legittima esigenza.
O Maria Immacolata,
aurora di speranza all’orizzonte dell’umanità,veglia su questa città,
sulle case, sulle scuole, sugli uffici, sui negozi,sulle fabbriche, sugli ospedali, sulle carceri;
in nessun luogo manchi quello che Roma ha di più prezioso,e che conserva per il mondo intero,
il testamento di Gesù:“Amatevi gli uni gli altri, come io ho amato voi” (cfr Gv 13,34).
Amen.

preghiera che Papa Francesco ha recitato l’8 dicembre 2018

Domenica, 05 Dicembre 2021 18:11

II Domenica di Avvento - 4/5 dicembre 2021

1. Mercoledì, 08 Dicembre, si celebra la Solennità dell'Immacolata Concezione della Beata Vergine Maria. L'orario delle messe sarà quello delle domeniche: 08h30, 10h00, 11h30 e 18h30. La solennità inizia già con la messa delle 18h30 di Martedì, 07 Dicembre.

2. Domenica, 12 Dicembre, alle 11h30, si terrà la celebrazione dell'ingresso del nuovo Parroco di questa Parrocchia, P. Adriano Elias. Con lui saranno anche presentati i due vicari parrocchiali, P. Pietro e P. Martino. La messa sarà presieduta dal Vescovo del settore, sua Eccellenza D. Paolo Selvadagi.

Mentre le letture della prima domenica di Avvento ci esortavano a vegliare, le letture di questa domenica ci esortano “a preparare la via del Signore”.
Nella prima lettura, il profeta Baruc, con tono poetico canta la speranza di tutto un popolo perchè alla miseria e alla schiavitù subentreranno la bontà e la libertà, all’umiliazione e alla tristezza, la gioia. Baruc rincuora così il popolo in esilio mostrando la via del ritorno preparata da Dio per il suo popolo derelitto.
Nella seconda lettura san Paolo, scrivendo la sua lettera ai Filippesi, li ringrazia per la collaborazione alla diffusione del Vangelo, e li incoraggia a crescere nell’amore attivo e fedele “per il giorno di Cristo”.
Nel Vangelo di Luca, viene presentato Giovanni il Battista, che predica un battesimo di conversione per il perdono dei peccati, cioè un rito che apre il cuore e dispone la strada per la salvezza di Dio: Cristo suo Figlio e nostro unico salvatore. E’ Gesù che ci fa davvero lasciare le vesti del lutto, della tristezza e ci porta lo splendore della vita divina. Solo con Lui ogni uomo vedrà la salvezza di Dio.

Dal libro del Profeta Baruc
Deponi, o Gerusalemme, la veste del lutto e dell’afflizione,
rivèstiti dello splendore della gloria che ti viene da Dio per sempre.
Avvolgiti nel manto della giustizia di Dio,
metti sul tuo capo il diadema di gloria dell’Eterno,
perché Dio mostrerà il tuo splendore a ogni creatura sotto il cielo.
Sarai chiamata da Dio per sempre:
«Pace di giustizia» e «Gloria di pietà».
Sorgi, o Gerusalemme, sta’ in piedi sull’altura
e guarda verso oriente; vedi i tuoi figli riuniti,
dal tramonto del sole fino al suo sorgere,
alla parola del Santo, esultanti per il ricordo di Dio.
Si sono allontanati da te a piedi,
incalzati dai nemici;
ora Dio te li riconduce in trionfo, come sopra un trono regale.
Poiché Dio ha deciso di spianare ogni alta montagna e le rupi perenni,
di colmare le valli livellando il terreno,
perché Israele proceda sicuro sotto la gloria di Dio.
Anche le selve e ogni albero odoroso
hanno fatto ombra a Israele per comando di Dio.
Perché Dio ricondurrà Israele con gioia alla luce della sua gloria,
con la misericordia e la giustizia che vengono da lui.
Bar 5,1-9

Il Libro del profeta Baruc, che era stato segretario fedele del profeta Geremia,è contenuto nella Bibbia cristiana, ma non è stato accolto nella Bibbia ebraica. Il libro che è composto di 6 capitoli, (il sesto contiene una lettera di Geremia), sembra sia stato scritto direttamente in greco, e la seconda parte, forse, è stata ripresa da un originale in ebraico. Si ritiene comunque che il testo risalga agli anni 50 a.C, in un'epoca, comunque, di occupazione da parte dei Romani, come motivo di speranza per un Messia liberatore.
Il libro di Baruc ha il pregio di rivelare l’anima profondamente religiosa dei Giudei dispersi nel mondo e tuttavia rimasti in modo sorprendente, uniti al loro popolo. La loro fede testimonia un senso vivissimo del peccato nazionale; ai loro occhi, il passato d’Israele non è stato che una lunga infedeltà e la disfatta e la prigionia sono la conclusione e il giusto castigo di quella costante ribellione..
Il libro sin dall'introduzione evidenzia che Baruc scrisse questo libro a Babilonia, dopo la deportazione e che poi tornò a Gerusalemme per leggerlo nelle assemblee liturgiche
Il profeta in questo brano, con una certa enfasi si rivolge a Gerusalemme per invitarla a terminare il lutto per la deportazione a Babilonia. “Deponi, o Gerusalemme, la veste del lutto e dell’afflizione, rivèstiti dello splendore della gloria che ti viene da Dio per sempre…”
Occorre cambiare abito, da quello del lutto a quello della gloria del Signore, al manto della Sua giustizia e alla corona di gloria, perché finalmente Gerusalemme potrà, di nuovo, essere chiamata per sempre da Dio «Pace di giustizia» e «Gloria di pietà».
Poi il profeta esorta la città santa, a stare in piedi sull’altura e guardare verso oriente dove sono riuniti i suoi figli nella notte, e deve poter credere che la Parola del Signore si compie perchè essi, i suoi figli, ritorneranno “dal tramonto del sole fino al suo sorgere, alla parola del Santo, esultanti per il ricordo di Dio”. I suoi figli si erano allontanati a piedi, inseguiti dai nemici, ed ora è il Signore stesso che li riconduce come un sovrano vittorioso, e li porta con sé nella sfilata del trionfo, non come prigionieri di guerra, ma come figli liberati. La via del ritorno è una via facile, senza impedimenti, senza salite e discese, “Poiché Dio ha deciso di spianare ogni alta montagna e le rupi perenni, di colmare le valli livellando il terreno, perché Israele proceda sicuro sotto la gloria di Dio. “
Il Signore riconduce “Israele con gioia. alla luce della sua gloria, con la misericordia e la giustizia che vengono da lui”. Dio non mostra rancore per il peccato commesso dal Suo popolo, ma è pieno di gioia perché Israele ha riconosciuto il suo peccato, a motivo dell'esperienza che ha fatto della misericordia e della giustizia di Dio.
Bellissimo il messaggio di speranza che si percepisce: di fronte all’infedeltà di Israele, resta immutabile la fedeltà di Dio. E’ il Signore che provoca la conversione e dà il perdono e l’alleanza rivivrà più bella di prima, un’alleanza che raccoglierà i figli dispersi in una Gerusalemme radiosa, città di Dio per sempre.

Salmo 125 - Grandi cose ha fatto il Signore per noi.
Quando il Signore ristabilì la sorte di Sion,
ci sembrava di sognare.
Allora la nostra bocca si riempì di sorriso,
la nostra lingua di gioia.

Allora si diceva tra le genti:
«Il Signore ha fatto grandi cose per loro».
Grandi cose ha fatto il Signore per noi:
eravamo pieni di gioia.

Ristabilisci, Signore, la nostra sorte,
come i torrenti del Negheb.
Chi semina nelle lacrime
mieterà nella gioia.

Nell’andare, se ne va piangendo,
portando la semente da gettare,
ma nel tornare, viene con gioia,
portando i suoi covoni.

Il salmista faceva parte degli Israeliti rimasti in Palestina al tempo delle deportazioni babilonesi.
Egli esprime la gioia di tutti di fronte ai primi arrivi e invoca da Dio il ritorno di tutti i deportati, in moltitudine e velocità, cioè senza intoppi e stenti di viaggio, come, appunto, i torrenti del Negheb, cioè i torrenti della parte meridionale del territorio della tribù di Giuda.
L'evento del ritorno è un fatto del tutto straordinario che mette in luce la fedeltà di Dio per il suo popolo.
I popoli, cioè quelli facenti parte dell'impero Persiano, pur a modo loro, cioè senza diventare monoteisti, lo riconobbero. Diversamente si comportarono i popoli vicini, che si erano spinti con scorribande continue nei territori di Israele. Questi cercarono di sfaldare ogni tentativo di Israele di ridarsi una fisionomia stabile.
Il desiderio che i prigionieri ritornino è grande, ma bisogna nel frattempo creare le condizioni per facilitare i nuovi arrivi.
Il salmo per questo presenta una sentenza proverbiale come invito a non lesinare fatiche per la ricostruzione di Gerusalemme, il ripristino dei campi, dei villaggi; questo pur in mezzo alle difficoltà causate dall'ostilità dei vicini popoli: “Chi semina nelle lacrime mieterà nella gioia”.
Il salmo nel suo sensus plenior riguarda la liberazione dei popoli dal peso dell'ignoranza del vero Dio, dal peso delle divisioni e contrapposizioni.
Essi hanno ricevuto l'editto di liberazione nel sangue di Cristo. La Chiesa, sacramento di salvezza e di unità, deve fare conoscere il Liberatore dal peccato, sempre pronta ad accogliere nella gioia della comunione che la regge tutti coloro che accolgono Cristo e che già sono misteriosamente orientati a lui dall'azione dello Spirito Santo (Cf. 1Gv 1,3-4).
Commento tratta da Perfetta Letizia

Dalla lettera di S.Paolo Apostolo ai Filippesi
Fratelli, sempre, quando prego per tutti voi, lo faccio con gioia a motivo della vostra cooperazione per il Vangelo, dal primo giorno fino al presente. Sono persuaso che colui il quale ha iniziato in voi quest’opera buona, la porterà a compimento fino al giorno di Cristo Gesù.
Infatti Dio mi è testimone del vivo desiderio che nutro per tutti voi nell’amore di Cristo Gesù. E perciò prego che la vostra carità cresca sempre più in conoscenza e in pieno discernimento, perché possiate distinguere ciò che è meglio ed essere integri e irreprensibili per il giorno di Cristo, ricolmi di quel frutto di giustizia che si ottiene per mezzo di Gesù Cristo, a gloria e lode di Dio.
Fil 1,4-6.8,11

La lettera ai Filippesi è stata sicuramente scritta da Paolo mentre si trovava in carcere, probabilmente durante la sua detenzione a Efeso, intorno agli anni 53-55, oppure a Roma (allora saremmo nel 62-63) .
L’origine della chiesa di Filippi è descritta dettagliatamente negli Atti degli Apostoli (vv.16,12-40).
E’ stata la prima a nascere in Europa, e venne fondata verso il 51, durante il secondo viaggio missionario di Paolo. L’apostolo aveva deciso di andare a Filippi in seguito ad una visione, nella quale vide un macedone che gli diceva: “Passa in Macedonia e aiutaci”. Paolo ed i suoi collaboratori cambiarono allora i propri programmi e decisero di recarsi in Macedonia.
La prima persona a convertirsi fu Lidia, una donna ricca e distinta. Sebbene fosse di origine pagana, era stata attratta dalla religione ebraica ed era timorata di Dio, ma quando sentì predicare Paolo, credette in Gesù Cristo e fu battezzata con la sua famiglia.
In seguito, Paolo e Sila furono arrestati con una falsa accusa e fu in quell'occasione che il soldato di guardia alla prigione, dove essi erano detenuti, si convertì con la sua famiglia. Così venne a formarsi il primo nucleo della comunità cristiana.
Che i cristiani di Filippi fossero in gran parte di origine pagana, lo si desume anche dal fatto che nella lettera Paolo non cita quasi mai l'A.T.. Non vengono trattati grandi temi, né vengono risolte particolari questioni: l'apostolo scrivendo vuole semplicemente informare i Filippesi della sua situazione, ringraziarli per l'attenzione dimostrata nei suoi confronti ed esortarli a proseguire sulla via dell'amore evangelico.
In questo brano, che riporta l’inizio della lettera, Paolo come di consueto inizia con un ringraziamento:
“Fratelli, sempre, quando prego per tutti voi, lo faccio con gioia a motivo della vostra cooperazione per il Vangelo, dal primo giorno fino al presente”.
Paolo è evidentemente soddisfatto per gli effetti che la sua predicazione ha avuto a Filippi: la comunità non solo è cresciuta salda e compatta, ma addirittura collabora con Paolo per la diffusione del Vangelo. I filippesi sin dal primo giorno, cioè dalla loro conversione (v. At 16,12-40) hanno sofferto per il Vangelo (Fil 1,29-30) e hanno dato la loro testimonianza (Fil 2,15-16) anche con aiuti materiali per sostenere Paolo che si trovava in carcere.
“Sono persuaso che colui il quale ha iniziato in voi quest’opera buona, la porterà a compimento fino al giorno di Cristo Gesù”.
Paolo come sempre non attribuisce a sé il merito della buona riuscita della sua predicazione, ma giustamente riconosce l'azione di Dio. Il Signore che ha fatto sì che i filippesi aderissero con convinzione e in modo attivo alla fede, li accompagnerà fino al giorno della seconda venuta di Gesù nella gloria.
“Infatti Dio mi è testimone del vivo desiderio che nutro per tutti voi nell’amore di Cristo Gesù.”
La liturgia non riporta 2 versetti seguenti (7-8) in cui Paolo esprime il suo affetto verso i filippesi e prende a testimone Dio di questo suo affetto
“E perciò prego che la vostra carità cresca sempre più in conoscenza e in pieno discernimento”,
Paolo vuole che i filippesi progrediscano nella vita cristiana, che è un continuo cammino di crescita nell'amore vicendevole e aperto a tutti. Tale amore deve crescere in intuizione e sensibilità per poter comprendere meglio la realtà e fare scelte giuste e concrete.
“perché possiate distinguere ciò che è meglio ed essere integri e irreprensibili per il giorno di Cristo”,
C'è un appuntamento che attende tutti i cristiani: il giorno del ritorno di Gesù Cristo. A Lui bisogna presentarsi integri e irreprensibili, cioè dopo aver rinunciato per sempre al male, per mantenersi così integri per il grande giorno.
“ricolmi di quel frutto di giustizia che si ottiene per mezzo di Gesù Cristo, a gloria e lode di Dio”.
Davanti a Gesù bisogna presentare il frutto della giustizia. Però non è possibile rendersi giusti da soli, o con le proprie opere! E' ancora Gesù Cristo che ci rende giusti, perchè grazie alla Sua morte e resurrezione ci ha liberato dalla morte e dal peccato. Tutto questo non è a nostra lode, ma è sempre a lode e gloria di Dio

Dal vangelo secondo Luca
Nell’anno quindicesimo dell’impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetrarca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetrarca dell’Iturèa e della Traconìtide, e Lisània tetrarca dell’Abilène, sotto i sommi sacerdoti Anna e Caifa, la parola di Dio venne su Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto. Egli percorse tutta la regione del Giordano, predicando un battesimo di conversione per il perdono dei peccati, com’è scritto nel libro degli oracoli del profeta Isaia:
Voce di uno che grida nel deserto:
Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri!
Ogni burrone sarà riempito,
ogni monte e ogni colle sarà abbassato; le vie tortuose diverranno diritte
e quelle impervie, spianate.
Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio!
Lc 3,1-6

In questo brano, l’evangelista Luca ci presenta la figura di Giovanni Battista. Ce lo presenta con una cornice storica ben precisa, che va pian piano restringendosi, fino a concentrarsi sulla persona di Giovanni, il figlio di Zaccaria. Non è comunque la prima volta che nel Vangelo di Luca si parla del Precursore del Signore. Due capitoli prima ce lo aveva presentato in un sussulto di gioia, mentre era ancora embrione nel grembo della madre, l'anziana Elisabetta, e come alla sua nascita gli fu dato il nome Giovanni, che significa "Dio ha avuto misericordia".
“Nell’anno quindicesimo dell’impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetrarca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetrarca dell’Iturèa e della Traconìtide, e Lisània tetrarca dell’Abilène,”
Luca apre il capitolo terzo con un ampio sguardo alla situazione politica universale, in cui si inserisce la vicenda di Giovanni. Egli ci invita a fissare l’attenzione su quell’anno quindicesimo dell’impero di Tiberio (tra il 26 e il 28 dell’èra cristiana secondo i diversi computi cronologici) e accompagna quella data con una serie di sei personaggi storici minori, così da presentarci la carta politica della Palestina.
La narrazione, a prima vista marginale, fa emergere invece la sua importanza perché egli vuole presentarci il ritratto del Cristo all’interno del suo Vangelo per farci comprendere che Gesù non è una figura evanescente, né un’entità vagamente spirituale, ma una realtà storica , che penetra nelle vicende dei popoli, che ha legami innegabili con le date non solo di Israele, ma con quelle dello stesso impero romano.
“sotto i sommi sacerdoti Anna e Caifa, la parola di Dio venne su Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto.”

Di fronte ai grandi della terra, enumerati con attenzione di storico, e alle autorità religiose in Israele (il sommo sacerdote Càifa e il potente predecessore, Anna, suo suocero), la grandezza di Giovanni deriva dal fatto che egli è chiamato da Dio. L'espressione usata ”la parola di Dio venne su Giovanni” e la citazione di Zaccaria , ricorda la chiamata dei profeti, in particolare Geremia (v. Ger 1,1): attraverso di lui ora Dio entra nella storia. E’ da notare che questa chiamata avviene nel deserto, un luogo di importanza più teologica che geografica, che separa Giovanni dall'Israele che si è allontanato da Dio.
“Egli percorse tutta la regione del Giordano, predicando un battesimo di conversione per il perdono dei peccati,”
Come gli altri evangelisti (Mc 1,4; Mt 3,1-2) anche Luca caratterizza la missione di Giovanni indicando la predicazione e il rito del battesimo; egli precisa che Giovanni si muove all'interno della regione del Giordano, sottolineando il suo ruolo di profeta più che di battezzatore.
Il battesimo di Giovanni è diverso dai riti simili presenti al tempo di Gesù: è ricevuto una sola volta, ed è amministrato dal profeta che svolge quindi un ruolo attivo e pubblico. Giovanni compie un segno di salvezza da parte di Dio, al di fuori dei riti ufficiali di espiazione previsti dal culto. Per Luca questo segno è una preparazione all'arrivo del Messia ed esprime un orientamento verso la salvezza che egli offrirà.
“com’è scritto nel libro degli oracoli del profeta Isaia:
Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri!
Ogni burrone sarà riempito, ogni monte e ogni colle sarà abbassato; le vie tortuose diverranno diritte e quelle impervie, spianate. “
Con una citazione del profeta Isaia (40,3-5) viene evidenziato meglio il compito di Giovanni. Il versetto è l'inizio del Deuteroisaia dove il profeta annuncia il ritorno dall'esilio come un nuovo esodo ed invita il popolo a preparare la via del ritorno. Preceduto dal Signore il popolo di Israele attraverserà il deserto su una via diritta. Per differenziare il Battista la citazione è stata adattata, mentre nel libro di Isaia il deserto è il luogo in cui la via viene preparata,.
Il testo si collega al brano tratto dal profeta Baruc, che abbiamo nella prima lettura, che parla anch'esso del ritorno dei deportati e di una via nuova in cui è possibile incontrare il Signore.
“Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio!”. Solo Luca cita anche il v. 5 della profezia per rendere più ampio il suo orizzonte.
L'annuncio di Giovanni appare dunque caratterizzato in Luca dall'accento salvifico più che da quello penitenziale, sottolineando la vicinanza di Dio (in Cristo) non solo al Suo popolo, ma ad ogni uomo.
Per concludere possiamo dire che la predicazione di Giovanni, aveva spinto a fare un serio esame di coscienza a molti dei suoi contemporanei, che ancora non avevano visto, con i loro occhi, Gesù, il Figlio di Dio, iniziare la Sua vita pubblica, e invita anche noi oggi a preparare la strada al Signore che viene, che “ritorna", con la fedeltà nelle piccole cose.
E’ con la testimonianza della nostra vita di veri credenti, che spianeremo la strada al Signore anche nel cuore degli altri fratelli rimasti delusi, increduli, tiepidi. La nostra testimonianza, infatti, sarà l'annuncio più efficace e credibile di come la Parola di Dio – una volta entrata dentro di noi – può trasformare un deserto arido in un "terreno fecondo", non soggetto alla “dittatura del relativismo " e spalancato alle necessità di quanti - come noi - cercano umilmente solo un po' d'amore!

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“Domenica scorsa la liturgia ci invitava a vivere il tempo di Avvento e di attesa del Signore con l’atteggiamento della vigilanza e anche della preghiera: “vigilate” e “orate”.
Oggi, seconda domenica di Avvento, ci viene indicato come dare sostanza a tale attesa: intraprendendo un cammino di conversione, come rendere concreta questa attesa. Come guida per questo cammino, il Vangelo ci presenta la figura di Giovanni il Battista, il quale «percorse tutta la regione del Giordano, predicando un battesimo di conversione per il perdono dei peccati» . Per descrivere la missione del Battista, l’evangelista Luca raccoglie l’antica profezia di Isaia, che dice così: «Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri! Ogni burrone sarà riempito, ogni monte e ogni colle sarà abbassato»
Per preparare la via al Signore che viene, è necessario tenere conto delle esigenze della conversione a cui invita il Battista. Quali sono queste esigenze di una conversione? Anzitutto siamo chiamati a bonificare gli avvallamenti prodotti dalla freddezza e dall’indifferenza, aprendoci agli altri con gli stessi sentimenti di Gesù, cioè con quella cordialità e attenzione fraterna che si fa carico delle necessità del prossimo. Bonificare gli avvallamenti prodotti dalla freddezza. Non si può avere un rapporto di amore, di carità, di fraternità con il prossimo se ci sono dei “buchi”, come non si può andare su una strada con tante buche. Questo richiede di cambiare l’atteggiamento. E tutto ciò, farlo anche con una premura speciale per i più bisognosi. Poi occorre abbassare tante asprezze causate dall’orgoglio e dalla superbia. Quanta gente, forse senza accorgersene, è superba, è aspra, non ha quel rapporto di cordialità. Occorre superare questo compiendo gesti concreti di riconciliazione con i nostri fratelli, di richiesta di perdono delle nostre colpe. Non è facile riconciliarsi. Si pensa sempre: “chi fa il primo passo?”. Il Signore ci aiuta in questo, se abbiamo buona volontà. La conversione, infatti, è completa se conduce a riconoscere umilmente i nostri sbagli, le nostre infedeltà, inadempienze.
Il credente è colui che, attraverso il suo farsi vicino al fratello, come Giovanni il Battista apre strade nel deserto, cioè indica prospettive di speranza anche in quei contesti esistenziali impervi, segnati dal fallimento e dalla sconfitta. Non possiamo arrenderci di fronte alle situazioni negative di chiusura e di rifiuto; non dobbiamo lasciarci assoggettare dalla mentalità del mondo, perché il centro della nostra vita è Gesù e la sua parola di luce, di amore, di consolazione. È Lui! Il Battista invitava alla conversione la gente del suo tempo con forza, con vigore, con severità. Tuttavia sapeva ascoltare, sapeva compiere gesti di tenerezza, gesti di perdono verso la moltitudine di uomini e donne che si recavano da lui per confessare i propri peccati e farsi battezzare con il battesimo di penitenza.
La testimonianza di Giovanni il Battista, ci aiuta ad andare avanti nella nostra testimonianza di vita. La purezza del suo annuncio, il suo coraggio nel proclamare la verità riuscirono a risvegliare le attese e le speranze del Messia che erano da tempo assopite. Anche oggi, i discepoli di Gesù sono chiamati ad essere suoi umili ma coraggiosi testimoni per riaccendere la speranza, per far comprendere che, nonostante tutto, il regno di Dio continua a costruirsi giorno per giorno con la potenza dello Spirito Santo. Pensiamo, ognuno di noi: come posso io cambiare qualche cosa del mio atteggiamento, per preparare la via al Signore?
La Vergine Maria ci aiuti a preparare giorno per giorno la via del Signore, cominciando da noi stessi; e a spargere intorno a noi, con tenace “
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 9 dicembre 2018

Con questa prima Domenica di Avvento si apre il nuovo anno liturgico proclamato dal Vangelo di Luca con l’invito a “Vegliare in ogni momento”. Leggeremo quindi il mistero di Cristo seguendo la teologia filtrata dall’esperienza del terzo evangelista, che è molto vicino alla nostra sensibilità, perchè in un mondo che cerca sempre più la fratellanza universale, il messaggio di Luca è molto attuale. La Chiesa, come ci ricorda sempre papa Francesco, deve essere il luogo dell’accoglienza di tutti, specialmente dei poveri, dei peccatori, degli esclusi.
Nella prima lettura, il profeta Geremia annuncia che Dio sarà fedele alle Sue promesse: farà germogliare per Davide un germoglio giusto. Geremia precisa che il Messia sarà “germoglio di giustizia”; ed è la giustizia che garantisce l’equilibrio del singolo uomo, della famiglia e dei popoli. L’uomo giusto capisce gli altri, la famiglia che pratica la giustizia educa all’amore, i popoli, che godono ed esperimentano la giustizia, sono portatori di pace.
Nella seconda lettura, l’apostolo Paolo, scrivendo ai Tessalonicesi, chiede di prepararci alla venuta di Cristo e ci esorta a crescere nell’amore vicendevole verso tutti.
Nel Vangelo di Luca, troviamo il discorso che Gesù pronuncia sulle ultime realtà. L’evangelista dice che il Messia si annuncia mentre sulla terra c’è “angoscia di popoli in ansia” e aggiunge di stare molto attenti, affinché i nostri cuori non siano appesantiti (e quindi distratti) dagli “affanni della vita”. Le parole del Vangelo, quanto mai attuali in questo periodo, ci suggeriscono di rimuovere lo stato di paura (che non possiamo non provare di fronte al costante dissesto della vita sociale gravato anche dal persistere della pandemia a cui si aggiunge il dramma della fame, delle guerre, del terrorismo e droga) allo stato di vigilanza operosa per poter trasformare l’angoscia in inquietudine attiva.

Dal libro del profeta Geremia
«Ecco, verranno giorni – oracolo del Signore – nei quali io realizzerò le promesse di bene che ho fatto alla casa d’Israele e alla casa di Giuda.
In quei giorni e in quel tempo farò germogliare per Davide un germoglio giusto, che eserciterà il giudizio e la giustizia sulla terra.
In quei giorni Giuda sarà salvato e Gerusalemme vivrà tranquilla, e sarà chiamata: Signore-nostra-giustizia.
Ger 33,14-16

Nel libro del profeta Geremia troviamo raccontata in modo autobiografico la sua vita. Sappiamo così che la sua chiamata avvenne intorno al 626 a.C. quando ancora era un ragazzo e desiderava sposarsi con la sua Giuditta, ma Dio stesso glielo proibisce, ed è per questo che è stato l’unico profeta celibe dell’A.T a differenza di tutti gli altri. Aveva un carattere mite e, all'inizio della sua missione, in cui era giovane inesperto, dovette affrontare il momento più difficile e decisivo della storia della nazione giudaica, quello che conduce all'esilio in Babilonia (587 a.C.). Egli tenta di tutto: scuote il torpore del popolo con una predicazione che chiede una radicale conversione; appoggia la riforma nazionalista e religiosa del re Giosia (622 a.C.); cerca di convincere tutti alla sottomissione al dominio di Babilonia dopo la morte del re (609 a.C.). Viene però accusato di pessimismo religioso e di disfattismo politico.
Geremia, profeta del dolore e della misericordia, che preannuncia più di ogni altro la figura di Gesù, rimane per il suo popolo, e per tutti i cristiani, un testimone della speranza. Egli è pure l’esempio di una incorruttibile fedeltà alla propria vocazione, qualunque siano le difficoltà.
In questo brano divenuto famoso per l’interpretazione messianica che la tradizione giudaica e cristiana gli hanno attribuito, Il Signore tramite il suo profeta “mentre egli era ancora chiuso nell’atrio della prigione”, fa delle preziose rivelazioni che riguardano la restaurazione di Gerusalemme e la liberazione del suo popolo, dopo la catastrofe che s’abbatterà su di esso. “Ecco, verranno giorni – oracolo del Signore – nei quali io realizzerò le promesse di bene che ho fatto alla casa d’Israele e alla casa di Giuda.” Poi sulla traccia anche di una celebre profezia di Isaia (Is11,1) continua annunciando: “In quei giorni e in quel tempo farò germogliare per Davide un germoglio giusto, che eserciterà il giudizio e la giustizia sulla terra”.
Il germoglio è segno di vita, di futuro, di movimento, di speranza, quel discendente di Davide aprirà, quindi, un orizzonte nuovo verso cui va l’attenzione di tutto il popolo.
E’ Geremia stesso a dare il valore simbolico a quel ramoscello: “In quei giorni Giuda sarà salvato e Gerusalemme vivrà tranquilla, e sarà chiamata: Signore-nostra-giustizia.“
Queste tre parole unite insieme “Signore-nostra-giustizia” sembrano la formula magica che l’umanità ripete da secoli in tutte le lingue che sogna nelle sue attese, ma che da sola, con le proprie forze , non è riuscita mai a costruire nella storia.

Salmo 24 - A te, Signore, innalzo l’anima mia, in te confido.

Fammi conoscere, Signore, le tue vie,
insegnami i tuoi sentieri.
Guidami nella tua fedeltà e istruiscimi,
perché sei tu il Dio della mia salvezza.

Buono e retto è il Signore,
indica ai peccatori la via giusta;
guida i poveri secondo giustizia,
insegna ai poveri la sua via.

Tutti i sentieri del Signore sono amore e fedeltà
per chi custodisce la sua alleanza e i suoi precetti.
Il Signore si confida con chi lo teme:
gli fa conoscere la sua alleanza.

Il salmista è pieno d’umiltà al ricordo delle sue numerose colpe della sua giovinezza. E’ sgomento alla vista che tanti suoi amici lo hanno tradito per un nulla. Uno screzio è bastato perché si mettessero contro di lui. Egli, piegato dal peso dei suoi peccati, domanda che Dio guardi a lui e non a quanto ha fatto non osservando “la sua alleanza e i suoi precetti”.
Si trova in grande difficoltà di fronte ad avversari che lo odiano in modo violento e lui non ha via di salvezza che quella del Signore.
Gli errori passati sono il frutto del suo abbandono della “via giusta”. Ora sa che “tutti i sentieri del Signore sono amore e fedeltà”, cioè non portano a rovina, ma anzi danno prosperità, poiché la discendenza di chi teme il Signore “possederà la terra”. L’orante voleva affermarsi sugli altri agendo con spavalderia, con vie traverse, ed ecco che sconfessa tutto il suo passato, trattenendone però la lezione di umiltà, che gli ha dato.
Egli sa che non andrà deluso perché ha deciso di essere protetto da "integrità e rettitudine”, cioè dall’osservanza dell’alleanza stabilita da Dio con Israele. L’orante non pensa solo a se stesso, si sente parte del popolo di Dio, e invoca la liberazione di Israele dalle angosce date dai nemici. La liberazione dell’Israele di Dio, la Chiesa, cioè l’Israele fondato sulla fede in Cristo, non escludendo nella sua carità quello etnico basato sulla carne e sul sangue, per il quale la pace passerà dall’accoglienza del Principe della pace.
Commento tratto dal Perfetta Letizia

Dalla prima lettera di S.Paolo Apostolo ai Tessalonicesi
Fratelli, il Signore vi faccia crescere e sovrabbondare nell’amore fra voi e verso tutti, come sovrabbonda il nostro per voi, per rendere saldi i vostri cuori e irreprensibili nella santità, davanti a Dio e Padre nostro, alla venuta del Signore nostro Gesù con tutti i suoi santi.
Per il resto, fratelli, vi preghiamo e supplichiamo nel Signore Gesù affinché, come avete imparato da noi il modo di comportarvi e di piacere a Dio – e così già vi comportate –, possiate progredire ancora di più.
Voi conoscete quali regole di vita vi abbiamo dato da parte del Signore Gesù.
1Ts 3,12.4,2

La Prima lettera ai Tessalonicesi è stata scritta da S.Paolo intorno al 50. E’ il più antico testo del Nuovo Testamento e si trova incluso già nelle prime raccolte di scritti cristiani. Lo scritto delinea la personalità di Paolo, evidenziando l’evoluzione nella quale egli passa dal confidare sulle proprie risorse, al fidarsi sempre più di Dio. La lettera è stata scritta in greco e indirizzata ai membri di una comunità cristiana fondata pochi mesi prima da Paolo a Tessalonica.
Il motivo per la composizione della lettera è stato per chiarire un insegnamento di Paolo ai suoi discepoli, sulla seconda venuta di Gesù alla fine dei tempi. Paolo aveva affermato che ciò sarebbe accaduto presto, entro la fine della generazione corrente, e ai suoi discepoli che si erano interrogati sul destino di coloro che erano morti nel frattempo, Paolo spiega che i morti sarebbero risorti e insieme ai vivi sarebbero andati incontro al Signore per unirsi a Lui.
La lettera si rivolgeva ad una comunità cristiana in buona parte costituita da persone provenienti dal paganesimo, per cui non si fa uso dell'A.T. e l'annuncio si concentra sulla risurrezione di Gesù e sulla liberazione dei credenti. Nella parte centrale Paolo si sofferma, in particolare, sulla natura dell'identità cristiana nei confronti dell'ambiente esterno: essa ha il suo fondamento nella fede, nella carità e nella speranza.
In questo brano Paolo, dopo aver chiesto a Dio,che gli conceda di ritornare a Tessalonica, intercede per i suoi interlocutori: “il Signore vi faccia crescere e sovrabbondare nell’amore fra voi e verso tutti, come sovrabbonda il nostro per voi” Anche se i tessalonicesi hanno dato prova di una fede operosa (v. 1,3), hanno ancora molta strada da fare e Paolo, nella sua preghiera di intercessione. augura per loro la crescita e la sovrabbondanza nell’amore vicendevole verso tutti. Come modello Paolo indica ancora una volta il suo stesso amore verso di loro, fatto di dedizione incondizionata e di cura premurosa.
Paolo fa poi un’altra richiesta che è collegata alla precedente e ne indica la motivazione: “per rendere saldi i vostri cuori e irreprensibili nella santità, davanti a Dio e Padre nostro, alla venuta del Signore nostro Gesù con tutti i suoi santi”. Il pensiero si rivolge qui al momento della seconda “venuta” del Signore Gesù, il quale sarà accompagnato dai suoi santi, cioè dalle schiere angeliche. Paolo chiede a Dio, in vista di quell’evento, di rendere saldi e irreprensibili i loro cuori nella santità, che già hanno ricevuto nel battesimo. Ciò deve avvenire “davanti a Dio e Padre nostro”. Un vero amore fraterno, che si apre a tutti, anche a coloro che non fanno parte della comunità, rappresenta la migliore preparazione e la più solida garanzia per l’incontro decisivo dell’ultimo giorno.
L’attesa della venuta finale di Cristo non deve consistere quindi in una attesa inoperosa, ma in un impegno costante per costruire rapporti nuovi basati sull’amore.
In questa preghiera, che chiude la prima parte della lettera, sono segnalati quegli atteggiamenti di amore, santità e irreprensibilità che costituiranno il tema della seconda parte.
Da questo punto, ossia dal capitolo 4 inizia la seconda parte della lettera, composta di esortazioni, ammonimenti, istruzioni, parole di conforto.
Paolo la introduce con queste parole:
“Per il resto, fratelli, vi preghiamo e supplichiamo nel Signore Gesù affinché, come avete imparato da noi il modo di comportarvi e di piacere a Dio – e così già vi comportate –, possiate progredire ancora di più.”
L’intenzione appare subito in apertura nella formula “vi preghiamo ed esortiamo nel Signore Gesù”.
In stretto collegamento con quanto ha appena detto, Paolo esorta anzitutto i tessalonicesi a progredire nel cammino già intrapreso. Essi sanno come devono comportarsi e già si comportano così, perciò Paolo non deve far altro che invitarli a continuare nella strada intrapresa, incoraggiandoli a progredire sempre di più.
Poi aggiunge: “Voi conoscete quali regole di vita vi abbiamo dato da parte del Signore Gesù”. Essi devono essere sempre consapevoli che le istruzioni che lui, Paolo, ha dato loro provengono sempre dal Signore.
Dalle parole di Paolo possiamo comprendere che Dio non si serve dell’uomo come di uno strumento passivo; al contrario il fatto che Lui intervenga per primo serve a rafforzare nell’uomo l’esercizio della propria libertà e creatività.

Dal Vangelo secondo Luca
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti, mentre gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra. Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte. Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire su una nube con grande potenza e gloria.
Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina».
State attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso all’improvviso; come un laccio infatti esso si abbatterà sopra tutti coloro che abitano sulla faccia di tutta la terra. Vegliate in ogni momento pregando, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che sta per accadere e di comparire davanti al Figlio dell’uomo».
Lc21,25-28.34-36

Il Vangelo secondo Luca, che ci accompagnerà in questo terzo anno liturgico, è il terzo dei Vangeli (uno dei tre sinottici) ed è stato scritto in greco intorno agli anni 80-90, utilizzando il Vangelo secondo Marco. E’ suddiviso in 24 capitoli, e viene definito, dalla tradizione cristiana, come il Vangelo della misericordia, perchè ci riporta alcune celebri parabole come quella del figliol prodigo e quella del buon samaritano.
E’ anche il Vangelo che pone un’enfasi speciale sulla preghiera, le azioni dello Spirito Santo, e sulla gioia. Secondo l'antica tradizione ecclesiastica, l'autore è San Luca, un collaboratore serio e fidato dell'apostolo Paolo, da lui menzionato, nella 2Tim4,11 e nella Col 4,14, viene chiamato “il caro medico”. Che Luca fosse medico lo si può dedurre anche dalla citazione che fa della sudorazione di sangue di Gesù, rarissimo fenomeno della ematidrosi, causata dalla intensa agonia spirituale che Gesù stava soffrendo.
In questo brano l’evangelista ci propone “il discorso sulle realtà ultime” che Gesù fa prima della Sua passione. Impressionano soprattutto le immagini tempestose e apocalittiche, tipiche di quei secoli e usate per indicare simbolicamente l’irruzione efficace di Dio nella storia confusa e tragica dell’uomo.
“Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti, mentre gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra. Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte”.
Questi segni sono anzitutto di carattere cosmico e sono in parte paralleli a quelli che precedono la caduta di Gerusalemme (vv. 10-11). Gesù dice che avranno luogo nel sole, nella luna e nelle stelle, senza specificare, come fa in Marco, in che cosa consisteranno. Con essi ci saranno anche fenomeni terrestri, che consistono in un terribile sconvolgimento del mare e dei flutti (nel sal 65,8 troviamo descrizioni analoghe) che genereranno angoscia e ansia in tutte le nazioni. Gli sconvolgimenti del cielo faranno presagire lo scatenarsi di qualcosa di terribile, provocando in tutti gli uomini un terrore tale da farli “morire per la paura”. Questi segni preannunciano l’evento escatologico: “Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire su una nube con grande potenza e gloria”.
Questo evento viene descritto con chiaro riferimento alla visione del profeta Daniele (Dn7,13), quasi con le stesse parole di Marco. Nella frase successiva però Luca si distacca da Marco in quanto, invece di accennare al raduno escatologico degli eletti (Mc 13,27), riporta un’esortazione: “Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina”.
Le cose che cominceranno ad accadere sono i segni cosmici che precedono immediatamente la
venuta del Figlio dell’uomo; vedendole i discepoli dovranno cambiare completamente il loro atteggiamento: dopo essere stati oppressi dal peso terribile delle persecuzioni, essi dovranno ora risollevarsi ed alzare la testa perché si avvicina la loro liberazione. Per i seguaci di Cristo gli sconvolgimenti che precederanno la venuta del personaggio celeste non dovranno essere causa di terrore, ma di speranza, perché preludono a un evento che segnerà il loro trionfo.
Dopo aver preannunziato la venuta finale del Figlio dell’uomo, presentandola come un evento di liberazione, Luca riporta l’appello alla vigilanza, ed utilizza anche lui come similitudine la parabola del fico come invito a saper riconoscere i segni dei tempi.
Nell’esortazione alla vigilanza, Luca però si allontana dal testo di Marco, e riporta così le parole di Gesù: “State attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso all’improvviso; come un laccio infatti esso si abbatterà sopra tutti coloro che abitano sulla faccia di tutta la terra. “
Luca, convinto che la fine del mondo non è vicina, qui accentua la necessità che, nel prolungarsi dell’attesa, i discepoli di Gesù non si lascino sopraffare da dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita. Queste parole ci suggeriscono di legare lo stato di paura e di angoscia (che non possiamo non provare di fronte al persistente dissesto della vita sociale con fame, guerre, terrorismo e droga che dilagano in ogni parte del mondo) allo stato di vigilanza, trasformando l’angoscia in inquietudine attiva.
Diversamente da Marco, che termina il discorso con l’invito alla vigilanza, e da Matteo, che richiama l’idea del giudizio, Luca conclude il discorso con un invito alla preghiera “Vegliate in ogni momento pregando, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che sta per accadere e di comparire davanti al Figlio dell’uomo”.
Per Luca la vigilanza a cui i credenti sono chiamati, consiste in un atteggiamento costante di preghiera. Per lui la preghiera è veramente il segno caratteristico della presenza cristiana nel mondo. Certamente la preghiera non si sostituisce all’azione volta a rendere presente il vangelo nel mondo mediante la testimonianza e l’impegno per reagire alla corruzione dilagante, tuttavia rappresenta senza dubbio l’atteggiamento fondamentale del credente il quale, ponendosi ogni momento di fronte al suo Signore, trova in Lui la luce e la forza per attuare nella storia il Suo progetto di salvezza.

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“Oggi inizia l’Avvento, il tempo liturgico che ci prepara al Natale, invitandoci ad alzare lo sguardo e ad aprire il cuore per accogliere Gesù. In Avvento non viviamo solo l’attesa del Natale; veniamo invitati anche a risvegliare l’attesa del ritorno glorioso di Cristo – quando alla fine dei tempi tornerà –, preparandoci all’incontro finale con Lui con scelte coerenti e coraggiose. Ricordiamo il Natale, aspettiamo il ritorno glorioso di Cristo, e anche il nostro incontro personale: il giorno nel quale il Signore chiamerà.
In queste quattro settimane siamo chiamati a uscire da un modo di vivere rassegnato e abitudinario, e ad uscire alimentando speranze, alimentando sogni per un futuro nuovo. Il Vangelo di questa domenica va proprio in tale direzione e ci mette in guardia dal lasciarci opprimere da uno stile di vita egocentrico o dai ritmi convulsi delle giornate. Risuonano particolarmente incisive le parole di Gesù: «State attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso all’improvviso. […] Vegliate in ogni momento pregando»
Stare svegli e pregare: ecco come vivere questo tempo da oggi fino a Natale. Stare svegli e pregare. Il sonno interiore nasce dal girare sempre attorno a noi stessi e dal restare bloccati nel chiuso della propria vita coi suoi problemi, le sue gioie e i suoi dolori, ma sempre girare intorno a noi stessi. E questo stanca, questo annoia, questo chiude alla speranza. Si trova qui la radice del torpore e della pigrizia di cui parla il Vangelo.
L’Avvento ci invita a un impegno di vigilanza guardando fuori da noi stessi, allargando la mente e il cuore per aprirci alle necessità della gente, dei fratelli, al desiderio di un mondo nuovo. È il desiderio di tanti popoli martoriati dalla fame, dall’ingiustizia, dalla guerra; è il desiderio dei poveri, dei deboli, degli abbandonati. Questo tempo è opportuno per aprire il nostro cuore, per farci domande concrete su come e per chi spendiamo la nostra vita.
Il secondo atteggiamento per vivere bene il tempo dell’attesa del Signore è quello della preghiera. «Risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina» , ammonisce il Vangelo di Luca. Si tratta di alzarsi e pregare, rivolgendo i nostri pensieri e il nostro cuore a Gesù che sta per venire. Ci si alza quando si attende qualcosa o qualcuno. Noi attendiamo Gesù, lo vogliamo attendere nella preghiera, che è strettamente legata alla vigilanza. Pregare, attendere Gesù, aprirsi agli altri, essere svegli, non chiusi in noi stessi. Ma se noi pensiamo al Natale in un clima di consumismo, di vedere cosa posso comprare per fare questo e quest’altro, di festa mondana, Gesù passerà e non lo troveremo. Noi attendiamo Gesù e lo vogliamo attendere nella preghiera, che è strettamente legata alla vigilanza.
Ma qual è l’orizzonte della nostra attesa orante? Ce lo indicano nella Bibbia soprattutto le voci dei profeti. Oggi è quella di Geremia, che parla al popolo duramente provato dall’esilio e che rischia di smarrire la propria identità. Anche noi cristiani, che pure siamo popolo di Dio, rischiamo di mondanizzarci e di perdere la nostra identità, anzi, di “paganizzare” lo stile cristiano. Perciò abbiamo bisogno della Parola di Dio che attraverso il profeta ci annuncia: «Ecco, verranno giorni nei quali io realizzerò le promesse di bene che ho fatto [...]. Farò germogliare per Davide un germoglio giusto, che eserciterà il giudizio e la giustizia sulla terra» (33,14-15). E quel germoglio giusto è Gesù, è Gesù che viene e che noi attendiamo. La Vergine Maria, che ci porta Gesù, donna dell’attesa e della preghiera, ci aiuti a rafforzare la nostra speranza nelle promesse del suo Figlio Gesù, per farci sperimentare che, attraverso il travaglio della storia, Dio resta sempre fedele e si serve anche degli errori umani per manifestare la sua misericordia.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 2 dicembre 2018

Venerdì, 26 Novembre 2021 16:36

SALUTI PADRE STANISLAO - POESIA

PoesiaPieraAPStanislao1

Grazie per il contributo di Piera

 

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Pro Memoria

L'umanità è una grande e  immensa famiglia ... Troviamo la dimostrazione di ciò da quello che ci sentiamo nei nostri cuori a Natale.
(Papa Giovanni XXIII)

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