Le letture liturgiche di questa domenica ci spingono alla lode di Dio, allo stupore per le Sue grandi opere, per la Sua fedeltà.
Nella prima lettura, il Profeta Isaia, annuncia la salvezza di Israele, il ritorno in patria dei deportati e la ricostruzione di Gerusalemme dopo la sua distruzione effettuata dalle armate babilonesi. La fine di una fase così difficile viene descritta da Isaia come una sorta di rivoluzione, di "capovolgimento" del mondo: chi è infermo guarisce, la siccità lascia il passo all'abbondanza dell'acqua. Finisce dunque l'ansia e la luce dell'amicizia di Dio riappare chiaramente.
Nella seconda lettura, l’Apostolo Giacomo afferma che la fede non deve essere condizionata da indebiti riguardi verso i ricchi o la freddezza verso i poveri, e sottolinea come bisogna insistere sulla pratica materiale e senza finzioni della carità, in quanto espressione concreta della nostra relazione con Cristo.
Nel Vangelo di Marco, il racconto è inquadrato nella cornice del cosiddetto “segreto messianico”. Gesù infatti porta in disparte dalla folla il sordomuto e guaritolo, gli comanda di non dire niente a nessuno. Più che un prodigio spettacolare Gesù vuole compiere un atto che trasformi soprattutto la coscienza: gli orecchi sordi nel linguaggio biblico sono spesso segno di cuore indifferente. Senza la parola efficace del Cristo l’uomo resta sordo al Vangelo! E’ per questo che nel sacramento del Battesimo si è introdotto il rito dell’Effata sul bambino che è stato appena battezzato perchè diventi colui che ascolta la parola di Dio e la comunica agli altri con le sue labbra e la sua vita.
Dal libro del profeta Isaia
Dite agli smarriti di cuore:
«Coraggio, non temete!
Ecco il vostro Dio,giunge la vendetta,
la ricompensa divina.Egli viene a salvarvi».
Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi.
Allora lo zoppo salterà come un cervo, griderà di gioia la lingua del muto, perché scaturiranno acque nel deserto, scorreranno torrenti nella steppa.
La terra bruciata diventerà una palude,il suolo riarso sorgenti d’acqua.
Is 35,4-7a
Il profeta Isaia ( Primo Isaia autore dei capitoli 1-39) iniziò la sua opera pubblica verso la fine del regno di Ozia, re di Giuda, attorno al 740 a.C, quando l'intera regione siro-palestinese era minacciata dall'espansionismo assiro. Isaia fu anche uno degli ispiratori della grande riforma religiosa avviata dal re Ezechia (715-687 a.C) che mise al bando le usanze idolatre e animiste che gli ebrei avevano adottato imitando i popoli vicini. Isaia si scagliò così contro i sacrifici umani (prevalentemente di bambini o ragazzi), i simboli sessuali, gli idoli di ogni forma e materiale. Altro bersaglio della riforma, e delle invettive di Isaia, furono le forme cultuali puramente esteriori, ridotte quasi a pratiche magiche. In particolare, condannò senza mezzi termini il digiuno, le elemosine, le ricche offerte, quando non sono seguite da una condotta di vita moralmente corretta, dal rispetto verso il prossimo, dal soccorso alla vedova e all'orfano, dall'onestà nell'esercizio di cariche pubbliche.
Questo brano fa parte della piccola apocalisse (c.34-35)) con cui Isaia celebra il rimpatrio dalla schiavitù babilonese per la ricostruzione di Gerusalemme dopo la sua distruzione effettuata dalle armate babilonesi. La deportazione in schiavitù fu un'esperienza terribile che il popolo d'Israele visse tra il 586 e il 538 a.C. e che determinò momenti di smarrimento gravissimo.
Il capitolo 35, da dove è tratto il brano liturgico, inizia con un invito rivolto da Dio, per bocca del profeta, al deserto: «Si rallegrino il deserto e la terra arida, esulti e fiorisca la steppa. Come fiore di narciso fiorisca; sì, canti con gioia e con giubilo” L’esultanza del deserto si manifesta attraverso la nascita improvvisa di fiori insoliti in quella regione. Il deserto di cui si parla è quello che separa la Mesopotamia dalla Palestina: attraverso di esso gli esuli ritornarono nella loro terra.
Il brano liturgico inizia con un altro invito del Signore “agli smarriti di cuore: «Coraggio, non temete! Ecco il vostro Dio, giunge la vendetta,la ricompensa divina. Egli viene a salvarvi».” Il messaggio chiaramente è rivolto agli esuli che si sono messi in cammino. Essi sono ancora infiacchiti dal lungo periodo di esilio, non hanno fiducia in se stessi, e soprattutto non hanno la sicurezza di poter riuscire nella loro impresa.
Vengono perciò incoraggiati con la promessa della presenza del Signore che li guida come aveva fatto un tempo con gli israeliti durante l’esodo dall’Egitto.
Egli porta con sé oltre alla salvezza, riservata al Suo popolo, anche il castigo per i loro nemici che sono anche i Suoi nemici. La ricompensa divina non consiste in un premio guadagnato con le proprie opere buone, ma nella salvezza donata gratuitamente da Dio al Suo popolo.
Alla venuta del Signore corrisponde la guarigione di persone afflitte da diverse infermità: “Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi. Allora lo zoppo salterà come un cervo, griderà di gioia la lingua del muto”
Gli esuli che si mettono in cammino sono paragonati a persone afflitte da mali che impediscono loro la possibilità stessa di fare un lungo cammino a piedi. Nonostante la loro inabilità, essi si mettono in cammino senza difficoltà per raggiungere la meta.
“scaturiranno acque nel deserto, scorreranno torrenti nella steppa. La terra bruciata diventerà una palude,il suolo riarso sorgenti d’acqua”. L’immagine del deserto che rifiorisce al passaggio degli esuli dà l’idea di un rinnovamento che, partendo dal cuore umano, si estende a tutto il creato.
Si può notare che Isaia inserisce nel suo racconto una doppia fila di immagini antitetiche: da una parte si incontrano simboli della natura: l’aridità del deserto, la steppa riarsa, la terra bruciata, si oppongono le acque, i torrenti, le paludi, le sorgenti zampillanti. Dall’altra prendono vita immagini corporali: al fisico malato dei ciechi, dei sordi, degli zoppi, dei muti si oppone il corpo risanato dotato di occhi con ottima vista, di orecchi sensibilissimi, di gambe saltellanti come quelle di un cervo, di labbra che esplodono in canti di gioia.
Il Nuovo Testamento farà sue queste espressioni per indicare in Gesù-Messia il vero realizzatore della salvezza.
Salmo 145 Loda il Signore, anima mia.
Il Signore rimane fedele per sempre
rende giustizia agli oppressi,
dà il pane agli affamati.
Il Signore libera i prigionieri.
Il Signore ridona la vista ai ciechi,
il Signore rialza chi è caduto,
il Signore ama i giusti,
il Signore protegge i forestieri.
Egli sostiene l’orfano e la vedova,
ma sconvolge le vie dei malvagi.
Il Signore regna per sempre,
il tuo Dio, o Sion, di generazione in generazione.
Il salmo è stato composto nel tardo postesilio come rivela la sua lingua aramaicizzante. Esso fa pensare a un tempo di pace, di normalità, quale si ebbe verso la fine dell'epoca persiana quando Giuda divenne uno stato teocratico autonomo con propria moneta fino alla persecuzione di Antioco IV Epifane (2Mac 4,1s).
Il salmista al proposito personale e di testimonianza di lodare il Signore per tutta la vita, fa seguire un'ammonizione basilare: “Non confidate nei potenti, in un uomo che non può salvare”. I potenti, che amano circondarsi di un alone di gloria, non sono dei semidei, sono uomini che come tutti moriranno: “Esala lo spirito e ritorna alla terra: in quel giorno svaniscono tutti i suoi disegni”. Il salmista tuttavia non fa accenno ai guai, alle rovine a cui si espone chi confida nell'uomo, ma, in positivo, dice che è beato, “chi ha per aiuto il Dio di Giacobbe”, cioè il Dio dei padri, il Dio delle promesse e dell'alleanza, riconoscendolo l'unico Dio, onnipotente creatore: “che ha fatto il cielo e la terra, il mare e quanto contiene".
“Egli è fedele per sempre”, mai manca alla sua parola, e il suo governo è giustizia e bontà: “Rende giustizia agli oppressi, dà il pane agli affamati”.
Poi il salmista con ritmo incalzante presenta a tutti cinque motivi di confidenza in Dio.
“Libera i prigionieri”; intendendo ciò in senso largo: deportati, carcerati ingiustamente, irretiti in trame di calunnia.
“Ridona la vista ai ciechi”, dove il cieco è colui che ha smarrito la via della verità (Dt 28,29; Gb 12,25; Is 29,18; 35,5).
“Rialza chi è caduto”, cioè chi è caduto nel peccato.
“Ama i giusti”, cioè li guida nel giusto cammino e protegge nei loro passi.
“Protegge i forestieri, egli sostiene l'orfano e la vedova”, cioè tre categorie di persone deboli, con scarsi punti di riferimento.
Poi una severa osservazione: “Ma sconvolge le vie dei malvagi”.
Dio è re, “regna per sempre”. Nessuno lo può contrastare, limitare il suo potere sovrano, nessuno può sperare di vincerlo; e il suo regnare è segnato dalla giustizia, dalla bontà e dalla misericordia.
“Il tuo Dio, o Sion, di generazione in generazione”; Dio che ha fatto alleanza con Sion. Ma l'alleanza è diventata nuova in Cristo; Sion ha rifiutato la nuova ed eterna alleanza, ma Cristo non rinuncia al popolo di Sion, ora tronco morto dell'unico popolo di Dio, il cui tronco vivo è la Chiesa, ma un giorno il tronco morto diventerà vivo, accogliendo Cristo e facendo parte della Chiesa (Rm 11,25).
Commento tratto da Perfetta Letizia
Dalla lettera di S.Giacomo apostolo
Fratelli miei, la vostra fede nel Signore nostro Gesù Cristo, Signore della gloria, sia immune da favoritismi personali. Supponiamo che, in una delle vostre riunioni, entri qualcuno con un anello d’oro al dito, vestito lussuosamente, ed entri anche un povero con un vestito logoro.
Se guardate colui che è vestito lussuosamente e gli dite: «Tu siediti qui, comodamente», e al povero dite: «Tu mettiti là, in piedi», oppure: «Siediti qui ai piedi del mio sgabello», non fate forse discriminazioni e non siete giudici dai giudizi perversi?
Ascoltate, fratelli miei carissimi: Dio non ha forse scelto i poveri agli occhi del mondo, che sono ricchi nella fede ed eredi del Regno, promesso a quelli che lo amano?
Gc 2,1-5
L'Apostolo Giacomo in questo brano della sua lettera ci dice chiaramente quali scelte dobbiamo fare nella nostra vita personale e sociale e quale strada intraprendere per essere dalla parte di Cristo e fare davvero nostro il Suo messaggio di amore, giustizia, uguaglianza e fratellanza universale.
Il brano inizia con l’esortazione: “Fratelli miei, la vostra fede nel Signore nostro Gesù Cristo, Signore della gloria, sia immune da favoritismi personali”
La fede in Cristo non può essere contaminata dal pensare secondo gli uomini, che si accerchiano di persone che li appoggiano e dalle quali sperano benefici, mentre escludono altre che hanno il torto di non volere essere compiacenti e che seguono Cristo.
Il favoritismo è sempre stato, anche allora, un male per le comunità, e Giacomo lo presenta in tutta la sua gravità, dopo averlo già trattato all’inizio della sua lettera (1,9-10). Non è giusto anche che i cristiani inseguano i ricchi e si facciano loro servi compiacenti per averne qualche utile. Come è biasimevole l’azione dei cristiani che con favoritismi costituiscono gruppi per condizionare dall’interno le comunità.
L’apostolo passa poi a fare un esempio concreto descrivendo il comportamento, purtroppo sempre attuale anche nei nostri giorni,:“Supponiamo che, in una delle vostre riunioni, entri qualcuno con un anello d’oro al dito, vestito lussuosamente, ed entri anche un povero con un vestito logoro. Se guardate colui che è vestito lussuosamente e gli dite: «Tu siediti qui, comodamente», e al povero dite: «Tu mettiti là, in piedi», oppure: «Siediti qui ai piedi del mio sgabello», non fate forse discriminazioni e non siete giudici dai giudizi perversi?”
Giacomo presenta veramente un esempio di favoritismo penoso perché avviene proprio dentro ad un’assemblea eucaristica.
Poi l’apostolo passa alle raccomandazioni: “Ascoltate, fratelli miei carissimi: Dio non ha forse scelto i poveri agli occhi del mondo, che sono ricchi nella fede ed eredi del Regno, promesso a quelli che lo amano?
La scelta di Dio dei poveri Paolo la espresse così :“Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti,Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono”. (1Cor 1,27-28). Anche nel Magnificat troviamo espresse parole analoghe.
Dalla sete del denaro e del potere nascono gli inganni, le invidie, le liti, le oppressioni, le corruzioni, le divisioni, le guerre. Giacomo prende di petto l’eresia di fondo, quella che promuove e fa da supporto a tutte le eresie: il desiderio affannoso del potere.
Giacomo non si fa portatore di un quadro sociale dove tutto sia livellato, ma vuole che chi ha di più, per varie ragioni, non sia chiuso nella superbia, ma sia umile e caritatevole. D’altro canto il povero non deve avere anche lui la bramosia delle ricchezze e di conseguenza odiare il ricco perché le possiede.
Il rinnovamento del modo di pensare dell’uomo passa tutto attraverso l’adesione autentica a Cristo.
Nota: Sappiamo che nella dottrina sociale della Chiesa non si ha affatto il rifiuto del capitale, poiché esso è una forza con la quale si possono creare posti di lavoro; quello che fa scandalo è l’uso egoistico delle ricchezze possedute.
Dal Vangelo secondo Marco
In quel tempo, Gesù, uscito dalla regione di Tiro, passando per Sidòne, venne verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli.
Gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano. Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: «Effatà», cioè: «Apriti!». E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente.
E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano e, pieni di stupore, dicevano: «Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!».
Mc 7,31-37
Questo brano del vangelo di Marco appartiene alla terza parte riguardante i viaggi di Gesù fuori dalla Galilea. Questo episodio è riportato subito dopo la guarigione della figlia di una donna siro-fenicia (7,24-30), nella quale l’evangelista ha visto un’anticipazione del dono della salvezza ai pagani, e prima della moltiplicazione dei pani per una folla sempre di pagani (8,1-8).
L’evangelista inizia il suo racconto con una indicazione di luogo: “Gesù, uscito dalla regione di Tiro, passando per Sidòne, venne verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli.Gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano”.
Gesù aveva lasciato la zona di Tiro, città della Fenicia, dove aveva guarito la figlia della donna sirofenicia, passa per Sidone e si dirige verso il mare di Galilea, ma invece di fermarsi in questa regione, si reca nella zona orientale Decapoli, (l'odierna Giordania), abitata anch’essa da popolazioni non giudaiche. La collocazione geografica del miracolo che sta per narrare, non è molto importante, ciò che interessa Marco è evidenziare il destinatario: anche lui, come la sirofenicia, è un pagano. A parte questa indicazione implicita e la malattia da cui è afflitto, non si conoscono altri particolari del sordomuto e di coloro che lo portarono da Gesù; l’imposizione delle mani, che essi gli chiedono, era il gesto solito con cui si invocava la benedizione divina su una persona, e già altre volte era stato richiesto a Gesù o usato da lui e dai suoi discepoli per compiere un’azione straordinaria.
A questa richiesta Gesù risponde più con i gesti che con le parole:”Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: «Effatà», cioè: «Apriti!».”
Gesù non si sottrae alla richiesta di coloro che accompagnano l’uomo e neppure solleva obiezioni, come aveva fatto poco prima con la donna sirofenicia, ma il fatto di compiere il miracolo in disparte indica una certa riservatezza, dovuta certamente al fatto che si trova in territorio non abitato da giudei. E’ questa forse anche la causa per cui Egli, per la prima volta, fa ricorso a gesti inusuali come il toccare gli orecchi con le dita e mettere la saliva sulla lingua, che sono simili a quelli usati dai guaritori dell’epoca. Il guardare verso il cielo sta però ad attestare che Egli attribuisce non a questi gesti, ma a Dio, l’opera miracolosa.
I gesti di Gesù hanno un effetto immediato:”E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente. E comandò loro di non dirlo a nessuno”.
Il comando che fa seguito alla guarigione fa parte del segreto messianico perché non è chiaro a chi sia stato dato questo ordine, dal momento che Gesù si trovava solo con l’interessato. E’ evidente però che Gesù vuole impedire che venga a saperlo la folla, che certamente è composta di pagani, i quali ancora più dei giudei potrebbero non comprendere ciò che Lui ha fatto.
L’evangelista però osserva: “Ma più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano ed evidenzia anche che i presenti, “pieni di stupore” commentano l’accaduto con queste parole: “Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti”.
La guarigione del sordomuto, al di fuori dei territori abitati tradizionalmente dai giudei, mostra nuovamente che la salvezza ha ormai raggiunto i pagani. Tra di essi Gesù non svolge un’attività di predicazione, ma si limita a fare alcuni segni mediante i quali dimostra che la salvezza è disponibile anche a loro.
Dall’atteggiamento di coloro che vengono a contatto con Lui appare che, diversamente dai giudei, essi sono disposti ad accogliere positivamente il dono di Dio, imparando ad ascoltare la Sua parola e a pregarlo con spirito di figli. Anzi essi stessi si fanno persino missionari del Suo vangelo.
Si apre così una nuova epoca nella storia dell’umanità, nella quale cade la barriera tra giudei e pagani, e con essa tutte le barriere di razza, lingua e religione, e le persone cominciano a capirsi e a condividere. È questo il segno più eclatante che il regno di Dio è vicino.
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“Il Vangelo di questa domenica riferisce l’episodio della guarigione miracolosa di un sordomuto, operata da Gesù.
Gli portarono un sordomuto, pregandolo di imporgli la mano. Egli, invece, compie su di lui diversi gesti: prima di tutto lo condusse in disparte lontano dalla folla. In questa occasione, come in altre, Gesù agisce sempre con discrezione. Non vuole fare colpo sulla gente, Lui non è alla ricerca della popolarità o del successo, ma desidera soltanto fare del bene alle persone. Con questo atteggiamento, Egli ci insegna che il bene va compiuto senza clamori, senza ostentazione, senza “far suonare la tromba”. Va compiuto in silenzio.
Quando si trovò in disparte, Gesù mise le dita nelle orecchie del sordomuto e con la saliva gli toccò la lingua. Questo gesto rimanda all’Incarnazione. Il Figlio di Dio è un uomo inserito nella realtà umana: si è fatto uomo, pertanto può comprendere la condizione penosa di un altro uomo e interviene con un gesto nel quale è coinvolta la propria umanità. Al tempo stesso, Gesù vuol far capire che il miracolo avviene a motivo della sua unione con il Padre: per questo, alzò lo sguardo al cielo. Poi emise un sospiro e pronunciò la parola risolutiva: «Effatà», che significa “Apriti”. E subito l’uomo venne sanato: gli si aprirono gli orecchi, gli si sciolse la lingua. La guarigione fu per lui un’«apertura» agli altri e al mondo.
Questo racconto del Vangelo sottolinea l’esigenza di una duplice guarigione. Innanzitutto la guarigione dalla malattia e dalla sofferenza fisica, per restituire la salute del corpo; anche se questa finalità non è completamente raggiungibile nell’orizzonte terreno, nonostante tanti sforzi della scienza e della medicina. Ma c’è una seconda guarigione, forse più difficile, ed è la guarigione dalla paura. La guarigione dalla paura che ci spinge ad emarginare l’ammalato, ad emarginare il sofferente, il disabile. E ci sono molti modi di emarginare, anche con una pseudo pietà o con la rimozione del problema; si resta sordi e muti di fronte ai dolori delle persone segnate da malattie, angosce e difficoltà. Troppe volte l’ammalato e il sofferente diventano un problema, mentre dovrebbero essere occasione per manifestare la sollecitudine e la solidarietà di una società nei confronti dei più deboli.
Gesù ci ha svelato il segreto di un miracolo che possiamo ripetere anche noi, diventando protagonisti dell’«Effatà», di quella parola “Apriti” con la quale Egli ha ridato la parola e l’udito al sordomuto. Si tratta di aprirci alle necessità dei nostri fratelli sofferenti e bisognosi di aiuto, rifuggendo l’egoismo e la chiusura del cuore. È proprio il cuore, cioè il nucleo profondo della persona, che Gesù è venuto ad «aprire», a liberare, per renderci capaci di vivere pienamente la relazione con Dio e con gli altri. Egli si è fatto uomo perché l’uomo, reso interiormente sordo e muto dal peccato, possa ascoltare la voce di Dio, la voce dell’Amore che parla al suo cuore, e così impari a parlare a sua volta il linguaggio dell’amore, traducendolo in gesti di generosità e di donazione di sé.
Maria, Colei che si è totalmente «aperta» all’amore del Signore, ci ottenga di sperimentare ogni giorno, nella fede, il miracolo dell’«Effatà», per vivere in comunione con Dio e con i fratelli.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 9 settembre 2018
1. Domenica prossima, 5 settembre – va in vigore il seguente orario delle Ss. messe domenicali - ore 8,30 - 10,00 - 11,30 - 18,30.
2. Lunedì 30 agosto - va in vigore il seguente orario delle Ss. messe feriali - ore 9,00 - 18,30.
3. Mercoledì 1 settembre si celebra la 16° Giornata Nazionale per la Custodia del Creato. Per la prossima Giornata Nazionale per la Custodia del Creato, la richiesta dei vescovi italiani è che si avvii un processo che salvaguardi la terra e i poveri. L’invito è adottare un modello di sviluppo incentrato sulla fraternità tra i popoli.
“Occorre contrastare, presto ed efficacemente, quel degrado socio-ambientale che si intreccia con i drammatici fenomeni pandemici di questi anni” E’ forte e urgente l’indicazione che arriva dai vescovi italiani, contenuta nel messaggio per la 16° Giornata Nazionale per la Custodia del Creato, che si svolgerà il 1° settembre prossimo, il tema: “Il pianeta che speriamo. Ambiente, lavoro e futuro”.
4. Quest'anno, il 19 settembre, si celebra il 175° anniversario dell'apparizione della Madonna a La Salette. Come di tradizione nella nostra parrocchia celebreremo la festa patronale la prima domenica di ottobre. Preghiamo la Madonna de La Salette in questo tempo per ricevere la sua protezione.
5. ln questa settimana si celebra il primo giovedì, venerdì e sabato del mese.
Le letture liturgiche di questa domenica si presentano come un felice tentativo di coniugare – secondo una giusta scala di valori – legge e cuore, culto ed esistenza: Antico Testamento e il Vangelo si illuminano a vicenda e ci fanno crescere nella fede.
Nella prima lettura, tratta dal Libro del Deuteronomio, Mosè presenta al popolo la Torah, cioè le leggi che Dio gli aveva dato e dice che si dovevano osservare senza aggiungere o togliere nulla. La Torah, è presentata non come un castello di aride prescrizioni, ma come espressione dell’incontro tra la volontà del Dio “vicino” e l’adesione gioiosa della libera volontà dell’uomo. La religione non si vive guardando al passato, alle tradizioni, ma al presente, illuminato dalla fede nella presenza di Dio.
Nella seconda lettura, l’apostolo Giacomo ci dice che la parola di Dio ha bisogno di evangelizzatori e di testimoni e ci esorta ad essere tra “quelli che mettono in pratica la Parola, e non ascoltatori soltanto”. La parola dunque non va solo ascoltata, ma anche vissuta e fatta conoscere a tutti.
Nel Vangelo di Marco, Gesù rimprovera i suoi ascoltatori di onorare Dio con le labbra, ma non con il cuore, e denuncia i limiti e gli errori del ritualismo fine a se stesso, ed enuncia in una specie di decalogo i veri peccati di cui l’uomo si macchia e che sono cosa ben più grave che la mancata osservanza di taluni precetti cultuali.
Dal Libro del Deuteronomio
Mosè parlò al popolo dicendo: «Ora, Israele, ascolta le leggi e le norme che io vi insegno, affinché le mettiate in pratica, perché viviate ed entriate in possesso della terra che il Signore, Dio dei vostri padri, sta per darvi. Non aggiungerete nulla a ciò che io vi comando e non ne toglierete nulla; ma osserverete i comandi del Signore, vostro Dio, che io vi prescrivo.
Le osserverete dunque, e le metterete in pratica, perché quella sarà la vostra saggezza e la vostra intelligenza agli occhi dei popoli, i quali, udendo parlare di tutte queste leggi, diranno: “Questa grande nazione è il solo popolo saggio e intelligente”. Infatti quale grande nazione ha gli dèi così vicini a sé, come il Signore, nostro Dio, è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo? E quale grande nazione ha leggi e norme giuste come è tutta questa legislazione che io oggi vi do?».
Dt 4,1-2,6-8
Il Deuteronomio è il quinto libro della Torah ebraica e della Bibbia cristiana. È stato scritto in ebraico intorno al VI-V secolo a.C. in Giudea, secondo l'ipotesi condivisa da molti studiosi. È composto da 34 capitoli descriventi la storia degli Ebrei durante il loro soggiorno nel deserto del Sinai (circa 1200 a.C.) e contiene varie leggi religiose e sociali.
Dopo la Prima Legge, data da Dio sul Sinai, il Deuteronomio (Deuteros nomos) si presenta come la "Seconda Legge” la nuova Legge che Mosè consegna al popolo poco prima di morire. Questi nuovi precetti sono orientati a regolare la vita stabile, sedentaria, che di lì a poco il popolo d'Israele avrebbe iniziato all'arrivo alla Terra Promessa. Ciononostante, queste leggi sono stilate con grande affetto, animando il compimento della Legge con motivi teologici.
Il Deuteronomio ci consente di comprendere che cos’è il popolo di Dio, di cogliere quanto l’Alleanza che unisce a Dio, comporta insieme di ricchezza e di esigenza: essa è un dono gratuito e appello pressante che bisogna vivere nelle realtà concrete.
Il Deuteronomio richiama continuamente il credente a quelli che sono gli atteggiamenti fondamentali: una fede che si fa sempre più profonda, un amore di Dio che esclude ogni compromesso, un servizio di Dio prestato con gioia, e una accettazione reale ed fiduciosa delle realtà terrestri.
In questo brano Mosè dopo aver fatto un riassunto del lungo viaggio, riassume nel suo discorso di commiato le leggi ricevute da Dio:
“Ora, Israele, ascolta le leggi e le norme che io vi insegno, affinché le mettiate in pratica, perché viviate ed entriate in possesso della terra che il Signore, Dio dei vostri padri, sta per darvi. Non aggiungerete nulla a ciò che io vi comando e non ne toglierete nulla; ma osserverete i comandi del Signore, vostro Dio, che io vi prescrivo…”
Per dare maggior potenza ai suoi discorsi Mosè aumenta anche l’importanza del legame diretto che si è costituito tra Dio ed Israele affermando ancora: “Questa grande nazione è il solo popolo saggio e intelligente”. Infatti quale grande nazione ha gli dèi così vicini a sé, come il Signore, nostro Dio, è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo?”
Mosè sa bene quello che dice e non dimentica l’origine vera della sua sapienza legislativa. Per questo intende rafforzare il concetto di origine divina delle leggi che egli ha promulgato e fatto rispettare e ravviva alla sua gente la memoria della loro origine divina perché la conservino nel cuore e la trasmettano.
Proprio questa memoria della presenza di Dio obbliga il popolo ad assumere uno stile di vita differente da quello degli altri popoli e a presentarsi davanti a questi come un popolo legato in modo del tutto speciale al proprio Dio. Questo brano in particolare testimonia l’orgoglio che Israele sentiva per la Torah, la sua legge, e la convinzione che essa superava in saggezza tutte le altre. La Torah, qui è presentata non come un castello di aride prescrizioni, ma come una espressione dell’incontro con la volontà del Dio vicino e l’adesione gioiosa della libera volontà dell’uomo.
Osservando liberamente questa parola con la mente e il cuore, il credente può scoprire la presenza del Dio Salvatore. Il Signore, infatti, non è tanto da cercare in cieli lontani, ma nella legge che Egli ha offerto al Suo popolo.
Salmo 14 Chi teme il Signore abiterà nella sua tenda.
Colui che cammina senza colpa,
pratica la giustizia
e dice la verità che ha nel cuore,
non sparge calunnie con la sua lingua.
Non fa danno al suo prossimo
e non lancia insulti al suo vicino.
Ai suoi occhi è spregevole il malvagio,
ma onora chi teme il Signore.
Non presta il suo denaro a usura
e non accetta doni contro l’innocente.
Colui che agisce in questo modo
resterà saldo per sempre.
Il salmista considera le condizioni necessarie per abitare nella tenda del Signore, e dimorare sul suo santo monte.
Ne risulta una preghiera piena di propositi e di sentita, seppur implicita, invocazione per poterli attuare e mantenere.
La tenda del Signore sul santo monte è il tempio, dove nel “santo dei santi” c’era l’arca dell’alleanza con la presenza tra i cherubini della gloria di Jahwéh.
Questo salmo noi lo recitiamo guardando alla reale presenza di Cristo nell’Eucaristia. Per dimorare col cuore nella tenda, cioè rimanere nel raggio dell’Eucaristia, è necessaria una vita secondo il Vangelo. L’espressione “Ai suoi occhi è spregevole il malvagio”, va spogliata della tentazione del disprezzo. E’ solo un non vedere il malvagio come un modello da imitare. Noi dobbiamo separare il peccato dal peccatore, per non cadere nell’errore di giudicare e condannare, benché egli sia ben riconoscibile quale peccatore (Mt 7,20): “Dai loro frutti dunque li riconoscerete”. Onorare chi teme il Signore è, per viceversa, stimarne l’esempio, imitarne il comportamento; è un rispetto profondo poiché Dio è presente - inabitazione - nel cuore del giusto.
Chi agisce con rettitudine rimane nel raggio dell’Eucaristia e da essa trae la forza per rimanervi con sempre maggiore intensità d’amore. Egli “resterà saldo per sempre”.
Commento tratto da Perfetta Letizia
Dalla lettera di S. Giacomo apostolo
Fratelli miei carissimi, ogni buon regalo e ogni dono perfetto vengono dall’alto e discendono dal Padre, creatore della luce: presso di lui non c’è variazione né ombra di cambiamento. Per sua volontà egli ci ha generati per mezzo della parola di verità, per essere una primizia delle sue creature.
Accogliete con docilità la Parola che è stata piantata in voi e può portarvi alla salvezza. Siate di quelli che mettono in pratica la Parola, e non ascoltatori soltanto, illudendo voi stessi.
Religione pura e senza macchia davanti a Dio Padre è questa: visitare gli orfani e le vedove nelle sofferenze e non lasciarsi contaminare da questo mondo.
Gc 1,17-18, 21b-22, 27
L’ autore di questa lettera, è l'apostolo Giacomo figlio di Alfeo, cioè Giacomo il Minore, che ebbe un posto di primo piano nella comunità madre di Gerusalemme. Paolo lo cita tra i testimoni della resurrezione (1Cor 15,7), Pietro uscendo di prigione si preoccupa di annunciargli subito la sua liberazione (At 12,17) e all’indomani della sua conversione Paolo prende contatto con lui (Gal 1,18-19). Giacomo prese parte nel 49 al Concilio di Gerusalemme in maniera determinante: quest’uomo di mentalità giudaica diede prova di conciliazione e di accoglienza nei riguardi dei convertiti provenienti dal paganesimo (At 15,13-29).
Fino alla dispersione iniziale degli apostoli degli anni 36-37, Giacomo sembra riscoprire la responsabilità della Chiesa madre; gli anziani si riunivano presso di lui, e sarà sempre lui ad accogliere Paolo che reca la colletta delle Chiese (At 21,18-26) poco prima del suo arresto nel tempio (Pentecoste 58).
Secondo lo storico Eusebio di Cesarea, Giacomo venne ucciso nell’anno 63 durante una sollevazione popolare istigata dal sommo sacerdote Hanan, che per quel delitto sarà poi destituito .
La lettera è indirizzata alle dodici tribù della diaspora, è scritta in greco, il che significa che si rivolge a comunità cristiane viventi fuori della Palestina, e la terra fuori della Palestina, per gli Ebrei, è diaspora. Il giudaismo, come confederazione delle dodici tribù aveva già cessato di esistere dal 722 a.C. , quindi la restaurazione di Israele in confederazioni di dodici tribù sarà compito escatologico del Messia (Os 9,9; Ger 3,18; Ez 37,19.24; ecc.). Questa speranza Giacomo la vede già compiuta nella comunità cristiana: essa è per lui il popolo delle dodici tribù, l’Israele definitivo.
La lettera nel suo complesso è piuttosto breve (cinque capitoli per un totale di quasi cento versetti), ma il suo contenuto è notevole per la sua attenzione verso i deboli, gli afflitti, il suo senso della povertà e la sua diffidenza per la ricchezza, la sua viva denuncia dell’ingiustizia sociale, i suoi avvertimenti agli operatori commerciali.
E’ difficile suddividere la lettera di Giacomo in sezioni, il brano che abbiamo si apre con i versetti con cui si conclude il primo capitolo: “ogni buon regalo e ogni dono perfetto vengono dall’alto e discendono dal Padre, creatore della luce: presso di lui non c’è variazione né ombra di cambiamento”, vale a dire: Dio è la fonte di ogni bene e in Lui non c’è il male. Con questa considerazione, Giacomo chiude la sua ampia riflessione sul tema della prova e introduce il tema della seconda parte del primo capitolo: “Per sua volontà egli ci ha generati per mezzo della parola di verità, per essere una primizia delle sue creature”, cioè siamo stati rigenerati dalla Parola, che proviene da Dio, deponiamo dunque il nostro modo di operare secondo le logiche umane per rivestirci della Parola stessa.
Al termine del brano troviamo la sua esortazione: “Accogliete con docilità la Parola che è stata piantata in voi e può portarvi alla salvezza. Siate di quelli che mettono in pratica la Parola, e non ascoltatori soltanto, illudendo voi stessi…
Non manca poi di toccare il tema delle persone più deboli “Religione pura e senza macchia davanti a Dio Padre è questa: visitare gli orfani e le vedove nelle sofferenze e non lasciarsi contaminare da questo mondo”.
A quei tempi gli orfani e le vedove erano le persone più deboli. Oggi non è certamente difficile trovare persone che hanno bisogno di tutto, ma soprattutto hanno bisogno di essere ascoltate, di essere considerate uguali a noi, di essere almeno considerate persone. La religiosità che ciascuno ha nei confronti del Signore aiuta l'uomo ad aprire il proprio cuore e sentire che Dio, se vogliamo veramente incontrarlo e vederlo, lo troviamo soltanto nel fratello bisognoso, forse solo di un sorriso, ma anche di solidarietà, misericordia, di carità vera cioè di condivisione di ciò che si possiede..
Quando, dopo aver ascoltato la Parola, non sentiamo dentro di noi il desiderio di incontrare i fratelli forse abbiamo bisogno di un sincero e profondo esame di coscienza, per capire dove ci siamo fermati nel cammino verso la meta della nostra vita cristiana
Dal vangelo secondo Marco
In quel tempo, si riunirono attorno a Gesù i farisei e alcuni degli scribi, venuti da Gerusalemme. Avendo visto che alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con mani impure, cioè non lavate – i farisei infatti e tutti i Giudei non mangiano se non si sono lavati accuratamente le mani, attenendosi alla tradizione degli antichi e, tornando dal mercato, non mangiano senza aver fatto le abluzioni, e osservano molte altre cose per tradizione, come lavature di bicchieri, di stoviglie, di oggetti di rame e di letti –, quei farisei e scribi lo interrogarono: «Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani impure?».
Ed egli rispose loro: «Bene ha profetato Isaìa di voi, ipocriti, come sta scritto:
“Questo popolo mi onora con le labbra,
ma il suo cuore è lontano da me.
Invano mi rendono culto,
insegnando dottrine che sono precetti di uomini”.
Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini».
Chiamata di nuovo la folla, diceva loro: «Ascoltatemi tutti e comprendete bene! Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro».
E diceva [ai suoi discepoli]: «Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dall’interno e rendono impuro l’uomo».
Mc 7, 1-8. 14-15. 21-23
La liturgia di questa domenica ci ripropone il discorso della sequela del Cristo. Il Vangelo di Marco, di cui oggi si riprende la lettura dopo aver letto nelle domeniche precedenti il lungo discorso di Giovanni sul "pane di vita", è quello che maggiormente ci guida a seguire il Cristo attraverso la sua Parola.
In questo brano, tratto dal capitolo 7, (’ultimo episodio che precede i viaggi di Gesù fuori dalla Galilea), troviamo una raccolta di detti pronunciati da Gesù circa il significato che rivestono le pratiche giudaiche nel contesto del regno da Lui annunziato.
Il brano inizia riportando che “si riunirono attorno a Gesù i farisei e alcuni degli scribi, venuti da Gerusalemme. Avendo visto che alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con mani impure, cioè non lavate….” per l’evangelista è importante sottolineare che Gesù deve prendere posizione proprio per questo fatto dato che “tutti i Giudei non mangiano se non si sono lavati accuratamente le mani, attenendosi alla tradizione degli antichi e, tornando dal mercato, non mangiano senza aver fatto le abluzioni, e osservano molte altre cose per tradizione, come lavature di bicchieri, di stoviglie, di oggetti di rame” In verità la Torah, la Legge, rivolgeva il comando dell’abluzione rituale delle mani solo ai sacerdoti che al tempio facevano l’offerta, il sacrificio (cf. Es 30,17-21). Ma al tempo di Gesù vi erano movimenti che radicalizzavano la Torah e moltiplicavano le prescrizioni della Legge, con una particolare ossessione per il tema della purità. Tra questi vi erano gli chaverim (compagni, amici) e i perushim (separati, farisei), i quali consideravano molto importante la prassi del lavarsi le mani e di altre abluzioni in vista della purità, che poteva essere infranta a causa di contatti con persone o realtà impure.
I farisei e gli scribi dunque chiedono a Gesù: “Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani impure?”Gesù lasciava liberi i suoi discepoli da queste osservanze che non erano state richieste da Dio, ma imposte dagli interpreti delle sante Scritture, i quali le dichiaravano “la tradizione”, attribuendole la stessa autorità riservata alla parola di Dio. Gesù faceva un’attenta operazione di discernimento, distinguendo bene ciò che era espressione della volontà di Dio e ciò che invece era consuetudine umana, norma formata dagli uomini religiosi che, assolutizzata, diventa un ostacolo alla stessa parola di Dio e una perversione della sua immagine.
Per tutta risposta Gesù accusa i suoi interlocutori di ipocrisia, applicando loro un brano di Isaia: “Bene ha profetato Isaìa di voi, ipocriti, come sta scritto: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini”.
Nel brano di Isaia citato (29,13) Gesù conferma l’ammonizione rivolta dal profeta al popolo di Gerusalemme e denuncia l’ipocrisia della distanza tra labbra che aderiscono a Dio e cuore che invece ne resta lontano e commenta le parole del profeta osservando: “Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini”.
Con queste parole Egli riduce le prescrizioni rituali a semplici precetti umani, opponendo loro la volontà di Dio, che si identifica con un unico comandamento.
Poi Gesù riprende il discorso e, nei versetti non riportati nel brano, accusa gli scribi e i farisei di essere veramente abili nel rifiutare il comandamento di Dio per osservare la loro tradizione e, per sottolineare la loro ipocrisia, mostra poi come essi siano abili nell’aggirare questo comandamento.
Poi riprendendo il discorso sui cibi impuri, Gesù chiama nuovamente la folla e dice: “Ascoltatemi tutti e comprendete bene! Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro”. Parole brevi e lapidarie. Non c’è niente che possa rendere impuro il discepolo tra le realtà che sono fuori del suo corpo: né il cibo, né il contatto, né le relazioni. Ciò che invece rende impuro l’uomo viene dal suo interno e si manifesta nel suo comportamento.
Queste parole non sono facilmente comprensibili, tanto che più tardi , lontano dalla folla, i discepoli interrogano Gesù sul significato di ciò che aveva detto ed Egli risponde: Siete anche voi così privi di intelletto? Non capite che tutto ciò che entra nell’uomo dal di fuori non può contaminarlo, “Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dall’interno e rendono impuro l’uomo.”
Ponendosi sulla linea del messaggio profetico, Gesù sottolinea che nel rapporto con Dio non conta la purezza esteriore, ma solo quella che deriva dall’obbedienza profonda e sincera alla Sua volontà.
Per concludere si può dire che ciò che tiene lontano da Dio le persone buone sono le tradizioni religiose staccate dall'amore, che è la loro sorgente. L'uomo è sempre tradizionalista e abitudinario, ma il vero cristiano sa rompere con il passato perché vive una novità inaudita: la memoria del corpo e del sangue del suo Signore consegnato a lui nel pane. Questo mistero di amore è la "sua" tradizione, che ha ricevuto e, a sua volta, trasmette (1Cor 11,23ss).
Il discepolo mangia questo pane e ne vive, e fonda la sua vita non sulla propria osservanza della legge, ma sulla grazia di Dio.
Il principio del bene e del male è il nostro cuore buono o cattivo, illuminato dall'amore o accecato dall'egoismo. La norma ultima di comportamento per fare la volontà di Dio viene dal discernimento del nostro cuore. siamo mossi da Dio o dal demonio?, dall'amore o dall'egoismo?.
S. Agostino nei suoi scritti diceva: Ama, e fa' quello che vuoi!". Ma è bene leggere nel suo contesto questa espressione per non intenderla in modo sbagliato : “Una volta per tutte dunque ti viene imposto un breve precetto: ama e fa’ ciò che vuoi; sia che tu taccia, taci per amore; sia che tu parli, parla per amore; sia che tu corregga, correggi per amore; sia che perdoni, perdona per amore; sia in te la radice dell’amore, poiché da questa radice non può procedere se non il bene”.
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“In questa domenica riprendiamo la lettura del Vangelo di Marco. Nel brano odierno Gesù affronta un tema importante per tutti noi credenti: l’autenticità della nostra obbedienza alla Parola di Dio, contro ogni contaminazione mondana o formalismo legalistico.
Il racconto si apre con l’obiezione che gli scribi e i farisei rivolgono a Gesù, accusando i suoi discepoli di non seguire i precetti rituali secondo le tradizioni. In questo modo, gli interlocutori intendevano colpire l’attendibilità e l’autorevolezza di Gesù come Maestro perché dicevano: “Ma questo maestro lascia che i discepoli non compiano le prescrizioni della tradizione”. Ma Gesù replica forte e replica dicendo: «Bene ha profetato Isaia di voi, ipocriti, come sta scritto: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini”» Così dice Gesù. Parole chiare e forti! Ipocrita è, per così dire, uno degli aggettivi più forti che Gesù usa nel Vangelo e lo pronuncia rivolgendosi ai maestri della religione: dottori della legge, scribi… “Ipocrita”, dice Gesù.
Gesù infatti vuole scuotere gli scribi e i farisei dall’errore in cui sono caduti, e qual è questo errore? Quello di stravolgere la volontà di Dio, trascurando i suoi comandamenti per osservare le tradizioni umane. La reazione di Gesù è severa perché grande è la posta in gioco: si tratta della verità del rapporto tra l’uomo e Dio, dell’autenticità della vita religiosa. L’ipocrita è un bugiardo, non è autentico.
Anche oggi il Signore ci invita a fuggire il pericolo di dare più importanza alla forma che alla sostanza. Ci chiama a riconoscere, sempre di nuovo, quello che è il vero centro dell’esperienza di fede, cioè l’amore di Dio e l’amore del prossimo, purificandola dall’ipocrisia del legalismo e del ritualismo.
Il messaggio del Vangelo oggi è rinforzato anche dalla voce dell’Apostolo Giacomo, che ci dice in sintesi come dev’essere la vera religione, e dice così: la vera religione è «visitare gli orfani e le vedove nelle sofferenze e non lasciarsi contaminare da questo mondo».
“Visitare gli orfani e le vedove” significa praticare la carità verso il prossimo a partire dalle persone più bisognose, più fragili, più ai margini. Sono le persone delle quali Dio si prende cura in modo speciale, e chiede a noi di fare altrettanto.
“Non lasciarsi contaminare da questo mondo” non vuol dire isolarsi e chiudersi alla realtà. No. Anche qui non dev’essere un atteggiamento esteriore ma interiore, di sostanza: significa vigilare perché il nostro modo di pensare e di agire non sia inquinato dalla mentalità mondana, ossia dalla vanità, dall’avarizia, dalla superbia. In realtà, un uomo o una donna che vive nella vanità, nell’avarizia, nella superbia e nello stesso tempo crede e si fa vedere come religioso e addirittura arriva a condannare gli altri, è un ipocrita.
Facciamo un esame di coscienza per vedere come accogliamo la Parola di Dio. Alla domenica la ascoltiamo nella Messa. Se la ascoltiamo in modo distratto o superficiale, essa non ci servirà molto. Dobbiamo, invece, accogliere la Parola con mente e cuore aperti, come un terreno buono, in modo che sia assimilata e porti frutto nella vita concreta. Gesù dice che la Parola di Dio è come il grano, è un seme che deve crescere nelle opere concrete. Così la Parola stessa ci purifica il cuore e le azioni e il nostro rapporto con Dio e con gli altri viene liberato dall’ipocrisia.
L’esempio e l’intercessione della Vergine Maria ci aiutino a onorare sempre il Signore col cuore, testimoniando il nostro amore per Lui nelle scelte concrete per il bene dei fratelli.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 2 settembre 2018
Le letture liturgiche di questa domenica hanno al centro un elemento fondamentale nella storia di ogni uomo: chi scegliere! La decisione non è facile perchè è una scelta radicale che comporta il Dio vivente, geloso ed esigente, e non idoli comodi, ma falsi.
Nella prima lettura, Giosuè propone al popolo radunato a Sichem una scelta radicale: o gli dèi o il Signore Dio, che con generosità ha offerto la Sua protezione e i Suoi doni. Israele non può rispondere che con una piena adesione di fede e di amore.
Nella seconda lettura, scrivendo ai cristiani di Efeso, Paolo vede nell’amore degli sposi cristiani il riflesso dell’amore di Cristo per la Chiesa, e in questo amore spinto fino alla sacrificio estremo della croce propone il modello dell’amore umano
Nel Vangelo di Giovanni, dopo una lunga e faticosa giornata, in cui Gesù dopo aver compiuto il miracolo dei pani, e proposto se stesso come “il pane di vita” alla folla che era corsa festante con l’intenzione di farlo re, dopo il difficile e complesso discorso eucaristico in cui egli parla del “vero” pane e manifesta se stesso, come il pane disceso dal cielo, la stessa folla si dirada sconcertata e scandalizzata, e intorno a Gesù rimangono solo i dodici. Qui Gesù in un modo quanto mai umano, pone la domanda: Volete andarvene anche voi? ,
La risposta di Pietro anticipa quella di tanti credenti, di coloro che professano la loro fede pura nel Cristo, colui che ha “parole di vita eterna, il Santo di Dio”.
Dal libro di Giosuè
In quei giorni, Giosuè radunò tutte le tribù d’Israele a Sichem e convocò gli anziani d’Israele, i capi, i giudici e gli scribi, ed essi si presentarono davanti a Dio. Giosuè disse a tutto il popolo: «Se sembra male ai vostri occhi servire il Signore, sceglietevi oggi chi servire: se gli dèi che i vostri padri hanno servito oltre il Fiume oppure gli dèi degli Amorrèi, nel cui territorio abitate. Quanto a me e alla mia casa, serviremo il Signore».
Il popolo rispose: «Lontano da noi abbandonare il Signore per servire altri dèi! Poiché è il Signore, nostro Dio, che ha fatto salire noi e i padri nostri dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile; egli ha compiuto quei grandi segni dinanzi ai nostri occhi e ci ha custodito per tutto il cammino che abbiamo percorso e in mezzo a tutti i popoli fra i quali siamo passati.
Perciò anche noi serviremo il Signore, perché egli è il nostro Dio».
Gs 24,1-2a, 15-17, 18b
Il libro di Giosuè è un testo contenuto sia nella Bibbia cristiana che quella ebraica. È stato scritto in ebraico e, secondo l'ipotesi maggiormente condivisa dagli studiosi, la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte.
Il libro prende il nome da Giosuè, successore di Mosè come guida su Israele. È composto da 24 capitoli descriventi la storia degli Israeliti dopo l’esodo dall’Egitto, e fornisce una panoramica delle campagne militari per conquistare la terra promessa, dando brevi e selettivi racconti di molte battaglie e del modo in cui la terra non solo fu conquistata, ma fu divisa nelle aree tribali. Il periodo descritto è tradizionalmente riferito al 1200-1150 a.C. L’idea centrale del libro è che Dio guida alla libertà, conduce la storia ed ogni conquista è opera di Dio.
Giosuè dopo la morte di Mosè ha ricevuto dal Signore un'eredità non certo facile: condurre i figli d'Israele verso il paese che Dio ha concesso loro in eredità. Giosuè è un uomo pieno di spirito e di saggezza, con un forte ascendente sul popolo, e riuscirà ad assolvere il suo compito.
In questo brano, viene narrata la grande assemblea di Sichem, nella quale Giosuè verso la fine della sua vita indice nello stesso luogo in cui Dio era apparso ad Abramo e gli aveva promesso una terra e una lunga discendenza. Al popolo, agli anziani d’Israele, i capi, i giudici e gli scribi. Giosuè rivolge un discorso alquanto deciso e duro “Se sembra male ai vostri occhi servire il Signore, sceglietevi oggi chi servire: se gli dèi che i vostri padri hanno servito oltre il Fiume oppure gli dèi degli Amorrèi, nel cui territorio abitate. Quanto a me e alla mia casa, serviremo il Signore”. Apparentemente sembra che il popolo debba decidere per la prima volta se accettare o no la proposta di entrare in un rapporto di alleanza con Dio, invece l’alleanza era già stata conclusa. Il popolo quindi non era libero di rifiutare la proposta di Dio! Ma Giosuè insiste che gli israeliti rinnovino la loro decisione, perchè non basta quella del passato, e soprattutto prendano coscienza del significato dell’alleanza. Infatti questa implica non semplicemente il culto di una particolare divinità piuttosto che di un’altra, ma l’accettazione nella vita di un codice di comportamento, il decalogo, nel quale in primo piano ci sono i diritti dell’altro. Ciò vuol dire decidere ancora una volta di mettere il bene comune al di sopra del proprio interesse. È impossibile prestare a Dio un culto che prescinda dall’osservanza del decalogo. Il culto a Dio non può andare di pari passo con l’ingiustizia.
Il popolo rinnova con convinzione l’atto di fede affermando: “Lontano da noi abbandonare il Signore per servire altri dèi! Poiché è il Signore, nostro Dio, che ha fatto salire noi e i padri nostri dalla terra d’Egitto, … quel “noi”, tante volte ripetuto, indica che i presenti intendono essere partecipi e attualizzare la storia della salvezza. E’ quanto in realtà facciamo anche noi cristiani ogni volta che pronunciamo nelle nostre celebrazioni con il “Credo” il nostro atto di fede .
Come nota possiamo aggiungere che per i cristiani Giosuè è la prefigurazione di Cristo: Giosuè ha condotto nella Terra promessa il popolo d’Israele e Cristo è il Salvatore del popolo di Dio.
Salmo 33 - Gustate e vedete com’è buono il Signore.
Benedirò il Signore in ogni tempo,
sulla mia bocca sempre la sua lode.
Io mi glorio nel Signore:
i poveri ascoltino e si rallegrino.
Gli occhi del Signore sui giusti,
i suoi orecchi al loro grido di aiuto.
Il volto del Signore contro i malfattori,
per eliminarne dalla terra il ricordo.
Gridano e il Signore li ascolta,
li libera da tutte le loro angosce.
Il Signore è vicino a chi ha il cuore spezzato,
egli salva gli spiriti affranti.
Molti sono i mali del giusto,
ma da tutti lo libera il Signore.
Custodisce tutte le sue ossa:
neppure uno sarà spezzato.
Il male fa morire il malvagio
e chi odia il giusto sarà condannato.
Il Signore riscatta la vita dei suoi servi;
non sarà condannato chi in lui si rifugia.
L’autore del salmo, ricco dell’esperienza di Dio indirizza il suo sapere ai poveri, agli umili, e in particolare ai suoi figli. Egli afferma che sempre benedirà il Signore e che sempre si glorierà di lui. Egli chiede di venire ascoltato e invita gli umili ad unirsi con lui nel celebrare il Signore: “Magnificate con me il Signore, esaltiamo insieme il suo nome”.
Egli comunica la sua storia dicendo che ha cercato il Signore e ne ha ricevuto risposta cosicché “da ogni timore mi ha liberato”. Per questo invita gli umili a guardare con fiducia a Dio, e dice: “sarete raggianti”. “Questo povero”, cioè il vero povero, quello che è umile, è ascoltato dal Signore e l’angelo del Signore lo protegge dagli assalti dei nemici: “L’angelo del Signore si accampa attorno a quelli che lo temono (Dio), e li libera”. L’angelo del Signore è con tutta probabilità l’angelo protettore del popolo di Dio, chiamato così per antonomasia; sarebbe l’arcangelo Michele (Cf. Es 14,19; 23,23; 32,34; Nm 22,22; Dn 10,21; 12,1).
Il salmista continua la sua composizione invitando ad amare Dio dal quale procede gioia e pace: “Gustate e vedete com'è buono il Signore, beato l’uomo che in lui si rifugia”.
L’orante moltiplica i suoi inviti al bene: “Sta lontano dal male e fà il bene, cerca e persegui la pace”. Cercala, cioè trovala in Dio, e perseguila comportandoti rettamente con gli altri.
Il salmista non nasconde che il giusto è raggiunto da molti mali, ma dice che “da tutti lo libera il Signore”. Anche dalle angosce della morte, poiché “custodisce tutte le tue ossa, neppure uno sarà spezzato”. Queste parole sono avverate nel Cristo, come dice il Vangelo di Giovanni (19,16). Per noi vanno interpretate nel senso che se anche gli empi possono prevalere fino ad uccidere il giusto e farne scempio, le sue ossa sono al riparo perché risorgeranno.
Commento tratto da Perfetta Letizia
Dalla lettera di S. Paolo apostolo agli Efesini
Fratelli, nel timore di Cristo, siate sottomessi gli uni agli altri: le mogli lo siano ai loro mariti, come al Signore; il marito infatti è capo della moglie, così come Cristo è capo della Chiesa, lui che è salvatore del corpo. E come la Chiesa è sottomessa a Cristo, così anche le mogli lo siano ai loro mariti in tutto.
E voi, mariti, amate le vostre mogli, come anche Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola con il lavacro dell’acqua mediante la parola, e per presentare a se stesso la Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata. Così anche i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo: chi ama la propria moglie, ama se stesso. Nessuno infatti ha mai odiato la propria carne, anzi la nutre e la cura, come anche Cristo fa con la Chiesa, poiché siamo membra del suo corpo. Per questo l’uomo lascerà il padre e la madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una sola carne. Questo mistero è grande: io lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa!
Ef 5,21-32
L’Apostolo Paolo in questo brano della lettera agli efesini tocca temi di grande attualità considerate le difficoltà in cui si trovano oggi le famiglie cristiane in Italia e in varie altre parti del mondo, con le crisi del matrimonio, della maternità e della paternità, con altre assurde e pseudo forme di vita coniugale,che contraddicono apertamente gli insegnamenti dell'etica naturale, biblica e cristiana.
Il brano inizia proponendo un codice domestico, perché il credente viva anche in famiglia la propria adesione al Signore. Dopo la proclamazione del principio generale di una vicendevole sottomissione, Paolo fa un piccolo trattato di morale familiare: l’unione dell’uomo e della donna nel matrimonio e l’unione di Cristo con la Chiesa s’illuminano a vicenda. Cristo è capo della Chiesa e la ama come il suo proprio corpo, così come avviene tra marito e moglie, in questo senso Cristo allora diventa un modello per il matrimonio.
Il rapporto fra Cristo e la Chiesa entra come principio vivificante tra gli sposi che sono uniti nel Cristo Gesù. La sottomissione della donna al marito è relazionata alla Chiesa con Cristo che è il capo, ma Cristo non è venuto per essere servito ma per servire e dare la vita, per cui i mariti devono amare le mogli come Cristo ha amato la Chiesa per la quale si è immolato e si immola continuamente.
Il termine “sottomessi” ha sempre suscitato discussioni, sicuramente Paolo lo ha usato perchè vicino all’ambiente del Medio Oriente, ma il suo pensiero lo esprime più chiaramente in 1Cor,7 ma c’è da leggere nella parola “sottomessi” un significato più profondo: chi ama non misura la quantità di quanto dà con quanto riceve, ama con tutta la forza del proprio cuore, il quale risponde solo alla legge dell’amore, non può fare a meno di amare, come di respirare. Paolo nel suo inno all’amore così lo definisce: “L’amore è paziente, è benigno l’amore; non è invidioso, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta”. 1Cor 13,4-7
Una unione, che ha come fondamento queste parole, non potrà mai avere fine!
Dal Vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, molti dei discepoli di Gesù, dopo aver ascoltato, dissero: «Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?». Gesù, sapendo dentro di sé che i suoi discepoli mormoravano riguardo a questo, disse loro: «Questo vi scandalizza? E se vedeste il Figlio dell’uomo salire là dov’era prima? È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che io vi ho detto sono spirito e sono vita. Ma tra voi vi sono alcuni che non credono». Gesù infatti sapeva fin da principio chi erano quelli che non credevano e chi era colui che lo avrebbe tradito. E diceva: «Per questo vi ho detto che nessuno può venire a me, se non gli è concesso dal Padre».
Da quel momento molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con lui.
Disse allora Gesù ai Dodici: «Volete andarvene anche voi?». Gli rispose Simon Pietro: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio».
Gv 6,60-69
L’evangelista Giovanni con questo brano registra con amarezza come il lungo discorso di Gesù nella sinagoga di Cafarnao, tutto incentrato sull’Eucaristia, sia stato un gran fallimento perché non solo i Giudei, ma anche i discepoli di Gesù si scandalizzano.
Giovanni riporta infatti che “molti dei discepoli di Gesù, dopo aver ascoltato, dissero: «Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?»” I discepoli avevano accettato che Gesù fosse l'inviato promesso da Dio, ma trovano assurda la Sua pretesa di essere il salvatore del mondo e di realizzare grazie alla Sua morte, la piena comunione degli uomini con Dio. Essi trovano duro il discorso. Lo hanno capito ma non riescono a comprenderlo!
“Gesù, sapendo dentro di sé che i suoi discepoli mormoravano riguardo a questo, disse loro: "Questo vi scandalizza?”Gesù sa leggere nel cuore degli uomini e contesta il comportamento dei suoi discepoli, che si scandalizzano come avevano fatto gli israeliti nel deserto..
Gesù non attenua quanto aveva detto, non ha paura di dire tutta la verità, a costo di causare una divisione ancora più forte, continua dicendo: “E se vedeste il Figlio dell’uomo salire là dov’era prima? Se Gesù tornasse al cielo, lo scandalo sarebbe rafforzato oppure rimosso? Gesù pone i suoi ascoltatori davanti a un dilemma. Risalire al cielo corrisponde al compimento della Sua missione. Come è scritto nel Libro di Isaia (55,11) la parola di Dio ritorna a Lui dopo aver compiuto ciò per cui è stata mandata. Gesù stesso dopo la risurrezione dice a Maddalena di non trattenerlo perché deve salire al Padre (Gv 20,17). Vedere Gesù tornare al cielo è possibile però solo per chi ha fede. Per l'incredulo ciò significherebbe solo la sua scomparsa dal campo visivo. Quindi tale segno non cambierebbe niente.
Gesù precisa ancora “È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che io vi ho detto sono spirito e sono vita”. Con queste parole Egli mette in luce la funzione dello Spirito Santo, che rappresenta simbolicamente l’azione potente di Dio nel cuore dell’uomo. (v.. Ez 36,26-27). Solo lo Spirito è in grado di dare la vita vera, che consiste nella comunione con Dio.
Poi Gesù conclude: “Ma tra voi vi sono alcuni che non credono»”.
L’evangelista commenta osservando che Gesù sapeva chi tra di loro non credeva e chi l’avrebbe tradito. Poi Gesù aggiunge: “«Per questo vi ho detto che nessuno può venire a me, se non gli è concesso dal Padre»
La libertà dell'uomo nell'aderire o meno alla fede si concretizza nella sua chiusura o apertura verso l'attrazione che è esercitata dal Padre. E' Lui che supera ogni attesa dell'uomo, la profondità del suo desiderio.
Gesù dopo aver visto che “molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con lui” prende atto del suo fallimento ma non intende cambiare il programma, anzi provoca persino i dodici dicendo loro: “Volete andarvene anche voi?”
In questa domanda si percepisce l’amara delusione di Gesù, tutta la Sua sofferenza di restare solo: dalla folla ai discepoli, dai discepoli ai Dodic,. anche i più vicini a lui potrebbero abbandonarlo!
Sembra persino che Gesù voglia suggerire loro di tornare a casa e riprendere la vita di prima. La precisazione “anche voi” sottolinea il legame forte che si era creato con questo gruppetto di uomini. Anche loro devono fare ora una scelta ben precisa.
È stata sicuramente consolante per Gesù la confessione di Pietro che interviene a nome di tutti affermando: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna..”
Con queste parole l’evangelista sembra riprendere in parte la confessione di fede a Cesarea di Filippo narrata dai Sinottici. Pietro è il capo del gruppo e parla a nome di tutti: “Da chi andremo?. Non possiamo andarcene anche noi”. Essi si impegnano senza riserve. Le parole di Gesù sono parole di vita eterna. Pietro suggella la sua dichiarazione riprendendo il discorso appena terminato da Gesù. “e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio”
La risposta di Pietro è straordinaria e rispecchia la sua indole spontanea e generosa, che pur senza capire tutto, accetta Gesù Messia e crede in Lui e nel nome del gruppo professa la sua fede.
Anche noi oggi non sempre capiamo tutto, ma in fondo sappiamo che conviene rimanere perché come Pietro possiamo ancora affermare:”Signore da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna”, e come Pietro continuiamo a credere in Gesù, a seguirlo anche nella nebbia più fitta, portando ognuno la propria croce e accettando il suo mistero
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“Si conclude oggi la lettura del capitolo sesto del Vangelo di Giovanni, con il discorso sul “Pane della vita”, pronunciato da Gesù all’indomani del miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Alla fine di quel discorso, il grande entusiasmo del giorno prima si spense, perché Gesù aveva detto di essere il Pane disceso dal cielo, e che avrebbe dato la sua carne come cibo e il suo sangue come bevanda, alludendo così chiaramente al sacrificio della sua stessa vita. Quelle parole suscitarono delusione nella gente, che le giudicò indegne del Messia, non “vincenti”. Così alcuni guardavano Gesù: come un Messia che doveva parlare e agire in modo che la sua missione avesse successo, subito.
Ma proprio su questo si sbagliavano: sul modo di intendere la missione del Messia! Perfino i discepoli non riescono ad accettare quel linguaggio inquietante del Maestro. E il brano di oggi riferisce il loro disagio: «Questa parola è dura! – dicevano – Chi può ascoltarla?»
In realtà, essi hanno capito bene il discorso di Gesù. Talmente bene che non vogliono ascoltarlo, perché è un discorso che mette in crisi la loro mentalità. Sempre le parole di Gesù ci mettono in crisi, per esempio davanti allo spirito del mondo, alla mondanità. Ma Gesù offre la chiave per superare la difficoltà; una chiave fatta di tre elementi. Primo, la sua origine divina: Egli è disceso dal cielo e salirà «là dov’era prima» . Secondo: le sue parole si possono comprendere solo attraverso l’azione dello Spirito Santo, Colui «che dà la vita» è proprio lo Spirito Santo che ci fa capire bene Gesù. Terzo: la vera causa dell’incomprensione delle sue parole è la mancanza di fede: «Tra voi ci sono alcuni che non credono», dice Gesù. Infatti da allora, dice il Vangelo, «molti dei suoi discepoli tornarono indietro». Di fronte a queste defezioni, Gesù non fa sconti e non attenua le sue parole, anzi costringe a fare una scelta precisa: o stare con Lui o separarsi da Lui, e dice ai Dodici: «Volete andarvene anche voi?»
A questo punto Pietro fa la sua confessione di fede a nome degli altri Apostoli: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna» . Non dice “dove andremo?”, ma “da chi andremo?”. Il problema di fondo non è andare e abbandonare l’opera intrapresa, ma è da chi andare.
Da quell’interrogativo di Pietro, noi comprendiamo che la fedeltà a Dio è questione di fedeltà a una persona, con la quale ci si lega per camminare insieme sulla stessa strada. E questa persona è Gesù. Tutto quello che abbiamo nel mondo non sazia la nostra fame d’infinito. Abbiamo bisogno di Gesù, di stare con Lui, di nutrirci alla sua mensa, alle sue parole di vita eterna! Credere in Gesù significa fare di Lui il centro, il senso della nostra vita. Cristo non è un elemento accessorio: è il “pane vivo”, il nutrimento indispensabile. Legarsi a Lui, in un vero rapporto di fede e di amore, non significa essere incatenati, ma profondamente liberi, sempre in cammino.
Ognuno di noi può chiedersi: chi è Gesù per me? È un nome, un’idea, soltanto un personaggio storico? O è veramente quella persona che mi ama che ha dato la sua vita per me e cammina con me? Per te chi è Gesù? Stai con Gesù? Cerchi di conoscerlo nella sua parola? Leggi il Vangelo, tutti i giorni un passo di Vangelo per conoscere Gesù? Porti il piccolo Vangelo in tasca, nella borsa, per leggerlo, ovunque? Perché più stiamo con Lui più cresce il desiderio di rimanere con Lui. Adesso vi chiederò cortesemente, facciamo un attimo di silenzio e ognuno di noi in silenzio, nel suo cuore, si faccia la domanda: «Chi è Gesù per me?». In silenzio, ognuno risponda nel suo cuore.
La Vergine Maria ci aiuti ad “andare” sempre a Gesù per sperimentare la libertà che Egli ci offre, e che ci consente di ripulire le nostre scelte dalle incrostazioni mondane e dalle paure.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 23 agosto 2015
La solennità dell’assunzione in cielo della Beata Vergine Maria – anima e corpo - è un dogma solennemente proclamato da Pio XII il 1 novembre 1950.
“Per capire l'Assunzione - ha detto Papa Benedetto XVI “dobbiamo guardare alla Pasqua, il grande Mistero della nostra Salvezza, che segna il passaggio di Gesù alla gloria del Padre attraverso la passione, la morte e la risurrezione. Maria che ha generato il Figlio di Dio nella carne, è la creatura più inserita in questo mistero, redenta fin dal primo istante della sua vita, e associata in modo del tutto particolare alla passione e alla gloria del suo Figlio. L'Assunzione al Cielo di Maria è pertanto il mistero della Pasqua di Cristo pienamente realizzato in Lei. Ella è intimamente unita al suo Figlio risorto, vincitore del Peccato e della morte, pienamente conformata a Lui”. (Angelus 15 agosto 2012)
Nella prima lettura, tratta dal Libro dell’Apocalisse, incontriamo l’immagine simbolica di una donna che partorisce un figlio maschio. E’ facile per noi riconoscere in lei Maria che dà alla vita il Signore Gesù. Tuttavia, anche nell’Apocalisse l’immagine si amplifica, per diventare simbolo della Chiesa, che con il suo impegno testimonia nella storia la presenza del Figlio di Dio. Egli è rapito in cielo per renderci partecipi della sua vittoria sulla morte. La donna continuerà a combattere con noi nel deserto, ma condividendo già la gloria di Dio, ci mostra quale sarà l’esito finale della lotta: tutto, anche la morte, sarà posto sotto i piedi di suo Figlio.
Con la seconda lettura, tratta dalla prima lettera di S.Paolo ai Corinzi, possiamo comprendere di più come l’assunzione al cielo di Maria è il frutto della risurrezione di Cristo, che è la “primizia” dei risorti. Maria anticipa il destino di gloria promesso a “quelli che sono di Cristo”.
Nel Vangelo, Luca ci presenta la visita premurosa di Maria alla cugina Elisabetta. Alla lode della cugina, Maria risponde con un gioioso cantico divenuto la preghiera dei poveri del Signore, la grande lode di ringraziamento per la presenza in mezzo a noi, deboli, poveri, ma credenti, del Signore Salvatore.
Dal libro dell’Apocalisse di S.Giovanni apostolo
Si aprì il tempio di Dio che è nel cielo e apparve nel tempio l’arca della sua alleanza.
Un segno grandioso apparve nel cielo: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e, sul capo, una corona di dodici stelle. Era incinta, e gridava per le doglie e il travaglio del parto.
Allora apparve un altro segno nel cielo: un enorme drago rosso, con sette teste e dieci corna e sulle teste sette diademi; la sua coda trascinava un terzo delle stelle del cielo e le precipitava sulla terra. Il drago si pose davanti alla donna, che stava per partorire, in modo da divorare il bambino appena lo avesse partorito.
Essa partorì un figlio maschio, destinato a governare tutte le nazioni con scettro di ferro, e suo figlio fu rapito verso Dio e verso il suo trono. La donna invece fuggì nel deserto, dove Dio le aveva preparato un rifugio.
Allora udii una voce potente nel cielo che diceva:
«Ora si è compiuta la salvezza, la forza e il regno del nostro Dio
e la potenza del suo Cristo».
Ap 11,19a – 12,1-6ª.10ab
Il libro dell'Apocalisse, che è stato scritto dall’Apostolo Giovanni o da un suo discepolo nell’Anno 95, quando si trovava in esilio all’isola di Patmos, si compone di 22 capitoli. E’ la rivelazione di Gesù Cristo come Egli è, (da qui il nome Apocalisse=rivelazione) il Signore dei signori, il Re dei re, il quale si riappropria di ciò che gli appartiene: la terra.
Anche nel linguaggio comune si è sentito parlare del "settimo sigillo", questo perché nell'Apocalisse la prima serie di giudizi è dettata dall'apertura di sette sigilli.
In Israele ai tempi dell'Antico Testamento l'atto di proprietà veniva redatto, quindi arrotolato e sigillato, in caso di contestazione l'atto di proprietà veniva aperto.
Ecco, Cristo nell'Apocalisse apre i sigilli perché ha deciso di riprendere possesso della terra.
L'Apocalisse è il libro della Bibbia che completa le informazioni profetiche rispetto al piano di Dio. Descrive in modo molto dettagliato gli eventi futuri dell'umanità. In sostanza l'ultimo libro della Bibbia, forse il più importante per quanto riguarda le profezie e la comprensione del piano di Dio, è diviso in cinque parti:
1. Capitoli da 1 a 3. Lettera alle sette chiese dell'Asia, Dio usa Giovanni, l'autore del libro, per rivelare alla Chiesa le cose che dovranno avvenire.
2. Capitoli 4 e 5. L'affermazione dell'autorità divina di Cristo sulla terra.
3. Capitoli da 6 a 19. Il periodo di sette anni della Tribolazione, descritta attraverso gli eventi ed i giudizi, periodo che inizia con l'apertura del primo sigillo, il cavallo bianco cavalcato dall'Anticristo, con l'arco senza le frecce, prende il potere senza fare la guerra, il cavallo bianco sembra significare che abbia usurpato il ruolo di Cristo. Il periodo termina con Gesù che viene cavalcando un cavallo bianco, seguito dai suoi eserciti, non ci sarà battaglia, viene posta fine alla Tribolazione.
4. Capitolo 20. Il regno dei mille anni governato da Gesù Cristo, al termine dei quali ci sarà l'ultima ribellione dell'umanità, l'apertura dei libri ed il giudizio universale relativo a quelli che non hanno la salvezza di Cristo.
5. Capitoli 21 e 22. La vita eterna con Dio con dei nuovi cieli e la nuova terra, il compimento finale del Piano di Dio.
Questo brano, che la liturgia ci presenta, tratto dal capitolo 12, si può dire è la pagina più bella dell’Apocalisse:
«Un segno grandioso apparve nel cielo: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e, sul capo, una corona di dodici stelle...».
L’intero capitolo è dominato anche da un altro “segno”, quello di un enorme drago rosso, con sette teste e dieci corna e sulle teste sette diademi; la sua coda trascinava un terzo delle stelle del cielo e le precipitava sulla terra, ed è tutto intarsiato di allusioni a testi biblici.
E’ grande il contrasto che si scorge in questa visione: da un lato la donna e il figlio, dall’altro il dragone rosso incoronato.
Sono state date nel tempo numerose e valide interpretazioni, la più comune è quella che identifica nella donna, Maria che genera il Cristo. In realtà il pensiero di Giovanni è probabilmente orientato in altra direzione. La donna simboleggia anche il popolo di Dio, prima l’antico Israele, da cui Gesù ha preso carne, l’altro il nuovo Israele, la Chiesa, al cui interno il Cristo è continuamente generalato attraverso l’Eucaristia e la Sua parola.. Maria, la Chiesa, il Cristo sono intimamente connessi e sono segno altissimo del bene e della salvezza
In questo testo sia S.Agostino che S.Bernardo hanno visto nella Donna dell’Apocalisse il simbolo di Maria, come altri testi sacri che richiamano il mistero della Chiesa, possono essere applicati alla Vergine Maria, in quanto il vero mistero che la circonda, s’inserisce nel mistero della Chiesa e insieme lo illumina, come lo ha sottolineato il Concilio Vaticano II.
Salmo 44 - Risplende la Regina, Signore, alla tua destra.
Figlie di re stanno fra le tue predilette;
alla tua destra sta la regina, in ori di Ofir.
Ascolta, figlia, guarda, porgi l'orecchio,
dimentica il tuo popolo
e la casa di tuo padre.
Il re è invaghito della la tua bellezza.
E’ lui il tuo Signore: rendigli omaggio.
Dietro a lei le vergini sue compagne
Condotte in gioia ed esultanza;
guidate in gioia ed esultanza,
sono presentate nel palazzo del re.
Questo salmo per essere compreso ha bisogno di una precisazione teologica. I re di dinastia davidica erano delle figure del futuro re, il Messia. Così il salmo guarda al futuro Messia mentre celebra le nozze di un re d’Israele. Le lodi che lo scriba presenta al re hanno come ultimo traguardo il Cristo.
Le nozze sono quelle tra Salomone e la figlia del re di Tiro. Non esiste nella storia biblica o extrabiblica una menzione di queste nozze, ma si sa che Davide e poi Salomone ebbero stretti contatti d’amicizia con il re di Tiro circa la costruzione del Tempio, e del resto nel salmo si parla di Tiro, e della “figlia del re”.
Il salmista è uno scriba che ha composto un poema di lode e lo recita davanti al re. Le sue lodi sono splendide, non protocollari, egli celebra nel re il futuro Messia. Tutte le nozze del re Salomone con la figlia del re di Tiro, diventano figura della azioni future del Messia e in questo senso pieno vanno lette.
Lo scriba è pieno di gioia, lodando il re sa di compiere un atto che termina nella lode a Dio.
Il re è detto “il più bello tra i figli dell’uomo”. Bello di una bellezza divina il Cristo. Sulle sue “labbra è diffusa la grazia”, cioè la parola sapiente, la giustizia nel governare, la promozione dell’osservanza alla Legge. “Dio ti ha benedetto per sempre”, perché non ritirerà mai il suo favore alla casa di Davide (2Sam 7,12).
Lo scriba invita il re, chiamato prode, a cingersi la spada al fianco per combattere i suoi nemici, che vogliono ostacolare il suo lottare (“cavalca”) per la causa “della verità, della mitezza e della giustizia”. Così Cristo avanzerà nel mondo per mezzo della verità - lui la Verità -, della mitezza e della giustizia. Egli colpirà alla fine i suoi nemici con la spada della sua condanna (Ps 2,9; Ap 19,15).
Lo scriba afferma che il trono del re dura per sempre, poiché esso è destinato al futuro Messia. Il re è chiamato Dio, perché fa le veci di Dio, ma sarà veramente Dio nel futuro Messia.
“Scettro di rettitudine è il tuo scettro regale”, dice lo scriba. "Di rettitudine" perché fondato sulla Legge, che ha per sostanza l’amore.
Egli, il re, è stato consacrato tale “con olio di letizia”, a preferenza dei suoi uguali, cioè dei suoi fratelli discendenti di Davide. Cristo sarà consacrato re per opera dello Spirito Santo nel Giordano, sarà lui consacrato re tra tutti i discendenti di Davide (Lc 1,32); egli che sarà riconosciuto per la fede nella sua realtà di Figlio di Dio.
Le vesti del re emanano profumi, secondo l’uso orientale. Il profumo indica l’amabilità della persona. C’è festa attorno a lui: “Da palazzi d’avorio ti rallegri il suono di strumenti a corda”. Palazzi d’avorio perché ricchi di mobili intarsiati d’avorio. E’ la festa per lui. E’ la celebrazione della grandezza che ha ricevuto da Dio. Cristo è ben degno che dalle regge dei re si innalzi la celebrazione della sua grandezza, che sorpassa all’infinito ogni grandezza (Cf. Fil 2,9).
Lo scriba fa menzione dell’harem del re, fatto di figlie di re, segno della influenza tra i popoli. I popoli si sono alleati con lui dando a lui le figlie dei re. Ma alla destra del re c’è la regina. Questa regina viene dai pagani. E’ la figlia del re di Tiro, ma è invitata a lasciare ogni ricordo del suo popolo e della sua casa. Così la Chiesa viene anche dai pagani. E i pagani porteranno al Cristo le loro ricchezze: “Gli abitanti di Tiro portano doni”. Mentre “i più ricchi del popolo (Israele)” cercano il favore del re.
Certo Israele si aprirà a Cristo e i più ricchi di dottrina in Israele cercheranno di essere graditi al Re dei re, e ne guarderanno il volto pronti ad obbedire alla sua parola.
La regina è presentata in tutto il suo splendore; è la donna che l’Apocalisse presenta avvolta nel sole (12,1).
Le “vergini, sue compagne”, che facevano corolla alla figlia del re di Tiro, entrano anch’esse nel palazzo regale, diventando partecipi della sua gioia.
Il salmista alla fine della sua composizione guarda decisamente al futuro Messia. Ai suoi padri, cioè ai capi delle dodici tribù d’Israele succederanno “i tuoi figli”, cioè i dodici apostoli, che saranno, nel loro essere a fondamento della Chiesa, capi di tutta la terra.
La grandezza, la gloria del Cristo sarà ricordata da tutte le generazioni; e tutti i popoli lo “loderanno in eterno, per sempre”.
Commento tratto da Perfetta Letizia
Dalla 1^ lettera di S.Paolo apostolo ai Corinzi
Fratelli, Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti. Perché, se per mezzo di un uomo venne la morte, per mezzo di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti.
Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita. Ognuno però al suo posto: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo.
Poi sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo aver ridotto al nulla ogni Principato e ogni Potenza e Forza.
E’ necessario infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L'ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte, perché ogni cosa ha posto sotto i suoi piedi
1Cor 15,20-27
Paolo scrisse intorno al 53 a.C., da Efeso, questa 1^ lettera ai Corinzi, che è considerata una delle più importanti dal punto di vista dottrinale. Vi si trovano infatti informazioni e decisioni su numerosi problemi cruciali del Cristianesimo primitivo, sia per la sua "vita interna": purezza dei costumi, svolgimento delle assemblee religiose e celebrazione dell'eucaristia, uso dei carismi, sia per i rapporti con il mondo pagano.
Nell’ultimo capitolo della lettera Paolo, rispondendo a problemi che gli avevano posto, affronta il tema della risurrezione finale dei credenti. Nella prima parte egli dimostra la sua tesi sulla risurrezione finale (vv. 1-34), nella seconda (vv. 35-53) ne illustra invece le modalità; egli conclude la sua esposizione con un inno di lode a Cristo vincitore della morte (vv. 54-58).
Il rifiuto della risurrezione dei credenti porterebbe all’assurdo di negare di conseguenza anche la risurrezione stessa di Cristo. Ma questo metterebbe in crisi la loro fede stessa perciò Paolo riafferma il punto centrale di questa fede:
”Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti”
Per Paolo la risurrezione di Cristo è una primizia non solo perché precede la risurrezione di tutti i credenti, ma anche e soprattutto perché ne è il modello e la causa. Il concetto di “primizia” viene ulteriormente elaborato da Paolo alla luce della concezione biblica secondo cui i membri di un gruppo formano una sola cosa con colui che ne è il capo e che li rappresenta. Rifacendosi a questa concezione Paolo afferma in due frasi disposte in modo parallelo che, come la morte è originata da un uomo, altrettanto deve essere per la risurrezione; e come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo.
In quanto solidale con Adamo l’umanità fa fin d’ora l’esperienza della morte mentre la risurrezione dai morti invece per ora si è attuata solo in Cristo. La risurrezione finale dei credenti è dunque una conseguenza della comunione con Cristo, di cui la solidarietà in Adamo appare solo come una realtà negativa ormai passata.
A questo punto l’apostolo sente di dover fare una precisazione circa i tempi della salvezza. Egli afferma: “Ognuno però al suo posto: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo”
Tra la risurrezione di Cristo, che è un evento già attuato, e quella dei credenti, che avrà luogo alla fine, c’è non solo una diversità di tempo, ma anche di “ordine”. Questa diversità proviene dal fatto che Cristo è la “primizia”: la Sua risurrezione prelude perciò a quella dei credenti, la quale però avrà luogo solo “alla sua venuta”, cioè al momento del Suo ritorno glorioso.
Nella seconda parte del brano Paolo collega strettamente il regno di Cristo con il regno di Dio, mettendo in luce il loro avvicendarsi nel piano della salvezza. Egli ritiene che con la risurrezione di Cristo abbia avuto inizio il Suo regno messianico, che deve durare fino alla fine, quando egli “consegnerà il regno a Dio Padre” e ciò non avverrà però prima che Egli abbia “ridotto al nulla ogni Principato e ogni Potenza e Forza”. Paolo sottolinea espressamente che l’ultimo nemico ad essere annientato sarà proprio la morte, la cui sconfitta avrà luogo appunto mediante la risurrezione dei morti. Se Cristo non fosse capace di eliminarla, non sarebbe veramente il Signore nel quale la comunità professa la sua fede.
L’apostolo infine precisa (nel versetto successivo non riportato nel brano): “Quando tutto gli sarà stato sottomesso, anche il Figlio sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti” da questo “tutto” è escluso colui che gli ha sottomesso ogni cosa, cioè il Padre.
Nella prospettiva di Paolo l’attesa della risurrezione finale implica quindi la lotta, insieme con Cristo, contro tutte le realtà negative che condizionano la vita umana, quali l’ingiustizia, la violenza, lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo.
È proprio la speranza della risurrezione, in quanto implica una salvezza che abbraccia tutte le cose create, che spinge il credente a non chiudersi nel suo individualismo, ma ad impegnarsi affinché il mondo nuovo promesso da Gesù cominci ad apparire già ora nel corso della storia.
Dal vangelo secondo Luca
In quei giorni, Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda. Entrata nella casa di Zaccarìa, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: “Benedetta tu fra le donne, e benedetto il frutto del tuo grembo! che devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell'adempimento di ciò che il Signore le ha detto”. Allora Maria disse: “L'anima mia magnifica il Signore
e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore, perché ha guardato l'umiltà della sua serva.
D'ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata.
Grandi cose ha fatto in me l'Onnipotente e Santo è il suo nome:
di generazione in generazione la sua misericordia si stende su quelli che lo temono.
Ha spiegato la potenza del suo braccio;
ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore;
ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili;
ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote.
Ha soccorso Israele, suo servo, ricordandosi della sua misericordia,
come aveva promesso ai nostri padri,
ad Abramo e alla sua discendenza, per sempre”.
Maria rimase con lei circa tre mesi,poi tornò a casa sua.
Lc 1, 39-56
In questo brano Luca sembra dipingere a parole l’episodio della Visitazione, che è il mistero della comunicazione muta di due donne diverse per età, ambiente, caratteristiche.
Maria ha saputo dall’angelo che Elisabetta, “che tutti dicevano sterile” aspettava un bambino. A questa notizia ella decide immediatamente di recarsi da lei: “In quei giorni, Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda”. La fretta con cui Maria intraprende questo viaggio rispecchia la sua fede e la sua completa disponibilità al piano divino. Per recarsi da Elisabetta Maria attraversa una delle regioni montagnose che circondano Gerusalemme e raggiunge una “città di Giuda” che la tradizione individua con il villaggio di Ein Karim, a 6 Km ad ovest di Gerusalemme.
“Entrata nella casa di Zaccarìa, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo”
Con la discesa dello Spirito su Elisabetta si attua la promessa dell’angelo a Zaccaria: sarà pieno di Spirito Santo fin dal seno di sua madre (Lc 1,15). Per bocca di sua madre è lo stesso Giovanni che dà inizio al suo compito profetico di annunziare la venuta del Messia, infatti proprio sotto l’azione dello Spirito Elisabetta
esclamò a gran voce: “Benedetta tu fra le donne, e benedetto il frutto del tuo grembo!”
La frase ispirata di Elisabetta è una duplice benedizione. Anzitutto ella dichiara Maria “benedetta tra le donne”, cioè dotata di una benedizione superiore a quella delle altre donne. E soggiunge: che devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo.” Per la prima volta Gesù viene designato qui come “Signore” e ciò sotto l’influsso dello Spirito.
Infine Elisabetta conclude: E beata colei che ha creduto nell'adempimento di ciò che il Signore le ha detto”. Mentre Zaccaria non aveva avuto fede (Lc. 1,20), Maria ha creduto alla parola di Dio, come aveva fatto Abramo (Gen 15,6). La storia, guidata da Dio sotto il segno della Provvidenza, trova in lei il suo compimento. A queste parole il cuore di Maria si apre alla gioia ed ella rende grazie a Dio pronunziando un inno che, dalla parola iniziale nella traduzione latina, viene chiamato «Magnificat».
Nei primi versetti Maria dice:”L'anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore, perché ha guardato l'umiltà della sua serva. D'ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata. Grandi cose ha fatto in me l'Onnipotente e Santo è il suo nome: di generazione in generazione la sua misericordia si stende su quelli che lo temono.”Maria si rivolge a Dio come suo “salvatore” e gli esprime la sua esultanza e la sua lode per i benefici di cui l’ha colmata. Il primo motivo di questa esultanza consiste nel fatto che ha guardato l'umiltà della sua serva. cioè ha operato una scelta preferendo proprio colei che, per la sua “umiltà” può essere paragonata a una serva. E come serva si era già dichiarata Maria nella risposta all’angelo nell’evento dell’annunciazione
Maria fa poi una considerazione generale circa il suo futuro destino affermando che,in forza della chiamata divina, d’ora in poi tutte le generazioni la diranno beata: l’esaltazione di Maria si estenderà dunque senza limiti di tempo e di spazio. Da questa constatazione Maria passa poi di nuovo ad esaltare l’iniziativa divina a suo riguardo: il Potente ha fatto per lei grandi cose; con ciò ha dimostrato che il Suo nome è santo e che la Sua misericordia si estende “di generazione e generazione” in favore di quelli che Lo temono. La santità del nome divino si manifesta appunto nelle opere che Egli compie per la liberazione del Suo popolo.
Nei versetti seguenti il canto di lode diventa più ampio : “Ha spiegato la potenza del suo braccio;
ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote”.
Con queste parole Maria mostra che quanto Dio ha fatto in suo favore non è altro che un esempio di come Egli guida le vicende del mondo. Anzitutto Maria esalta la potenza che ha dimostrato stendendo il suo braccio (Es 6,6) e disperdendo i superbi nei “pensieri del loro cuore”, cioè nei loro progetti di grandezza. Poi prosegue con due parallelismi contrapposti: ha rovesciato i potenti dai troni e ha innalzato gli umili, cioè quelli privi di potere, ha ricolmato di beni gli affamati e ha rimandato a mani vuote i ricchi.
Gli ultimi versetti contengono un’esaltazione dell’opera di salvezza che Dio ha attuato in favore del Suo popolo: “Ha soccorso Israele, suo servo, ricordandosi della sua misericordia, come aveva promesso ai nostri padri, ad Abramo e alla sua discendenza, per sempre”.
Maria ricorda l’aiuto dato da Dio ad Israele Suo servo come manifestazione della Sua misericordia e come adempimento delle promesse fatte ai padri: in questa versetto la mente va ancora una volta al tema del servo, che accomuna Maria e Israele; l’accenno alla “discendenza” di Abramo non poteva non ricordare a noi cristiani la figura di Gesù, in funzione del quale erano state fatte le promesse (il concetto lo riprende Paolo nella lettera ai Galati 3,16).
Al termine del Magnificat, Luca annota: “Maria rimase con lei circa tre mesi,poi tornò a casa sua”.
in questo modo termina il racconto della visita ad Elisabetta.
Per riassumere si può dire che il canto del Magnificat è la celebrazione gioiosa e riassuntiva di tutta la storia della salvezza che da Maria, nella quale trova compimento, viene ripresa e rifatta nelle sue tappe risalendo fine alle origini. Questa storia, che sconvolge le situazioni umane, è condotta da Dio senza interruzioni, con il criterio dell’amore misericordioso che non conosce fine.
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“Quando l’uomo mise piede sulla luna, fu detta una frase che divenne famosa: «Questo è un piccolo passo per un uomo, un grande balzo per l’umanità». In effetti, l’umanità aveva raggiunto un traguardo storico. Ma oggi, nell’Assunzione di Maria in Cielo, celebriamo una conquista infinitamente più grande. La Madonna ha poggiato i piedi in paradiso: non ci è andata solo in spirito, ma anche con il corpo, con tutta sé stessa. Questo passo della piccola Vergine di Nazareth è stato il grande balzo in avanti dell’umanità. Serve poco andare sulla luna se non viviamo da fratelli sulla Terra. Ma che una di noi abiti in Cielo col corpo ci dà speranza: capiamo che siamo preziosi, destinati a risorgere. Dio non lascerà svanire il nostro corpo nel nulla. Con Dio nulla andrà perduto!
In Maria la meta è raggiunta e noi abbiamo davanti agli occhi il motivo per cui camminiamo: non per conquistare le cose di quaggiù, che svaniscono, ma per conquistare la patria di lassù, che è per sempre. E la Madonna è la stella che ci orienta. Lei è andata prima. Ella, come insegna il Concilio, «brilla come segno di sicura speranza e di consolazione per il Popolo di Dio in cammino» (Lumen gentium, 68).
Che cosa ci consiglia la nostra Madre? Oggi nel Vangelo la prima cosa che dice è: «L’anima mia magnifica il Signore» Noi, abituati a sentire queste parole, forse non facciamo più caso al loro significato. Magnificare letteralmente significa “fare grande”, ingrandire. Maria “ingrandisce il Signore”: non i problemi, che pure non le mancavano in quel momento, ma il Signore. Quante volte, invece, noi ci lasciamo sovrastare dalle difficoltà e assorbire dalle paure! La Madonna no, perché mette Dio come prima grandezza della vita. Da qui scaturisce il Magnificat, da qui nasce la gioia: non dall’assenza dei problemi, che prima o poi arrivano, ma la gioia nasce dalla presenza di Dio che ci aiuta, che è vicino a noi. Perché Dio è grande. E soprattutto, Dio guarda ai piccoli. Noi siamo la sua debolezza di amore: Dio guarda e ama i piccoli.
Maria, infatti, si riconosce piccola ed esalta le «grandi cose» che il Signore ha fatto per lei. Quali? Anzitutto il dono inatteso della vita: Maria è vergine e rimane incinta; e pure Elisabetta, che era anziana, aspetta un figlio. Il Signore fa meraviglie con i piccoli, con chi non si crede grande ma dà grande spazio a Dio nella vita. Egli stende la sua misericordia su chi confida in Lui e innalza gli umili. Maria loda Dio per questo.
E noi – possiamo chiederci – ci ricordiamo di lodare Dio? Lo ringraziamo per le grandi cose che fa per noi? Per ogni giornata che ci dona, perché ci ama e ci perdona sempre, per la sua tenerezza? E ancora, per averci dato la sua Madre, per i fratelli e le sorelle che ci mette sul cammino, perché ci ha aperto il Cielo? Noi ringraziamo Dio, lodiamo Dio per queste cose? Se dimentichiamo il bene, il cuore si rimpicciolisce. Ma se, come Maria, ricordiamo le grandi cose che il Signore compie, se almeno una volta al giorno lo magnifichiamo, allora facciamo un grande passo in avanti.
Una volta al giorno possiamo dire: “Io lodo il Signore”; “Benedetto il Signore”: è una piccola preghiera di lode. Questo è lodare Dio. Il cuore, con questa piccola preghiera, si dilaterà, la gioia aumenterà.
Chiediamo alla Madonna, porta del Cielo, la grazia di iniziare ogni giorno alzando lo sguardo verso il cielo, verso Dio, per dirgli: “Grazie!”, come dicono i piccoli ai grandi.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 15 agosto 2020
L'umanità è una grande e immensa famiglia ... Troviamo la dimostrazione di ciò da quello che ci sentiamo nei nostri cuori a Natale.
(Papa Giovanni XXIII)