La liturgia di questa domenica ci ricorda che la Chiesa peregrinante è per sua natura missionaria ed ogni credente ha il dovere di diffondere la fede esaltando soprattutto la radice profonda, quella che affonda nel mistero stesso di Dio. Un antico proverbio rabbinico diceva: “l’inviato è come se fosse colui che lo invia”.
Nella prima lettura, tratta dal libro del profeta Amos, ci presenta il profeta che oppone un netto rifiuto all’imposizione del sacerdote di Betel di abbandonare la terra d’Israele, dove è stato mandato per predicare. Egli svolgerà la sua missione, anche se la sua parola potrà dispiacere a quelli che governano.
Nella seconda lettura, scrivendo ai cristiani di Efeso, Paolo inizia la sua lettera con una solenne benedizione e andando alla ricerca della sorgente di ogni vocazione cristiana la ritrova in un atto d’amore di Dio. Nel silenzio dell’essere, all’interno dell’infinito e dell’eterno di Dio, risuona quella voce suprema che crea e “predestina”, cioè definisce in anticipo il grande destino di gloria a cui è chiamato ogni uomo. Ogni uomo infatti è chiamato da Dio per nome e destinato ad entrare nella comunione divina fino a diventare membro di una famiglia celeste, quella dei figli adottivi di Dio e dei fratelli di Cristo.
Nel Vangelo, l’evangelista Marco ci parla degli apostoli inviati dal Signore Gesù ad annunciare la buona notizia della salvezza. Essi non vanno di propria iniziativa, e saranno ora accolti, ora contestati, ma sono fiduciosi che non mancherà loro la protezione del Signore.
Dal libro del profeta Amos
In quei giorni, Amasìa, [sacerdote di Betel,] disse ad Amos: «Vattene, veggente, ritìrati nella terra di Giuda; là mangerai il tuo pane e là potrai profetizzare, ma a Betel non profetizzare più, perché questo è il santuario del re ed è il tempio del regno». Amos rispose ad Amasìa e disse:
«Non ero profeta né figlio di profeta; ero un mandriano e coltivavo piante di sicomòro.
Il Signore mi prese,
mi chiamò mentre seguivo il gregge. Il Signore mi disse:
Va’, profetizza al mio popolo Israele».
Am 7,12-15
Il profeta Amos vissuto nel VII secolo a. C., è il primo profeta la cui predicazione è stata riportata in un libro. Originario di Tekoa, una cittadina vicino Betlemme, il profeta Amos, benché fosse del Sud, esercitò il ministero profetico nel territorio del Nord dove, al suo tempo, dilagava l’idolatria e l’ingiustizia sociale. Lui stesso si presenta così: “Io non sono profeta, né figlio di profeta; sono un mandriano e coltivo i sicomori” (7:14), e così descrive la sua chiamata: “Il Signore mi prese mentre ero dietro al gregge e mi disse: ‘Va', profetizza al mio popolo, a Israele’” (7:15).
Amos denunciò il culto formale ed esteriore: I santuari erano sì frequentati e i riti erano eseguiti alla perfezione, ma non vi era un’autentica esperienza di Dio. Cercare il Signore, affermava il profeta, equivale a cercare la persona umana e a prendersene cura.
La predicazione del profeta Amos riprendeva i temi del Deuteronomio, soprattutto quelli che proponevano una società equa, che non ammetteva sfruttamento e oppressione. La situazione sociale che Amos descriveva è desolante. La rottura dell’alleanza di Dio con il popolo avvenuta sul Sinai, che garantiva a tutti gli israeliti uguale dignità, provocava una catena di situazioni sociali peccaminose.
Amos predicava il diritto e la giustizia che consistono nei rapporti sociali fondati sulla misericordia che genera la solidarietà e la promozione dell’altro.
La profezia di Amos può essere ricondotta intorno a quattro verbi fondamentali, intorno ai quali si sviluppa il suo messaggio:
Dire: il Signore parla; ascoltare: il popolo deve ascoltare;
vedere: il profeta vede la situazione nella sua realtà di peccato;
ricostruire e piantare: il Signore dopo il castigo per il peccato farà ritornare gli esuli, le città saranno ricostruite e la terra sarà piantata e coltivata.
Questo brano narra l’incontro tra Amasìa, sacerdote del santuario reale di Betel e Amos, proveniente da un paese straniero. Amasìa si rivolge ad Amos con modi duri: “Vattene, veggente, ritìrati nella terra di Giuda; là mangerai il tuo pane e là potrai profetizzare, ma a Betel non profetizzare più, perché questo è il santuario del re ed è il tempio del regno”.
La replica di Amos, a questo freddo e interessato burocrate del culto, è tagliente: egli è consapevole che alla radice della sua vocazione profetica non c’è una sua scelta personale, né un gusto particolare, né un interesse di carriera, né di guadagno, ma la sorpresa di Dio, l’efficacia della Sua voce che chiama. Dio può chiamare chiunque, anche il meno adatto umanamente, lo ha sempre fatto e lo farà, e chi sceglie non può fare a meno di obbedire. Ricordiamo l’accorato lamento di Geremia: Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre; mi hai fatto forza e hai prevalso. Ger 20,7
Salmo 84 Mostraci, Signore, la tua misericordia.
Ascolterò che cosa dice Dio, il Signore:
egli annuncia la pace
per il suo popolo, per i suoi fedeli.
Sì, la sua salvezza è vicina a chi lo teme,
perché la sua gloria abiti la nostra terra.
Amore e verità s’incontreranno,
giustizia e pace si baceranno.
Verità germoglierà dalla terra
e giustizia si affaccerà dal cielo.
Certo, il Signore donerà il suo bene
e la nostra terra darà il suo frutto;
giustizia camminerà davanti a lui:
i suoi passi tracceranno il cammino.
Il salmista ricorda come Dio ha ricondotto "hai ristabilito la sorte di Giacobbe" da Babilonia. I peccati commessi Dio li ha perdonati, mettendo fine alla sua grande ira.
Questa memoria del perdono di Dio alimenta nel salmista la fiducia che Dio perdonerà le mancanze del popolo, che, ritornato nella Giudea, dimostra tiepidezza nei confronti di Dio e per questo incontra sofferenze (Cf. Ag 1,7).
Il salmista, fortificato dal ricordo della misericordia di Dio, innalza quindi la sua supplica: ”Ritorna a noi, Dio nostra salvezza, e placa il tuo sdegno verso di noi".
Il salmista passa a considerare le profezie, ad ascoltare “cosa dice Dio”, e conclude che Dio presenta un futuro di pace “per chi ritorna a lui con fiducia”. Egli guarda ai tempi messianici, e può dire che “la sua gloria abiti la nostra terra” (Is 60,1s); e che “amore e verità s'incontreranno, giustizia e pace si baceranno”. “Verità germoglierà dalla terra e giustizia si affaccerà dal cielo”, quando verrà il Messia. La sua presenza farà si che “la nostra terra darà il suo frutto”, cioè il frutto di santità per il quale Israele è stato creato. Davanti al “bene” che Dio elargirà, cioè il Messia, “giustizia camminerà davanti a lui: i suoi passi tracceranno il cammino”.
Commento di P.Paolo Berti
Dalla lettera di S.Paolo Apostolo agli Efesini
Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo,
che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo.
In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo
per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità,
predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo,
secondo il disegno d’amore della sua volontà,
a lode dello splendore della sua grazia,
di cui ci ha gratificati nel Figlio amato.
In lui, mediante il suo sangue,
abbiamo la redenzione, il perdono delle colpe,
secondo la ricchezza della sua grazia.
Egli l’ha riversata in abbondanza su di noi
con ogni sapienza e intelligenza,
facendoci conoscere il mistero della sua volontà,
secondo la benevolenza che in lui si era proposto
per il governo della pienezza dei tempi:
ricondurre al Cristo, unico capo, tutte le cose,
quelle nei cieli e quelle sulla terra.
In lui siamo stati fatti anche eredi,
predestinati – secondo il progetto di colui
che tutto opera secondo la sua volontà –
a essere lode della sua gloria,
noi, che già prima abbiamo sperato nel Cristo.
In lui anche voi, dopo avere ascoltato la parola della verità,
il Vangelo della vostra salvezza, e avere in esso creduto,
avete ricevuto il sigillo dello Spirito Santo
che era stato promesso, il quale è caparra della nostra eredità,
in attesa della completa redenzione
di coloro che Dio si è acquistato a lode della sua gloria.
Ef 1,3-14
La Lettera agli Efesini è una delle lettere che la tradizione cristiana attribuisce a S.Paolo, che l'avrebbe scritta durante la sua prigionia a Roma intorno all'anno 62. Gli studiosi moderni però sono divisi su questa attribuzione e la maggioranza ritiene più probabile che la lettera sia stata composta da un altro autore appartenente alla scuola paolina, forse basandosi sulla lettera ai Colossesi, ma in questo caso la datazione della composizione può oscillare, tra l'anno 80 e il 100. La lettera agli Efesini si può dire che è la” lettera della Chiesa” del suo mistero e vita, tanto che anche il Concilio Vaticano II se ne è ampiamente ispirato.
Questo brano, conosciuto anche come Inno cristologico, sotto forma di preghiera e di inno, offre una sintesi dottrinale di tutta la lettera.
Nel primo versetto di introduzione “Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo” riassume tutto ciò che Dio Padre ha fatto per noi mediante Cristo e che si realizza nello spirito.
“In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo, secondo il disegno d’amore della sua volontà, a lode dello splendore della sua grazia, di cui ci ha gratificati nel Figlio amato”. Viene qui descritta la nostra nuova situazione: Dio ci ha prescelti e predestinati fin dall’eternità ad essere Suoi figli per la santità e per l’amore (vv. Rm 8,29; Gv 1,12)
Nella seconda parte “In lui, mediante il suo sangue, abbiamo la redenzione, il perdono delle colpe, secondo la ricchezza della sua grazia….” viene presentata la genesi della nostra identità di figli, spiegando i nostri privilegi cristiani: quelli della redenzione, della conoscenza “facendoci conoscere il mistero della sua volontà, secondo la benevolenza che in lui si era proposto per il governo della pienezza dei tempi:ricondurre al Cristo, unico capo, tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra”
e dell’eredità “In lui siamo stati fatti anche eredi, predestinati – secondo il progetto di colui che tutto opera secondo la sua volontà – a essere lode della sua gloria, noi, che già prima abbiamo sperato nel Cristo.
L’inno si conclude con la dichiarazione: “In lui anche voi, dopo avere ascoltato la parola della verità, il Vangelo della vostra salvezza, e avere in esso creduto, avete ricevuto il sigillo dello Spirito Santo che era stato promesso, il quale è caparra della nostra eredità, in attesa della completa redenzione di coloro che Dio si è acquistato a lode della sua gloria” Questi privilegi perciò sono di tutti, giudei e pagani ( “noi e voi” ) avendo tutti ricevuto, quale pegno dell’eredità, il dono dello Spirito.
L’uomo è dunque chiamato per nome e destinato ad entrare nella comunione divina fino a diventare membro di una famiglia celeste, quella dei figli adottivi di Dio e dei fratelli di Cristo.
Dal Vangelo secondo Marco
In quel tempo, Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro potere sugli spiriti impuri.
E ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tuniche.
E diceva loro: «Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì. Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro».
Ed essi, partiti, proclamarono che la gente si convertisse, scacciavano molti demòni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano.
Mc 6,7-13
Il capitolo del Vangelo di Marco, da dove è preso questo brano, apre con la visita di Gesù a Nazareth e tratta il tema dell’espandersi dell’annunzio del regno di Dio, mediante l’opera dei dodici discepoli, nella Galilea e, in prospettiva, al di fuori di Israele, in tutto il mondo.
Dopo essersi meravigliato per l'incredulità dei suoi compaesani, come abbiamo visto nella scorsa domenica, Gesù non si ferma, ma allarga l'orizzonte del suo insegnamento ai villaggi circostanti. Abbiamo notato che Marco dice che Gesù insegna senza precisare il contenuto dell'insegnamento: forse ciò che vuole far capire è che Gesù stesso, la sua persona, è l'insegnamento.
Il brano inizia dicendo che “Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro potere sugli spiriti impuri”. I discepoli non possono andare da soli, devono andare due a due, perché due persone rappresentano la comunità meglio di una sola e si possono aiutare a vicenda. Ricevono potere sugli spiriti immondi, cioè devono essere di sollievo agli altri nella sofferenza e, attraverso la purificazione, devono aprire le porte di accesso diretto a Dio.
Le raccomandazioni che Gesù dà sono semplici: “E ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tuniche.
Poi aggiunge: Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì. Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro». Il brano termina riferendo che essi partirono.
La missione a cui Gesù invia i suoi discepoli conosce innanzitutto la donazione totale, le mani non devono essere impacciate da borse e denaro; la grandezza della figura dell’apostolo non si misura su programmi ufficiali e su vari abiti da cambiare; il viaggio non è una solenne e raffinata missione diplomatica. Gesù mette anche in conto il rifiuto, con porte che si chiudono, con orecchi che ignorano, con labbra che deridono.
Questo brano ci ricorda che alla radice della nostra storia di credenti e di testimoni c’è un atto di Dio. E’ Dio stesso che rompe il silenzio del Suo mistero con la Sua parola e la Sua azione.
Suggestive sono alcune espressioni dell’apostolo Paolo in alcuni suoi scritti quando dice che si sente “conquistato da Gesù Cristo” (Fil 3,12) e in Galati afferma come elemento fondamentale è “essere conosciuti dal Cristo” prima ancora di “conoscerlo” (4,9)
La vocazione è quindi un lasciarsi afferrare, cercare e trovare da Dio che passa per le strade delle nostre città e delle nostre campagne e bussa alle porte delle nostre case. Sta a noi aprire la nostra porta quando riconosciamo la sua voce per permettergli di venire da noi, cenare con noi e noi con Lui
(Ap 3,20)
*****
"I dodici, sebbene in totale dipendenza da Cristo, da Lui sono designati, accanto a Lui sono stati plasmati e preparati; da Lui sono stati inviati; da Lui hanno ricevuto il potere sugli spiriti immondi; il Suo modo di fare si riflette sul loro; da Lui è stabilito il loro equipaggiamento, povero ed essenziale, affinché si manifesti unicamente la ricchezza ricevuta da Lui e che devono comunicare agli altri; da Lui è proposto il comportamento disinteressato e libero, non soggetto ai condizionamenti dell’alloggio, ma pronto e disponibile all’annuncio.
Uniti saldamente a Cristo, non possono distaccarsene. Per questo, finito il loro compito, torneranno a Lui, per raccontare ciò che hanno fatto e proclamato.
Vi è come un filo conduttore che descrive tutto il percorso missionario dal suo inizio, al suo svolgimento, alla sua fine. Quel filo è costituito da Gesù, propriamente dalla Sua persona e dalla Sua Parola. Gli apostoli non se ne possono allontanare, ne sono coinvolti e travolti totalmente; in Lui, da Lui, per Lui, con Lui vivono, si muovono, annunciano, operano. Niente di più incisivo per rivelare che la fonte, il centro, il culmine, la finalità dell’evangelizzazione si assommano in Cristo. Al di fuori della Sua persona, della Sua Parola, del Suo potere, non può sussistere alcuno spazio, o alcun senso valido per i dodici che intendono portare la salvezza concreta là dove gli uomini esistono e soffrono."
Commento tratto da: Marco I-Interrogativi e sorprese su Gesù” di Renzo Lavatori e Luciano Sole
L'umanità è una grande e immensa famiglia ... Troviamo la dimostrazione di ciò da quello che ci sentiamo nei nostri cuori a Natale.
(Papa Giovanni XXIII)