Il Mercoledì delle Ceneri segna, nella tradizione cristiana, l'inizio della Quaresima, il tempo di preparazione alla Pasqua. Il carattere penitenziale della Quaresima si rende visibile proprio in questo giorno attraverso l’austero rito dell’imposizione delle ceneri che ha la sua origine nel battesimo poiché la penitenza è nell’insieme fondata sulla stessa realtà battesimale per il perdono dei peccati ed è poi ripresa e resa segno espressivo, per quanti ricadono nel peccato, nel sacramento della Riconciliazione.
L’invito alla riconciliazione è naturalmente il filo conduttore di tutte e tre le letture liturgiche.
Nella prima lettura, tratta dal Libro del profeta Gioele, il Signore ci invita a tornare a Lui con tutto il cuore…. Non basta offrire a Dio le primizie della terra, ma bisogna che l’uomo riconosca i propri limiti e offra a Dio il suo cuore pentito.
Nella seconda lettura, nella seconda lettera di S.Paolo ai Corinzi, l’apostolo si presenta come ambasciatore di Cristo ed esorta i Corinzi a riconciliarsi senza indugio con Dio, ricordando quanto sia stato grande l’amore di Dio per loro.
Nel brano del Vangelo Matteo, Gesù ci rivela il senso profondo delle pratiche religiose e penitenziali che prima erano del giudaismo e del cristianesimo: l’elemosina, la preghiera e il digiuno. Gesù ci incoraggia a fare tutto il bene possibile, però nel segreto del proprio cuore, per avere l'approvazione solo dal Padre misericordioso.
Dal libro del profeta Gioele
Così dice il Signore: « ritornate a me con tutto il cuore, con digiuni, con pianti e lamenti.
Laceratevi il cuore e non le vesti,
ritornate al Signore, vostro Dio,
perché egli è misericordioso e pietoso,
lento all’ira, di grande amore, pronto a ravvedersi riguardo al male».
Chi sa che non cambi e si ravveda
e lasci dietro a sé una benedizione?
Offerta e libagione per il Signore, vostro Dio.
Suonate il corno in Sion, proclamate un solenne digiuno, convocate una riunione sacra.
Radunate il popolo, indite un’assemblea solenne,
chiamate i vecchi, riunite i fanciulli, i bambini lattanti; esca lo sposo dalla sua camera
e la sposa dal suo talamo.
Tra il vestibolo e l’altare piangano i sacerdoti, ministri del Signore, e dicano:
«Perdona, Signore, al tuo popolo
e non esporre la tua eredità al ludibrio
e alla derisione delle genti».
Perché si dovrebbe dire fra i popoli:
«Dov’è il loro Dio?».
Il Signore si mostra geloso per la sua terra
e si muove a compassione del suo popolo.
Gl 2,12-18
Il Libro del profeta Gioele è un testo contenuto sia nella Bibbia ebraica (Tanakh) che quella cristiana. E’ stato scritto in ebraico e secondo l'ipotesi maggiormente condivisa dagli studiosi, la redazione del libro è avvenuta nel Regno di Giuda, forse tra la fine VII - inizio VI secolo a.C.. E’ un libro breve, di appena 4 capitoli in cui nella prima parte presenta l'invasione delle cavallette e il ritorno del popolo a Dio che, nel peccato, ha riconosciuto la causa di questa calamità; nella seconda parte predice l'intervento futuro di Dio che, con il perdono, concede il dono dello Spirito santo che fa nuove tutte le cose
Sappiamo molto poco del profeta Gioele, che visse sicuramente a Gerusalemme, il cui nome significa “Yahweh è Dio”, tutto ciò che ci viene detto a suo riguardo si trova in Gioele 1:1: “Parola del Signore, rivolta a Gioele, figlio di Petuel.”Da alcuni è definito il profeta della Pentecoste per la profezia sull'effusione dello Spirito Santo avveratasi il giorno della Pentecoste (Atti 2). È molto difficile stabilire il periodo in cui Gioele profetizzò; comunque, la maggior parte degli studiosi lo considera il primo dei profeti minori, visse durante il regno di Joas (circa 800 a.C.); si è scelta questa datazione perché si ritiene che Amos (760-747) abbia usato i testi di Gioele (v,Amos 9:13). Il tema centrale del messaggio di Gioele è il “Giorno del Signore”, sia sotto l'aspetto negativo sia sotto quello positivo. Egli ne parla negativamente presentando la collera divina, le tenebre e la vendetta contro i malvagi, citando avvenimenti naturali come siccità e invasione di insetti. Ne parla anche positivamente quando presenta la riabilitazione per i giusti, quando Dio invierà a tutti i membri del suo popolo il dono dello Spirito. In questo contesto Gioele parla della valle di Giosafat (dall'ebraico Jehôshafat, «Jahweh giudica»), parola usata per indicare il luogo ideale dove convergeranno tutte le genti. Ogni profeta ha un suo punto di vista e vuole raggiungere dei precisi obiettivi, e Gioele, di fronte ad una grande carestia provocata dall'invasione delle cavallette, che ha colpito la terra di Giuda, non si sente di considerarla un fatto naturale, ma un segno del giudizio di Dio e a questo giudizio non basta prepararsi con un semplice rito penitenziale.
In questo brano egli esprime con queste parole il messaggio del Signore: “ritornate a me con tutto il cuore, con digiuni, con pianti e lamenti. Laceratevi il cuore e non le vesti,ritornate al Signore, vostro Dio, perché egli è misericordioso e pietoso, lento all’ira, di grande amore, pronto a ravvedersi riguardo al male”.
L'invito a lacerarsi il cuore, è un termine che richiama la sofferenza dello strappo da cui si vorrebbe fuggire, ma a leggerlo in profondità, accostandolo ad altri passi biblici, vi troviamo non un invito alla morte ma alla vita, alla pienezza della vita.
Come ultima nota possiamo sottolineare che Gioele è anche un poeta che sa gridare il proprio messaggio con un linguaggio chiaro e tono lirico. E’ il profeta della quaresima e della Pentecoste. Durante le settimane che precedono la Pasqua i testi di Gioele ci esortano ad una seria conversione. Il racconto stesso della Pentecoste vede diffondersi sul mondo itnero i doni dello Spirito che questo profeta promette (At 2,17-21)
Salmo 50- Perdonaci, Signore: abbiamo peccato.
Pietà di me, o Dio, nel tuo amore;
nella tua grande misericordia
cancella la mia iniquità.
Lavami tutto dalla mia colpa,
dal mio peccato rendimi puro.
Sì, le mie iniquità io le riconosco,
il mio peccato mi sta sempre dinanzi.
Contro di te, contro te solo ho peccato,
quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto.
Rendimi la gioia della tua salvezza,
sostienimi con uno spirito generoso.
Signore, apri le mie labbra
e la mia bocca proclami la tua lode.
Questo salmo la tradizione lo dice scritto da Davide dopo il suo peccato, e mi pare di dovere aggiungere durante la congiura del figlio Assalonne, dove Davide vide avverarsi la sventura sulla sua casa annunciatagli dal profeta Natan (2Sam 12,10). Fa un po’ di difficoltà all’attribuzione a Davide del salmo l’ultimo versetto dove l’orante invoca che siano rialzate le mura di Gerusalemme, poiché questo porterebbe al tempo del ritorno dall’esilio. E’ comune, tuttavia, risolvere il caso dicendo che è un’aggiunta messa durante l’esilio per un adattamento del salmo alla situazione di distruzione di Gerusalemme.
Ma considerando che il salmo non poteva essere adatto in tutto alla situazione dell’esilio, poiché sacrifici ed olocausti (“non gradisci il sacrificio; se offro olocausti, non li accetti”) in terra straniera non potevano essere fatti, bisogna pensare che le mura abbattute sono un’immagine drammatica della presa di possesso di Gerusalemme da parte di Assalonne; Gerusalemme era conquistata e come “Città di Davide” veniva a finire.
L’orante si apre a Dio in un invocazione di misericordia. Domanda pietà.
Si sente imbrattato interiormente. Il rimorso lo attanaglia, si sente nella sventura. Non ricorre alla presentazioni di circostanze, di spinte al peccato, lui coscientemente l’ha fatto: “Contro di te, contro te solo ho peccato, quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto”. Tuttavia presenta a Dio la sua debolezza di creatura ferita dall’antica colpa che destò al senso la carne: “Ecco, nella colpa sono io stato nato, nel peccato mi ha concepito mia madre”. Con ciò non intende scusarsi poiché aggiunge che Dio vuole la sincerità nell'intimo, cioè nel cuore, e che anche illumina intimamente il cuore dell’uomo affinché non ceda alle lusinghe del peccato: “Ma tu gradisci la sincerità nel mio intimo, nel segreto del cuore mi insegni la sapienza”.
Ancora l’orante innalza a Dio un grido per essere purificato, per essere liberato dalle sventure che lo colpiscono.
Egli prosegue la sua supplica chiedendo: “Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo”. Il peccato lo ha indebolito, gli sta sempre dinanzi e vorrebbe non averlo commesso.
E’ umile, pienamente umile, e domanda a Dio di non essere respinto dalla sua presenza e privato del dono del suo “santo spirito”; quel “santo spirito” che aveva ricevuto al momento della sua consacrazione a re. Quel “santo spirito” che gli dava forza e sapienza nel governare e nel guidare i sudditi al bene, all’osservanza della legge.
Consapevole della sua debolezza ora domanda umilmente di essere aiutato: “sostieni con me un spirito generoso”.
Ha creato del male ad Israele col suo peccato, ma rimedierà, con l’aiuto di Dio: “Insegnerò ai ribelli le tue vie e i peccatori a te ritorneranno”.
Ma il peccato veramente gli “sta sempre dinanzi”. Egli non solo è stato adultero, ma anche omicida: “Liberami dal sangue, o Dio, Dio mia salvezza”. Salvato dal peccato che l’opprime, egli esalterà la giustizia di Dio, che si attua nella misericordia. Salvato, dal peso del peccato e dalla rottura con Dio egli potrà di nuovo lodare Dio: “La mia bocca proclami la tua lode”.
Ha provato a presentare a Dio sacrifici e olocausti, ma è stato rifiutato. Così ha percependo il rifiuto di Dio è arrivato al massimo del dolore, e questo dolore di contrito lo presenta a Dio: “Uno spirito contrito è sacrificio a Dio”. Egli sa che Dio non disprezza “un cuore contrito e affranto”.
Davide presenta infine Sion, Gerusalemme, che è stata occupata e con ciò è stata messa in difficoltà l’unità di Israele che con tanta fatica aveva saputo costruire.
Riedificate le mura di Gerusalemme, nel senso di ricomposta la forza di Gerusalemme, sede dell’arca e del trono, e attuato un risveglio religioso in Israele, allora i sacrifici e gli olocausti torneranno ad essere graditi a Dio perché fatti nell’osservanza alla legge, nella corrispondenza al dono dell’alleanza.
Commento di P.Paolo Berti
Dalla seconda lettera di S.Paolo Apostolo ai Corinzi
Fratelli, noi, in nome di Cristo, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta.
Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio.
Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio. Poiché siamo suoi collaboratori, vi esortiamo a non accogliere invano la grazia di Dio.
Egli dice infatti: «Al momento favorevole ti ho esaudito e nel giorno della salvezza ti ho soccorso». Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza!
2Cor 5,20-6,2
Paolo scrisse la seconda lettera al Corinzi, spinto dai gravi avvenimenti che avevano scosso la comunità di Corinto. Nell’anno 56 Paolo è a Efeso (At 19) e viene a sapere che alcuni contestatori giudeo-cristiani stanno sollevando la comunità contro di lui. Vi fa una breve visita, ma è ricevuto freddamente, stanco e forse implicato troppo personalmente nel conflitto, non riesce ad aggiustare nulla, anzi la sua visita accresce piuttosto il disordine, si ripromette allora di ritornare in seguito.
Meno ricca della prima in insegnamenti dottrinali, la seconda lettera ai Corinzi ha il grande merito di introdurci nella vita interiore dell’Apostolo, in cui traspare il suo carattere appassionato. E’ una lettera ardente che può essere considerata come il suo diario intimo, le sue “confessioni”.
Nei primi 6 capitoli Paolo ripercorre la sua vocazione di predicatore del Vangelo e della situazione che si era creata con la comunità di Corinto. I contorni veri di questo malinteso non sono chiari , ma questo diventa per Paolo un motivo per ricordare le motivazioni del suo impegno a favore del Vangelo.
Il brano che abbiamo è la parte finale in cui ritroviamo il motivo fondamentale della lettera: la riconciliazione tra Dio e gli uomini.
“…in nome di Cristo, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio”.
Qui Paolo ricorda che la salvezza operata da Cristo, si può considerare come una grande opera di riconciliazione di cui lui, Paolo, ne è ambasciatore. Egli quindi esorta i Corinzi fino a supplicarli a riconciliarsi senza indugio con Dio, ricordando quanto sia stato grande l’amore di Dio per loro. E continua affermando:”Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio”. L'opera della riconciliazione si è potuta realizzare attraverso la morte in croce di Gesù, che pur non avendo peccato è stato trattato da peccato, ha subito la morte del malfattore, perché noi, i veri peccatori, potessimo diventare giusti davanti a Dio.
“Poiché siamo suoi collaboratori, vi esortiamo a non accogliere invano la grazia di Dio”
Di nuovo Paolo ricorda la propria qualità di collaboratore di Dio e in questa veste comunica che questa grazia della riconciliazione richiede una pronta risposta. Non si può rimandare l'adesione a Dio perché si tratta di una realtà davvero importante.
“Egli dice infatti: «Al momento favorevole ti ho esaudito e nel giorno della salvezza ti ho soccorso». Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza!”
Questa citazione è tratta da Is 49,8. Paolo la rilegge come promessa divina che si attua al presente: “ecco ora il il momento favorevole!” Riconciliarsi con Dio per l'apostolo è esigenza improrogabile, perché per la storia umana è suonata l'ora in cui Dio ha deciso di accogliere come amici coloro che gli erano diventati nemici. E' il giorno della pace con il Padre e tra gli uomini!
Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «State attenti a non praticare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere ammirati da loro, altrimenti non c’è ricompensa per voi presso il Padre vostro che è nei cieli. Dunque, quando fai l’elemosina, non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipòcriti nelle sinagoghe e nelle strade, per essere lodati dalla gente. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Invece, mentre tu fai l’elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra, perché la tua elemosina resti nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.
E quando pregate, non siate simili agli ipòcriti che, nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, amano pregare stando ritti, per essere visti dalla gente. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Invece, quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.
E quando digiunate, non diventate malinconici come gli ipòcriti, che assumono un’aria disfatta per far vedere agli altri che digiunano. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Invece, quando tu digiuni, profùmati la testa e làvati il volto, perché la gente non veda che tu digiuni, ma solo il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà».
Mt 6,1-6,16-18
Questo brano del Vangelo di Matteo fa parte del discorso della montagna, in cui Gesù presenta le nove Beatitudini. Il discorso segue quanto detto prima nel versetto 5,20; “ se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli”, e questo brano inizia con il monito: “State attenti a non praticare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere ammirati da loro, altrimenti non c’è ricompensa per voi presso il Padre vostro che è nei cieli.”
Il termine giustizia è usato nella Bibbia per riassumere i rapporti dell'uomo con Dio, la pietà, la religiosità, la fede e con questo termine Gesù intendeva un comportamento che sia conforme alla volontà divina.
Dunque, quando fai l’elemosina, non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipòcriti nelle sinagoghe e nelle strade, per essere lodati dalla gente. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa.
Gesù non voleva dire che non bisogna mai compiere azioni buone in pubblico, dato che aveva esortato prima i discepoli a far ‘risplendere la loro luce davanti agli uomini’. (Mt. 5:14-16) , ma non avremo nessuna “ricompensa’” dal nostro Padre celeste se facciamo le cose “per essere osservati” e ammirati, come attori che recitano a teatro.
I “doni di misericordia” erano offerte a favore dei bisognosi. (v. Isaia 58:6, 7). Gesù e gli apostoli avevano un fondo comune da usare per aiutare i poveri. (Gv. 12:5-8; 13:29), dato che prima di fare l’elemosina non si suonava letteralmente la tromba, Gesù evidentemente usò un esempio esagerato quando disse che non dobbiamo “suonare la tromba” (1) davanti a noi quando facciamo “l’elemosina” . Non dobbiamo cioè sbandierare la nostra generosità, come facevano i farisei. Gesù li chiama ipocriti perché rendevano note le loro offerte “nelle sinagoghe e nelle strade”. Quegli ipocriti ‘hanno già ricevuto la loro ricompensa”, ossia avrebbero ricevuto soltanto il plauso degli uomini non certo il premio del Signore.
Come dovevano agire invece i discepoli ed anche noi oggi? Gesù dice: “quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà” .
Ci ricompensa permettendoci di stringere un’intima relazione con Lui, perdonando i nostri peccati e concedendoci la vita eterna. (Prov. 3:32; Giov. 17:3; Efes. 1:7) Questo è decisamente meglio che ricevere l’approvazione degli uomini. Gesù incoraggia a fare tutto il bene possibile, però nel segreto del proprio cuore, per avere l'approvazione solo dal Padre misericordioso.
Nel capitolo precedente Gesù ha esortato ad essere perfetti come è perfetto il Padre celeste (5,48), ora Egli spiega ai suoi discepoli che è la relazione con il Padre la sorgente del nostro essere e agire; solo in Lui essi si possono sentire come figli liberi, amati e felici, capaci di portare tanto frutto di bontà verso gli altri.
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Messaggio del Santo Padre Francesco per la Quaresima 2019
“Digiunare, cioè imparare a cambiare il nostro atteggiamento verso gli altri e le creature”
«L’ardente aspettativa della creazione è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio» (Rm 8,19)
Cari fratelli e sorelle,
ogni anno, mediante la Madre Chiesa, Dio «dona ai suoi fedeli di prepararsi con gioia, purificati nello spirito, alla celebrazione della Pasqua, perché […] attingano ai misteri della redenzione la pienezza della vita nuova in Cristo» (Prefazio di Quaresima 1). In questo modo possiamo camminare, di Pasqua in Pasqua, verso il compimento di quella salvezza che già abbiamo ricevuto grazie al mistero pasquale di Cristo: «nella speranza infatti siamo stati salvati» (Rm 8,24). Questo mistero di salvezza, già operante in noi durante la vita terrena, è un processo dinamico che include anche la storia e tutto il creato. San Paolo arriva a dire: «L’ardente aspettativa della creazione è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio» (Rm 8,19). In tale prospettiva vorrei offrire qualche spunto di riflessione, che accompagni il nostro cammino di conversione nella prossima Quaresima.
1. La redenzione del creato
La celebrazione del Triduo Pasquale della passione, morte e risurrezione di Cristo, culmine dell’anno liturgico, ci chiama ogni volta a vivere un itinerario di preparazione, consapevoli che il nostro diventare conformi a Cristo (cfr Rm 8,29) è un dono inestimabile della misericordia di Dio. Se l’uomo vive da figlio di Dio, se vive da persona redenta, che si lascia guidare dallo Spirito Santo (cfr Rm 8,14) e sa riconoscere e mettere in pratica la legge di Dio, cominciando da quella inscritta nel suo cuore e nella natura, egli fa del bene anche al creato, cooperando alla sua redenzione. Per questo il creato – dice san Paolo – ha come un desiderio intensissimo che si manifestino i figli di Dio, che cioè quanti godono della grazia del mistero pasquale di Gesù ne vivano pienamente i frutti, destinati a raggiungere la loro compiuta maturazione nella redenzione dello stesso corpo umano. Quando la carità di Cristo trasfigura la vita dei santi – spirito, anima e corpo –, questi danno lode a Dio e, con la preghiera, la contemplazione, l’arte coinvolgono in questo anche le creature, come dimostra mirabilmente il “Cantico di frate sole” di San Francesco d’Assisi (cfr Enc. Laudato si’, 87). Ma in questo mondo l’armonia generata dalla redenzione è ancora e sempre minacciata dalla forza negativa del peccato e della morte.
2. La forza distruttiva del peccato
Infatti, quando non viviamo da figli di Dio, mettiamo spesso in atto comportamenti distruttivi verso il prossimo e le altre creature – ma anche verso noi stessi – ritenendo, più o meno consapevolmente, di poterne fare uso a nostro piacimento. L’intemperanza prende allora il sopravvento, conducendo a uno stile di vita che vìola i limiti che la nostra condizione umana e la natura ci chiedono di rispettare, seguendo quei desideri incontrollati che nel libro della Sapienza vengono attribuiti agli empi, ovvero a coloro che non hanno Dio come punto di riferimento delle loro azioni, né una speranza per il futuro (cfr 2,1-11). Se non siamo protesi continuamente verso la Pasqua, verso l’orizzonte della Risurrezione, è chiaro che la logica del tutto e subito, dell’avere sempre di più finisce per imporsi. La causa di ogni male, lo sappiamo, è il peccato, che fin dal suo apparire in mezzo agli uomini ha interrotto la comunione con Dio, con gli altri e con il creato, al quale siamo legati anzitutto attraverso il nostro corpo.
Rompendosi la comunione con Dio, si è venuto ad incrinare anche l’armonioso rapporto degli esseri umani con l’ambiente in cui sono chiamati a vivere, così che il giardino si è trasformato in un deserto (cfr Gen 3,17-18). Si tratta di quel peccato che porta l’uomo a ritenersi dio del creato, a sentirsene il padrone assoluto e a usarlo non per il fine voluto dal Creatore, ma per il proprio interesse, a scapito delle creature e degli altri. Quando viene abbandonata la legge di Dio, la legge dell’amore, finisce per affermarsi la legge del più forte sul più debole. Il peccato che abita nel cuore dell’uomo (cfr Mc 7,20-23) – e si manifesta come avidità, brama per uno smodato benessere, disinteresse per il bene degli altri e spesso anche per il proprio – porta allo sfruttamento del creato, persone e ambiente, secondo quella cupidigia insaziabile che ritiene ogni desiderio un diritto e che prima o poi finirà per distruggere anche chi ne è dominato.
3. La forza risanatrice del pentimento e del perdono
Per questo, il creato ha la necessità impellente che si rivelino i figli di Dio, coloro che sono diventati “nuova creazione”: «Se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove» (2 Cor 5,17). Infatti, con la loro manifestazione anche il creato stesso può “fare pasqua”: aprirsi ai cieli nuovi e alla terra nuova (cfr Ap 21,1). E il cammino verso la Pasqua ci chiama proprio a restaurare il nostro volto e il nostro cuore di cristiani, tramite il pentimento, la conversione e il perdono, per poter vivere tutta la ricchezza della grazia del mistero pasquale. Questa “impazienza”, questa attesa del creato troverà compimento quando si manifesteranno i figli di Dio, cioè quando i cristiani e tutti gli uomini entreranno decisamente in questo “travaglio” che è la conversione. Tutta la creazione è chiamata, insieme a noi, a uscire «dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio» (Rm 8,21). La Quaresima è segno sacramentale di questa conversione. Essa chiama i cristiani a incarnare più intensamente e concretamente il mistero pasquale nella loro vita personale, familiare e sociale, in particolare attraverso il digiuno, la preghiera e l’elemosina.
Digiunare, cioè imparare a cambiare il nostro atteggiamento verso gli altri e le creature: dalla tentazione di “divorare” tutto per saziare la nostra ingordigia, alla capacità di soffrire per amore, che può colmare il vuoto del nostro cuore. Pregare per saper rinunciare all’idolatria e all’autosufficienza del nostro io, e dichiararci bisognosi del Signore e della sua misericordia. Fare elemosina per uscire dalla stoltezza di vivere e accumulare tutto per noi stessi, nell’illusione di assicurarci un futuro che non ci appartiene. E così ritrovare la gioia del progetto che Dio ha messo nella creazione e nel nostro cuore, quello di amare Lui, i nostri fratelli e il mondo intero, e trovare in questo amore la vera felicità.
Cari fratelli e sorelle, la “quaresima” del Figlio di Dio è stata un entrare nel deserto del creato per farlo tornare ad essere quel giardino della comunione con Dio che era prima del peccato delle origini (cfr Mc 1,12-13; Is 51,3). La nostra Quaresima sia un ripercorrere lo stesso cammino, per portare la speranza di Cristo anche alla creazione, che «sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio» (Rm 8,21). Non lasciamo trascorrere invano questo tempo favorevole! Chiediamo a Dio di aiutarci a mettere in atto un cammino di vera conversione. Abbandoniamo l’egoismo, lo sguardo fisso su noi stessi, e rivolgiamoci alla Pasqua di Gesù; facciamoci prossimi dei fratelli e delle sorelle in difficoltà, condividendo con loro i nostri beni spirituali e materiali. Così, accogliendo nel concreto della nostra vita la vittoria di Cristo sul peccato e sulla morte, attireremo anche sul creato la sua forza trasformatrice.
(1) Sul termine “suonare la tromba” un esegeta ha dato un’ulteriore spiegazione: il tempio di Gerusalemme aveva fuori le fessure da cui entravano le monete e all’interno del tempio c’era una piccola stanzetta, dove andava chi voleva fare un’offerta senza essere visto. Quando la gente voleva essere notata, l’offerta la faceva fuori, non soltanto perché era visibile, ma perché le monete entrando scivolavano e facevano un rumore come di tromba molto forte, e tutti si giravano per ammirare. Realmente c’era un’acustica ed era stato fatto apposta perché si lodasse e si evidenziasse la persona.
Come domenica scorsa, anche oggi siamo invitati a continuare e a concludere la lettura del “Discorso della Pianura” dell’evangelista Luca, una pagina dominata dal tema dell’amore e della misericordia.
Anche nella prima lettura, tratta dal Libro del Siracide, vediamo quanto sia importante nella valutazione della qualità di ogni persona, la sua parola. Essa manifesta realmente chi ciascuno veramente sia: “Non lodare nessuno prima che abbia parlato,poiché questa è la prova degli uomini.”
Nella seconda lettura, l’apostolo Paolo continuando la sua lettera ai Corinzi, termina il suo discorso sulla risurrezione con un inno di trionfo e di ringraziamento per la vittoria che abbiamo riportato sulla morte, grazie alla risurrezione di Gesù.
Nel Vangelo di Luca, Gesù attraverso la parabola del cieco che non può guidare un altro cieco, della pagliuzza e della trave nel occhio, dell’albero che si riconosce dai frutti, condanna l’ipocrisia, la falsa religiosità e il giudizio interessato.
Tutti noi siamo chiamati a far vivere questa Parola in noi, fino a farci abitare da Cristo che si comunica a noi nella Chiesa attraverso il dono del suo Spirito. Nella misura in cui lo faremo saremo in grado di testimoniare Cristo non solo a parole, ma anche con i fatti, divenendo come quell’albero buono che può produrre solo frutti buoni.
Dal libro del Siràcide
Quando si scuote un setaccio
restano i rifiuti;
così quando un uomo discute,
ne appaiono i difetti.
I vasi del ceramista li mette a prova la fornace,
così il modo di ragionare è il banco di prova per un uomo.
Il frutto dimostra come è coltivato l’albero,
così la parola rivela i pensieri del cuore.
Non lodare nessuno prima che abbia parlato,
poiché questa è la prova degli uomini
Sir 27, 4-7 NV 27 5-8)
Il libro del Siracide è un libro un po’ particolare perché fa parte della Bibbia cristiana, ma non figura nel canone ebraico. Si tratta di un testo deuterocanonico che, assieme ai libri di Rut, Tobia, Maccabei I e II, Giuditta, Sapienza e le parti greche del libro di Ester e di Daniele, è considerato ispirato nella tradizione cattolica e ortodossa, per cui è stato accolto dalla Chiesa Cattolica, mentre la tradizione protestante lo considera apocrifo.
È stato scritto originariamente in ebraico a Gerusalemme attorno al 196-175 a.C. da Yehoshua ben Sira (tradotto "Gesù figlio di Sirach", da qui il nome del libro "Siracide"), un giudeo di Gerusalemme, in seguito fu tradotto in greco dal nipote poco dopo il 132 a.C. che nel prologo spiega che tradusse il libro quando si trovava a soggiornare ad Alessandria d’Egitto, nel 38° anno del regno Tolomeo VIII, che regnò in Egitto a più riprese a partire dal 132 a.C.. Benché non sia stato accolto nel canone ebraico, il Siracide è citato frequentemente negli scritti rabbinici; nel Nuovo Testamento la lettera di Giacomo vi attinge molte espressioni, ed anche la saggezza popolare fa proprie alcune massime.
Il libro è composto da 51 capitoli e si possono così suddividere:
Prologo (del traduttore greco) - La sapienza guida la vita dell'uomo (1,1-23,28) - L'elogio della sapienza (24,1-42,14) - La sapienza di Dio nella creazione (42,15-43,33) La sapienza di Dio nella storia d'Israele (44,1-50,29) - Preghiera di Gesù figlio di Sira (51,1-30).
Questo brano, estratto dalla parte che tratta l’elogio della sapienza, nel capitolo 27 con massime e assiomi ci insegna a conoscere l’uomo e ci invita anche a conoscere noi stessi.
Nel tema della Parola dice: “Quando si scuote un setaccio restano i rifiuti; così quando un uomo discute, ne appaiono i difetti.” …. Come quando si agita un setaccio, restano i rifiuti; così quando un uomo riflette, appaiono i suoi difetti. Il vero valore di una persona si scopre solo attraverso un’analisi del suo linguaggio, cioè delle sue espressioni.
“Non lodare nessuno prima che abbia parlato,poiché questa è la prova degli uomini “. E’ la parola infatti che rivela il sentimento dell’uomo, che manifesta realmente chi ciascuno veramente sia. Chi ha la mente e il cuore pieni della sapienza di Dio da lui non possono che venire cose buone.
Gesù quando parlava di frutti non intendeva solo parole , ma piuttosto tutto il modo di comportarsi e di vivere. Le parole possono ingannare chi non conosce la persona, non chi ci vive insieme.
Salmo 92 /91 - E’ bello rendere grazie al Signore
E’ bello rendere grazie al Signore
e cantare al tuo nome, o Altissimo,
annunciare al mattino il tuo amore,
la tua fedeltà lungo la notte
Il giusto fiorirà come palma,
crescerà come cedro del Libano;
piantati nella casa del Signore,
fioriranno negli atri del nostro Dio
Nella vecchiaia daranno ancora frutti,
saranno verdi e rigogliosi,
per annunciare quanto è retto il Signore,
mia roccia: in lui non c’è malvagità.
Il salmo esordisce presentando la bellezza del dar lode a Dio, della preghiera che canta contemplando ciò che Dio è: “Al tuo nome, o Altissimo”.
Il salmo è individuale, ma celebra la preghiera liturgica del tempio, dove erano in uso gli strumenti musicali e dove si lodava Dio anche durante veglie notturne. A
questa preghiera nel tempio egli partecipava.
Il salmista, probabilmente un levita, riflette sulla grandezza delle opere di Dio: la liberazione dall'Egitto, l'alleanza del Sinai, la conquista della Terra Promessa, la costruzione del tempio.
Egli osserva che i pensieri di Dio hanno una profondità tale che gli uomini non possono esaurirne la comprensione (Cf. Ps 35,7; 39,6).
Gli uomini insensati non sono umili, per questo non possono intendere le cose di Dio, e scelgono i loro vaneggiamenti che li conducono alla rovina eterna, che come tale è irreversibile. Il loro fiorire e affermarsi “è solo per la loro eterna rovina”.
Il salmista ha molti nemici, che sono anche e principalmente nemici di Dio, ma riceve da Dio la forza per la lotta: “Tu mi doni la forza di un bufalo, mi hai cosparso di olio splendete”. Noi in Cristo la forza la riceviamo dallo Spirito Santo, e l'olio che abbiamo ricevuto è quello del crisma del sacramento della Confermazione.
La forza e la sicurezza che il salmista sente nella fede lo porta a non temere gli uomini, gli avversari: “I miei occhi disprezzeranno i miei nemici”. Per noi cristiani non c'è il disprezzo dei nemici in quanto persone, ma solo disprezzo delle loro lusinghe per travolgerci, delle loro intimidazioni per fiaccarci.
E' certo che gli empi non potranno prosperare che per un attimo, ma poi cadranno in rovina: “Contro quelli che mi assalgono, i miei orecchi udranno sventure”.
Il contrario avverrà per i giusti, che si radicano nella frequentazione del tempio, e per questo fioriranno “negli atri del nostro Dio”, e nella vecchiaia “daranno ancora frutti”. Esempi perfetti di questo sono Simeone ed Anna (Lc 2,25s.36s).
Commento di P. Paolo Berti
Dalla prima lettera di S.Paolo apostolo ai Corinzi
Fratelli, quando questo corpo corruttibile si sarà vestito d’incorruttibilità e questo corpo mortale d’immortalità, si compirà la parola della Scrittura:
La morte è stata inghiottita nella vittoria.
Dov’è, o morte, la tua vittoria?
Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?
Il pungiglione della morte è il peccato e la forza del peccato è la Legge. Siano rese grazie a Dio, che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo!
Perciò, fratelli miei carissimi, rimanete saldi e irremovibili, progredendo sempre più nell’opera del Signore, sapendo che la vostra fatica non è vana nel Signore..
1Cor 15, 54-58
Continuando la sua prima lettera ai Corinzi, nel capitolo 15, che abbiamo iniziato nella V domenica, San Paolo in questo brano termina il suo discorso sulla risurrezione con un inno di trionfo e di ringraziamento per quanto Dio ha concesso agli uomini con la vittoria della vita sulla morte per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo.
“Quando questo corpo corruttibile si sarà vestito d’incorruttibilità e questo corpo mortale d’immortalità, si compirà la parola della Scrittura: La morte è stata inghiottita nella vittoria.
Dov’è, o morte, la tua vittoria?Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?”
Paolo nel brano precedente aveva cercato di spiegare come sarebbe avvenuta la risurrezione dai morti. Il corpo come un seme sarebbe stato sepolto nella terra e sarebbe risorto nella gloria e nell'incorruttibilità. E quando ciò avverrà, si avvereranno le parole della Scrittura. (Paolo cita liberamente un passo di Isaia 25,8 e Osea 13,14) Anche l’Apocalisse tratta la fine della morte in Ap 20,14.
“Il pungiglione della morte è il peccato e la forza del peccato è la Legge.”
La morte, potenza malefica, per esercitare la sua distruttività a danno dell’uomo, si avvale del peccato che ne è il velenoso pungiglione. La legge è la norma, il precetto, ed ha il suo compito per quanto riguarda l’ordine morale del singolo e del popolo di Dio. Da se stessa, però, la legge non ha la forza perché questa vittoria si adempia; è come un circolo vizioso tra legge e peccato che porta dunque alla morte. Ciò che la supera, infondendo tutto il vigore necessario al credente, è solo Gesù Cristo. (Una riflessione profonda sullo stretto rapporto esistente tra legge, peccato e morte, Paolo la fa nelle lettere ai Galati e ai Romani).
“Siano rese grazie a Dio, che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo!”
Paolo ringrazia infine Dio che grazie alla morte e alla risurrezione di Gesù, primizia di coloro che sono morti, ci dona la vittoria sulla morte.
“Perciò, fratelli miei carissimi, rimanete saldi e irremovibili, progredendo sempre più nell’opera del Signore, sapendo che la vostra fatica non è vana nel Signore”.
E’ una calda esortazione a una fedeltà che trova nella perseveranza il suo modo d’essere irremovibile. Conseguenza diretta della fede nel Cristo risorto, ben lungi dal costringere i credenti ad avere pensieri di timore del futuro o della morte, li rinforza e li rende protagonisti di un agire in funzione di quell’opera del Signore” che è sempre relativa al suo precetto: l’amore reciproco che difende e fa trasformare gradualmente l’uomo dentro ciò che è vero, buono, bello. Non è certo facile, ed è certamente faticoso e Paolo lo riconosce, ma nel Signore (con la sua grazia) la fatica non è certo vana.
Dal Vangelo secondo Luca
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli una parabola:
«Può forse un cieco guidare un altro cieco? Non cadranno tutti e due in un fosso? Un discepolo non è più del maestro; ma ognuno, che sia ben preparato, sarà come il suo maestro.
Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio? Come puoi dire al tuo fratello: “Fratello, lascia che tolga la pagliuzza che è nel tuo occhio”, mentre tu stesso non vedi la trave che è nel tuo occhio? Ipocrita! Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello.
Non vi è albero buono che produca un frutto cattivo, né vi è d’altronde albero cattivo che produca un frutto buono. Ogni albero infatti si riconosce dal suo frutto: non si raccolgono fichi dagli spini, né si vendemmia uva da un rovo.
L’uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male: la sua bocca infatti esprime ciò che dal cuore sovrabbonda.
Lc 6, 39-45
Come domenica scorsa, anche oggi nel brano che abbiamo continuiamo la lettura del “Discorso della pianura” come ce la presenta l’Evangelista Luca, tutta dominata dal tema dell’amore e della misericordia.
Nel primo versetto Gesù presenta ai suoi discepoli una mini-parabola o proverbio forse presa da una raccolta di detti della sapienza popolare: :
“Può forse un cieco guidare un altro cieco? Non cadranno tutti e due in un fosso? Un discepolo non è più del maestro; ma ognuno, che sia ben preparato, sarà come il suo maestro”
L’uomo per essere guida di un altro deve avere in sé una luce interiore, altrimenti è destinato a essere causa di rovina non solo per sé ma anche per altri. A differenza di Matteo, che questo detto lo applica ai farisei, che chiama guide cieche, Luca invece lo riferisce a tutti quelli, compresi i discepoli, che si sentono autorizzati a giudicare e a condannare gli altri. Sono ciechi perché non si ritengono bisognosi della misericordia di Dio e perciò non la usano neanche verso gli altri. Praticamente si sostituiscono a Dio, perché credono di essere in grado di giudicare da soli ciò che è bene e ciò che è male.
Poi Gesù pone un’altra infermità sempre nell’ambito della vista:
“Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio? Come puoi dire al tuo fratello: “Fratello, lascia che tolga la pagliuzza che è nel tuo occhio”, mentre tu stesso non vedi la trave che è nel tuo occhio? “
Sono parole che ci accusano di essere ”falsi maestri”, anche quando tendiamo, quasi istintivamente, a giudicare e a condannare il comportamento degli altri senza tener conto del nostro. Usiamo in questo modo due misure, una per giudicare gli altri e un’altra per giudicare noi stessi.
“Ipocrita! Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello”. Solo se si fa un esame serio su noi stessi, si trova la giusta misura con cui regolare la critica verso gli altri. Infine se ci consideriamo, come siamo, tutti peccatori e quindi bisognosi della misericordia Dio, non possiamo non usare misericordia verso gli altri e perdonare.
È importante notare che in questi versetti la parola “fratello” è riportata per ben quattro volte per indicarci che il prossimo ha la stessa nostra dignità, come l’ha chi ci è fratello. Chi critica l’altro senza aver prima fatto autocritica, è considerato da Luca un ipocrita. Sicuramente Luca non gli dà il significato che noi oggi diamo a questa parola, ma a quello che gli veniva attribuito nel teatro greco dove l’ipocrita è il protagonista che risponde alle domande del coro. L’ipocrita è quindi chi vuole mettersi al centro di tutto, al posto di Dio, come giudice degli altri.
“Non vi è albero buono che produca un frutto cattivo, né vi è d’altronde albero cattivo che produca un frutto buono”. “Ogni albero infatti si riconosce dal suo frutto: non si raccolgono fichi dagli spini, né si vendemmia uva da un rovo.”
E’ un dato naturale, dalla natura dell’albero dipende il tipo di frutto. Dal frutto, che si raccoglie, si capisce di quale albero si tratta.
“L’uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male: la sua bocca infatti esprime ciò che dal cuore sovrabbonda.”
Chi mette in pratica queste parole di Gesù diventa automaticamente una persona sincera, umile e giusta. Non si arrogherà il diritto di giudicare gli altri, ma si umilierà “sino alla condizione di servo” come il Cristo per salvare il fratello. Non si nasconderà dietro alla dignità del suo nome e della sua professione per essere servito, ma si presenterà per servire. Dal profondo del suo cuore non porterà astio, ma dolcezza e mitezza, dall’albero della sua vita non coglierà frutti velenosi, ma darà cibo e disseterà , come ha fatto Gesù durante la sua esistenza terrena. Dalle sue labbra non usciranno parole che fanno male, ma parole che sono “spirito e vita” . Questo brano quando lo si comprenderà pienamente, si trasformerà in un canto d’amore ma anche in una celebrazione della sincerità del cuore contro ogni orgoglio e ipocrisia. Il teologo Dietrich Bonhoeffer, morto martire nei campi di concentramento nazisti, nella sua opera ”Etica” ricordava che “la bontà non è una qualità della vita, ma la vita stessa e che essere buono significa vivere” . E’ per questo che Gesù ha definito gli ipocriti “sepolcri imbiancati” (Mt 23,27) che si illudono di mostrarsi vivi e rigogliosi, in realtà avendo un cuore inquinato, essi sono senza vita, ciechi e spenti.
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Le Parole di Papa Francesco
Papa Francesco, durante l’omelia di oggi in Casa Santa Marta, ha invitato i fedeli presenti a guardarsi allo specchio prima di permettersi di giudicare gli altri: il Santo Padre ha ricordato come l’unico cui sia permesso giudicare è Dio e come al cristiano non spetti il giudizio ma piuttosto la prossimità ai propri fratelli, la comprensione e la preghiera.
Il Vescovo di Roma, commentando la Lettura del Vangelo di oggi (Mt 7,1-5), durante l’ultima celebrazione pubblica prima della pausa estiva che durerà fino a settembre, ha sottolineato come il consiglio che viene espresso nella Lettura sia quello di guardarsi “allo specchio, ma non per truccarti, perché non si vedano le rughe. No, no, no, quello non è il consiglio! – ha commentato Bergoglio – Guardati allo specchio per guardare te, come tu sei. ‘Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio di tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio?’“.
Queste parole del Vangelo di oggi ci dicono come “ci qualifica il Signore, quando facciamo questo“, ha aggiunto il Pontefice: il Signore ci dice “una sola parola: ‘Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello’. Per questo è tanto brutto giudicare“, ha aggiunto.
Come cristiani dobbiamo guardarci dalla tentazione del giudicare i fratelli: il giudizio, infatti, compete “solo a Dio, solo a Lui! A noi l’amore, la comprensione, il pregare per gli altri quando vediamo cose che non sono buone, ma anche parlare loro: ‘Ma, senti, io vedo questo, forse…’ Ma mai giudicare. Mai“.
Durante la giornata di oggi ci farà bene, dunque, pensare “a questo che il Signore ci dice: non giudicare, per non essere giudicato; la misura, il modo, la misura con la quale giudichiamo sarà la stessa che useranno con noi; e, terzo, guardiamoci allo specchio prima di giudicare. – ha concluso Papa Francesco – ‘Ma questa fa quello… questo fa quello…’ ‘Ma, aspetta un attimo…’, mi guardo allo specchio e poi penso. Al contrario sarò un ipocrita, perché mi metto al posto di Dio e, anche, il mio giudizio è un povero giudizio; gli manca qualcosa di tanto importante che ha il giudizio di Dio, gli manca la misericordia. Che il Signore ci faccia capire bene queste cose“.
Parte dell’Omelia di Papa Francesco della S. Messa del 20 giugno 2016
Cappella della Casa Santa Marta, Vaticano
Le letture che la liturgia di questa domenica ci propone, hanno come tema l’amore senza misura verso tutti e nonostante tutto. L’amore per i nemici così umanamente difficile, sgorga dalla paternità universale di Dio e si dove concretizzare nei gesti della nostra vita quotidiana e nel nostro comportamento.
Nella prima lettura, tratta dal libro di Samuele leggiamo che Davide rinunzia a vendicarsi di Saul, che pure cercava di farlo morire. Davide preferisce rimettere a Dio, che è fedele con chi compie il bene, ogni giudizio.
Nella seconda lettura, l’apostolo Paolo continuando la sua lettera ai Corinzi, stabilisce un confronto tra Cristo e Adamo. Il primo Adamo, dà origine a una discendenza terrena e mortale, l’ultimo Adamo, cioè Cristo, è capostipite di una nuova umanità, redenta dal peccato e dalla morte ,
Il Vangelo di Luca ci presenta le prime parole di un discorso di Gesù (simile al “Discorso
della montagna dell’evangelista Matteo), che insistono sulla legge della carità, amore per i nemici, aiuto scambievole, perdono delle offese. Gesù spazza via tutti i limiti e ci chiede di far saltare l’ingranaggio dei conflitti e degli odi. L’amore gratuito è senza frontiere, come quello di Dio e di Gesù, che sulla croce ce ne ha dato l’esempio.
Dal primo libro di Samuele
In quei giorni, Saul si mosse e scese nel deserto di Zif, conducendo con sé tremila uomini scelti d’Israele, per ricercare Davide nel deserto di Zif.
Davide e Abisài scesero tra quella gente di notte, ed ecco Saul dormiva profondamente tra i carriaggi e la sua lancia era infissa a terra presso il suo capo, mentre Abner con la truppa dormiva all’intorno. Abisài disse a Davide: «Oggi Dio ti ha messo nelle mani il tuo nemico. Lascia dunque che io l’inchiodi a terra con la lancia in un sol colpo e non aggiungerò il secondo». Ma Davide disse ad Abisài: «Non ucciderlo! Chi mai ha messo la mano sul consacrato del Signore ed è rimasto impunito?».
Davide portò via la lancia e la brocca dell’acqua che era presso il capo di Saul e tutti e due se ne andarono; nessuno vide, nessuno se ne accorse, nessuno si svegliò: tutti dormivano, perché era venuto su di loro un torpore mandato dal Signore.
Davide passò dall’altro lato e si fermò lontano sulla cima del monte; vi era una grande distanza tra loro.
E Davide gridò: «Ecco la lancia del re: passi qui uno dei servitori e la prenda! Il Signore renderà a ciascuno secondo la sua giustizia e la sua fedeltà, dal momento che oggi il Signore ti aveva messo nelle mie mani e non ho voluto stendere la mano sul consacrato del Signore.
1 Sam 26,2.7-9.12-13.22.23
Il Libro di Samuele, diviso in due parti solo perchè era troppo lungo (31 capitoli il primo e 24 capitoli il secondo) nella traduzione greca detta dei settanta (LXX) furono uniti ai due libri dei Re, e tutti e quattro furono chiamati “libri dei Regni”.
Sono stati scritti in ebraico e secondo molti studiosi, la loro redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte.
Sia i libri di Samuele che quelli dei Re hanno come unico progetto, quello di tratteggiare la vicenda storica di Israele dalla fine dell'epoca dei Giudici fino alla fine della monarchia con l'invasione babilonese di Nabucodonosor: un arco di tempo che comprende ben sei secoli.
Il primo libro, da cui questo brano viene tratto, descrive l'abbandono dell'ordinamento giuridico dei Giudici, con cui spesso le tribù si governavano in modo indipendente l'una dall'altra, e la storia di due personaggi: il profeta Samuele e Saul, il primo re d’Israele ma anche l’ingresso nella narrazione di quello che sarà il re più importante del Regno a cui è dedicato tutto il secondo libro di Samuele: Davide.
In questo brano, ci viene narrato un episodio della vita di Davide , che spiega bene il pensiero centrale del Vangelo: l’amore dei nemici, manifestato nel perdono.
“Saul si era mosso, conducendo con sé tremila uomini scelti d’Israele, per ricercare Davide nel deserto di Zif.”
Davide, perseguitato a morte dall'invidioso re Saul, insieme ad Abisai (suo nipote) scesero tra quella gente di notte, ed arrivarono sino alla tenda di Saul che “dormiva profondamente tra i carriaggi e la sua lancia era infissa a terra presso il suo capo, mentre Abner con la truppa dormiva all’intorno”.
Davide, consigliato da Abisai, avrebbe avuto la possibilità di uccidere Saul ma non lo fa perchè vede nel re il rappresentante di Dio, il Suo consacrato. Dice infatti al fedele Abisai “Non ucciderlo! Chi mai ha messo la mano sul consacrato del Signore ed è rimasto impunito?”.
Si limita a prendere degli oggetti (la lancia e la brocca dell’acqua che era presso il capo di Saul) per dare poi dimostrazione di essere stato lì e della possibilità che aveva avuto di ucciderlo. Infatti dopo che era a debita distanza di sicurezza da Saul gridò “Ecco la lancia del re: passi qui uno dei servitori e la prenda! Il Signore renderà a ciascuno secondo la sua giustizia e la sua fedeltà, dal momento che oggi il Signore ti aveva messo nelle mie mani e non ho voluto stendere la mano sul consacrato del Signore.
Davide preferisce in quel modo rimettere a Dio, che è fedele con chi compie il bene, ogni giudizio. Così diventa in un certo senso la figura di Cristo che è modello di amore per i nemici.
Salmo 102 - Il Signore è buono e grande nell’amore.
Benedici il Signore, anima mia,
quanto è in me benedica il suo santo nome.
Benedici il Signore, anima mia,
non dimenticare tutti i suoi benefici.
Egli perdona tutte le tue colpe,
guarisce tutte le tue infermità,
salva dalla fossa la tua vita,
ti circonda di bontà e misericordia.
Come dista l’oriente dall’occidente,
così egli allontana da noi le nostre colpe.
Come un padre ha pietà dei suoi figli,
così il Signore ha pietà di quanti lo temono.
La critica è incline a datare la composizione di questo salmo nel tardo postesilio.
Il salmista esorta se stesso a benedire il Signore, e a non “dimenticare tutti i suoi benefici”. Questo ricordare è importantissimo nei momenti dolorosi per non cadere nello scoraggiamento e al contrario stabilirsi in una grande fiducia in Dio. Il salmista non presenta grandi tormenti storici della nazione; pare di poter indovinare normalità di vita attorno a lui. Egli si presenta a Dio come colpevole di numerose mancanze, ma ha sperimentato la misericordia di Dio, che lo ha salvato da angosce e anche probabilmente da una malattia grave: “Egli perdona tutte le tue colpe, guarisce tutte le tue infermità; salva dalla fossa la tua vita”.
Il salmista non cessa di celebrare la bontà, la giustizia di Dio, e prova una grande dolcezza nel fare questo: una dolcezza pacificante: “Ti circonda di bontà e di misericordia”.
Il salmista, fedele all'alleanza, loda Dio per la legge data per mezzo di Mosè: “Ha fatto conoscere a Mosè le sue vie, le sue opere ai figli d'Israele ”. Ma Dio non ha dato a Mosè solo la legge, ha anche dato l'annuncio del Cristo futuro, dal quale abbiamo la grazia e la verità (Cf. Gv 1,17). La misericordia di Dio celebrata dal salmista si è manifestata per mezzo di Gesù Cristo.
Il salmista si sente sicuro, compreso da Dio, che agisce sul suo popolo con la premura di un padre verso i figli. Un padre che “ricorda che noi siamo polvere”, e che perciò pur rilevando le colpe è pronto a perdonare pienamente: “Non è in lite per sempre, non rimane adirato in eterno”.
L'alleanza osservata è fonte di bene, di unione con Dio. Egli effonde “la sua giustizia”, cioè la sua protezione dal male, sui “figli dei figli”.
Il salmista pieno di gioia conclude invitando tutti gli angeli a benedire Dio. Gli angeli non hanno bisogno di essere esortati a benedire Dio, ma certo possono essere invitati a rafforzare il nostro benedire Dio. Per una lode universale sono invitate a benedire Dio tutte le cose create (Cf. Ps 18,1s): “Benedite il Signore, voi tutte opere sue”.
Commento di P.Paolo Berti
Dalla prima lettera di S.Paolo apostolo ai Corinzi
Fratelli, il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente, ma l’ultimo Adamo divenne spirito datore di vita.
Non vi fu prima il corpo spirituale, ma quello animale, e poi lo spirituale.
Il primo uomo, tratto dalla terra, è fatto di terra; il secondo uomo viene dal cielo. Come è l’uomo terreno, così sono quelli di terra; e come è l’uomo celeste, così anche i celesti. E come eravamo simili all’uomo terreno, così saremo simili all’uomo celeste.
1Cor 15, 45-49
Continuando la sua 1^ lettera ai Corinzi, nel capitolo 15, che abbiamo iniziato domenica scorsa, San Paolo in questo brano cerca di fissare un confronto tra Cristo e Adamo che da primo uomo ha dato origine ad una discendenza terrena e mortale, mentre l’ultimo Adamo, cioè Cristo è capostipite di una nuova umanità.
Con il primo versetto fa una citazione partendo dalla Genesi:
“il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente” cioè un essere dotato, per la sua psyche, di una vita puramente naturale, e sottoposto alle leggi del deperimento e della corruzione.
“ma l’ultimo Adamo divenne spirito datore di vita”.
In Cristo è stato raggiunto l'ideale umano più alto. In lui domina lo spirito potente ed immortale, che si comunica anche al corpo, perciò è “spirito datore di vita” non solo per se stesso, come lo ha mostrato nella Sua risurrezione, ma lo è per coloro che sono a Lui uniti e che saranno da Lui risuscitati
“Non vi fu prima il corpo spirituale, ma quello animale, e poi lo spirituale”.
secondo la legge che si osserva nelle opere di Dio, ciò che è meno perfetto precede quello che è più perfetto
“Il primo uomo, tratto dalla terra, è fatto di terra; il secondo uomo viene dal cielo.”
Il secondo uomo, cioè Gesù, è nato sì su questa terra, ed è vissuto ed è morto con un corpo terrestre, ma Egli è risorto, è salito alla destra di Dio e verrà ancora nella sua gloria, per trasfigurare il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso (Fil 3,21)
“Come è l’uomo terreno, così sono quelli di terra; e come è l’uomo celeste, così anche i celesti. E come eravamo simili all’uomo terreno, così saremo simili all’uomo celeste.“
Mediante la nostra solidarietà con Adamo noi abbiamo ereditato la corruzione, ma per mezzo della nostra solidarietà con Cristo noi avremo la nostra vita indefettibile. Egli è ora l’uomo celeste e questo è il nostro destino: saremo come Lui, risorgeremo come Lui.
Nella lettera ai Romani Paolo lo ribadisce ancora” Se infatti siamo stati completamente uniti a lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua risurrezione” Rm6,5
Dal Vangelo secondo Luca
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
A voi che ascoltate, io dico: amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi trattano male. A chi ti percuote sulla guancia, offri anche l’altra; a chi ti strappa il mantello, non rifiutare neanche la tunica. Da’ a chiunque ti chiede, e a chi prende le cose tue, non chiederle indietro.
E come volete che gli uomini facciano a voi, così anche voi fate a loro.
Se amate quelli che vi amano, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori amano quelli che li amano.
E se fate del bene a coloro che fanno del bene a voi, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori fanno lo stesso.
E se prestate a coloro da cui sperate ricevere, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori concedono prestiti ai peccatori per riceverne altrettanto.
Amate invece i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla, e la vostra ricompensa sarà grande e sarete figli dell’Altissimo, perché egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi. Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso. Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e sarete perdonati. Date e vi sarà dato: una misura buona,pigiata, colma e traboccante vi sarà versata nel grembo, perché con la misura con a quale misurate, sarà misurato a voi in cambio».
Lc 6, 26-38
Questo brano che la liturgia ci presenta è la seconda parte del “Discorso della Pianura”. Nella prima parte che abbiamo visto la domenica scorsa, Gesù si rivolge ai discepoli, in questa seconda parte, si rivolge “A voi che ascoltate “, cioè a quella moltitudine immensa di poveri e di malati, venuta da tutte le parti.
Le parole che rivolge a questa gente ed a tutti noi oggi sono esigenti e difficili, il suo è un lungo e ininterrotto canto di amore e di perdono:
“amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano,benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi trattano male”. Il cristiano autentico deve racchiudere in questo desiderio di bene tutti gli uomini giungendo anche ad un confine difficile da varcare, quello dei nemici. Deve sempre ricordare che questo è l’atteggiamento di Dio che, come dice il salmo 102 “Egli perdona tutte le tue colpe, guarisce tutte le tue infermità, “ in Dio la giustizia è vinta dall’amore.
I versi seguenti aiutano a capire ciò che Gesù vuole insegnare.
”E come volete che gli uomini facciano a voi, così anche voi fate a loro”.
E’ la famosa Regola d’Oro per cercare di imitare Dio. E’ una regola questa che, se messa in pratica, basterebbe da sola a cambiare il volto della famiglia, della comunità e della società in cui viviamo. L’Antico Testamento, il libro di Tobia, la conosceva nella forma negativa “Non fare a nessuno ciò che non piace a te”(4,15). Gesù questo principio lo amplia sino al’infinito, lo estende anche sui nemici caricandolo di una forza inaudita e lo fa perchè vuole cambiare il sistema. La Novità che vuole costruire viene dalla nuova esperienza di Dio Padre pieno di tenerezza che accoglie tutti! Le parole di minaccia contro i ricchi non possono essere occasione di vendetta da parte dei poveri! Gesù esige l’atteggiamento contrario.
“Amate invece i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla, e la vostra ricompensa sarà grande e sarete figli dell’Altissimo, perché egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi”. L’amore non può dipendere da ciò che ricevo dall’altro. L’amore vero deve volere il bene dell’altro, indipendentemente da ciò che l’altro fa per me. L’amore deve essere creativo, poiché così è l’amore di Dio per noi.
“Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso”. Matteo dice la stessa cosa con altre parole: “Siate perfetti come il Padre dei cieli è perfetto” (Mt 5,48). Mai nessuno potrà arrivare a dire: "Oggi sono stato perfetto come il Padre del cielo è perfetto! Sono stato misericordioso come il Padre dei cieli è misericordioso”. Staremo sempre al di sotto della misura che Gesù ha posto dinanzi a noi.
“Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e sarete perdonati. Date e vi sarà dato: una misura buona,pigiata, colma e traboccante vi sarà versata nel grembo, perché con la misura con a quale misurate, sarà misurato a voi in cambio”. Sono quattro consigli: due in forma negativa: non condannare; e due in forma positiva: perdonare e dare in misura abbondante. Quando dice “e vi sarà dato”, Gesù allude al trattamento che Dio vuole avere con noi. Ma quando il nostro modo di trattare gli altri è meschino, Dio non può usare con noi la misura abbondante e straboccante che vorrebbe usare.
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Le Parole di Papa Francesco
Le beatitudini sono il programma di vita che ci propone Gesù
““Come si fa per diventare un buon cristiano?” Questa è la domanda che Papa Francesco si è posto ed ha rivolto ai partecipanti della Santa Messa in Casa Santa Marta oggi, lunedì 9 giugno 2014, spiegando poi, nel corso della riflessione, che la risposta a tale questione è semplice e la possiamo trovare nelle beatitudini, le quali sono “il programma di vita che ci propone Gesù; tanto semplice, ma tanto difficile“.
Il cammino delle beatitudini, ha spiegato il Pontefice, è complesso perché è un cammino contro corrente: “il mondo ci dice: la gioia, la felicità, il divertimento, quello è il bello della vita” ha detto “E ignora, guarda da un’altra parte, quando ci sono problemi di malattia, problemi di dolore nella famiglia“.
Perché questo? Perché sostanzialmente “il mondo non vuole piangere” quindi alla fin fine “preferisce ignorare le situazioni dolorose, coprirle. Soltanto la persona che vede le cose come sono, e piange nel suo cuore – ha quindi spiegato Bergoglio – è felice e sarà consolata” ma non nel modo terreno, perché “la consolazione di Gesù, non quella del mondo“.
Così Gesù, in “un mondo di guerre, un mondo dove dappertutto si litiga, dove dappertutto c’è l’odio” propone “niente guerre, niente odio, pace, mitezza” proclamando beati i miti; in un mondo dove “tutti siamo stati perdonati” dove tutti apparteniamo a un grande “esercito di perdonati” Gesù dice beati coloro che perdonano, che vanno “per questa strada del perdono“; ancora in un mondo dove “è tanto comune da noi essere operatori di guerre o almeno operatori di malintesi” Gesù dichiara beati gli operatori di pace e coloro che “hanno un cuore semplice, puro, senza sporcizie, un cuore che sa amare con quella purità tanto bella“.
Quelle di Gesù sono “poche parole, semplici parole, ma pratiche a tutti, perché il cristianesimo è una religione pratica: non è per pensarla, è per praticarla, per farla“!”
Parte dell’Omelia di Papa Francesco della S. Messa del 9 giugno 2014
Cappella della Casa Santa Marta, Vaticano
Le letture liturgiche di questa domenica ci portano ad interrogarci su dove si fonda la nostra speranza, proponendoci due modi opposti di impostare la vita: possiamo confidare in noi stessi (e questo lo possiamo vedere nella prima lettura), condannandoci però ad una vita sterile; oppure possiamo riporre la nostra fiducia in Dio per essere come un albero che non smette di produrre frutti.
Nella prima lettura, il Profeta Geremia, ci invita ad avere più confidenza nelle cose divine che in quelle umane. Confidare nel Signore vuol dire ascoltare la Sua parola e farne regola della nostra vita.
Nella seconda lettura, l’apostolo Paolo continuando la sua lettera ai Corinzi, ci dice che la risurrezione di Cristo è la garanzia della risurrezione di tutti gli uomini. e afferma che “se Cristo non è risorto, vana è la nostra fede! ”
Nel Vangelo di Luca troviamo la celebre pagina evangelica delle Beatitudini, che ci parlano di una felicità che è generata dalla nostra relazione con Dio. Il messaggio delle Beatitudini è un appello sintetico e radicale rivolto a coloro che hanno già fatto la prima scelta per Gesù e per il Regno e che ora devono impostare la loro esistenza di creature nuove.
Dal libro del profeta Geremìa
Così dice il Signore:
«Maledetto l’uomo che confida nell’uomo,
e pone nella carne il suo sostegno,
allontanando il suo cuore dal Signore.
Sarà come un tamerisco nella steppa;
non vedrà venire il bene,dimorerà in luoghi aridi nel deserto,
in una terra di salsedine, dove nessuno può vivere.
Benedetto l’uomo che confida nel Signore
e il Signore è la sua fiducia.
È come un albero piantato lungo un corso d’acqua,
verso la corrente stende le radici;
non teme quando viene il caldo,
le sue foglie rimangono verdi,
nell’anno della siccità non si dà pena,
non smette di produrre frutti.
Ger 17,5-8
Nel libro del profeta Geremia troviamo raccontata in modo autobiografico la sua vita. Sappiamo così che la sua chiamata avvenne intorno al 626 a.C. quando ancora era un ragazzo e desiderava sposarsi con la sua Giuditta, ma Dio stesso glielo proibisce, ed è per questo che è stato l’unico profeta celibe dell’A.T a differenza di tutti gli altri. Aveva un carattere mite e, all'inizio della sua missione, in cui era giovane inesperto, dovette affrontare il momento più difficile e decisivo della storia della nazione giudaica, quello che conduce all'esilio in Babilonia (587 a.C.). Egli tenta di tutto: scuote il torpore del popolo con una predicazione che chiede una radicale conversione; appoggia la riforma nazionalista e religiosa del re Giosia (622 a.C.); cerca di convincere tutti alla sottomissione al dominio di Babilonia dopo la morte del re (609 a.C.). Viene però accusato di pessimismo religioso e di disfattismo politico.
Geremia, profeta del dolore e della misericordia, che preannuncia più di ogni altro la figura di Gesù, rimane per il suo popolo, e per tutti i cristiani, un testimone della speranza. Egli è pure l’esempio di una incorruttibile fedeltà alla propria vocazione, qualunque siano le difficoltà.
In questo brano di stile sapienziale, Geremia invita ad avere più confidenza nelle cose divine che in quelle umane ed usa parole alquanto forti che colpiscono: “Maledetto l’uomo che confida nell’uomo, e pone nella carne il suo sostegno,allontanando il suo cuore dal Signore. Sarà come un tamerisco nella steppa; non vedrà venire il bene,dimorerà in luoghi aridi nel deserto,in una terra di salsedine, dove nessuno può vivere.”
Fa un quadro molto eloquente, parla di calura e di siccità, cita il tamarisco , che è un arbusto sterile e di nessun valore che cresce in luoghi aridi e da lui non sboccia nulla di buono.
Poi passa a descrivere il lato positivo dell’uomo che confida nel Signore, che trova eco nel salmo 1
Benedetto l’uomo che confida nel Signore e il Signore è la sua fiducia. È come un albero piantato lungo un corso d’acqua,verso la corrente stende le radici; non teme quando viene il caldo, le sue foglie rimangono verdi,
nell’anno della siccità non si dà pena,non smette di produrre frutti.
Viene descritto l'effetto delle opere compiute con giustizia e con fiducia nel Signore. Per questo la benedizione dell'uomo che confida nel Signore viene opposta alla maledizione di chi si fida solo dell’ uomo e si allontana dalla via del Signore. Sottolinea in particolare il fatto che "confidare nel Signore" significa non solo mettere in pratica i suoi comandamenti, ma anche trovare in Lui la fonte di quell'acqua fresca e permanente che gli permette di "portare frutti" in qualsiasi stagione della vita. La persona che agisce in questo modo, allora, trova nella Legge del Signore anche la fonte di gioia, e non può fare a meno di meditarla, giorno e notte affidandosi pienamente a Colui che veglia sul suo cammino.
Per mettere in pratica noi oggi questo concetto dobbiamo cercare di capire cosa significa vivere, come dice Geremia, riponendo la fiducia nell’uomo, e cosa significa invece vivere per il regno di Dio riponendo la fiducia solo in Lui.
Salmo 1,1,4-6 Beato l’uomo che confida nel Signore
Beato l’uomo che non entra nel consiglio dei malvagi,
non resta nella via dei peccatori
e non siede in compagnia degli arroganti,
ma nella legge del Signore trova la sua gioia,
la sua legge medita giorno e notte.
È come albero piantato lungo corsi d’acqua,
che dà frutto a suo tempo:
le sue foglie non appassiscono
e tutto quello che fa, riesce bene.
Non così, non così i malvagi,
ma come pula che il vento disperde;
poiché il Signore veglia sul cammino dei giusti,
mentre la via dei malvagi va in rovina.
Il salterio comincia con un salmo che presenta la beatitudine di chi rimane fermo nella meditazione della legge e la mette in pratica. Ancorato all’osservanza della Parola di Dio, non si perde il vero credente ad ascoltare il consiglio degli empi, poiché la Parola è luce ai suoi passi. Egli medita la legge giorno e notte per poter affrontare le varie vicende della vita con rettitudine. La meditazione della Parola lo rende fecondo, al riparo dall’arsura e dai venti tempestosi delle prove. Gli empi, che sono coloro che fanno ostacolo con la loro sufficienza alla Parola, non avranno argomenti davanti al giudizio di Dio, e quali colpevoli verranno dispersi finiranno nella tomba della storia. Per quanto vorranno radicarsi all’interno dell’assemblea dei giusti per potere illudere gli inesperti della Parola, andranno ugualmente in rovina davanti al giudizio di Dio, poiché Dio nessuno lo può ingannare.
E’ un salmo che dona pace, invito alla perseveranza. Non andrà deluso chi medita la legge d’amore nella quale si riflette Dio, che è Amore. E la legge è stata portata a compimento da Cristo; e di più la nuova legge, che perfeziona l’antica, si trova in Cristo, nella sua vita, nei suoi gesti, nelle sue parole. Meditare la legge giorno e notte è meditare quanto ha fatto, detto Cristo; è desiderio di vivere Cristo nell’imitazione di lui. Chi medita Cristo di fronte ad un’azione da compiere non si pone precisamente la domanda: “Cosa farebbe Cristo”, quasi che considerasse Cristo essendo “esterno” a Cristo, ma trova la sua risposta da quello che ha fatto e detto Cristo, poiché egli è “in Cristo”. In lui c’è ogni luce e tesoro di sapienza su come essere graditi al Padre e su come essere aperti nella carità ai fratelli.
Meditare giorno e notte la legge non è opera di giurista, ma è l’opera d’amore che avviene nella comunione con Cristo
Commento di P.Paolo Berti
Dalla lettera di S.Paolo apostolo ai Corìnzi
Fratelli, se si annuncia che Cristo è risorto dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non vi è risurrezione dei morti?
Se infatti i morti non risorgono, neanche Cristo è risorto; ma se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati.
Perciò anche quelli che sono morti in Cristo sono perduti.
Se noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto per questa vita, siamo da commiserare più di tutti gli uomini.
Ora, invece, Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti.
1Cor15,12.16-20
Continuando la sua 1^ lettera ai Corinzi, nel capitolo 15, che abbiamo iniziato domenica scorsa, San Paolo in questo brano afferma che negare la risurrezione dei morti implica la negazione della risurrezione di Cristo e della veracità della testimonianza apostolica.
Il brano inizia con una domanda: “se si annuncia che Cristo è risorto dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non vi è risurrezione dei morti?”
La cultura greca aveva molte difficoltà ad ammettere la possibilità della risurrezione, ma anche fra i cristiani l’argomento della risurrezione incontrò molte difficoltà per superare i pregiudizi esistenti .
I membri del sinedrio di Gerusalemme condannavano e perseguitavano il messaggio cristiano e alcuni ateniesi all’areopàgo quando sentirono parlare di risurrezione di morti, avevano deriso Paolo. In tutti i tempi la superficiale ragione umana ,che misura la sapienza e la potenza di Dio alla propria stregua, ha sollevato le stesse obbiezioni contro alla dottrina della risurrezione dei corpi. Qui Paolo fa notare a quei cristiani che si lasciavano travolgere dall'incredulità del mondo, come la negazione della risurrezione in genere sia in contraddizione col fatto ben costatato della risurrezione di Cristo.
“Se infatti i morti non risorgono, neanche Cristo è risorto;”
È probabile che i sostenitori di questa teoria non si rendessero ben conto delle gravi conseguenze che ne sarebbero derivate, ecco perchè Paolo inizia con una supposizione molto forte.
“ma se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati.”
L'Apostolo adopera parole diverse per indicare la vanità della fede cristiana qualora non fosse risorto Cristo, la fede cristiana sarebbe senza fondamento e poggerebbe sul vuoto. Ma soprattutto sarebbe anche vana, in quanto non potrebbe condurre ad alcuno dei risultati promessi. Se Cristo non fosse risuscitato non avremmo più certezza alcuna che Dio abbia gradito il suo sacrificio quale espiazione dei nostri peccati e la tomba di Gesù rimasta chiusa starebbe ad indicare che anche Lui è rimasto preda della morte. Tolta dunque la risurrezione, crollerebbe la giustificazione dei peccatori ed essi sarebbero ancora nei loro peccati non espiati.
“Perciò anche quelli che sono morti in Cristo sono perduti. Se noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto per questa vita, siamo da commiserare più di tutti gli uomini.”
Se tanti cristiani morti nella pace del Cristo in cui hanno creduto, se la loro fede è vana, sarebbero nella perdizione anziché nel riposo eterno e nella gloria di Dio. E non è pietosa soltanto la sorte di coloro che sono morti in Cristo, ma lo è anche quella di chi vive tuttora nella fede in Lui. Vale a dire, se, nel corso di questa vita terrena, abbiamo concentrato in Cristo la nostra unica speranza di futura felicità e gloria, se, in vista di questa speranza, fondata in Cristo, noi sopportiamo fatiche, derisioni e persecuzioni, noi siamo degni di compassione più degli altri uomini poiché se Cristo non è risuscitato, la nostra speranza non ha fondamento e noi sacrifichiamo affetti, fatiche, beni e vita per una pia illusione; mentre gli altri che vivono per le cose della terra, sono felici, senza farsi troppe illusioni .
“Ora, invece, Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti.”
Dopo aver mostrato a quali terribili conseguenze conduce il falso principio che non c'è risurrezione di morti, Paolo ritorna sul terreno dei fatti che nessuna teoria vale a smuovere, e nel fatto ben provato della risurrezione e della susseguente esaltazione del Cristo, egli scorge la garanzia della finale vittoria dell'umanità redenta sulla morte.
Dal Vangelo secondo Luca
In quel tempo, Gesù, disceso con loro, si fermò in un luogo pianeggiante. C’era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidone.
Ed egli, alzàti gli occhi verso i suoi discepoli, diceva:
«Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio.
Beati voi, che ora avete fame,
perché sarete saziati.
Beati voi, che ora piangete, perché riderete.
Beati voi, quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e vi insulteranno e disprezzeranno il vostro nome come
infame, a causa del Figlio dell’uomo.
Rallegratevi in quel giorno ed esultate perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nel cielo. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i profeti.
Ma guai a voi, ricchi,perché avete già ricevuto la vostra consolazione.
Guai a voi, che ora siete sazi, perché avrete fame.
Guai a voi, che ora ridete,
perché sarete nel dolore e piangerete.
Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i falsi profeti.
Lc 6,17.20-26
Dopo la chiamata dei primi discepoli, proposta la scorsa domenica, la liturgia ora ci presenta una pagina evangelica celebre, quella delle beatitudini nella versione di Luca , che a differenza di Matteo, le colloca in un luogo pianeggiante. All’origine di questo discorso, vera magna carta del cristianesimo, si può supporre che alla base ci sia un insieme di detti pronunciati da Gesù in diverse circostanze.
Il brano inizia presentando Gesù che disceso con loro si fermò in un luogo pianeggiante. C’era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidone.
Oltre ai Dodici vediamo che c’è un gran numero dei discepoli di Gesù e una gran moltitudine di gente provenienti non solo da Gerusalemme ma anche dal litorale di Tiro e di Sidone.
“Ed egli, alzàti gli occhi verso i suoi discepoli, diceva: «Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio. Beati voi, che ora avete fame,perché sarete saziati”.
Nel suo significato originario la parola “poveri” non contempla solo i mendicanti, ma anche gli anawîm, i trascurati, poveri accanto a gente ricca, gli oppressi. Sono loro i poveri reali che hanno fame e piangono. La loro beatitudine consiste nel fatto che Dio interviene in loro favore. A questi “poveri “ Gesù garantisce: “ Vostro è il Regno di Dio!". Si può notare che viene utilizzato un verbo al presente e ciò sta a significare che il Regno è già presente, che già appartiene loro. Quindi non una promessa che riguarda il futuro, ma un Regno che esiste già in mezzo ai poveri.
Il vangelo di Luca non parla della virtù della povertà, di una povertà scelta, liberamente per amore di Dio o per servizio agli altri, ma parla della povertà come una condizione di privazione. Possiamo allora chiederci perchè sono beati questo tipo di poveri? Semplicemente perché Dio è il loro difensore e dove si trova una condizione di miseria, di bisogno, Dio non rimane indifferente, ma risponde, è vicino e solidale. Quindi in questo senso Beati voi, poveri che sperimentate la debolezza, il bisogno, perché Dio – che regna – vi risponderà.
“Beati voi, che ora avete fame,perché sarete saziati. Beati voi, che ora piangete, perché riderete.”
La prima parte di questa espressione è al presente, la seconda al futuro e questo sta a significare che ciò che ora viviamo e soffriamo non è definitivo. Ciò che è definitivo sarà il Regno che stiamo costruendo oggi con la forza dello Spirito di Gesù. Costruire il Regno suppone sofferenza e persecuzione, però una cosa è certa: il Regno giungerà e "voi sarete saziati e riderete!“. Nelle parole di questo versetto, possiamo pensare al Magnificat, il cantico di Maria: "Ha ricolmato di beni gli affamati" (Lc 1,53). è la realtà della vita che ci fa considerare la quotidianità come il luogo dove si costruisce la storia della salvezza.
“Beati voi, quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e vi insulteranno e disprezzeranno il vostro nome come infame, a causa del Figlio dell’uomo.”
La quarta beatitudine è più articolata e si distacca dalle precedenti, in essa si dice esplicitamente che la sofferenza è causata per aver seguito il Figlio dell'uomo, ossia per la fede in Gesù, Questo versetto è al futuro e non riguarda tutti ma solo una categoria di persone: è la situazione dei primi credenti, ancora legati al mondo ebraico che però li osteggia per la loro adesione al messaggio di Cristo. I discepoli di Gesù condividono la condizione dei poveri, perché per essere fedeli a Lui si espongono all'insicurezza e all'emarginazione di un mondo che ragiona secondo altri criteri,
Rallegratevi in quel giorno ed esultate perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nel cielo. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i profeti.”
L'invito alla gioia in questo versetto è intenso. Luca usa il verbo esultare (letteralmente saltellare), perché il tempo della prova dà la certezza di ricevere il dono dell'amore di Dio Padre, la grande ricompensa nel cielo.
Il riferimento alla persecuzione sofferta dai profeti è un'idea comune al tempo di Gesù e da Lui condivisa. Il Nuovo Testamento la riprende in diversi passi (cfr. Mc 6,4; Lc 11,47; At 7,51; 1Ts 2,15, ecc) e sebbene il testo si riferisca chiaramente alla situazione della Chiesa primitiva, non si esclude che Gesù abbia previsto l'opposizione che avrebbero incontrato gli apostoli (e di conseguenza tutti i discepoli) e l'abbia espressa con il tema del giusto perseguitato.
“Ma guai a voi, ricchi, perché avete già ricevuto la vostra consolazione. Guai a voi, che ora siete sazi, perché avrete fame. Guai a voi, che ora ridete,perché sarete nel dolore e piangerete.”
Luca costruisce i quattro guai sulla base delle precedenti beatitudini. La ricchezza è presentata come un rischio reale e pericoloso perché dà una falsa sicurezza; il ricco si sente autosufficiente e ritiene superfluo rivolgersi a Dio, non si cura dei bisogni dei poveri, e chiudendosi nell'egoismo, non pensa al suo destino eterno. Per questo i ricchi hanno già ricevuto quanto è loro dovuto e non si aspettano niente oltre la morte.
Per l'evangelista la ricchezza è un pericolo permanente per tutti; egli è preoccupato che il cuore delle persone si chiuda al dono di Dio, un dono che viene loro incontro nel vangelo di Gesù.
“Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i falsi profeti.”
Quest’ultima minaccia si riferisce ai figli di coloro che nel passato elogiavano i falsi profeti e alcune autorità dei giudei usavano il loro prestigio e la loro autorità per criticare Gesù.
Per riassumere possiamo dire che Gesù nel Vangelo di Luca ribadisce: beati i poveri, perchè avranno il regno di Dio; beati coloro che hanno fame, perchè saranno saziati; beato chi piange perchè riderà; beato chi è perseguitato a causa di Cristo perchè sarà ricompensato in Cielo; e guai al ricco, che non avrà altra gioia, guai al sazio, che non potrà soddisfare altri desideri; guai a chi ride, perchè conoscerà solo l’afflizione; guai a chi è lodato, perchè circuito dall’adulazione, sarà vittima, della falsità.
Gesù non contrappone qui quattro maledizioni a quattro beatitudini: Gesù ricorda soltanto che la consolazione viene da Dio, che solo Dio realizza il riscatto dei poveri, degli emarginati, degli offesi, delle vittime: Gesù garantisce il riscatto del male in bene, perchè Gesù è il risorto, colui che ha riscattato anche la morte: per questo San Paolo afferma che “se Cristo non è risorto, vana è la nostra fede” Ma Cristo è risorto, e la nostra fede è il fondamento della beatitudine, cioè della speranza.
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“Possiamo immaginare» ha affermato Francesco, in quale contesto Gesù ha pronunciato il discorso delle beatitudini, così come lo riporta Matteo nel suo Vangelo (5, 1-12). Ecco allora «Gesù, le folle, il monte, i discepoli». E «Gesù si mise a parlare e insegnava la nuova legge, che non cancella l’antica, perché lui stesso ha detto che fino all’ultima jota dell’antica legge dev’essere compiuta». In realtà Gesù «perfeziona l’antica legge, la porta alla sua pienezza». E «questa è la legge nuova, questa che noi chiamiamo le beatitudini». Sì, ha spiegato il Papa, «è la nuova legge del Signore per noi». Infatti le beatitudini «sono la guida di rotta, di itinerario, sono i navigatori della vita cristiana: proprio qui vediamo, su questa strada, secondo le indicazioni di questo navigatore, come possiamo andare avanti nella nostra vita cristiana».
Nelle beatitudini, ha fatto notare Francesco, «ci sono tante cose belle: possiamo fermarci in ognuna fino alle dieci del mattino». Ma «io vorrei soffermarmi su come l’evangelista Luca spiega questo». Rispetto al brano di Matteo proposto oggi dalla liturgia, ha affermato il Papa, Luca nel capitolo 6 del suo Vangelo «dice lo stesso, ma alla fine aggiunge qualcosa che Gesù ha detto: i quattro guai». Proprio «i quattro guai». E così ecco che anche Luca elenca quel «beati, beati, beati, beati tutti». Ma poi aggiunge «guai, guai, guai, guai».
Sono precisamente «quattro guai». E cioè: «Guai a voi ricchi, perché avete avuto la vostra consolazione; guai a voi se siete sazi, perché avrete fame; guai a voi che ridete: piangerete; guai a voi, quando tutti diranno bene di voi: così hanno fatto i vostri antenati con i falsi profeti». E «questi guai — ha proseguito il Papa — illuminano l’essenziale di questo foglio, di questa guida di cammino cristiano».
Il primo «guai» riguarda i ricchi. «Ho detto tante volte» ha ricordato Francesco, che «le ricchezze sono buone» e che «quello che fa male e che è cattivo è l’attaccamento alle ricchezze, guai!». La ricchezza infatti «è un’idolatria: quando io sono attaccato, allora faccio idolatria». Non è certo un caso se «la maggior parte degli idoli sono fatti d’oro». E così ci sono «quelli che si sentono felici, a loro non manca niente», hanno «un cuore soddisfatto, un cuore chiuso, senza orizzonti: ridono, sono sazi, non hanno fame di nulla». E poi ci sono «quelli a cui piace l’incenso: a loro piace che tutti parlino bene di loro e così sono tranquilli». Ma «“guai a voi” dice il Signore: questa è l’anti-legge, è il navigatore sbagliato».
È importante notare, ha proseguito il Papa, che «questi sono i tre scalini che portano alla perdizione, così come le beatitudini sono gli scalini che portano avanti nella vita». Il primo dei «tre scalini che portano alla perdizione» è, appunto, «l’attaccamento alle ricchezze», quando si avverte di non aver «bisogno di nulla». Il secondo è «la vanità», la ricerca «che tutti dicano bene di me, tutti parlino bene: mi sento importante, troppo incenso» e io alla fine «credo di essere giusto, non come quello» ha affermato Francesco, suggerendo di pensare «alla parabola del fariseo e il pubblicano: “Ti ringrazio perché non sono come questo”». Tanto che quando siamo presi dalla vanità si finisce persino per dire, e questo accade tutti i giorni, «grazie, Signore, che sono tanto un buon cattolico, non come il vicino, la vicina».
Il terzo è «l’orgoglio che è la sazietà», sono «le risate che chiudono il cuore». «Con questi tre scalini andiamo alla perdizione» ha spiegato il Papa, perché «sono le anti-beatitudini: l’attaccamento alle ricchezze, la vanità e l’orgoglio».
«Le beatitudini invece sono il cammino, sono la guida per il cammino che ci porta al regno di Dio» ha fatto presente Francesco. Tra tutte però «c’è una che, non dico sia la chiave, ma ci fa pensare tanto: “Beati i miti”». Proprio «la mitezza». Gesù «dice di se stesso: imparate da me che sono mite di cuore, che sono umile e mite di cuore». Dunque «la mitezza è un modo di essere che ci avvicina tanto a Gesù». Invece «l’atteggiamento contrario procura sempre le inimicizie, le guerre e tante cose cose brutte che succedono». Il Papa ha anche messo in guardia dal ritenere che «la mitezza di cuore» possa essere scambiata per «sciocchezza: no, è un’altra cosa, è la profondità nel capire la grandezza di Dio, e adorazione».
Prima di riprendere la celebrazione della messa, il Pontefice ha invitato a pensare alle «beatitudini che sono il biglietto, il foglio di guida della nostra vita, per non perdersi e non perderci». E «ci farà bene oggi leggerle: sono poche, cinque minuti, capitolo 5 di Matteo». Sì, ha proposto, «leggerle un pochettino, a casa, cinque minuti, ci farà bene» perché le beatitudini sono «il cammino, la guida». E pensare, poi, ha concluso, anche alle «quattro anti-beatitudini» riportate dall’evangelista Luca, quei quattro guai «che mi faranno sbagliare strada e finire male».”
Omelia di Papa Francesco S. Messa del 6 giugno 2016 Cappella della Casa Santa Marta, Vaticano
Le letture liturgiche di questa domenica portano alla nostra attenzione due racconti di vocazione: l’una profetica, l’altra apostolica, ma entrambe frutto dell’irruzione di Dio nella vita dell’uomo.
Nella prima lettura, Isaia, nello scenario grandioso del Tempio di Gerusalemme, riceve la rivelazione della grandezza di Dio e accetta l’invito di diventare Suo profeta.
Nella seconda lettura, nella sua lettera ai Corinzi Paolo espone una delle prime formulazioni della fede cristiana, la preghiera del “Credo”, usato nelle prime assemblee durante la celebrazione della “Cena del Signore”.
Nel brano del Vangelo, Luca racconta che dopo la pesca miracolosa, Pietro riconosce in Gesù il Messia e la propria condizione di peccatore. Gesù lo rincuora e lo chiama al suo seguito dicendogli: “Non temere, d’ora in poi sarai pescatore di uomini”. Luca, solo, tra tutti gli evangelisti, alla fine nota: “lasciarono tutto”. Queste due parole riassumono la risposta che quei semplici pescatori hanno dato alla chiamata di Dio. E’ stato indubbiamente un passo difficile da compiere, legati come si è da un insieme di interessi, di possessi e di affetti. Eppure, come i discepoli scopriranno, la vocazione è un “lasciare”, è un “perdere” piuttosto sorprendente perché poi essi “troveranno cento fratelli e sorelle” proprio in quegli uomini di cui essi saranno “pescatori”.
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Dal libro del profeta Isaia
Nell’anno in cui morì il re Ozìa, io vidi il Signore seduto su un trono alto ed elevato; i lembi del suo manto riempivano il tempio. Sopra di lui stavano dei serafini; ognuno aveva sei ali. Proclamavano l’uno all’altro, dicendo:
«Santo, santo, santo il Signore degli eserciti!
Tutta la terra è piena della sua gloria».
Vibravano gli stipiti delle porte al risuonare di quella voce, mentre il tempio si riempiva di fumo. E dissi:
«Ohimè! Io sono perduto,
perché un uomo dalle labbra impure io sono
e in mezzo a un popolo
dalle labbra impure io abito;
eppure i miei occhi hanno visto
il re, il Signore degli eserciti».
Allora uno dei serafini volò verso di me; teneva in mano un carbone ardente che aveva preso con le molle dall’altare. Egli mi toccò la bocca e disse:
«Ecco, questo ha toccato le tue labbra,
perciò è scomparsa la tua colpa
e il tuo peccato è espiato».
Poi io udii la voce del Signore che diceva: «Chi manderò e chi andrà per noi?». E io risposi: «Eccomi, manda me!».
Is 6,1-2a 3-8
Il profeta Isaia ( Primo Isaia autore dei capitoli 1-39) iniziò la sua opera pubblica verso la fine del regno di Ozia, re di Giuda, attorno al 740 a.C., quando l'intera regione siro-palestinese era minacciata dall'espansionismo assiro.
Isaia fu anche uno degli ispiratori della grande riforma religiosa avviata dal re Ezechia (715-687 a.C) che mise al bando le usanze idolatre e animiste che gli ebrei avevano adottato imitando i popoli vicini. Isaia si scagliò così contro i sacrifici umani (prevalentemente di bambini o ragazzi), i simboli sessuali, gli idoli di ogni forma e materiale.
Altro bersaglio della riforma, e delle invettive di Isaia, furono le forme cultuali puramente esteriori, ridotte quasi a pratiche magiche. In particolare, condannò senza mezzi termini il digiuno, le elemosine, le ricche offerte, quando non sono seguite da una condotta di vita moralmente corretta, dal rispetto verso il prossimo, dal soccorso alla vedova e all'orfano, dall'onestà nell'esercizio di cariche pubbliche.
Questo brano riporta la celebre visione che ebbe Isaia.
Nel tempio di Gerusalemme egli contempla" il Signore seduto su un trono alto ed elevato; i lembi del suo manto riempivano il tempio.”. Fu un incontro inatteso e improvviso, che segnerà tutta la sua vita e la sua predicazione. Dio appare a Isaia come il Re in tutta la sua maestà, “Sopra di lui stavano dei serafini; (“angeli di fuoco, splendenti e ardenti"), ognuno aveva sei ali”. La scena solenne e gloriosa si apre quasi con una marcia reale. È l’inno in onore del Signore intonato dai serafini: "Santo, Santo, Santo è il Signore degli eserciti“.. Il loro canto esprime, in un giubilo senza fine, la realtà specifica di Dio: Colui che è "Santo" in modo esclusivo e intensissimo "Signore degli eserciti", cioè di tutte le potenze celesti e terrestri, cioè la sua grandezza suprema, il suo splendore invisibile ad occhio umano.
Nel contatto col Dio "santo“ Isaia avverte, con indescrivibile angoscia, la propria indegnità e si sente di dire: “Ohimè! Io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono e in mezzo a un popolo dalle labbra impure io abito;eppure i miei occhi hanno visto il re, il Signore degli eserciti” .
Ma Dio interviene e manda uno dei serafini che volò verso di lui. Il profeta lo descrive così: “teneva in mano un carbone ardente che aveva preso con le molle dall’altare. Egli mi toccò la bocca e disse: «Ecco, questo ha toccato le tue labbra, perciò è scomparsa la tua colpa e il tuo peccato è espiato”.
La purificazione delle labbra con un carbone ardente è come un gesto sacramentale, è quasi un battesimo che non solo purifica ma crea un nuovo essere e lo santifica. L’uomo della parola di Dio, il profeta, deve essere purificato dalla grazia divina proprio nella Sua parola.
A questo punto, soltanto dopo la purificazione, il profeta può udire la voce del Signore quando dice: “Chi manderò e chi andrà per noi?”. Mandare e andare sono i verbi tipici della vocazione, e la risposta del profeta è totale e senza esitazioni: “Eccomi, manda me!”.
E’ straordinaria la descrizione di questa vocazione. Essa è una scelta personale, è un’adesione matura della personalità ma è anche rischio, perchè come si leggerà nei versetti successivi del racconto di Isaia, la missione conoscerà soprattutto il rifiuto da parte degli uomini a cui il profeta sarà inviato. Comunque la fede, che Isaia manifesta e che non si stancherà di esigere dal suo popolo, è appunto la fede nel "Dio santo": Colui che è il "tutt'altro" e inaccessibile, ma che per amore si è legato al proprio popolo: "Il Santo di Israele", secondo l'espressione originale coniata da Isaia.
Salmo 137/138 Cantiamo al Signore, grande è la sua gloria
Ti rendo grazie, Signore, con tutto il cuore:
hai ascoltato le parole della mia bocca.
Non agli dèi, ma a te voglio cantare,
mi prostro verso il tuo tempio santo.
Rendo grazie al tuo nome per il tuo amore e la tua fedeltà:
hai reso la tua promessa più grande del tuo nome.
Nel giorno in cui ti ho invocato, mi hai risposto,
hai accresciuto in me la forza.
Ti renderanno grazie, Signore, tutti i re della terra,
quando ascolteranno le parole della tua bocca.
Canteranno le vie del Signore:
grande è la gloria del Signore
La tua destra mi salva.
Il Signore farà tutto per me.
Signore, il tuo amore è per sempre:
non abbandonare l’opera delle tue mani.
Il salmista ringrazia Dio per avere ascoltato la sua preghiera e avergli usato misericordia. La tradizione parla del re Davide, ma più probabilmente si tratta di Ezechia dopo la clamorosa liberazione di Gerusalemme dall'assedio degli Assiri (2Re 19,35): “Hai reso la tua promessa più grande del tuo nome”.
Egli vuole cantare la sua lode al cospetto di Dio, rifiutando ogni adesione agli idoli: "Non agli dèi, ma a te voglio cantare".
Dio ha risposto alla sua supplica rendendolo più forte di fronte ai sui nemici: “Hai accresciuto in me la forza”.
Il salmista professa la sua fede nel futuro messianico che vedrà “tutti i re della terra” lodare il Signore. Sarà quando “ascolteranno le parole della tua bocca”, dove per “bocca” si deve intendere il futuro Messia.
I re, i popoli, celebreranno le vie del Signore annunciate dal Messia.
Il salmista ha grande fiducia in Dio, affinché la sua missione di re abbia successo: "Il Signore farà tutto per me". Il salmista termina invocando: “Non abbandonare l'opera delle tue mani”, cioè la dinastia di Davide.
Noi crediamo che giungerà il tempo della “civiltà dell'amore”, quando i popoli e i potenti che li governano, si apriranno a Cristo. Ogni cristiano deve adoperarsi per questo tempo con la forza (“hai accresciuto in me la forza”) che sgorga dalla partecipazione Eucaristica.
La nostra battaglia non è contro nemici fatti di carne e sangue, come ci dice san Paolo (Ef 6,12), ma “contro i Principati e le Potenze, contro i dominatori di questo mondo tenebroso, contro gli spiriti del male”, cioè contro i demoni.
Commento di P.Paolo Berti
Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi
Vi proclamo, fratelli, il Vangelo che vi ho annunciato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi e dal quale siete salvati, se lo mantenete come ve l’ho annunciato. A meno che non abbiate creduto invano!
[ A voi infatti ho trasmesso, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto, cioè che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e che fu sepolto e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici.
In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti. Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli. Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto. ]
Io infatti sono il più piccolo tra gli apostoli e non sono degno di essere chiamato apostolo perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Per grazia di Dio, però, sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana. Anzi, ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me. [ Dunque, sia io che loro, così predichiamo e così avete creduto. ] 1Cor15,1-11
Nel 15^ capitolo della 1^lettera ai Corinzi, prima della sua conclusione, Paolo affronta il tema della resurrezione dei morti e del destino finale riservato a coloro che hanno abbracciato la fede in Cristo.
Questo capitolo si divide in tre parti. Nella prima parte Paolo espone il contenuto essenziale del suo vangelo, che consiste nella morte e nella risurrezione di Cristo. Alla luce di questo dato di fede egli tratta poi, nella seconda parte, il tema della risurrezione di coloro che hanno creduto in lui (vv. 12-34). Nella terza parte spiega le modalità con cui avrà luogo la risurrezione (vv. 35-53). Conclude il capitolo un inno alla vittoria sulla morte (vv. 54-58).
In questo brano, Paolo sottolinea il carattere tradizionale e quindi immutabile di ciò che ha annunziato ai Corinzi, e afferma con vigore: “Vi proclamo, fratelli, il Vangelo che vi ho annunciato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi e dal quale siete salvati, se lo mantenete come ve l’ho annunciato. A meno che non abbiate creduto invano! “
Paolo pone subito il confronto tra sé e i corinzi la realtà del Vangelo e ciò che lo unisce con la sua comunità. Il Vangelo che lui, Paolo, ha annunciato, porta alla salvezza, purché non venga manipolato con interpretazioni soggettive. Non si tratta certo di bloccare la Parola di Dio, anzi è in gioco la viva realtà del Vangelo accolta con fede e testimoniata non solo a parole.
“[ A voi infatti ho trasmesso, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto, cioè che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture” Paolo qui sottolinea di non aver inventato lui questo Vangelo, ma di averlo ricevuto dalla tradizione apostolica e di averlo custodito con fedeltà.
In questo versetto troviamo un’antica professione di fede che concentra in poche righe il messaggio di salvezza e probabilmente è stata formulata dalla comunità di Antiochia e risale perciò agli anni quaranta. Si articola in quattro brevi frasi, di cui due sono più importanti e vengono precisate da quelle secondarie. La prima più importante la troviamo in questo versetto : “Cristo morì per i nostri peccati secondo la Scritture.” La morte e la risurrezione di Cristo hanno un profondo significato nella storia della salvezza intessuta da Dio con l'umanità, infatti “è morto per i nostri peccati,” sottolinea il valore salvifico della morte di Gesù. In forza della morte di Cristo i credenti ottengono il perdono e la riconciliazione. “Secondo le Scritture”: gli eventi della morte e risurrezione non sono casuali, ma rientrano nel progetto divino salvifico preannunziato dai profeti.
“che fu sepolto e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici”. La precisazione che “fu sepolto “intende sottolineare la realtà della morte. La sepoltura costituisce il sigillo posto sulla fine irrimediabile del crocifisso.
La seconda affermazione importante è quella della resurrezione, con il dato tradizionale del “terzo giorno”. Segue il richiamo alle apparizioni a Cefa, cioè a Pietro e ai Dodici. La risurrezione di Gesù diventa realtà storica soltanto nelle esperienze dei testimoni, perchè il risorto si è fatto presente con la sua gloria nella vita di questi uomini e come tale diviene oggetto di predicazione e di adesione di fede.
“Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli. Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto. “
Alle apparizioni a Pietro e a Giacomo (detto anche fratello del Signore, era uno dei capi della comunità cristiana di Gerusalemme, (di lui si parla in Gal 1,19) e a tutti gli apostoli, Paolo ricorda per ultimo l’apparizione di cui è stato destinatario lui stesso e porta una sua considerazione personale: “Io infatti sono l’infimo degli apostoli, e non sono degno neppure di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la chiesa di Dio. Per grazia di Dio però sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana; anzi ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me»
Non si hanno racconti di apparizioni di Gesù a Paolo, se non di quella sulla strada di Damasco. Egli classifica la sua esperienza come l'ultima e parla di sé come di un feto abortito. (Questa espressione così forte e alquanto ingiuriosa può darsi sia stata usata nei suoi riguardi dai suoi avversari). Il fatto di essere ora apostolo è pura grazia e Paolo afferma che non c’è nessun merito da parte sua ed è anche per questo che si pone all'ultimo posto nella graduatoria degli apostoli. Però il suo lavoro di missionario impegnato nella predicazione lo pone al di sopra di tutti gli altri apostoli perchè la grazia di Dio non è stata senza effetto in lui. Quindi Paolo gioca sull'antitesi tra ciò che egli è per natura e ciò che è diventato per grazia, egli per questo al tempo stesso si umilia e si innalza.
“Dunque, sia io che loro, così predichiamo e così avete creduto.”
Con la presentazione di se stesso e del suo posto all'interno del gruppo degli apostoli, termina questa introduzione al discorso sulla resurrezione. Egli ha posto in chiaro l'autorità della sua parola, pur essendo l'ultimo fa comunque parte degli apostoli. Ha ricordato anche le linee essenziali del vangelo da lui annunciato e che i Corinzi hanno accolto. Un vangelo che non ha inventato lui, ma che a sua volta ha ricevuto e trasmesso in modo fedele. In quest'ultima frase si nota il plurale: “sia io che loro predichiamo.” Quindi non c'è modo di mettere in dubbio la veridicità delle sue parole.
Dal vangelo secondo Luca
In quel tempo, mentre la folla gli faceva ressa attorno per ascoltare la parola di Dio, Gesù, stando presso il lago di Gennèsaret, vide due barche accostate alla sponda. I pescatori erano scesi e lavavano le reti. Salì in una barca, che era di Simone, e lo pregò di scostarsi un poco da terra. Sedette e insegnava alle folle dalla barca.
Quando ebbe finito di parlare, disse a Simone: «Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca». Simone rispose: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti». Fecero così e presero una quantità enorme di pesci e le loro reti quasi si rompevano. Allora fecero cenno ai compagni dell’altra barca, che venissero ad aiutarli. Essi vennero e riempirono tutte e due le barche fino a farle quasi affondare.
Al vedere questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: «Signore, allontànati da me, perché sono un peccatore». Lo stupore infatti aveva invaso lui e tutti quelli che erano con lui, per la pesca che avevano fatto; così pure Giacomo e Giovanni, figli di Zebedèo, che erano soci di Simone. Gesù disse a Simone: «Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini».
E, tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono.
Lc 5,1-11
L’evangelista Luca introduce la vocazione dei primi discepoli di Gesù (Pietro, Giacomo e Giovanni), a differenza di Matteo e Marco, solo dopo i miracoli di Cafarnao e aggiunge il racconto della pesca miracolosa che l'evangelista Giovanni presenta dopo la risurrezione (21, 1-11).
Il brano inizia riportando che Gesù si trovava sulle rive del lago di Gennèsaret, e oltre a Lui c‘era la folla che “gli faceva ressa attorno per ascoltare la parola di Dio”. L’evangelista riporta anche che Gesù osserva due barche accostate alla sponda. I pescatori erano scesi e lavavano le reti.
Di fronte a questo scenario, Gesù salì in una barca, che era di Simone, e lo pregò di scostarsi un poco da terra.
Le barche erano due ma Gesù sale soltanto su una: quella dove c'è Simone e soltanto da questa barca Egli, seduto, ammaestra le folle (il sedersi è attinente al fare del maestro che con autorità sicura si pone in mezzo ai suoi discepoli). Viene evidenziato che l’insegnamento di Gesù, proviene dalla barca di Pietro che Lui ha scelto.
“Quando ebbe finito di parlare, disse a Simone: «Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca»”.
Nell'ordine di Gesù, dato a Pietro, ci sono due verbi con due soggetti diversi: "prendi il largo" e "calate le reti“. L'ordine è rivolto solo a Pietro, mentre a tutti quelli che erano presenti nella barca comanda di calare le reti. Il significato di questo duplice comando rivolto a soggetti diversi indica che a Pietro viene riservato un ministero, un compito che ad altri non compete: quello di prendere il largo. (In altri termini, quello di far decollare la Chiesa, cercando di darle una nuova identità, nettamente diversa e staccata dal giudaismo); si può ancora notare come l’ordine di “prender il largo” avviene dopo la predicazione di Gesù, quasi a dire che soltanto sulla parola di Gesù la Chiesa riesce a decollare. Essa, dunque, non è frutto di sforzi umani, ma nasce dalla potente parola di Dio. A tutti gli altri, poi, dopo dà l'ordine di calare le reti per la pesca.
“Simone rispose: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti». Simone è un pescatore esperto, per tutta la notte ha gettato le reti per la pesca senza ottenere risultati e nella sua risposta si intuiscono la fatica e lo scoraggiamento provati, ma, fiduciosi nella parola del Maestro, gettano di nuovo le reti. La fiducia nella parola di Gesù per loro ha più forza che l’esperienza deludente della notte trascorsa.
“Fecero così e presero una quantità enorme di pesci e le loro reti quasi si rompevano. Allora fecero cenno ai compagni dell’altra barca, che venissero ad aiutarli. Essi vennero e riempirono tutte e due le barche fino a farle quasi affondare”.
Il risultato è sorprendente. La pesca è così abbondante che le reti quasi si rompono e le barche cominciano ad affondare.. Simone ha bisogno dell’aiuto dei compagni che sono su un’altra barca. Questo ci può insegnare che nessuno riesce ad essere completo da solo. Una comunità deve aiutare l’altra e il conflitto tra le comunità, sia al tempo di Luca che oggi, deve essere superato per raggiungere un obiettivo comune, che è la missione. L’esperienza della forza della Parola di Gesù che trasforma, è il cardine attorno a cui le differenze si abbracciano e si superano.
Questo prodigioso risultato stupisce Simon Pietro, che si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: «Signore, allontànati da me, perché sono un peccatore».
In questo versetto si percepisce il grande stupore di Pietro per la prodigiosa pesca confrontata con la sua realtà di peccatore. Egli ha visto in Gesù di Nazareth la gloria di Dio, la bellezza e lo splendore di Dio. Egli ha percepito che in Gesù c’è la santità, che Gesù è il Signore, mentre egli è solo un misero, un peccatore, indegno di avere una relazione con Lui.
Questo episodio ci ricorda la reazione di Isaia quando nel tempio “vede il Signore” e grida: “Io sono perduto,perché un uomo dalle labbra impure io sono”. E’ la reazione anche di tanti profeti che hanno visto Dio entrare nelle loro vite, attraverso teofanie, manifestazioni grandiose di Dio stesso.
Lo stupore e il tremore che aveva invaso Pietro invade anche i suoi compagni, di cui ora Luca svela i nomi: Giacomo e Giovanni, figli di Zebedèo, che erano soci di Simone. Si può intuire già in quel trio, i tre discepoli che saranno i più vicini a Gesù. Secondo Luca qui Gesù consegna a Pietro la vocazione quando dice: “Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini”. Simone riceve dal Signore la sua missione di essere pescatore di uomini proprio nel momento in cui si scopre un peccatore, non pietra sicura, ma pietra inaffidabile. Il Signore gli dice: “sarai pescatore di uomini” vale a dire : pescherai uomini perché vivano, cioè li strapperai all’abisso delle acque perché vivano. Non si tratta solo di prendere gli uomini e di convertirli, ma di far sì che la loro vita sia una testimonianza vivente.
Il racconto termina con questa annotazione: “E, tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono.” Si può notare che Gesù si era rivolto solo a Simone e indirettamente lo aveva esortato a seguirlo. Ma qui a conclusione viene detto che anche gli altri condividono la scelta di Simone. Si dice: “lasciarono tutto”: la loro vita cambia radicalmente. Incontrare Gesù e fidarsi della sua Parola porta a considerare tutto il resto secondario rispetto a Lui.
Il miracolo del lago di Gennesaret non consiste nelle barche riempite di pesci, neanche nelle barche abbandonate, il miracolo grande è Gesù che non si lascia impressionare dai difetti di quei semplici pescatori, ma li sceglie proprio perché sono gente semplice, anche limitata, e li trasforma in discepoli per affidare a loro il Suo Vangelo .
*****
“Il Vangelo di questa domenica racconta – nella redazione di san Luca – la chiamata dei primi discepoli di Gesù. Il fatto avviene in un contesto di vita quotidiana: ci sono alcuni pescatori sulla sponda del lago di Galilea, i quali, dopo una notte di lavoro passata senza pescare nulla, stanno lavando e sistemando le reti. Gesù sale sulla barca di uno di loro, quella di Simone, detto Pietro, e gli chiede di staccarsi un poco da riva e si mette a predicare la Parola di Dio alla gente che si era radunata numerosa. Quando ha finito di parlare, gli dice di prendere il largo e di gettare le reti. Simone aveva già conosciuto Gesù e sperimentato la potenza prodigiosa della sua parola, perciò gli risponde: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti» E questa sua fede non viene delusa: infatti le reti si riempirono di una tale quantità di pesci che quasi si rompevano
Di fronte a questo evento straordinario, i pescatori sono presi da grande stupore. Simon Pietro si getta ai piedi di Gesù dicendo: «Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore». Quel segno prodigioso lo ha convinto che Gesù non è solo un formidabile maestro, la cui parola è vera e potente, ma che Egli è il Signore, è la manifestazione di Dio. E tale presenza ravvicinata suscita in Pietro un forte senso della propria meschinità e indegnità. Da un punto di vista umano, pensa che ci debba essere distanza tra il peccatore e il Santo. In verità, proprio la sua condizione di peccatore richiede che il Signore non si allontani da lui, allo stesso modo in cui un medico non può allontanarsi da chi è malato.
La risposta di Gesù a Simon Pietro è rassicurante e decisa: «Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini» E di nuovo il pescatore di Galilea, ponendo la sua fiducia in questa parola, lascia tutto e segue Colui che è diventato il suo Maestro e Signore. E così fecero anche Giacomo e Giovanni, soci di lavoro di Simone. Questa è la logica che guida la missione di Gesù e la missione della Chiesa: andare in cerca, “pescare” gli uomini e le donne, non per fare proselitismo, ma per restituire a tutti la piena dignità e libertà, mediante il perdono dei peccati.
Questo è l’essenziale del cristianesimo: diffondere l’amore rigenerante e gratuito di Dio, con atteggiamento di accoglienza e di misericordia verso tutti, perché ognuno possa incontrare la tenerezza di Dio e avere pienezza di vita. E qui, in maniera particolare, penso ai confessori: sono i primi a dover dare la misericordia del Padre seguendo l’esempio di Gesù, come hanno fatto anche i due Frati santi, padre Leopoldo e padre Pio.
Il Vangelo di oggi ci interpella: sappiamo fidarci veramente della parola del Signore? Oppure ci lasciamo scoraggiare dai nostri fallimenti? In questo Anno Santo della Misericordia siamo chiamati a confortare quanti si sentono peccatori e indegni di fronte al Signore e abbattuti per i propri errori, dicendo loro le stesse parole di Gesù: “Non temere”. “E’ più grande la misericordia del Padre dei tuoi peccati! E’ più grande, non temere!”. Ci aiuti la Vergine Maria a comprendere sempre più che essere discepoli significa mettere i nostri piedi sulle orme lasciate dal Maestro: sono le orme della grazia divina che rigenera vita per tutti.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 7 febbraio 2016
Nelle letture liturgiche di questa domenica Geremia, Paolo e Luca ci portano ad approfondire un discorso sul dono della profezia che si trasforma in un impegno di carità.
Nella prima lettura Geremia ci parla di quando per la prima volta gli fu rivolta la parola del Signore, che lo invia, nonostante la sua giovane età, a predicare la conversione e la penitenza. La sua fu una vocazione profetica tutta intessuta di ripulse, di solitudine, di persecuzioni.
Nella seconda lettura, nella sua lettera ai Corinzi, Paolo ci offre la pagina più celebre di tutte le sue lettere: è il celebre inno alla carità, all’amore. L’amore-agape è il cuore del cristianesimo, il più grande dei doni spirituali, il solo che potremo portare con noi quando arriveremo davanti a Dio. Dio che è Amore non può che volere e cercare l'amore.
Il brano del Vangelo di Luca conclude l’episodio della sinagoga di Nazareth. Gesù, dapprima è accolto dai suoi compaesani, poi viene rigettato. E’ Luca a riferire l’affermazione di Gesù, divenuta paradigmatica “Nessuno profeta è ben accetto nella sua patria” .La reazione degli abitanti di Nazareth lascia sgomenti perchè non solo non si opposero a Gesù, ma presero persino la decisione di ucciderlo gettandolo dalla rupe sulla quale era costruita la loro città. Ma nessun uomo ha potere sugli inviati del Signore, finché non giunge la loro ora. L'ora di Gesù non era ancora venuta e Lui passando in mezzo a loro si mise in cammino verso un altro villaggio. Il contrasto, l'opposizione, l'ostilità, la volontà di toglierlo di mezzo sempre si abbatterà sui veri profeti. Essi però non devono temere l'uomo. Devono solo perseverare nella loro missione.
Dal libro del profeta Geremìa
Nei giorni del re Giosìa,
mi fu rivolta questa parola del Signore:
«Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto,
prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato;
ti ho stabilito profeta delle nazioni.
Tu, dunque, stringi la veste ai fianchi,
àlzati e di’ loro tutto ciò che ti ordinerò;
non spaventarti di fronte a loro,
altrimenti sarò io a farti paura davanti a loro.
Ed ecco, oggi io faccio di te come una città fortificata,
una colonna di ferro e un muro di bronzo contro tutto il paese,
contro i re di Giuda e i suoi capi,
contro i suoi sacerdoti e il popolo del paese.
Ti faranno guerra, ma non ti vinceranno,
perché io sono con te per salvarti».
Ger 1, 4-5.17-19
Nel libro del profeta Geremia troviamo raccontata in modo autobiografico la sua vita. Sappiamo così che la sua chiamata avvenne intorno al 626 a.C. quando ancora era un ragazzo e desiderava sposarsi con la sua Giuditta, ma Dio stesso glielo proibisce, ed è per questo che è stato l’unico profeta celibe dell’A.T a differenza di tutti gli altri. Aveva un carattere mite e, all'inizio della sua missione, in cui era giovane inesperto, dovette affrontare il momento più difficile e decisivo della storia della nazione giudaica, quello che conduce all'esilio in Babilonia (587 a.C.). Egli tenta di tutto: scuote il torpore del popolo con una predicazione che chiede una radicale conversione; appoggia la riforma nazionalista e religiosa del re Giosia (622 a.C.); cerca di convincere tutti alla sottomissione al dominio di Babilonia dopo la morte del re (609 a.C.). Viene però accusato di pessimismo religioso e di disfattismo politico.
Questo brano riporta dai primi versetti la vocazione del profeta, egli è un giovane timido e pieno di incertezze quando è chiamato da Dio. ”Prima di formarti nel grembo materno…” esprimono il rapporto di dipendenza totale dell’uomo dal suo creatore. Dio lo "afferra" per inviarlo, ma al tempo stesso lascia crescere in lui, pur nella sofferenza, una straordinaria libertà che lo porterà ad un compito ben preciso: essere profeta delle nazioni.
Nella seconda parte del brano, nei versetti” Tu, dunque, stringi la veste ai fianchi, alzati e di’ loro tutto ciò che ti ordinerò…” sono preannunciate le condizioni difficili nelle quali il profeta dovrò esercitare la propria missione. Geremia dovrà prepararsi alla lotta perché il rifiuto della parola del Signore da parte dei suoi compaesani coinvolgerà direttamente e fisicamente anche la sua persona!
Il Signore però gli assicura la sua assistenza personale, resistenza e incorruttibilità per la missione profetica:” non spaventarti di fronte a loro, altrimenti sarò io a farti paura davanti a loro. Ed ecco, oggi io faccio di te come una città fortificata, una colonna di ferro e un muro di bronzo contro tutto il paese, contro i re di Giuda e i suoi capi,contro i suoi sacerdoti e il popolo del paese.” E assicura di essergli sempre vicino: “Ti faranno guerra, ma non ti vinceranno, perché io sono con te per salvarti».
Geremia ricorderà più volte questa sua chiamata, quando si troverà di fronte alle sue debolezze, timidezze e fragilità. Dapprima ignorato dai propri compaesani, poi deriso, isolato, perseguitato, minacciato, percosso, insultato, denunciato da parenti e amici, flagellato. Tutto perché vorrebbero fargli dire ciò che loro desiderano udire. Vorrebbero essere rassicurati dalla sua parola, invece Geremia non può mentire, altrimenti tradirebbe la sua missione, tradirebbe se stesso.
Geremia, profeta del dolore e della misericordia, che preannuncia più di ogni altro la figura di Gesù, rimane per il suo popolo, e per tutti i cristiani, un testimone della speranza. Egli è pure l’esempio di una incorruttibile fedeltà alla propria vocazione, qualunque siano le difficoltà.
Salmo 70 La mia bocca, Signore, racconterà la tua salvezza.
In te, Signore, mi sono rifugiato,
mai sarò deluso.
Per la tua giustizia, liberami e difendimi,
tendi a me il tuo orecchio e salvami.
Sii tu la mia roccia,
una dimora sempre accessibile;
hai deciso di darmi salvezza:
davvero mia rupe e mia fortezza tu sei!
Mio Dio, liberami dalle mani del malvagio.
La mia bocca racconterà la tua giustizia,
ogni giorno la tua salvezza.
Fin dalla giovinezza, o Dio, mi hai istruito
e oggi ancora proclamo le tue meraviglie.
Il salmista vive in un tempo di gravi contrasti nei quali si trova coinvolto per la sua fedeltà a Dio. Probabilmente si è al tempo immediatamente precedente la presa di Gerusalemme e la deportazione a Babilonia. Le sofferenze di questo giusto avvengono in patria, per mano di suoi connazionali, che sono ormai ribelli a Dio e guardano ai culti idolatrici introdotti nel tempio (Cf. 2Re 21,4). Questo giusto si adopera per una riforma dei costumi che può vedersi nell’esito felice della riforma di Giosia.
Il salmista per rafforzare la sua fiducia in Dio non evoca le grandi opere di Dio verso la nazione, ma guarda alla sua storia. Egli è stato educato alla fede in Dio fin da quando la madre lo teneva stretto sul grembo: “Su di te mi appoggiai fin dal grembo materno, dal seno di mia madre sei tu il mio sostegno” E Dio lo ha accompagnato, lo ha istruito con la sua grazia, fin dalla giovinezza: “Fin dalla giovinezza, o Dio, mi hai istruito, ”. Il salmista trova motivo alla sua fedeltà proprio alla fedeltà di Dio su di lui …..
Egli, pur anziano e debole, e in pericolo, si dà forza, con l’aiuto di Dio, di annunciare la giustizia di Dio, la sua fedeltà alle promesse fatte, l’immutabilità della sua parola: “La mia bocca racconterà la tua giustizia, ogni giorno la tua salvezza, che io non so misurare”; “Venuta la vecchiaia e i capelli bianchi, o Dio, non abbandonarmi, fino a che io annunci la tua potenza, a tutte le generazioni le tue imprese".
La giustizia di Dio, dice il salmista, “è alta come il cielo”; cioè non è come quella umana, cedevole, imperfetta, ed esposta ai cedimenti.
Le angosce che Dio ha permesso si abbattessero su di lui sono state veramente grandi poiché dice: “Molte angosce e sventure mi hai fatto vedere: tu mi darai ancora vita, mi farai risalire dagli abissi della terra”. Dagli “abissi della terra”, per dire che la sua situazione è di un finito, di un morto, di cui nessuno più si preoccupa.
Ma la fede in Dio sostiene il salmista e pieno di ferma speranza dice: “Allora io ti renderò grazie al suono dell’arpa, per la tua fedeltà, o mio Dio; a te canterò sulla cetra, o Santo d’Israele”.
Commento tratto da “Cantico dei Cantici” di P.Paolo Berti
Dalla lettera di S.Paolo apostolo ai Corìnzi
Fratelli, desiderate intensamente i carismi più grandi. E allora, vi mostro la via più sublime.
Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita.
E se avessi il dono della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza, se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla.
E se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo, per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe.
La carità è magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta.
La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno, il dono delle lingue cesserà e la conoscenza svanirà. Infatti, in modo imperfetto noi conosciamo e in modo imperfetto profetizziamo. Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà.
Quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Divenuto uomo, ho eliminato ciò che è da bambino.
Adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio; allora invece vedremo faccia a faccia.
Adesso conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto. Ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità.
Ma la più grande di tutte è la carità!
1 Cor 12,31-13,13
Questo brano è il celebre “inno all’amore” di San Paolo, che è incastonato come una perla all’interno di una lettera dal carattere pastorale che l’apostolo indirizza alla tormentata comunità cristiana di Corinto.
“Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita.
E se avessi il dono della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza, se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla.
E se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo, per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe.”
In questi primi versetti viene dipinto l’uomo colmo di tutte le doti umane e spirituali, ma vuoto d’amore. Il dono ambito delle lingue, simbolo non soltanto di cultura, ma anche di più ampie possibilità di relazioni (“il parlare in lingue” nella visione di Paolo è espressione soprattutto di esperienza mistica) diventa - senza l’amore - solo un rimbombo fastidioso di un gong che crea solo disturbo.
In continuo crescendo Paolo poi confronta con la carità i tre doni divini prestigiosi: la profezia, la scienza e la fede, anzi la “pienezza della fede”, quella che dovrebbe essere capace di trasportare le montagne, come aveva detto Gesù (Mc 11,23) .
Ebbene anche questi tre grandi doni, se privi dell’amore, sono considerati “nulla”. La stessa povertà , il dono agli altri dei propri beni, anzi della stessa vita in un atto eroico, se non sono sostenute dall’amore, sono solo gesti di autoglorificazione.
“La carità è magnanima,benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta.”
Questa seconda parte è straordinaria, fa pensare alla corolla di un fiore i cui petali sono costituiti dalle varie virtù che nascono dall’amore ed in particolare emergono: la pazienza, la bontà, l’assenza di invidia e di orgoglio, il disinteresse, il rispetto, la benignità, la costanza.
Se l’amore si spegne, anche le altre virtù umane e religiose appassiscono, ed è facile perciò che al suo posto subentri l’idolo del denaro, dell’egoismo o dell’orgoglio.
“La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno, il dono delle lingue cesserà e la conoscenza svanirà. Infatti, in modo imperfetto noi conosciamo e in modo imperfetto profetizziamo. Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà.”
E’ importante per il credente che la lampada dell’amore-agape non si spenga. E’ vitale che non si spenga nel matrimonio, il sacramento dell’amore umano: essa sola permette all’eros di non essere cieco ed egoista, rende il piacere sereno e puro, trasforma il possesso in donazione, fa fiorire il desiderio in felicità e armonia, cancella l’abitudine e la noia.
E’ fondamentale che la lampada dell’amore non si spenga anche per la persona single, perchè sappia vivere la sua esistenza, il suo rapporto con gli altri come un dono.
E’ quanto mai importante che questa lampada rimanga accesa per il credente, perchè la sua fede non sia una fredda religiosità di facciata, ma un gioioso atto di donazione a Dio e ai fratelli.
Ed essendo la fiamma dell’amore una scintilla di Dio, che è l’Amore supremo, essa “non avrà mai fine” perchè ci condurrà all’eternità divina.
“Quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Divenuto uomo, ho eliminato ciò che è da bambino. Adesso conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto”
La tesi dell’apostolo Paolo per sostenere la durata dell'amore sopra ogni altra virtù si basa sulla teoria che tutti i doni cui tenevano in particolar modo i Corinzi sarebbero cessati. La stessa idea è rappresentata con l'immagine del bambino che per diventare adulto deve lasciare dietro di sé le cose da bambino.
Paolo fa anche presente ai Corinzi che anche la realtà presente, che essi vedono come attraverso uno specchio (a quei tempi lo specchio era un pezzo di metallo lucido, ma pur sempre opaco), dunque imperfetta e indiretta, dovrà essere abbandonata per aprirsi alla nuova realtà dell'incontro con Dio, faccia a faccia, di persona. Solo allora, finito l’ordine del mondo, tutti i doni spirituali, la conoscenza e ogni realtà contingente verranno meno. Sono eterne – dice Paolo - soltanto la fede, la speranza e l'amore.
“Ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità. Ma la più grande di tutte è la carità! “
Di queste tre cose, due passeranno perchè la fede diventerà visione e la speranza diventerà godimento. Ma la Carità-Amore, deve durare perchè Dio è Amore.
Dobbiamo desiderare dunque questo dono che non avrà mai fine. L’Amore è il vertice di tutti i doni e di tutte le virtù, perché l'amore dà senso a tutto, è il solo valore che avrà corso nell’Universo quando tutti gli altri valori del mondo saranno inutili e irrimediabilmente “fuori corso”.
Dal vangelo secondo Luca
In quel tempo, Gesù cominciò a dire nella sinagoga: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato».
Tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano: «Non è costui il figlio di Giuseppe?». Ma egli rispose loro: «Certamente voi mi citerete questo proverbio: “Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafàrnao, fallo anche qui, nella tua patria!”». Poi aggiunse: «In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria. Anzi, in verità io vi dico: c’erano molte vedove in Israele al tempo di Elìa, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; ma a nessuna di esse fu mandato Elìa, se non a una vedova a Sarèpta di Sidòne. C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo; ma nessuno di loro fu purificato, se non Naamàn, il Siro». All’udire queste cose, tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno. Si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte, sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù. Ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino.
Lc 4, 21-30
Il brano del vangelo di oggi si apre con il versetto che concludeva il brano di domenica scorsa, in cui Gesù, nella sinagoga di Nazareth, invece di commentare il testo profetico ne annuncia il compimento dicendo : «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato».
Egli dunque si presenta come colui che dà compimento alla parola scritta del profeta Isaia (61,1-2) . L'inizio effettivo del ministero di Gesù, e quindi della salvezza, per Luca è segnato dall'inaugurarsi del tempo di grazia annunciato da Isaia. Anche Giovanni Battista aveva iniziato la sua predicazione rifacendosi ad un testo di Isaia (40,3-5) e Luca presenta collegati ancora una volta il messia e il suo precursore.
A differenza del Vangelo di Marco, la reazione da parte degli abitanti di Nazareth è abbastanza positiva, infatti leggiamo: “Tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano: «Non è costui il figlio di Giuseppe?». “
A Nazareth Gesù era cresciuto in "sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini" (Lc 2,52), ma nulla era trapelato del grande mistero divino della Sua origine. Proprio per questa conoscenza superficiale gli abitanti di Nazareth sentendo Gesù predicare nella loro sinagoga si meravigliano delle "parole di grazia che uscivano dalla sua bocca“, ma alla meraviglia si mescola l‘incredulità: "Non è costui il figlio di Giuseppe?“.
“Ma egli rispose loro: «Certamente voi mi citerete questo proverbio: "Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafàrnao, fallo anche qui, nella tua patria!"».
Questi versetti, che seguono l'annuncio di Gesù, sono un insieme di testi diversi raccolti da Luca per esporre la propria tesi: il Messia non può limitare la sua azione alla piccola Nazareth, ma deve andare in tutto il paese dei Giudei. Indice di questo è la citazione degli eventi svoltisi a Cafarnao, di cui Luca non ha ancora parlato.
E' Gesù stesso a provocare i suoi ascoltatori citando un proverbio: “In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria”. L’espressione “in verità io vi dico”, dà forza all'affermazione che mette Gesù nella linea dei profeti, rifiutati e perseguitati e sottolinea ancora una volta che Gesù è inviato a tutto il mondo.
“Anzi, in verità io vi dico: c’erano molte vedove in Israele al tempo di Elìa, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; ma a nessuna di esse fu mandato Elìa, se non a una vedova a Sarèpta di Sidòne. C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo; ma nessuno di loro fu purificato, se non Naamàn, il Siro».” e ricorda i il comportamento dei profeti Elia ed Eliseo che avevano compiuto i loro miracoli a favore dei pagani.
All'udire questo tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno, le parole di Gesù suonano come un'accusa intollerabile. I presenti nella sinagoga avevano compreso bene che la missione di Gesù superava i limiti d'Israele ed era destinata a tutte le nazioni, per cui l'azione precipita e Luca lo sottolinea : “Si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte, sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù”. A questo tentativo di eliminarlo, Luca riferisce: “Ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino”.
Gesù non compie un miracolo, ma vuol far capire ai suoi oppositori che Lui andrà avanti per la Sua strada, nessuno potrà impedire la realizzazione del Suo progetto.
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“L’odierno racconto evangelico ci conduce ancora una volta, come domenica scorsa, nella sinagoga di Nazareth, il villaggio della Galilea dove Gesù è cresciuto in famiglia ed è conosciuto da tutti. Egli, che da poco tempo se n’era andato per iniziare la sua vita pubblica, ritorna ora per la prima volta e si presenta alla comunità, riunita di sabato nella sinagoga.
Legge il passo del profeta Isaia che parla del futuro Messia e alla fine dichiara: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato» . I concittadini di Gesù, dapprima stupiti e ammirati, poi cominciano a fare la faccia storta, a mormorare tra loro e a dire: perché costui, che pretende di essere il Consacrato del Signore, non ripete qui, nel suo paese, i prodigi che si dice abbia compiuto a Cafarnao e nei villaggi vicini? Allora Gesù afferma: «Nessun profeta è bene accetto nella sua patria» , e si appella ai grandi profeti del passato Elia ed Eliseo, che operarono miracoli in favore dei pagani per denunciare l’incredulità del loro popolo. A questo punto i presenti si sentono offesi, si alzano sdegnati, cacciano fuori Gesù e vorrebbero buttarlo giù dal precipizio. Ma Lui, con la forza della sua pace, «passando in mezzo a loro, si mise in cammino». La sua ora non era ancora arrivata.
Questo brano dell’evangelista Luca non è semplicemente il racconto di una lite tra compaesani, come a volte avviene anche nei nostri quartieri, suscitata da invidie e da gelosie, ma mette in luce una tentazione alla quale l’uomo religioso è sempre esposto- tutti noi siamo esposti - e dalla quale occorre prendere decisamente le distanze. E qual è questa tentazione? E’ la tentazione di considerare la religione come un investimento umano e, di conseguenza, mettersi a “contrattare” con Dio cercando il proprio interesse. Invece, nella vera religione, si tratta di accogliere la rivelazione di un Dio che è Padre e che ha cura di ogni sua creatura, anche di quella più piccola e insignificante agli occhi degli uomini. Proprio in questo consiste il ministero profetico di Gesù: nell’annunciare che nessuna condizione umana può costituire motivo di esclusione - nessuna condizione umana può essere motivo di esclusione! - dal cuore del Padre, e che l’unico privilegio agli occhi di Dio è quello di non avere privilegi. L’unico privilegio agli occhi di Dio è quello di non avere privilegi, di non avere padrini, di essere abbandonati nelle sue mani.
«Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato» . L’“oggi”, proclamato da Cristo quel giorno, vale per ogni tempo; risuona anche per noi in questa piazza, ricordandoci l’attualità e la necessità della salvezza portata da Gesù all’umanità. Dio viene incontro agli uomini e alle donne di tutti i tempi e luoghi nella situazione concreta in cui essi si trovano. Viene incontro anche a noi. E’ sempre Lui che fa il primo passo: viene a visitarci con la sua misericordia, a sollevarci dalla polvere dei nostri peccati; viene a tenderci la mano per farci risalire dal baratro in cui ci ha fatto cadere il nostro orgoglio, e ci invita ad accogliere la consolante verità del Vangelo e a camminare sulle vie del bene. Lui viene sempre a trovarci, a cercarci.
Torniamo nella sinagoga. Certamente quel giorno, nella sinagoga di Nazareth, c’era anche Maria, la Madre. Possiamo immaginare le risonanze del suo cuore, un piccolo anticipo di quello che soffrirà sotto la Croce, vedendo Gesù, lì in sinagoga, prima ammirato, poi sfidato, poi insultato, minacciato di morte. Nel suo cuore, pieno di fede, lei custodiva ogni cosa. Ci aiuti Lei a convertirci da un dio dei miracoli al miracolo di Dio, che è Gesù Cristo.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 31 gennaio 2016
Le letture liturgiche di questa domenica ci parlano dell’ascolto della Parola di Dio che si trasforma in preghiera. Si può dire che sono la rappresentazione di un rito comunitario che si rinnova nel tempo e di cui anche noi siamo chiamati ad essere interpreti: quello della santa Messa.
La prima lettura, tratta dal libro di Neemia, ci narra che dopo l’amara esperienza dell’esilio e la ricostruzione di Gerusalemme, davanti al popolo avviene la benedizione del Signore e una solenne liturgia della Parola: la lettura del libro della Legge, la spiegazione del senso e la comprensione del testo. Da questo triplice momento sbocciano tre atteggiamenti: le lacrime della conversione, segno del perdono divino, l’invito ad aprire le labbra al sorriso, a canti di gioia, a indire banchetti, poiché “questo giorno è consacrato al Signore…”, l’esortazione a mandare porzioni di cibo a quelli che nulla hanno di preparato.
Nella seconda lettura, Paolo, nella sua lettera ai Corinzi ci dice che la varietà dei doni dello Spirito nella Chiesa, corpo ministico di Cristo, è destinata a comporre una unità organica e a promuovere nei cristiani una amorosa solidarietà e unità
Il brano del Vangelo di Luca ci parla di una lettura della Parola di Dio fatta dallo stesso Gesù quando nella sinagoga di Nazareth legge il passo di Isaia, annuncio di salvezza e di liberazione. E al termine Gesù annuncia che quella scrittura si stava realizzando davanti agli occhi dei presenti: tutta la speranza annunziata da Isaia in Gesù stava diventando realtà.
Dal libro di Neemìa
In quei giorni, il sacerdote Esdra portò la legge davanti all’assemblea degli uomini, delle donne e di quanti erano capaci di intendere.
Lesse il libro sulla piazza davanti alla porta delle Acque, dallo spuntare della luce fino a mezzogiorno, in presenza degli uomini, delle donne e di quelli che erano capaci d’intendere; tutto il popolo tendeva l’orecchio al libro della legge. Lo scriba Esdra stava sopra una tribuna di legno, che avevano costruito per l’occorrenza.
Esdra aprì il libro in presenza di tutto il popolo, poiché stava più in alto di tutti; come ebbe aperto il libro, tutto il popolo si alzò in piedi. Esdra benedisse il Signore, Dio grande, e tutto il popolo rispose: «Amen, amen», alzando le mani; si inginocchiarono e si prostrarono con la faccia a terra dinanzi al Signore.
I levìti leggevano il libro della legge di Dio a brani distinti e spiegavano il senso, e così facevano comprendere la lettura. Neemìa, che era il governatore, Esdra, sacerdote e scriba, e i leviti che ammaestravano il popolo dissero a tutto il popolo: «Questo giorno è consacrato al Signore, vostro Dio; non fate lutto e non piangete!». Infatti tutto il popolo piangeva, mentre ascoltava le parole della legge.
Poi Neemìa disse loro: «Andate, mangiate carni grasse e bevete vini dolci e mandate porzioni a quelli che nulla hanno di preparato, perché questo giorno è consacrato al Signore nostro; non vi rattristate, perché la gioia del Signore è la vostra forza».
Ne 8,2-4a.5-6.8-10
Il Libro di Neemia è un testo contenuto sia nella bibbia cristiana che in quella ebraica, dove è contato come un testo unico con il libro di Esdra. E’ stato scritto in ebraico e si ipotizza che la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, sia tra la fine del periodo persiano e l’inizio di quello greco, quindi più o meno tra il 330 e il 250 a.C. o forse, secondo alcuni studiosi, anche più tardi.
E’composto da 13 capitoli descriventi l'attività riformatrice di Neemia a Gerusalemme, dopo il ritorno dall'esilio babilonese, in particolare la ricostruzione delle mura della città .
Storicamente il libro di Neemia è l’ultimo colpo d'occhio che l'Antico Testamento ci permette di gettare sul popolo d'Israele. Gli avvenimenti che riferisce cominciano circa trent'anni dopo quelli che il libro di Ester riferisce e tredici anni dopo il ritorno di Esdra.
Questo brano che parla della promulgazione della legge fatta da Esdra, sacerdote e scriba, verso l’anno 444 a.C., ci permette di cogliere persino nei dettagli lo svolgersi di una liturgia della parola. Questo brano, inizia presentando Esdra, sacerdote e scriba, sopra una tribuna di legno, che avevano costruito per l’occorrenza, che porta il libro della legge di Mosè, che il Signore aveva dato a Israele e lo apre “davanti all’assemblea degli uomini, delle donne e di quanti erano capaci di intendere”. Si suppone che l’esistenza del libro fosse già conosciuta, ma non il suo contenuto. Certamente si tratta del Pentateuco, ma di sicuro non come è giunto fino a noi.
“Esdra aprì il libro in presenza di tutto il popolo, poiché stava più in alto di tutti; come ebbe aperto il libro, tutto il popolo si alzò in piedi. Esdra benedisse il Signore, Dio grande, e tutto il popolo rispose: «Amen, amen», alzando le mani; si inginocchiarono e si prostrarono con la faccia a terra dinanzi al Signore”.
Viene poi menzionato (nei versetti non riportati dal brano) il nome di coloro che, insieme ai leviti spiegavano la legge al popolo mentre il popolo stava in piedi. Essi leggevano il libro della legge di Dio a brani distinti e spiegavano il senso, e così facevano comprendere la lettura.
Il metodo di lettura e di spiegazione non è molto chiaro. È possibile che sia questo un primo esempio di targum, cioè di traduzione in aramaico del testo scritto in ebraico. Siccome i presenti non capivano più la lingua antica di Israele, il testo veniva letto e poi un incaricato, (chiamato meturgheman), dava la traduzione aramaica che conteneva spesso aggiunte e spiegazioni (midraš).
Infine “Neemìa, che era il governatore, Esdra, sacerdote e scriba, e i leviti che ammaestravano il popolo dissero a tutto il popolo: «Questo giorno è consacrato al Signore, vostro Dio; non fate lutto e non piangete!». Infatti tutto il popolo piangeva, mentre ascoltava le parole della legge.”
E’ il segno vivo del pentimento, il cuore è pervaso dal rimorso, il passato con il suo carico di peccati si ripresenta alla coscienza con tutto il suo peso.
Poi Neemia invita tutti i presenti a mangiare carni grasse e bere vini dolci e dice loro di mandare porzioni a quelli che nulla hanno di preparato, e ne dà il motivo: perché questo giorno è consacrato al Signore nostro; non vi rattristate, perché la gioia del Signore è la vostra forza».
Il governatore Neemia , rappresenta l’ultima parola di Dio, che non è quella del giudizio bensì la promessa del perdono. E allora le labbra si devono aprire al sorriso, le case si riempiono di canti di gioia e di banchetti festosi.
Salmo 18 Le tue parole, Signore, sono spirito e vita.
La legge del Signore è perfetta,
rinfranca l'anima;
la testimonianza del Signore è stabile,
rende saggio il semplice.
I precetti del Signore sono retti,
fanno gioire il cuore;
il comando del Signore è limpido,
illumina gli occhi
Il timore del Signore è puro,
rimane per sempre;
i giudizi del Signore sono fedeli,
sono tutti giusti.
Ti siano gradite le parole della mia bocca,
davanti a te i pensieri del mio cuore,
Signore, mia roccia e mio redentore.
Qui c’è la seconda parte del salmo 19(18) e si parla della Torah ….
Vediamo la comparazione della torah con i metalli preziosi (oro raffinato) e coi cibi deliziosi (il “favo stillante” di miele); l’homoecomomicus non potrà mai con i suoi immensi capitali contrattare la parola di Dio e la sapienza. Esse sono un dono offerto da Dio a chi ha il cuore puro e chi le possiede riesce a capire che ricchezze e prosperità sono solo una manciata di fango o di polvere; rispetto alla felicità, alla pace, che la comunione con Dio offre.
Commento tratto da “I Salmi” di Gianfranco Ravasi
Dalla prima lettera di S.Paolo apostolo ai Corinzi
Fratelli, come il corpo è uno solo e ha molte membra, e tutte le membra del corpo, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche il Cristo. Infatti noi tutti siamo stati battezzati mediante un solo Spirito in un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti siamo stati dissetati da un solo Spirito.
E infatti il corpo non è formato da un membro solo, ma da molte membra. Se il piede dicesse: «Poiché non sono mano, non appartengo al corpo», non per questo non farebbe parte del corpo. E se l’orecchio dicesse: «Poiché non sono occhio, non appartengo al corpo», non per questo non farebbe parte del corpo. Se tutto il corpo fosse occhio, dove sarebbe l’udito? Se tutto fosse udito, dove sarebbe l’odorato?
Ora, invece, Dio ha disposto le membra del corpo in modo distinto, come egli ha voluto. Se poi tutto fosse un membro solo, dove sarebbe il corpo? Invece molte sono le membra, ma uno solo è il corpo. Non può l’occhio dire alla mano: «Non ho bisogno di te»; oppure la testa ai piedi: «Non ho bisogno di voi». Anzi proprio le membra del corpo che sembrano più deboli sono le più necessarie; e le parti del corpo che riteniamo meno onorevoli le circondiamo di maggiore rispetto, e quelle indecorose sono trattate con maggiore decenza, mentre quelle decenti non ne hanno bisogno. Ma Dio ha disposto il corpo conferendo maggiore onore a ciò che non ne ha, perché nel corpo non vi sia divisione, ma anzi le varie membra abbiano cura le une delle altre. Quindi se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui.
[Ora voi siete corpo di Cristo e, ognuno secondo la propria parte, sue membra.] Alcuni perciò Dio li ha posti nella Chiesa in primo luogo come apostoli, in secondo luogo come profeti, in terzo luogo come maestri; poi ci sono i miracoli, quindi il dono delle guarigioni, di assistere, di governare, di parlare varie lingue. Sono forse tutti apostoli? Tutti profeti? Tutti maestri? Tutti fanno miracoli? Tutti possiedono il dono delle guarigioni? Tutti parlano lingue? Tutti le interpretano?
1Cor 12,12-30
Continuando il tema dei carismi iniziato nella II domenica, Paolo arriva al punto centrale intorno al quale si imposta tutta l’argomentazione del brano: “come il corpo è uno solo e ha molte membra, e tutte le membra del corpo, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche il Cristo”
La causa che dà consistenza e attività al “tutto” è la forza vitale che tocca ciascun membro e tutti gli elementi del corpo. Infatti, coinvolge tutto e tutti, in quella che possiamo indicare la dinamica dell’amore come l’ha insegnata Gesù .
Tale forza vitale, è lo Spirito Santo: “Infatti noi tutti siamo stati battezzati mediante un solo Spirito in un solo corpo”, in altre parole siamo stati immersi in una realtà che ci riempie e avvolge, in modo tale che, rispettando la diversità di ogni singola persona, tutte partecipano di questo elemento vitale e trovano in esso le condizioni per svilupparsi e crescere in comunione con altre diversità.
Ciò è dovuto al fatto che Dio, assumendo la condizione umana nella persona di Gesù, con il suo insegnamento e con il Suo sacrificio, ha rivelato, a chi confida in Lui, le condizioni affinché ciò si realizzi a favore di tutti. Infatti, lo Spirito, cui Paolo si riferisce, è anche, allo stesso tempo, lo Spirito di Cristo. È a questa realtà che il cristiano deve fare riferimento perché fa parte del patrimonio della propria fede in Gesù Cristo, in virtù della quale percepisce che sono abbattute tutte le barriere per formare uno stesso corpo: “Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti siamo stati dissetati da un solo Spirito.” Si tratta di una considerazione straordinaria e nello stesso tempo rivoluzionaria di Paolo, se consideriamo i tempi di allora, che è costata all’apostolo non poche sofferenze anche nell’ambito dei credenti.
“E infatti il corpo non è formato da un membro solo, ma da molte membra”.
Paolo sfrutta a fondo il paragone del corpo per confermare e completare l'esposizione sui carismi, che abbiamo visto la volta scorsa. Nel proseguire del discorso si sottolinea, all'interno dell'unità, una necessaria pluralità. Senza di questa non si può parlare di un corpo.
“Se il piede dicesse: «Poiché non sono mano, non appartengo al corpo», non per questo non farebbe parte del corpo. E se l'orecchio dicesse: «Poiché non sono occhio, non appartengo al corpo», non per questo non farebbe parte del corpo. Se tutto il corpo fosse occhio, dove sarebbe l'udito? Se tutto fosse udito, dove sarebbe l'odorato? Ora, invece, Dio ha disposto le membra del corpo in modo distinto, come egli ha voluto. “
All'interno del corpo c’è una pluralità, ma si tratta di una pluralità diversificata. Nella sua diversità ogni membro appartiene all'organismo umano. Non è per una casualità né per un capriccio che Dio abbia creato le diversità e le differenze, ma esse rispondono alla Sua volontà di portare la persona e l’umanità alla pienezza dell’esperienza dell’amore, come partecipazione della Sua stessa realtà.
“Se poi tutto fosse un membro solo, dove sarebbe il corpo? Invece molte sono le membra, ma uno solo è il corpo.”
L'assimilazione delle membra a un membro solo nega il corpo nella sua essenziale diversificazione. Dunque né un solo membro, né più membra identiche.
“Non può l'occhio dire alla mano: «Non ho bisogno di te»; oppure la testa ai piedi: «Non ho bisogno di voi».” Il paragone del corpo si presta ad ulteriori contenuti. La diversità delle membra non si riduce a una pura e semplice coesistenza delle une accanto alle altre, come parti in se stesse autosufficienti e autonome. Al contrario, le unisce in un reciproco bisogno. C'è una mutua dipendenza, una complementarietà delle diverse membra.
“Anzi proprio le membra del corpo che sembrano più deboli sono le più necessarie; e le parti del corpo che riteniamo meno onorevoli le circondiamo di maggiore rispetto, e quelle indecorose sono trattate con maggiore decenza, mentre quelle decenti non ne hanno bisogno .Ma Dio ha disposto il corpo conferendo maggiore onore a ciò che non ne ha”,
Paolo, rifacendosi alla cultura del suo tempo introduce qui una classificazione delle membra del corpo in deboli e forti, vili e nobili, indecenti e oneste. L'intento è di precisare che esiste una specie di compensazione all'inferiorità delle membra meno stimate. Infatti più una parte dell'organismo è vile e indecente e maggiore è il rispetto con cui il pudore la circonda e la protegge.
“perché nel corpo non vi sia divisione, ma anzi le varie membra abbiano cura le une delle altre. Quindi se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui.”
Nel corpo dunque esiste una legge fondamentale di mutua sollecitudine. Le membra si prendono cura le une delle altre e partecipano le une alle gioie e ai dolori delle altre.
“Ora voi siete corpo di Cristo e, ognuno secondo la propria parte, sue membra”
Non dobbiamo dimenticare che il vero soggetto di tutta questa descrizione è il corpo che rappresenta la Chiesa, noi siamo le sue membra, diversificate, con diversi compiti, che si prendono cura le une delle altre. Questo avviene grazie allo Spirito che non dona fenomeni straordinari e sovrumani, destinati a pochi, come credevano i Corinti. Al contrario è creatore e animatore di una comunità articolata e diversificata. L'alterità dei cristiani poggia sulla partecipazione ai suoi doni.
“Alcuni perciò Dio li ha posti nella Chiesa in primo luogo come apostoli, in secondo luogo come profeti, in terzo luogo come maestri; poi ci sono i miracoli, quindi il dono delle guarigioni, di assistere, di governare, di parlare varie lingue.”
Paolo enumera i principali carismi presenti nella Chiesa. Si tratta di carismi ugualmente necessari, nella loro diversità., ma c’è sempre una gerarchia. Al primo posto c'è l'apostolato. L'annuncio evangelico incentrato in Cristo è alla base di qualsiasi comunità cristiana. Al secondo posto vi sono i profeti, coloro che avevano il dono di una parola capace di scuotere, provocare ravvedimenti, coinvolgere l'ascoltatore. Poi troviamo i maestri, i catechisti, coloro che accompagnavano i neobattezzati alla conoscenza del mistero cristiano e delle esigenze morali richieste dalla vita di fede.
“Sono forse tutti apostoli? Tutti profeti? Tutti maestri? Tutti fanno miracoli? Tutti possiedono il dono delle guarigioni? Tutti parlano lingue? Tutti le interpretano? “
Con domande retoriche l'apostolo esclude che si possa pensare a un processo di riduzione e livellamento a un solo carisma, fosse pure quello supremo dell'apostolato.
Per riassumere si può ancora dire che il sentimento di appartenenza all’umanità considerata come il vivere in un solo corpo è quanto mai importante, ma è necessario che ad esso si accompagni anche il senso di responsabilità, che si rivela nel farsi carico del processo di crescita generale e nell’uso dei mezzi adeguati per conseguirlo. La Chiesa, unita e solidale a immagine del corpo fisico, forma realmente il corpo di Cristo, costituito dalla partecipazione al Suo corpo eucaristico e animato dalla vita dello Spirito.
E’ questa una delle grandi idee sul mistero della Chiesa che ha fatto di Paolo il grande apostolo
Dal vangelo secondo Luca
Poiché molti hanno cercato di raccontare con ordine gli avvenimenti che si sono compiuti in mezzo a noi, come ce li hanno trasmessi coloro che ne furono testimoni oculari fin da principio e divennero ministri della Parola, così anch’io ho deciso di fare ricerche accurate su ogni circostanza, fin dagli inizi, e di scriverne un resoconto ordinato per te, illustre Teòfilo, in modo che tu possa renderti conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto.
In quel tempo, Gesù ritornò in Galilea con la potenza dello Spirito e la sua fama si diffuse in tutta la regione.
Insegnava nelle loro sinagoghe e gli rendevano lode.
Venne a Nàzaret, dove era cresciuto, e secondo il suo solito, di sabato, entrò nella sinagoga e si alzò a leggere. Gli fu dato il rotolo del profeta Isaìa; aprì il rotolo e trovò il passo dove era scritto: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi e proclamare l’anno di grazia del Signore».
Riavvolse il rotolo, lo riconsegnò all’inserviente e sedette. Nella sinagoga, gli occhi di tutti erano fissi su di lui. Allora cominciò a dire loro: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato».
Lc 1:1-4; 4:14-21
L’evangelista Luca, per la stesura del suo vangelo ci dice sin dall’inizio di avere fatto le cose seriamente, interpellando testimoni diretti di quei fatti, e quanto raccolto di averlo riportato in modo ordinato. Chiarisce anche la motivazione della sua opera: far si che ogni amante di Dio, si renda personalmente conto della solidità della catechesi ricevuta. Si rivolge ad un “illustre Teofilo". Certamente questo Teofilo non è una sola persona particolare e il nome (Teo-filo significa amico di Dio) già rivela la dimensione simbolica che raggruppa tutti coloro che si sentono "amici di Dio".
Nel brano introduttivo Luca, racconta del ritorno di Gesù in Galilea, dove “insegnava nelle sinagoghe e tutti ne facevano grandi lodi”. Sullo sfondo di questa attività si situa la visita a Nazareth. L’evangelista osserva da una parte che Nazareth era il luogo in cui Gesù era cresciuto, e dall’altra che era sua consuetudine recarsi nella sinagoga: egli vuole così sottolineare che Gesù era un giudeo che praticava normalmente la sua religione. Il racconto prosegue: “Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; apertolo trovò il passo dove era scritto: Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio,a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi e proclamare l’anno di grazia del Signore”. Gesù legge il brano in piedi poi: “Riavvolse il rotolo, lo riconsegnò all’inserviente e sedette. Nella sinagoga, gli occhi di tutti erano fissi su di lui.”
Dietro invito del capo sinagoga, ogni adulto maschio poteva prendere la parola dopo aver letto il brano della Scrittura. Il gesto di sedersi, dopo aver consegnato il rotolo all’inserviente, manifesta l’intenzione di parlare; si crea così una suspense, provocata dall’attesa di quanto avrebbe detto. E Gesù pronuncia queste parole: “Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato”. La presenza stessa di Gesù rappresenta dunque l’evento che porta a compimento le promesse di Dio contenute non solo nel brano citato, ma in tutte le Scritture. Dio instaura il Suo regno rivolgendosi prima di tutto alle categorie più emarginate e oppresse attuando la loro piena liberazione. Con la sua parola Gesù non annunzia soltanto, ma attua la salvezza divina, contenuta nelle scritture profetiche. È la parola stessa di Gesù che diventa evento salvifico, vivo, attuale.
“Nel nostro tempo dispersivo e distratto – commentava questo passo Benedetto XVI - questo Vangelo ci invita ad interrogarci sulla nostra capacità di ascolto”. Prima di poter parlare “di Dio e con Dio”, bisogna infatti “ascoltarlo”, e la liturgia della Chiesa “è la scuola di questo ascolto del Signore che ci parla”. Soprattutto, il brano evangelico odierno “ci dice che ogni momento può diventare un «oggi» propizio per la nostra conversione”. È questo il “senso cristiano” del «carpe diem»: che “ogni giorno può diventare l’oggi salvifico, perché la salvezza è storia che continua per la Chiesa e per ciascun discepolo di Cristo”.
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“Nel Vangelo di oggi, l'evangelista Luca prima di presentare il discorso programmatico di Gesù a Nazaret, ne riassume brevemente l'attività evangelizzatrice. E’ un'attività che Egli compie con la potenza dello Spirito Santo: la sua parola è originale, perché rivela il senso delle Scritture; è una parola autorevole, perché comanda persino agli spiriti impuri e questi obbediscono.
Gesù è diverso dai maestri del suo tempo: per esempio, non ha aperto una scuola per lo studio della Legge, ma va in giro a predicare e insegna dappertutto: nelle sinagoghe, per le strade, nelle case, sempre in giro! Gesù è diverso anche da Giovanni Battista, il quale proclama il giudizio imminente di Dio, mentre Gesù annuncia il suo perdono di Padre.
Ed ora immaginiamo di entrare anche noi nella sinagoga di Nazaret, il villaggio dove Gesù è cresciuto fino a circa trent'anni. Ciò che vi accade è un avvenimento importante, che delinea la missione di Gesù. Egli si alza per leggere la Sacra Scrittura. Apre il rotolo del profeta Isaia e prende il passo dove è scritto: “lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l'unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio” . Poi, dopo un momento di silenzio pieno di attesa da parte di tutti, dice, tra lo stupore generale: “Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato”.
Evangelizzare i poveri: questa è la missione di Gesù, secondo quanto Lui dice; questa è anche la missione della Chiesa, e di ogni battezzato nella Chiesa. Essere cristiano ed essere missionario è la stessa cosa. Annunciare il Vangelo, con la parola e, prima ancora, con la vita, è la finalità principale della comunità cristiana e di ogni suo membro.
Si nota qui che Gesù indirizza la Buona Novella a tutti, senza escludere nessuno, anzi privilegiando i più lontani, i sofferenti, gli ammalati, gli scartati della società.
Domandiamoci: che cosa significa evangelizzare i poveri? Significa anzitutto avvicinarli, significa avere la gioia di servirli, di liberarli dalla loro oppressione, e tutto questo nel nome e con lo Spirito di Cristo, perché è Lui il Vangelo di Dio, è Lui la Misericordia di Dio, è Lui la liberazione di Dio, è Lui chi si è fatto povero per arricchirci con la sua povertà. Il testo di lsaia, rafforzato da piccoli adattamenti introdotti da Gesù, indica che l'annuncio messianico del Regno di Dio venuto in mezzo a noi si rivolge in modo preferenziale agli emarginati, ai prigionieri, agli oppressi.
Probabilmente al tempo di Gesù queste persone non erano al centro della comunità di fede. Possiamo domandarci: oggi, nelle nostre comunità parrocchiali, nelle associazioni, nei movimenti, siamo fedeli al programma di Cristo? L'evangelizzazione dei poveri, portare loro il lieto annuncio, è la priorità? Attenzione: non si tratta solo di fare assistenza sociale, tanto meno attività politica. Si tratta di offrire la forza del Vangelo di Dio, che converte i cuori, risana le ferite, trasforma i rapporti umani e sociali secondo la logica dell'amore. I poveri, infatti, sono al centro del Vangelo.
La Vergine Maria, Madre degli evangelizzatori, ci aiuti a sentire fortemente la fame e la sete del Vangelo che c’è nel mondo, specialmente nel cuore e nella carne dei poveri. E ottenga ad ognuno di noi e ad ogni comunità cristiana di testimoniare concretamente la misericordia, la grande misericordia che Cristo ci ha donato.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 24 gennaio 2016
Le letture liturgiche di questa domenica hanno come filo conduttore una festa di nozze e ci guidano con semplicità e chiarezza verso il centro del messaggio cristiano: la nostra vita spirituale si nutre dell’amore di Dio per noi e del nostro amore per il prossimo che raffigura l’amore per Dio.
Nella prima lettura, tratta dal libro del profeta Isaia, Dio è presentato come uno sposo “come un giovane sposa una vergine, … come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te” e Israele è paragonato ad una sposa, alla quale Dio non rinnega mai il Suo amore, nonostante le sue infedeltà.
Nella seconda lettura, San Paolo nella sua lettera ai Corinzi afferma che la Chiesa generata dallo Spirito Santo è una umanità unificata, nella quale ciascuno ha un compito e un carisma in vista del bene comune.
Nel Vangelo, Giovanni racconta come Gesù si sia rivelato fin dagli inizi ai suoi discepoli attraverso un segno tutto particolare: l’acqua mutata in vino in un banchetto di nozze. La festa di Cana, alla quale Gesù partecipa con Sua Madre e con i Suoi discepoli, manifesta molteplici aspetti della Sua presenza tra noi. C’è una chiara allusione al banchetto finale al quale Dio chiama, attraverso di Lui, tutti i popoli della terra. L’immagine delle nozze è frequente nell’Antico Testamento per indicare l’amore di Dio verso la comunità che Egli ha scelto.
Il miracolo (o segno) di Gesù a Cana di Galilea ci esorta a ricordare che Lui è il centro di ogni festa, il centro della nostra vita, Colui che proprio con tali segni vuole mostrarci la strada per realizzare ed attualizzare la nostra salvezza.
Dal libro del profeta Isaìa
Per amore di Sion non tacerò,
per amore di Gerusalemme non mi concederò riposo,
finché non sorga come aurora la sua giustizia
e la sua salvezza non risplenda come lampada.
Allora le genti vedranno la tua giustizia,
tutti i re la tua gloria;
sarai chiamata con un nome nuovo,
che la bocca del Signore indicherà.
Sarai una magnifica corona nella mano del Signore,
un diadema regale nella palma del tuo Dio.
Nessuno ti chiamerà più Abbandonata,
né la tua terra sarà più detta Devastata,
ma sarai chiamata Mia Gioia
e la tua terra Sposata,
perché il Signore troverà in te la sua delizia
e la tua terra avrà uno sposo.
Sì, come un giovane sposa una vergine,
così ti sposeranno i tuoi figli;
come gioisce lo sposo per la sposa,
così il tuo Dio gioirà per te.
Is 62,1-5
Questo brano, come quello dell’Epifania, appartiene al "Terzo Isaia" (TritoIsaia capitoli 56-66), il profeta della situazione successiva al ritorno dall'esilio che si rivolge non più agli esiliati, ma ai giudei ritornati da Babilonia in Gerusalemme. Il suo centro di interesse non è più il nuovo esodo, bensì il ristabilimento delle istituzioni teocratiche, le quali sono minacciate non da agenti esterni, ma dalla infedeltà del popolo.
Il brano inizia con un’esternazione del profeta, il quale attende con impazienza che Gerusalemme, oggetto del suo più grande amore, ritorni al suo primitivo splendore:
“Per amore di Sion non tacerò, per amore di Gerusalemme non mi concederò riposo, finché non sorga come aurora la sua giustizia e la sua salvezza non risplenda come lampada”.
Il profeta è preoccupato per Gerusalemme e anticipa con il pensiero il momento in cui essa sarà restaurata. Egli la sogna come una città in cui la “giustizia” sorge come aurora e la salvezza risplende come una fiaccola.
Prosegue descrivendo poi il futuro di Gerusalemme a cui sarà affidato una missione universale:
“Allora le genti vedranno la tua giustizia, tutti i re la tua gloria; sarai chiamata con un nome nuovo, che la bocca del Signore indicherà”.
Ricevendo in sé la salvezza che consiste nella giustizia, questa diventerà visibile a tutte le nazioni, che ne trarranno luce e orientamento di vita.. La città manifesterà dunque la sua grandezza nella giustizia, e non nella potenza delle armi, nel benessere materiale o nella magnificenza dei suoi edifici.
In forza della giustizia Gerusalemme acquisterà un nuovo rapporto con DIO “Sarai una magnifica corona nella mano del Signore, un diadema regale nella palma del tuo Dio.”
La gloria della nuova Gerusalemme viene poi ulteriormente spiegata mediante un cambiamento di nome: nessuno la chiamerà più “Abbandonata”, e la sua terra non sarà più detta “Devastata”, ma sarà chiamata “Mia Gioia” e la sua terra “Sposata”, perché DIO troverà in essa la sua delizia e la sua terra avrà uno sposo. Il cambiamento di nome che indica una svolta nella vita di una persona, era stato già adottato da Osea per indicare prima la rottura e poi la riconciliazione di Israele con DIO (V: Os 1-2).
Per terminare il profeta riprende quest’ultimo concetto:
“come un giovane sposa una vergine, così ti sposeranno i tuoi figli; come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te. “. La ricostituzione del rapporto privilegiato di DIO con Israele (Os 2,21-25) è dunque all’origine del nuovo splendore della città santa.
La gloria della Gerusalemme futura viene identificata con la piena assunzione di un rapporto interno improntato alla giustizia, una virtù che evoca rapporti leali e sinceri. La cosa più importante per il progresso di una nazione consiste appunto in un rapporto sincero con Dio, basato sul compimento della Sua volontà, e in un rapporto sociale in cui i diritti di tutti, specialmente degli ultimi, siano rispettati.
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Salmo 95 - Annunciate a tutti i popoli le meraviglie del Signore.
Cantate al Signore un canto nuovo,
cantate al Signore, uomini di tutta la terra.
Cantate al Signore, benedite il suo nome.
Annunciate di giorno in giorno la sua salvezza.
In mezzo alle genti narrate la sua gloria,
a tutti i popoli dite le sue meraviglie.
Date al Signore, o famiglie dei popoli,
date al Signore gloria e potenza,
date al Signore la gloria del suo nome.
Prostratevi al Signore nel suo atrio santo.
Tremi davanti a lui tutta la terra.
Dite tra le genti: «Il Signore regna!».
Egli giudica i popoli con rettitudine.
Il salmo è un invito all'assemblea dei popoli a riconoscere la grandezza di Dio. L'universalismo del salmo ha come base l'unicità di Dio, e la consapevolezza che tutti i popoli della terra hanno un'origine comune, e che, allontanatisi da Dio, ne hanno in qualche misura un ricordo nelle loro concezioni religiose, infettate di politeismo e di idolatria. Ora Dio chiama a raccolta tutte le famiglie dei popoli a ritornare a lui (Cf. Ps 21,28), che ha formato un popolo quale suo testimone, radunato attorno al tempio di Gerusalemme. ….
L'annuncio di Israele ai popoli deve affermare la regalità di Dio su di loro: “Dite tra le genti: ”.
Egli è colui che con la sua provvidenza regge il mondo, e agisce con giustizia sui popoli: “È stabile il mondo, non potrà vacillare! Egli giudica i popoli con rettitudine”.
Il Signore “viene a giudicare la terra”; questo avverrà con la venuta di Cristo, re di giustizia e di pace il quale affermerà la giustizia (Cf. Ps 93). “Viene”, dice il salmista. Ora è venuto il Cristo, il Figlio di Dio incarnatosi nel grembo verginale di Maria. Egli viene continuamente con la sua grazia (Ap 1,8); poi, alla fine del mondo, verrà per il giudizio finale: “Giudicherà il mondo con giustizia e nella sua fedeltà i popoli”. “Nella sua fedeltà”, cioè per dare la risurrezione gloriosa a coloro che lo hanno accolto.
Difficile poter dire la data di composizione del salmo; probabilmente è stato scritto in un tempo di grande compattezza di Israele, poco dopo la costruzione del tempio di Salomone, prima che avvenisse lo scisma delle tribù del nord (1Re 11,26s).
Commento di P.Paolo Berti
Dalla lettera di S.Paolo apostolo ai Corìnzi
Fratelli, vi sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diverse attività, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti.
A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune: a uno infatti, per mezzo dello Spirito, viene dato il linguaggio di sapienza; a un altro invece, dallo stesso Spirito, il linguaggio di conoscenza; a uno, nello stesso Spirito, la fede; a un altro, nell’unico Spirito, il dono delle guarigioni; a uno il potere dei miracoli; a un altro il dono della profezia; a un altro il dono di discernere gli spiriti; a un altro la varietà delle lingue; a un altro l’interpretazione delle lingue.
Ma tutte queste cose le opera l’unico e medesimo Spirito, distribuendole a ciascuno come vuole.
1 Cor 12,4-11
La Prima lettera ai Corinzi, che Paolo scrisse da Efeso negli anni 53-57, è una delle più lunghe fra quelle da lui scritte, paragonabile a quella dei Romani, ambedue infatti sono suddivise in 16 capitoli.
Paolo tra il 50 e 51 aveva gettato le fondamenta della Comunità di Corinto, formata soprattutto di pagani di modesta condizione (At.18, 1-18). Due anni dopo, mentre era ad Efeso, Paolo apprende che erano sorte delle divisioni che agitavano la comunità, e questo glielo confermano anche alcuni cristiani di Corinto che erano andati da lui per esporre questi problemi. Questa è la ragione che lo spinge a scrivere questa lettera che noi conosciamo come prima, ma che è stata sicuramente preceduta da un’altra che è andata perduta (questo lo si deduce da quanto scrive al v.5,9)
La lettera si contraddistingue per la molteplicità dei temi che Paolo vi affronta per chiarire dubbi o difficoltà della comunità e per correggere abusi e deviazioni. In essa l’apostolo dovrà prendere posizioni anche piuttosto critiche, ma facendosi prendere dalle situazioni vissute ci permette anche di gettare uno sguardo sulla crescita di una giovane Chiesa con tutto il suo dinamismo, ma anche le sue crisi.
Malgrado i pericoli che deve denunciare, e le sofferenze che come conseguenza ne avrà, (v.2 Cor), Paolo comunque sarà sempre fiero di questa comunità che ha fondato in pieno ambiente pagano.
Il capitolo 12, da dove è tratto il brano liturgico, è dedicato ai doni dello Spirito. Paolo aveva riscontrato che nel mondo greco, oltre ad esserci qualche elemento di rimpianto per le pratiche pagane, c'era anche in alcuni il tentativo di attribuirsi maggiore capacità rispetto agli altri per il possesso di alcune doti straordinarie. Così regnava una notevole confusione a causa dei molti "carismi" che i cristiani manifestavano nella loro vita privata e nella comunità. Anzi, a causa di questi doni, spesso, sorgevano invidie, gelosie, discussioni, confronti.
Così, Paolo sviluppa una sua riflessione e in questo brano afferma:
“Fratelli, vi sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diverse attività, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti.”
Paolo cerca di ridimensionare il problema affermando che carismi, doni di grazia, provengono tutti dall’’amore gratuito di Dio. Questi doni, anche se si differenziano, provengono tutti dallo Spirito. Ci sono diversi ministeri, cioè servizi, ma anche questi ministeri provengono da un solo Signore, cioè da Gesù Cristo figlio di Dio. Ancora ci sono diverse attività ma vanno tutte ricondotte a Dio Padre, il primo ad operare tutto in tutti.
La Chiesa è un organismo che ha bisogno di diverse attività, ma tutte hanno come fonte Dio e sono volte al bene di tutti i credenti
“A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune: a uno infatti, per mezzo dello Spirito, viene dato il linguaggio di sapienza;”
La misura per valutare qualsiasi dono è l'utilità all'interno della comunità cristiana.
Paolo enumera questi doni di cui i Corinzi erano dotati, ma ad ogni dono ribadisce che l'unica fonte da cui esso proviene è lo Spirito.
Egli fa un esempio esemplificativo, senza voler completare l’immensa varietà dei doni
“a un altro invece, dallo stesso Spirito, il linguaggio di conoscenza; a uno, nello stesso Spirito, la fede; a un altro, nell’unico Spirito, il dono delle guarigioni; a uno il potere dei miracoli;”
Per fede qui Paolo non intende certamente l'adesione all'annuncio evangelico, che è un dono dato a tutti i credenti. Si tratta piuttosto della fede taumaturgica, capace di spostare le montagne (v. 1Cor 13,3). Un carisma molto simile è il dono delle guarigioni e quello di fare miracoli.
“a un altro il dono della profezia; a un altro il dono di discernere gli spiriti; a un altro la varietà delle lingue; a un altro l’interpretazione delle lingue”.
La profezia non è la previsione del futuro, piuttosto si tratta di una parola capace di scuotere, provocare pentimenti, appassionare l'ascoltatore.
Era importante discernere la vera profezia dalle sue imitazioni, mosse da spiriti malvagi, perciò tra i doni vi è anche quello di discernere gli spiriti.
Alla fine vi è la varietà delle lingue ossia la glossolalia, carisma preferito dai Corinzi, in quanto manifestazione spettacolare. Non era sicuramente molto amata da Paolo per la sua poca utilità all’interno della comunità, destinata a rimanere sconcertata di fronte a voci incomprensibili. Ecco perché la glossolalia viene subito affiancata dal dono di interpretare le lingue, per rendere comprensibili e utili queste manifestazioni dello Spirito.
Di questi aspetti Paolo parlerà diffusamente nel capitolo 14.
“Ma tutte queste cose le opera l’unico e medesimo Spirito, distribuendole a ciascuno come vuole”.
Tutti questi doni dunque provengono dalla medesima fonte, lo Spirito di Dio, il quale liberamente e sovranamente li elargisce a ciascuno come meglio crede. E' quindi escluso qualsiasi privilegio, qualsiasi merito che renda qualcuno superiore agli altri.
Dal Vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli. Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno vino». E Gesù le rispose: «Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora». Sua madre disse ai servitori: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela».
Vi erano là sei anfore di pietra per la purificazione rituale dei Giudei, contenenti ciascuna da ottanta a centoventi litri. E Gesù disse loro: «Riempite d’acqua le anfore»; e le riempirono fino all’orlo. Disse loro di nuovo: «Ora prendetene e portatene a colui che dirige il banchetto». Ed essi gliene portarono.
Come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, colui che dirigeva il banchetto – il quale non sapeva da dove venisse, ma lo sapevano i servitori che avevano preso l’acqua – chiamò lo sposo e gli disse: «Tutti mettono in tavola il vino buono all’inizio e, quando si è già bevuto molto, quello meno buono. Tu invece hai tenuto da parte il vino buono finora».
Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui.
Gv 2,1-12
Il racconto delle nozze di Cana, che è riportato solamente nel Vangelo di Giovanni, chiude il ciclo delle manifestazioni di Gesù: a Betlemme, nel mistero della carne, si rivela ai Magi; nelle acque del Giordano è proclamato Figlio, l’amato del Padre; a Cana, con il primo segno (o miracolo) Gesù comincia a rivelarsi ai suoi discepoli e al mondo come vero Dio.
Giovanni, raccontando le nozze di Cana, ha detto esplicitamente quale sia il significato di questo racconto, perché l’ultimo versetto dice che questo “fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui”. Il racconto ha decisamente un’importanza notevole: non per niente Giovanni lo ha messo come primo dei segni di Gesù. E “primo” non si riferisce solo all’ordine cronologico, ma vuol dire l’inizio, il modello; tutti gli altri segni che Gesù farà saranno simili a questo e se uno capisce questo potrà anche capire il mistero stesso di Gesù.
Il brano inizia riportando che “vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea”
Nell'Antico Testamento, la festa delle nozze era un simbolo dell'amore di Dio verso il Suo popolo. Il tema delle nozze richiama subito alla mente un’immagine biblica, divenuta tradizionale a partire dall’esperienza coniugale di Osea fino al Cantico dei Cantici e a Gesù stesso, che ha presentato il regno dei cieli come un banchetto di nozze. La festa umana per eccellenza, quella che dice l’amore dell’uomo e della donna è servita da metafora per esprimere l’alleanza di Dio con il suo popolo, e più particolarmente la sua realizzazione escatologica, allorché Dio la stringerà non solo con Israele ma col mondo intero.
“e c’era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli. Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno vino»”
La Madre di Gesù si trovava nella festa, mentre Gesù ed i suoi discepoli erano invitati. Colpisce subito l’attenzione che Maria ha per le cose semplici e molto umane di questi sposi, forse neanche loro si erano accorti di quanto stava succedendo. Ma dopo l’attenzione amorevole di Maria, lascia un po’ perplessi la risposta asciutta che le dà Gesù: «Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora».
È una frase dura e decisa, che sottolinea una certa distanza. Gesù non vuole saperne del problema, sembra che non gli interessi, che non lo tocchi più di tanto. Questo atteggiamento lo ritroviamo altre volte nei Vangeli. Gesù ormai non è più semplicemente il figlio di Maria; ma ha iniziato la sua rivelazione pubblica come Messia. La reazione di Maria, che rivolta ai servitori dice : «Qualsiasi cosa vi dica, fatela». denota che se anche non ha compreso quali siano esattamente le intenzioni del Figlio, si rimette totalmente alla volontà di lui, e trasmette ai servi questa sua fede aperta al mistero. L’evangelista riporta le parole, ma possiamo anche pensare che il dialogo tra Gesù e la Madre non è terminato; anzi le sue più importanti parole non furono mai pronunziate con le labbra, ma solo trasmesse da sguardo a sguardo.
“Vi erano là sei anfore di pietra per la purificazione rituale dei Giudei, contenenti ciascuna da ottanta a centoventi litri.” L'indicazione del numero delle giare è un dettaglio piccolo ma significativo. "6 giare": vuol indicare l’imperfezione (il 7 numero della perfezione, del completamento, della maturità), le giare di solito erano sempre piene, soprattutto durante una festa, ma qui sono vuote. Le giare possiamo considerarle un esempio dell'antica alleanza, sono vuote, non più in grado di generare una vita nuova.
“E Gesù disse loro: «Riempite d’acqua le anfore»; e le riempirono fino all’orlo”.
Solo Gesù può immettere vino nuovo nel tentativo umano di giungere ad un'esistenza più autentica.
“Ora prendetene e portatene a colui che dirige il banchetto». Ed essi gliene portarono.”
Come nella moltiplicazione dei pani, anche a Cana Gesù sollecita e quasi attende la collaborazione umana, ma che è sempre sproporzionata rispetto all‘azione divina. Certo Gesù avrebbe potuto riempire direttamente di vino le sei giare senza chiedere nulla a nessuno; ma egli desidera che i discepoli ricordino la loro responsabilità e la vivano con generosa fedeltà: toccherà a loro “riempire, attingere e portare” la bevanda della salvezza.
“Come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, colui che dirigeva il banchetto – il quale non sapeva da dove venisse, ma lo sapevano i servitori che avevano preso l’acqua –
Colui che dirige il banchetto non sa da dove il vino venga, ma lo sanno solo i servi. Lo sanno i servi perché obbedendo alle parole della Madre di Gesù hanno fatto quello che Gesù ha detto loro di fare.
Questo fa parte della rivelazione di Gesù, in quanto nel vangelo di Giovanni quando si parla dei doni divini, che Gesù porta agli uomini, si sottolinea il fatto che questi doni hanno una origine misteriosa, com’è misterioso il Donatore. E se uno vuole comprendere Gesù, deve mettere Gesù in relazione con Dio, deve sapere che viene da Dio e che ritorna a Dio: la Sua origine e la Sua destinazione sono misteriose. Quindi come è misterioso Gesù, così sono misteriosi i suoi doni.
“chiamò lo sposo e gli disse: « Tutti mettono in tavola il vino buono all’inizio e, quando si è già bevuto molto, quello meno buono. Tu invece hai tenuto da parte il vino buono finora»..
In questi versetti, Giovanni usa un po’ di ironia nel riportare che il maestro di tavola attribuisce il buon vino allo sposo, e non a Gesù.
Ci sono una infinità di spunti da trarre da questo racconto, ma il messaggio più forte, quello che il “segno “ delle nozze di Cana ci vuole comunicare è il messaggio teologico: Cristo è il “vino buono” e “ultimo”, cioè il dono perfetto del Padre. Ed è proprio Maria, la donna” perfetta, la mediatrice di ogni grazia, il ponte di congiungimento tra la terra e il cielo, che ci presenta il Cristo nella sua missione di salvezza, nella sua “ora” solenne, fonte di gioia e di liberazione da ogni paura.
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“Il Vangelo di questa domenica presenta l’evento prodigioso avvenuto a Cana, un villaggio della Galilea, durante una festa di nozze alla quale partecipano anche Maria e Gesù, con i suoi primi discepoli. La Madre fa notare al Figlio che è venuto a mancare il vino, e Gesù, dopo averle risposto che non è ancora giunta la sua ora, tuttavia accoglie la sua sollecitazione e dona agli sposi il vino più buono di tutta la festa. L’evangelista sottolinea che «questo fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui»
I miracoli, dunque, sono segni straordinari che accompagnano la predicazione della Buona Notizia e hanno lo scopo di suscitare o rafforzare la fede in Gesù. Nel miracolo compiuto a Cana, possiamo scorgere un atto di benevolenza da parte di Gesù verso gli sposi, un segno della benedizione di Dio sul matrimonio. L’amore tra l’uomo e la donna è quindi una buona strada per vivere il Vangelo, cioè per incamminarsi con gioia sul percorso della santità.
Ma il miracolo di Cana non riguarda solo gli sposi. Ogni persona umana è chiamata ad incontrare il Signore nella sua vita. La fede cristiana è un dono che riceviamo col Battesimo e che ci permette di incontrare Dio. La fede attraversa tempi di gioia e di dolore, di luce e di oscurità, come in ogni autentica esperienza d’amore. Il racconto delle nozze di Cana ci invita a riscoprire che Gesù non si presenta a noi come un giudice pronto a condannare le nostre colpe, né come un comandante che ci impone di seguire ciecamente i suoi ordini; si manifesta come Salvatore dell’umanità, come fratello, come il nostro fratello maggiore, Figlio del Padre: si presenta come Colui che risponde alle attese e alle promesse di gioia che abitano nel cuore di ognuno di noi.
Allora possiamo chiederci: davvero conosco il Signore così? Lo sento vicino a me, alla mia vita? Gli sto rispondendo sulla lunghezza d’onda di quell’amore sponsale che Egli manifesta ogni giorno a tutti, a ogni essere umano? Si tratta di rendersi conto che Gesù ci cerca e ci invita a fargli spazio nell’intimo del nostro cuore. E in questo cammino di fede con Lui non siamo lasciati soli: abbiamo ricevuto il dono del Sangue di Cristo. Le grandi anfore di pietra che Gesù fa riempire di acqua per tramutarla in vino sono segno del passaggio dall’antica alla nuova alleanza: al posto dell’acqua usata per la purificazione rituale, abbiamo ricevuto il Sangue di Gesù, versato in modo sacramentale nell’Eucaristia e in modo cruento nella Passione e sulla Croce. I Sacramenti, che scaturiscono dal Mistero pasquale, infondono in noi la forza soprannaturale e ci permettono di assaporare la misericordia infinita di Dio.
La Vergine Maria, modello di meditazione delle parole e dei gesti del Signore, ci aiuti a riscoprire con fede la bellezza e la ricchezza dell’Eucaristia e degli altri Sacramenti, che rendono presente l’amore fedele di Dio per noi. Potremo così innamorarci sempre di più del Signore Gesù, nostro Sposo, e andargli incontro con le lampade accese della nostra fede gioiosa, diventando così suoi testimoni nel mondo.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 17 gennaio 2016
La liturgia, in questa domenica del Battesimo del Signore, chiamandoci a contemplare il mistero di Dio ci invita a fissare lo sguardo sul Figlio, per riconoscere in Lui la nostra più vera identità
Nella prima lettura, tratta dal libro del profeta Isaia, Dio attraverso il profeta parla al cuore del suo popolo e lo consola e, attraverso le parole del profeta: “Nel deserto preparate la via del Signore”, che sono sempre vive e attuali, invita anche noi oggi a prendere coscienza dei nostri errori, e accendere il desiderio di una migliore condotta di vita.
Nella seconda lettura, San Paolo nella sua lettera a Tito delinea con poche parole l’opera salvifica di Dio: la nostra vita di fede ha origine dalla acque del battesimo, ed è costruita non su noi stessi, ma sulla grazia di Cristo. La salvezza è opera della misericordia di Dio Padre e si compie nella persona di Gesù Cristo.
Nel Vangelo di Luca assistiamo ad una grande Teofania, leggiamo infatti che il cielo si aprì e discese su Gesù nel Giordano, lo Spirito Santo in forma corporea di colomba, e si udì una voce, quella del Padre, che riconosce in Gesù il Figlio amato.
In Cristo noi siamo battezzati, liberati dal peccato e diventati una creatura nuova. Dipende da noi vivere il dono ricevuto: credere che siamo figli di Dio, amare e lasciarsi plasmare dallo Spirito Santo.
Dal libro del profeta Isaia
«Consolate, consolate il mio popolo – dice il vostro Dio –.
Parlate al cuore di Gerusalemme
e gridatele che la sua tribolazione è compiuta,
la sua colpa è scontata,
perché ha ricevuto dalla mano del Signore
il doppio per tutti i suoi peccati».
Una voce grida: «Nel deserto preparate la via al Signore,
spianate nella steppa la strada per il nostro Dio.
Ogni valle sia innalzata, ogni monte e ogni colle siano abbassati;
il terreno accidentato si trasformi in piano
e quello scosceso in vallata.
Allora si rivelerà la gloria del Signore e tutti gli uomini insieme la vedranno,
perché la bocca del Signore ha parlato».
Sali su un alto monte, tu che annunci liete notizie a Sion!
Alza la tua voce con forza, tu che annunci liete notizie a Gerusalemme.
Alza la voce, non temere; annuncia alle città di Giuda:
«Ecco il vostro Dio! Ecco, il Signore Dio viene con potenza,
il suo braccio esercita il dominio.
Ecco, egli ha con sé il premio e la sua ricompensa lo precede.
Come un pastore egli fa pascolare il gregge
e con il suo braccio lo raduna;
porta gli agnellini sul petto e conduce dolcemente le pecore madri».
Is 40,1-5, 9-11
Questo brano fa parte del Libro della Consolazione di Israele (capitoli 40-55) attribuiti ad un autore, rimasto anonimo, a cui è stato dato il nome di “Secondo Isaia ” o “deutero Isaia ”. Probabilmente era un lontano discepolo del primo Isaia che visse a Babilonia insieme agli esiliati che, dalla sue profezie prendono speranza. Infatti a partire dal 550 a.C. compare un nuovo popolo, non semitico, i Persiani, sotto il comando del loro re: Ciro. Egli in 10 anni sottomette l’oriente e agli occhi dei popoli oppressi, deportati dai Babilonesi, egli appare come un liberatore. Il Deuteroisaia non si limita a presentarlo come lo strumento scelto da Dio per portare a termine il suo piano in favore di Israele, ma gli attribuisce prerogative tipiche dei re di Giuda, ponendolo così in una prospettiva “messianica”.
Il brano che la liturgia ci propone si apre con un oracolo nel quale Dio stesso esorta a “consolare” il Suo popolo. Le prime parole sono ripetute con insistenza:
“Consolate, consolate il mio popolo”-
Il messaggio, che è un vero e proprio annuncio di gioia, è indirizzato direttamente a Gerusalemme, la città santa, personificazione del popolo giudaico. I messaggeri devono “parlare al cuore” di Gerusalemme per annunziarle che la sua esistenza è profondamente trasformata perché il Signore ha deciso di ripristinare quel legame d’amore che lo univa al Suo popolo. Il motivo della consolazione di Gerusalemme sta nel fatto che:
”la sua tribolazione è compiuta, la sua colpa è scontata, perché ha ricevuto dalla mano del Signore il doppio per tutti i suoi peccati”.
Il popolo che si era allontanato da Dio ha ormai scontato ampiamente la pena dovuta alla sua iniquità, ha ricevuto un doppio castigo per i suoi peccati, cioè in termini di sofferenza ha pagato un prezzo persino superiore alle sue colpe.
Il profeta comunica poi quanto dice “una voce”, cioè un anonimo messaggero di Dio, il quale ordina: “Nel deserto preparate la via al Signore, spianate nella steppa la strada per il nostro Dio….” Ciò significa che l’evento del ritorno richiederà un profondo cambiamento nella mentalità di tutti i giudei.
La fede di Israele in questo periodo è cambiata e dovrà ancora cambiare in profondità, coinvolgendo in questa trasformazione anche coloro che erano rimasti in patria e avevano
continuato le attività dei loro padri.(Proprio l’incapacità da parte di costoro di accettare il nuovo, di cui i rimpatriati erano portatori, provocherà tutta una serie di tensioni che renderanno difficile la restaurazione del popolo di Dio).
Il ritorno degli esuli comporterà una meravigliosa rivelazione della gloria di Dio:
“Allora si rivelerà la gloria del Signore e tutti gli uomini insieme la vedranno, perché la bocca del Signore ha parlato”.
Il termine “gloria” indica il fulgore che nell’immaginazione popolare accompagna la manifestazione di Dio. Vedere la gloria del Signore significa sperimentare in prima persona gli effetti dell’intervento divino. Ora la rivelazione della gloria di Dio sarà disponibile non solo agli israeliti, ma a tutti gli uomini e secondo il profeta nell’evento del ritorno saranno coinvolti tutti i popoli.
Interviene ora nel racconto un araldo con un compito specifico: “Sali su un alto monte, tu che annunci liete notizie a Sion! Alza la tua voce con forza, tu che annunci liete notizie a Gerusalemme. Alza la voce, non temere; annuncia alle città di Giuda: “Ecco il vostro Dio!” “
L’araldo, che deve annunziare a Gerusalemme e alle città di Giuda il ritorno del Signore alla testa degli esiliati, è descritto come “colui che annuncia liete notizie”. Da questa espressione tradotta in greco (euangelizomenos) “colui che evangelizza” deriverà il termine “vangelo”, con cui i primi cristiani designeranno la predicazione di Gesù.
Il Signore che ritorna è poi presentato con due immagini. La prima è quella del re potente e vittorioso, che ritorna dalla guerra portando con sé il bottino tolto ai nemici (e questo bottino è il popolo stesso che il Signore ha sottratto alla dominazione straniera). La seconda immagine è quella del pastore che fa pascolare il gregge (V.Sal 23; Ez 34), e con il suo braccio lo raduna; porta gli agnellini sul petto e conduce dolcemente le pecore madri».
Tutto il brano esprime meraviglia, gioia ed esaltazione per la svolta improvvisa che sta prendendo la storia della salvezza. Il messaggio fondamentale di questo carme è la fiducia nel Dio che dirige gli eventi della storia umana piegandoli a quelli che sono i Suoi piani di salvezza. Anche quando sembra che le vicende umane sfuggano al Suo controllo, Dio non rinunzia al Suo potere e non viene mai meno alle Sue promesse. L’importante per l’uomo è saper vedere la Sua gloria quando si manifesta.
Salmo 103 Benedici il Signore, anima mia
Sei tanto grande, Signore, mio Dio!
Sei rivestito di maestà e di splendore,
avvolto di luce come di un manto,
tu che distendi i cieli come una tenda.
Costruisci sulle acque le tue alte dimore,
fai delle nubi il tuo carro,
cammini sulle ali del vento,
fai dei venti i tuoi messaggeri
e dei fulmini i tuoi ministri.
Quante sono le tue opere, Signore!
Le hai fatte tutte con saggezza;
la terra è piena delle tue creature.
Ecco il mare spazioso e vasto:
là rettili e pesci senza numero,
animali piccoli e grandi.
Tutti da te aspettano
che tu dia loro cibo a tempo opportuno.
Tu lo provvedi, essi lo raccolgono;
apri la tua mano, si saziano di beni.
Il salmista esordisce con un invito a se stesso a benedire il Signore. Di fronte alla grandezza, alla bellezza, alla potenza della creazione esprime il suo stupore e la sua lode a Dio: “Sei tanto grande, Signore, mio Dio!”.
Egli contempla Dio nella sua sovranità universale, tratteggiandolo “avvolto di luce come di un manto”. Una luce gloriosa, non terrena, non degli astri, ma divina, con la quale illumina gli spiriti angelici, nel cielo.
Egli ha separato la luce dalla notte e con l'albeggiare stende il cielo “come una tenda”; cioè stende la calotta azzurra del cielo. Così, pure, stende le tenebre della notte: “Stendi le tenebre e viene la notte”. Sovrano del cielo e della terra, pone la sua dimora di re sulle acque, cioè sulle nuvole alte e bianche, là dove nessuno può fare una dimora. Sovrano difende i suoi sudditi fedeli dai nemici, facendo delle nuvole basse e buie il suo carro da guerra trainato dal vento visto come un essere alato: “Costruisci sulle acque le tue alte dimore, fai delle nubi il tuo carro, cammini sulle ali del vento”. I venti annunziano il suo arrivo nella tempesta, mentre le folgori presentano la sua potenza sulla terra: “Fai dei venti i tuoi messaggeri e dei fulmini i tuoi ministri”….
Il salmista loda ancora il Signore per le sue opere.
Passa quindi a considerare le creature del mare; in particolare il Leviatan, nome col quale l'autore designa la balena.
Il mondo animale è oggetto pure esso dell'assistenza divina: “Nascondi il tuo volto: li assale il terrore; togli loro il respiro: muoiono, e ritornano nella loro polvere”. Se Dio ritrae la sua assistenza gli animali periscono, non hanno più l'alito delle narici “togli loro il respiro”. Ma se manda il suo Spirito creatore sono creati. Lo Spirito di Dio è all'origine della creazione: (Gn 1,2).
Il salmista chiede che sulla terra ci sia la pace tra gli uomini, affinché “gioisca il Signore delle sue opere”. “Scompaiano i peccatori dalla terra e i malvagi non esistano più” dice, augurandosi un tempo dove gli uomini cessino di combattersi. Questo sarà nel tempo di pace che abbraccerà tutta la terra, quando la Chiesa porterà Cristo a tutte le genti; sarà la società della verità e dell'amore. Noi dobbiamo incessantemente impegnarci con la preghiera e la testimonianza per questo tempo che invochiamo nel Padre Nostro dicendo: “Venga il tuo regno”.
Commento tratto da “Cantico dei Cantici” di P.Paolo Berti
Dalla lettera di S.Paolo apostolo a Tito
Carissimo, è apparsa infatti la grazia di Dio, che porta salvezza a tutti gli uomini e ci insegna a rinnegare l’empietà e i desideri mondani e a vivere in questo mondo con sobrietà, con giustizia e con pietà, nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo. Egli ha dato se stesso per noi, per riscattarci da ogni iniquità e formare per sé un popolo puro che gli appartenga, pieno di zelo per le opere buone.
Ma quando apparvero la bontà di Dio, salvatore nostro, e il suo amore per gli uomini,egli ci ha salvati, non per opere giuste da noi compiute,ma per la sua misericordia,con un’acqua che rigenera e rinnova nello Spirito Santo,che Dio ha effuso su di noi in abbondanza per mezzo di Gesù Cristo, salvatore nostro, affinché, giustificati per la sua grazia,diventassimo, nella speranza, eredi della vita eterna
Tt 2,11-14; 3,4-7
Durante la sua prigionia a Roma attorno all’anno 66, è possibile che Paolo, o un suo discepolo qualche anno dopo, abbia scritto questa lettera a Tito, collaboratore di Paolo e da lui convertito. Tito fu presente alla grande assemblea di Gerusalemme (50 d.C.) e Paolo lo prepose alla comunità cristiana di Creta quale “vescovo”. La lettera è composta da 3 capitoli e fa parte del gruppo delle tre lettere "pastorali" (insieme alle due a Timoteo), così chiamate perché rivolte a dei capi responsabili di comunità. Più che delle lettere sembrano delle raccolte di norme per l'organizzazione della comunità, di consigli per le varie categorie di persone e suggerimenti generali per la vita pratica o la soluzione di problemi ecclesiali.
Il brano inizia affermando:
“è apparsa infatti la grazia di Dio, che porta salvezza a tutti gli uomini”
Questo versetto si lega al precedente, in cui chi scrive si allaccia ai consigli sul comportamento che le varie categorie di persone devono avere (Tt 2,1-10). I cristiani devono avere un certo stile perché la grazia di Dio è apparsa, si è manifestata e ha portato la salvezza a tutti.
“e ci insegna a rinnegare l’empietà e i desideri mondani e a vivere in questo mondo con sobrietà, con giustizia e con pietà,”
Si fa un accenno alla conversione come rottura con il passato di empietà e l'invito a una pratica rinnovata e corrispondente all'azione salvifica di Dio. Tutto questo si manifesta con le tre virtù della sobrietà, della giustizia e della pietà (ossia misericordia).
“nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo.”
Un tempo si è manifestata la grazia di Dio e questa grazia oggi ci invita ad avere un atteggiamento retto. Questo vivere si apre agli avvenimenti futuri, alla parusia, la manifestazione della gloria di Gesù Cristo che è Dio e salvatore.
“Egli ha dato se stesso per noi, per riscattarci da ogni iniquità e formare per sé un popolo puro che gli appartenga, pieno di zelo per le opere buone”.
Sobrietà, giustizia e pietà sono proposte di vita, comandamenti etici sempre rivoluzionari, che andavano e vanno soprattutto oggi, controcorrente. Dipende sempre dalla libera scelta dell’uomo farne cardini della propria vita.
“Ma quando apparvero la bontà di Dio, salvatore nostro, e il suo amore per gli uomini”
Vi è un prima con la situazione di malvagità, corruzione, odio in cui vivevano gli uomini. Vi è anche una situazione favorevole perchè si è manifestata la bontà di Dio, il Suo amore per gli uomini. E' proprio per questo amore che Dio interviene nella storia con l'incarnazione del Suo Figlio.
“egli ci ha salvati, non per opere giuste da noi compiute,ma per la sua misericordia, con un’acqua che rigenera e rinnova nello Spirito Santo”
Tramite questa manifestazione Egli ci ha salvati, non perché lo meritavamo, infatti il versetto non riporta alcun riferimento a opere giuste da noi compiute, ma ci ha salvati per la Sua misericordia. Questa salvezza è avvenuta tramite l'acqua del battesimo, che ha rigenerato l'umanità grazie allo Spirito Santo.
“che Dio ha effuso su di noi in abbondanza per mezzo di Gesù Cristo, salvatore nostro”
In questi versetti si può trovare un frammento della liturgia e della catechesi battesimale. Lo Spirito Santo è stato versato su di noi con l'acqua del battesimo per mezzo di Gesù Cristo, il quale è passato dalla morte alla vita e ci ha mandato lo Spirito Santo il giorno di Pentecoste.
“affinché, giustificati per la sua grazia,diventassimo, nella speranza, eredi della vita eterna”
E' questa azione di Dio che ci ha resi giusti, perchè noi con le nostre sole forze non lo potevamo certo essere. E' una giustificazione che ci apre ad un futuro di speranza per divenire “eredi della vita eterna”.
Dal vangelo secondo Luca
In quel tempo, poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano
in cuor loro se non fosse lui il Cristo, Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali.
Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco».
Ed ecco, mentre tutto il popolo veniva battezzato e Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì e discese sopra di lui lo Spirito Santo in forma corporea, come una colomba, e venne una voce dal cielo:
«Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento».
Lc 3,15-16.21-22
Il tempo di Natale si chiude col Battesimo del Signore, ma in realtà, nella storia di Gesù il tempo che passa tra la sua nascita e il battesimo al Giordano è di circa 30 anni e di questi decenni poco dicono i Vangeli, poco la tradizione. Col Battesimo inizia la "vita pubblica" di Gesù per le strade della Palestina fino a quel triduo di Pasqua, presumibilmente all'inizio di aprile dell'anno 30. I tre vangeli sinottici hanno in comune la narrazione del battesimo di Gesù, ma ogni evangelista legge quella solenne scena di apertura del mistero pubblico di Gesù da una prospettiva diversa cogliendo aspetti particolari.
Il vangelo di Luca a questo evento dedica solo due versetti, così la liturgia li fa precedere da una ripresa del discorso di Giovanni il Precursore sul battesimo in Spirito santo.
Il brano inizia affrontando il tema dell’identità di Giovanni:
“poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo”
Luca riporta in questo versetto l'opinione diffusa secondo cui Giovanni fosse il Messia atteso,
Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco».
La risposta di Giovanni è rivolta a tutti forse per sottolineare la portata delle sue affermazioni riguardo al Messia, ma è evidente che non tutti gli Israeliti sono andati a farsi battezzare da lui (Luca usa spesso la parola tutto o tutti). L'affermazione di Giovanni si ritrova anche negli altri sinottici e dimostra la sua autenticità. Luca combina la formulazione di Marco, con altri dati che ha in comune con Matteo, ma con un piccolo accorgimento che fa apparire il suo battesimo come introduttivo a quello del Cristo. Giovanni battezza con acqua; ma l'altro battesimo sarà in Spirito santo e fuoco. Si può notare che Luca elimina le parole "dietro a me" che sono in Matteo (Mt 3,11) forse per evitare che si pensi a Gesù come a un discepolo di Giovanni. Questi due versetti servono quindi molto bene per introdurre quelli successivi che la liturgia ci propone, perché ci permettono di verificare l'avverarsi del battesimo in Spirito Santo e quindi il passaggio ad un altro tipo di battesimo.
“Ed ecco, mentre tutto il popolo veniva battezzato e Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì “.
Luca non sembra dare molto risalto al fatto che Gesù è stato battezzato, e il dato più evidente sembra essere l'atteggiamento di preghiera di Gesù.
Altro elemento è il legame tra preghiera e Spirito Santo che compare nel versetto successivo. Il battesimo sembra quindi il punto di arrivo dell'opera di Giovanni e il passaggio dal tempo dell'attesa a quello della novità.
e discese sopra di lui lo Spirito Santo in forma corporea, come una colomba, e venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento».
Il centro del breve racconto è la teofania, caratterizzata da due elementi: lo Spirito Santo e la voce.
La scelta della colomba come simbolo dello Spirito può avere diverse spiegazioni, anche se non sembra essere un elemento importante per Luca. Si può trovare un riferimento in Gn 1,2, simbolo della nuova creazione, o alla colomba del diluvio, sempre Gn 8,8-12; la colomba del Cantico dei Cantici o un riferimento ad Isaia 60,8. E’ interessante anche ricordare che la colomba nell’A.T. era anche lo stemma nazionale d’Israele.(V. sal68,14 e Os 7,11) perciò nel battesimo di Cristo è presente, quasi in germe, il popolo messianico.
L’altro elemento della teofania è la voce che viene dal cielo. Essa trova riferimento a due passi dell’A.T., “Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato.” (salmo 2,7 ). Il re e il messia ebraico, erano solo figli adottivi di Dio; Gesù, invece, è il Figlio prediletto, l’unigenito, in senso pieno di Dio. L’altro passo riferimento al Primo canto del servo del Signore “Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto di cui mi compiaccio.” (Is 42,1).
In Gesù converge, allora, non solo la speranza del messia-re, ma anche la figura del messia servo-sofferente presentato da Isaia.
Per concludere si può affermare che Luca scrive il vangelo pensando già al racconto degli Atti e presenta ai suoi lettori un modello per chi sta per ricevere il battesimo: Gesù stesso che in preghiera si prepara a questo avvenimento. In definitiva Luca ci presenta un racconto su Gesù in cui riporta un evento storico, ma è preoccupato soprattutto di dirci qualcosa sulla sua identità profonda e la sua missione e di ricordare ai suoi lettori che il battesimo fu un momento molto importante nella vita del Cristo.
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“In questa domenica dopo l’Epifania celebriamo il Battesimo di Gesù, e facciamo memoria grata del nostro Battesimo…
Il Vangelo ci presenta Gesù, nelle acque del fiume Giordano, al centro di una meravigliosa rivelazione divina. Scrive san Luca: «Mentre Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì e discese su di lui lo Spirito Santo in forma corporea, come una colomba, e venne una voce dal cielo: “Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento”» . In questo modo Gesù viene consacrato e manifestato dal Padre come il Messia salvatore e liberatore.
In questo evento – attestato da tutti e quattro i Vangeli – è avvenuto il passaggio dal battesimo di Giovanni Battista, basato sul simbolo dell’acqua, al Battesimo di Gesù «in Spirito Santo e fuoco».
Lo Spirito Santo infatti nel Battesimo cristiano è l’artefice principale: è Colui che brucia e distrugge il peccato originale, restituendo al battezzato la bellezza della grazia divina; è Colui che ci libera dal dominio delle tenebre, cioè del peccato, e ci trasferisce nel regno della luce, cioè dell’amore, della verità e della pace: questo è il regno della luce. Pensiamo a quale dignità ci eleva il Battesimo! «Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!» (1 Gv 3,1), esclama l’apostolo Giovanni. Tale realtà stupenda di essere figli di Dio comporta la responsabilità di seguire Gesù, il Servo obbediente, e riprodurre in noi stessi i suoi lineamenti: cioè mansuetudine, umiltà, tenerezza. E questo non è facile, specialmente se intorno a noi c’è tanta intolleranza, superbia, durezza. Ma con la forza che ci viene dallo Spirito Santo è possibile!
Lo Spirito Santo, ricevuto per la prima volta nel giorno del nostro Battesimo, ci apre il cuore alla Verità, a tutta la Verità. Lo Spirito spinge la nostra vita sul sentiero impegnativo ma gioioso della carità e della solidarietà verso i nostri fratelli. Lo Spirito ci dona la tenerezza del perdono divino e ci pervade con la forza invincibile della misericordia del Padre. Non dimentichiamo che lo Spirito Santo è una presenza viva e vivificante in chi lo accoglie, prega in noi e ci riempie di gioia spirituale.
Oggi, festa del Battesimo di Gesù, pensiamo al giorno del nostro Battesimo. Tutti noi siamo stati battezzati, ringraziamo per questo dono. E vi faccio una domanda: chi di voi conosce la data del suo Battesimo? Sicuramente non tutti. Perciò vi invito ad andare a cercare la data, chiedendo per esempio ai vostri genitori, ai vostri nonni, ai vostri padrini, o andando in parrocchia. E’ molto importante conoscerla, perché è una data da festeggiare: è la data della nostra rinascita come figli di Dio. Per questo, compito a casa per questa settimana: andare a cercare la data del mio Battesimo. Festeggiare quel giorno significa riaffermare la nostra adesione a Gesù, con l’impegno di vivere da cristiani, membri della Chiesa e di una umanità nuova, in cui tutti sono fratelli.
La Vergine Maria, prima discepola del suo Figlio Gesù, ci aiuti a vivere con gioia e fervore apostolico il nostro Battesimo, accogliendo ogni giorno il dono dello Spirito Santo, che ci fa figli di Dio.”
Papa Francesco Angelus del 10 gennaio 2016
Nel giorno dell’Epifania, o manifestazione del Signore, la Chiesa continua a contemplare il mistero della nascita di Gesù. Se a Natale, Dio ha vissuto il Suo pellegrinaggio, venendo ad abitare in mezzo a noi, nell’Epifania assistiamo al movimento corrispondete: gli uomini attratti dalla rivelazione del Suo mistero, si dirigono verso di Lui.
Nella prima lettura il profeta Isaia profetizza il giorno in cui “cammineranno le genti alla sua luce”. E’ un invito gioioso anche per noi. E’ il Signore che ci invita a lasciarci rivestire dalla volontà di bene che sprigiona la nascita del Suo Messia.
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera agli Efesini, l’Apostolo Paolo afferma che tutte le genti sono chiamati “in Cristo Gesù” a condividere la stessa eredità, a formare lo stesso corpo e ad essere partecipi della stessa promessa per mezzo del Vangelo..
Nel Vangelo di Matteo, leggiamo che i Magi si lasciano guidare dalla stella cometa dall’Oriente verso Betlemme. I magi sono il simbolo del mondo che va in cerca di Dio, è la festa della scienza che si fa guidare dalla stella della fede. E’ la festa della manifestazione della gloria di Dio che si rivela nell’umiltà, in un bambino appena nato. E’ sorprendente come questi uomini sapienti, non rimasero delusi quando videro il bambino; l’evangelista Matteo infatti dice “Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono …” La scienza quando è illuminata dalla fede può raggiungere mete ancora più alte di quelle umanamente sperate.
Dal libro del profeta Isaìa
Alzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce,
la gloria del Signore brilla sopra di te.
Poiché, ecco, la tenebra ricopre la terra,
nebbia fitta avvolge i popoli;
ma su di te risplende il Signore,
la sua gloria appare su di te.
Cammineranno le genti alla tua luce,
i re allo splendore del tuo sorgere.
Alza gli occhi intorno e guarda:
tutti costoro si sono radunati, vengono a te.
I tuoi figli vengono da lontano,
le tue figlie sono portate in braccio.
Allora guarderai e sarai raggiante,
palpiterà e si dilaterà il tuo cuore,
perché l’abbondanza del mare si riverserà su di te,
verrà a te la ricchezza delle genti.
Uno stuolo di cammelli ti invaderà,
dromedari di Màdian e di Efa,
tutti verranno da Saba, portando oro e incenso
e proclamando le glorie del Signore.
Is 60,1-6
La terza parte del libro di Isaia (capitoli 56-66) contiene una raccolta di oracoli che, per lo stile e lo sfondo storico, sono attribuiti ad un anonimo profeta del postesilio, al quale perciò è stato dato il nome di Trito (Terzo) Isaia. Alcuni hanno ritenuto che egli fosse un discepolo del Deuteroisaia, mentre altri hanno pensato a un profeta vissuto più di un secolo dopo di lui. Dopo l’editto di Ciro (538 a.C) che autorizzò il ritorno dall’esilio e la ricostruzione di Gerusalemme, il profeta si rivolge non più agli esiliati, ma ai giudei ritornati da Babilonia in Gerusalemme; il suo centro di interesse non è più il nuovo esodo, ma il ristabilimento delle istituzioni teocratiche, le quali sono minacciate non da agenti esterni, ma dalla infedeltà del popolo.
In questo brano il profeta con linguaggio poetico invita Gerusalemme ad alzarsi e a trasfigurarsi nello splendore di una "luce" abbagliante che gli proviene dalla "gloria del Signore”.
“Poiché, ecco, la tenebra ricopre la terra, nebbia fitta avvolge i popoli; ma su di te risplende il Signore, la sua gloria appare su di te.” Le tenebre che "ricoprono la terra e l'oscurità, che avvolge i popoli", sono un metafora della mancanza della salvezza in cui si trovano i popoli pagani. Il profeta invita ad osservare le schiere di dispersi che fanno ritorno a Gerusalemme nonché l'infinito numero di carovane, di cammelli e dromedari di Madian e Efa' che giungono da Saba, portando oro, per i vasi sacri per il culto, e incenso per le cerimonie del tempio di Gerusalemme. Inoltre le innumerevoli navi da trasporto che portano i tesori delle città marinare della Grecia e della Fenicia.
Il profeta continua a descrivere la nuova situazione in questi termini: “Cammineranno le genti alla tua luce, i re allo splendore del tuo sorgere. Alza gli occhi intorno e guarda:tutti costoro si sono radunati, vengono a te. I tuoi figli vengono da lontano, le tue figlie sono portate in braccio”.
Coloro che si muovono attratti dalla luce che risplende a Gerusalemme sono anzitutto gli appartenenti a nazioni lontane, i quali giungono accompagnate dai loro re. Con questi stranieri vi sono anche i giudei dispersi tra di loro, i quali sono portati in braccio, quasi a indicare la stima e la protezione che le nazioni hanno verso di essi.
L’immagine qui utilizzata è ricavata dal pellegrinaggio annuale che tutti gli israeliti dovevano fare al santuario centrale, portando a Dio i loro doni. Ora però coloro che salgono in pellegrinaggio a Gerusalemme non sono più i giudei ma le popolazioni straniere che portano con sé i giudei residenti in mezzo ad esse, quasi come offerta.
La glorificazione di Gerusalemme è presentata dal Terzo Isaia come un fenomeno escatologico che mette in luce la vittoria di Dio contro le potenze perverse che dominano in questo mondo. Nonostante la sua apparente sconfitta, Dio è il vincitore, e ciò apparirà chiaramente alla fine della storia. Allora Dio creerà un mondo nuovo, nel quale prevarranno la giustizia e la pace. Di ciò beneficeranno non solo gli israeliti, ma tutte le nazioni della terra: il progetto di Dio infatti è universalistico e riguarda tutti gli uomini. La luce che un giorno brillerà nella città santa deve essere però anticipata mediante un’esistenza conforme alla volontà di Dio.
Salmo 72 (71) Ti adoreranno, Signore, tutti i popoli della terra.
Dio, affida al re il tuo diritto,
al figlio di re la tua giustizia;
egli giudichi il tuo popolo secondo giustizia
e i tuoi poveri secondo il diritto.
Nei suoi giorni fiorisca il giusto
e abbondi la pace,
finché non si spenga la luna.
E domini da mare a mare,
dal fiume sino ai confini della terra.
I re di Tarsis e delle isole portino tributi,
i re di Saba e di Seba offrano doni.
Tutti i re si prostrino a lui,
lo servano tutte le genti.
Perché egli libererà il misero che invoca
e il povero che non trova aiuto.
Abbia pietà del debole e del misero
e salvi la vita dei miseri.
Un re giusto è fonte di pace per questo il salmista invoca per il futuro re - “il figlio del re” - giustizia e rettitudine. Il salmo ha un’indubbia tensione messianica poiché non si possono che applicare al Messia alcuni passi fondamentali: “Ti faccia durare quanto il sole, come la luna, di generazione in generazione”; “Nei suoi giorni fiorisca il giusto e abbondi la pace, finché non si spenga la luna. E domini da mare a mare, dal fiume sino ai confini della terra”; “A lui si pieghino le tribù del deserto, mordano la polvere i suoi nemici ”; “In lui siano benedette tutte le stirpi della terra e tutte le genti lo dicano beato”. Il re è indubbiamente Davide, e il figlio del re è Salomone, ma la figura del re e i risultati del suo governo sono tanto alti e ampi da tratteggiare il futuro Messia, il figlio del re per eccellenza; certo, secondo la carne (Rm 1,3;Gal 3,16).
La giustizia e la rettitudine costruiscono la pace e così le montagne e le colline, cioè le frontiere di Israele, porteranno pace al popolo che ha un re di giustizia e di pace: “Le montagne portino pace al popolo e le colline giustizia”. I popoli confinanti cercheranno la pace con Israele. Grande nelle relazioni con le nazioni il re futuro avrà attenzione all’interno per i deboli contro gli oppressori. Un regno fondato sulla giustizia e sull’amore non potrà mai venire meno: “Ti faccia durare quanto il sole, come la luna, di generazione in generazione". I regni fondati sulla guerra e sull’oppressione non possono durare, prima o poi i popoli si ribellano; ma il regno del Messia fondato sulla giustizia che viene da Dio rimarrà per sempre. La giustizia si eserciterà nel Cristo con l’obbedienza al Padre, con l’espiazione delle colpe del genere umano.
La sua azione sarà benefica come l’acqua che scende sulla terra permettendo cibo e vita: “Scenda come pioggia sull’erba, come acqua che irrora la terra”.
Egli Principe della pace, farà fiorire la pace finché “non si spenga la luna”; questo perché la sua pace, presente nella Chiesa e trasmessa dalla Chiesa, rimarrà sempre, La pace, poi, è l’essere riconciliati con Dio e con i fratelli.
Il suo regno sarà immenso. Non ha precedenti nei regni già esistiti, poiché :”E domini da mare a mare, dal fiume (ndr. l’Eufrate, il fiume per eccellenza) sino ai confini della terra”.
Il Messia non solo avrà i territori, ma l’omaggio delle genti: “A lui si pieghino le tribù del deserto, mordano la polvere i suoi nemici”, sottoposti al suo giudizio. I popoli si sottometteranno al suo giogo: “I re di Tarsis e delle isole porteranno tributi; i re di Saba e di Seba offrrano doni” (Tarsis è comunemente identificata con Tartessos in Spagna; Saba con la zona del golfo Arabico). Si noti che offriranno tributi e porteranno offerte, il che vuol dire che non saranno nella costrizione dei vinti.
Ancora il salmista fa vedere come il futuro Messia non trascurerà i poveri e i miseri, anzi saranno pensiero costante della sua azione: “Li riscatti dalla violenza e dal sopruso, sia prezioso ai suoi occhi il loro sangue”.
“Vivrà”, dice il salmista, cioè anche se colpito dai suoi avversari vivrà, perché conoscerà la risurrezione gloriosa.
“Si preghi sempre per lui”, cioè per mezzo della sua azione sacerdotale, con la quale ha sacrificato se stesso.
“Sia benedetto ogni giorno” perché perenne salvatore di bontà infinita.
Il salmista passa ad un’invocazione a Dio per la grandezza del “figlio di re” su tutta la terra; ciò significa che l’estendersi del regno del Messia sarà dovuto anche all’azione, completamente subordinata alla salvezza operata da Cristo e con la forza data da lui, di coloro che lo amano: “Il suo nome duri in eterno, davanti al sole germogli il suo nome”.
Di nuovo il salmista passa al futuro: “In lui siano benedette tutte le stirpi della terra”. Cioè per mezzo del suo sacrificio riconciliatore il Padre benedirà tutte le genti della terra. “Tutte le genti lo dicano beato”, perché otterrà dal Padre onore e gloria per la sua obbedienza a lui, fino alla morte di croce.
Commento di P.Paolo Berti
Dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesìni
Fratelli, penso che abbiate sentito parlare del ministero della grazia di Dio, a me affidato a vostro favore: per rivelazione mi è stato fatto conoscere il mistero.
Esso non è stato manifestato agli uomini delle precedenti generazioni come ora è stato rivelato ai suoi santi apostoli e profeti per mezzo dello Spirito: che le genti sono chiamate, in Cristo Gesù, a condividere la stessa eredità, a formare lo stesso corpo e ad essere partecipi della stessa promessa per mezzo del Vangelo.
Ef 3,2-3.5-6
La Lettera agli Efesini è una delle lettere che la tradizione cristiana attribuisce a S.Paolo, che l'avrebbe scritta durante la sua prigionia a Roma intorno all'anno 62. Gli studiosi moderni però sono divisi su questa attribuzione e la maggioranza ritiene più probabile che la lettera sia stata composta da un altro autore appartenente alla scuola paolina,forse basandosi sulla lettera ai Colossesi, ma in questo caso la datazione della composizione può oscillare, tra l'anno 80 e il 100.
Nella prima parte della lettera è stato delineato il progetto salvifico che Dio ha realizzato mediante Cristo (Ef 1,2-2,22). Ora, giunto al centro della sua riflessione, l’apostolo si qualifica come “il prigioniero di Cristo per voi pagani” e prosegue “: “penso che abbiate sentito parlare del ministero della grazia di Dio, a me affidato a vostro favore: per rivelazione mi è stato fatto conoscere il mistero.”. Nel capitolo precede aveva detto che i cristiani provenienti dal paganesimo sono inseriti, a pari diritto dei giudei, nella comunità ecclesiale, di cui gli apostoli sono fondamento, ora qui viene evidenziato il ministero ricevuto da Paolo in favore dei pagani. L'espressione “ministero della grazia di Dio” indica con precisione l'oggetto della conoscenza degli efesini e il compito concreto di amministratore. Il fatto che viene aggiunto “della grazia di Dio” si spiega con il desiderio di ricordare come la grazia divina, dimensione essenziale del processo salvifico (Ef 1,6.7; 2,5.7.8), sia comunicata all'Apostolo proprio nell'esercizio del suo ministero.
Paolo sottolinea inoltre che questo ministero ha per oggetto un mistero che gli è stato fatto conoscere come effetto di un processo di rivelazione, e il contenuto del mistero è la partecipazione delle genti al corpo della Chiesa.
Nei versetti 3b-4 (omessi dalla liturgia) l‘apostolo passa ad esporre il contenuto di questo mistero, e poi osserva; : Esso non è stato manifestato agli uomini delle precedenti generazioni come ora è stato rivelato ai suoi santi apostoli e profeti per mezzo dello Spirito” Il processo di rivelazione del mistero presuppone il suo occultamento nel tempo precedente a quello in cui è stato rivelato ai destinatari (apostoli e profeti agli uomini in generale). La congiunzione “come”, che lega le due frasi, non significa il grado di intensità (con maggiore chiarezza), ma di alterità assoluta (il mistero rivelato ora e non come al passato, in cui non è stato manifestato). Questo stesso concetto sarà ripreso ancora nei versetti successivi (vv. 9-10).
A questo punto l'apostolo arriva a definire l' oggetto del mistero che consiste nel fatto che “le genti sono chiamate, in Cristo Gesù, a condividere la stessa eredità, a formare lo stesso corpo e ad essere partecipi della stessa promessa per mezzo del Vangelo”. Il mistero è dunque la compartecipazione delle genti al corpo ecclesiale, all'eredità e alle promesse salvifiche. Già precedentemente era stata sottolineata la partecipazione dei pagani con i giudei all'unico corpo ecclesiale (2,13-19) e questo fa capire che anche qui si intende l'unità dei pagani con i giudeo-cristiani. Tutto questo infatti, avviene in forza della mediazione di Cristo (Ef 1,10) che implica non solo l'aspetto della strumentalità, ma anche quello dell'associazione a Lui. L’apostolo in questo brano dà un grande rilievo al progetto salvifico di Dio, che consiste per lui nell’unità di tutti gli esseri umani, al di là delle differenze di razza e di cultura. Egli mostra come solo eliminando le divisioni sia possibile trovare una pace vera. Per lui soprattutto è importante il superamento della divisione tra giudei e pagani, alla quale attribuisce un significato simbolico rispetto a tutte le barriere che dividono l’umanità. Egli vede realizzato l’incontro fra popoli e culture, oggetto primario del progetto di Dio, nella persona di Cristo, il quale perciò è presentato come l’espressione suprema dell’agire di Dio in questo mondo.
La novità di questo annunzio non consiste quindi nella manifestazione di qualcosa di mentalmente sconosciuto, ma in un’irruzione particolarmente potente della grazia di Dio in Cristo, a cui Paolo ha dato una risonanza universale. Queste potenzialità, che si sono manifestate all’inizio del cristianesimo, devono essere continuamente riscoperte nell’impegno dei cristiani, in unione con tutti gli altri credenti, per la pace nel mondo.
Dal vangelo secondo Matteo
Nato Gesù a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode, ecco, alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme e dicevano: «Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo». All’udire questo, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme. Riuniti tutti i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo, si informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Cristo. Gli risposero: «A Betlemme di Giudea, perché così è scritto per mezzo del profeta:
“E tu, Betlemme, terra di Giuda,
non sei davvero l’ultima delle città principali di Giuda:
da te infatti uscirà un capo che sarà il pastore del mio popolo, Israele”».
Allora Erode, chiamati segretamente i Magi, si fece dire da loro con esattezza il tempo in cui era apparsa la stella e li inviò a Betlemme dicendo: «Andate e informatevi accuratamente sul bambino e, quando l’avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch’io venga ad adorarlo».
Udito il re, essi partirono. Ed ecco, la stella, che avevano visto spuntare, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. Al vedere la stella, provarono una gioia grandissima. Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. Avvertiti in sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro paese.
Mt 2,1-12
L’evangelista Matteo continua a descrivere gli avvenimenti dell’infanzia di Gesù alla luce delle profezie ma, a differenza del 1^capitolo, racchiuso nella cornice del popolo giudaico, qui l’orizzonte diventa più ampio: i pagani sono attratti dalla luce di Gesù-re e vanno a Lui. La nuova Sion però non è Gerusalemme, ma Betlemme.
Il brano inizia riportando che “Nato Gesù a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode, ecco, alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme”.
Secondo Erodoto, i magi erano originari di una tribù dei medi divenuta casta sacerdotale tra i persiani. Praticavano la divinazione, la medicina e l'astrologia. Serse, ad esempio, turbato per un'eclissi di sole, ne domandò il significato ad alcuni magi. Anche se l'astrologia nella Bibbia non gode di una buona fama (Dn 1,20; 2,2-10) Matteo presenta i magi come personaggi importanti e di gran rispetto. La tradizione latina farà di loro dei re (Sal 72,10) e ne preciserà il numero, tre come i doni offerti al bambino, e ne indicherà i nomi: Gaspare, Melchiorre e Baldassarre. Anche il loro paese d'origine non è chiaro, c’è da considerare però che per un giudeo il termine “oriente” indica tutto quello che c'è al di là del Giordano.
Giunti dunque a Gerusalemme i magi chiedono: “Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo”.
Questa stella che appare e scompare al momento giusto, non corrisponde particolarmente a qualche fenomeno naturale, ma è forse un espediente narrativo che aveva un certo significato nell’ambito della comunità giudeo-cristiana per la quale l'evangelista scriveva. Già nel mondo greco-romano si utilizzava l'immagine dell'astro per indicare il destino di un personaggio. La tesi della stella che appare alla nascita di un grande uomo (es.Alessandro, Giulio Cesare) era molto diffuso e per i testi biblici la stella è la metafora del re Messia. Anche nell’Apocalisse Gesù dichiara: “Io sono la radice della stirpe di Davide, la stella radiosa del mattino”. (Ap.22,16)
In Matteo, tuttavia, la stella non è soltanto una metafora o un'immagine del Messia: è anche la guida del magi, uno strumento di cui Dio si serve per indicare loro ciò che gli scribi non potranno scoprire nel testo del profeta Michea.
Gli antichi consideravano le stelle come esseri animati dotati di natura spirituale e i giudeo-cristiani vedevano in essi degli angeli. Si possono fare dei collegamenti fra la stella che guida i magi a Betlemme e gli angeli di Luca che guidano i pastori “al un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia”.
In ambedue i casi è sempre la Provvidenza di Dio che guida l'uomo.
Le parole dei magi provocano in Erode un certo turbamento condiviso da tutta la città di Gerusalemme Il motivo del turbamento di Erode è comprensibile, tenuto conto della sua paura per un aspirante al trono, meno comprensibile è lo sbigottimento dei cittadini di Gerusalemme. Questo si potrebbe anche spiegare come paura di violenze da parte di Erode, ma più probabilmente si tratta di un espediente narrativo con cui Matteo anticipa l’opposizione di Gerusalemme nei confronti di Gesù, che alla fine farà di Gerusalemme la città deicida.
Erode convoca allora tutti i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo per sapere dove sarebbe dovuto nascere il Messia.
È chiaro che Matteo vuole sottolineare come tutto Israele, nei suoi rappresentanti più qualificati, abbia cercato la risposta da dare al re. Questa risposta si rifà a un oracolo profetico in cui si dice:
“E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero l’ultima delle città principali di Giuda: da te infatti uscirà un capo che sarà il pastore del mio popolo, Israele”.
Nella citazione di Michea, Matteo fa alcuni ritocchi, come per es. sostituisce “Efrata” con “terra di Giuda”, forse per evitare la confusione con la Betlemme del nord (v. Gs 19,15); inoltre egli cambia la valutazione che viene data di Betlemme, forse per dare maggior gloria alla città, che sia il più piccolo tra i capoluoghi di Giuda.
Avuta l’informazione desiderata Erode convocò i magi, e “si fece dire da loro con esattezza il tempo in cui era apparsa la stella e li inviò a Betlemme dicendo: «Andate e informatevi accuratamente sul bambino e, quando l’avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch’io venga ad adorarlo». (sappiamo come avrebbe voluto adorarlo!)
I magi, dunque informati da Erode circa il luogo di nascita del re dei giudei, si rimiserono in cammino e guidati nuovamente dalla stella, pieni di gioia, giunsero al luogo in cui si trovava “il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. Avvertiti in sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro paese”.
Per Matteo i primi che vengono a contatto con Gesù non sono dunque i pastori di Betlemme, ma i misteriosi rappresentanti delle nazioni. I tre doni da loro portati hanno chiaramente valore simbolico: essi indicano da un lato i prodotti tipici dell’oriente, che i magi offrono a Gesù riconoscendo così in lui il loro re; dall’altro c’è un fortissimo richiamo al salmo 72 che la Liturgia ha inserito in questa celebrazione.
Rispetto al salmo l’evangelista aggiunge tra i doni dei magi anche la mirra, un unguento usato nella sepoltura. Non è escluso che con questa aggiunta voglia indicare il destino di morte che aspetta il neonato Messia proprio a causa del rifiuto del suo popolo.
Il testo è un chiaro esempio di come possa essere la chiamata alla fede:
- i Re-magi sono chiamati per mezzo della stella e la seguono;
- i sommi sacerdoti e gli scribi conoscono le scritture, sanno dare indicazioni, ma non si muovono;
- Erode tra la volontà di Dio e la sua, chiaramente sceglie la sua, conosce solo il suo tornaconto, non vede perché non vuole vedere!
Questa visione fortemente critica nei confronti di Israele, chiaramente dettata dal clima di rivalità che ha accompagnato il sorgere del cristianesimo, deve oggi essere sottoposta ad una più giusta ed illuminata considerazione. La nascita di Gesù e la conseguente apertura della Chiesa ai pagani non deve più essere vista come una sostituzione di Israele, infedele alle promesse divine, ma piuttosto come il mezzo attraverso il quale la chiamata religiosa di Israele è stata offerta a tutta l’umanità.
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Le parole di Papa Francesco
“Oggi, festa dell’Epifania del Signore, il Vangelo ci presenta tre atteggiamenti con i quali è stata accolta la venuta di Cristo Gesù e la sua manifestazione al mondo. Il primo atteggiamento: ricerca, ricerca premurosa; il secondo: indifferenza; il terzo: paura.
Ricerca premurosa: i Magi non esitano a mettersi in cammino per cercare il Messia. Giunti a Gerusalemme chiedono: «Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo». Hanno fatto un lungo viaggio e adesso con grande premura cercano di individuare dove si possa trovare il Re neonato. A Gerusalemme si rivolgono al re Erode, il quale chiede ai sommi sacerdoti e agli scribi di informarsi sul luogo in cui doveva nascere il Messia.
A questa ricerca premurosa dei Magi, si contrappone il secondo atteggiamento: l’indifferenza dei sommi sacerdoti e degli scribi. Erano molto comodi questi. Essi conoscono le Scritture e sono in grado di dare la risposta giusta sul luogo della nascita: «A Betlemme di Giudea, perché così è scritto per mezzo del profeta» sanno, ma non si scomodano per andare a trovare il Messia. E Betlemme è a pochi chilometri, ma loro non si muovono.
Ancora più negativo è il terzo atteggiamento, quello di Erode: la paura. Lui ha paura che quel Bambino gli tolga il potere. Chiama i Magi e si fa dire quando era apparsa loro la stella, e li invia a Betlemme dicendo: «Andate e informatevi […] sul bambino e, quando l’avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch’io venga ad adorarlo”» . In realtà, Erode non voleva andare ad adorare Gesù; Erode vuole sapere dove si trova il bambino non per adorarlo, ma per eliminarlo, perché lo considera un rivale. E guardate bene: la paura porta sempre all’ipocrisia. Gli ipocriti sono così perché hanno paura nel cuore.
Questi sono i tre atteggiamenti che troviamo nel Vangelo: ricerca premurosa dei Magi, indifferenza dei sommi sacerdoti, degli scribi di quelli che conoscevano la teologia; e paura, di Erode. E anche noi possiamo pensare e scegliere: quale dei tre assumere. Io voglio andare con premura da Gesù? “Ma a me Gesù non dice nulla… sto tranquillo…”. Oppure ho paura di Gesù e nel mio cuore vorrei farlo fuori?
L’egoismo può indurre a considerare la venuta di Gesù nella propria vita come una minaccia. Allora si cerca di sopprimere o di far tacere il messaggio di Gesù. Quando si seguono le ambizioni umane, le prospettive più comode, le inclinazioni del male, Gesù viene avvertito come un ostacolo.
D’altra parte, è sempre presente anche la tentazione dell’indifferenza. Pur sapendo che Gesù è il Salvatore – nostro, di noi tutti -, si preferisce vivere come se non lo fosse: invece di comportarsi in coerenza alla propria fede cristiana, si seguono i principi del mondo, che inducono a soddisfare le inclinazioni alla prepotenza, alla sete di potere, alle ricchezze.
Siamo invece chiamati a seguire l’esempio dei Magi: essere premurosi nella ricerca, pronti a scomodarci per incontrare Gesù nella nostra vita. Ricercarlo per adorarlo, per riconoscere che Lui è il nostro Signore, Colui che indica la vera via da seguire. Se abbiamo questo atteggiamento, Gesù realmente ci salva, e noi possiamo vivere una vita bella, possiamo crescere nella fede, nella speranza, nella carità verso Dio e verso i nostri fratelli.
Invochiamo l’intercessione di Maria Santissima, stella dell’umanità pellegrina nel tempo. Con il suo aiuto materno, possa ogni uomo giungere a Cristo, Luce di verità, e il mondo progredire sulla via della giustizia e della pace."
Papa Francesco Angelus del 6 gennaio 2018
L'umanità è una grande e immensa famiglia ... Troviamo la dimostrazione di ciò da quello che ci sentiamo nei nostri cuori a Natale.
(Papa Giovanni XXIII)