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Mercoledì, 02 Maggio 2018 16:28

VI Domenica di Pasqua - Anno B - 6 maggio 2018

Le letture liturgiche di questa sesta domenica di Pasqua ci aiutano a cogliere ancora una volta l’amore di Cristo e hanno come filo conduttore l’amore verso Dio e verso il prossimo
Nella prima lettura tratta dagli Atti degli Apostoli, Luca ci riporta l’episodio del battesimo del centurione romano che è il primo frutto della predicazione del vangelo ai pagani. Nel centurione è simboleggiato ogni uomo, senza distinzione di razza, popolo o nazione, chiamato all’amicizia con Dio e alla salvezza.
Nella seconda lettura, nella sua prima lettera, Giovanni, sottolinea l’infinito amore di Dio nei confronti dell’umanità, che ferita dal peccato, ha sperimentato la salvezza operata da Cristo. Una redenzione gratuita compiuta da Gesù nel segno del suo amore.
Nel Vangelo di Giovanni, nei discorsi dell’ultima cena Gesù parla con passione e con insistenza dell’amore, che è la grande rivelazione del Vangelo: amore del Padre celeste per il Figlio, del Figlio per il Padre nello Spirito Santo, di Cristo per noi e di noi per Cristo e i nostri fratelli.

Dagli Atti degli Apostoli
Avvenne che, mentre Pietro stava per entrare [nella casa di Cornelio], questi gli andò incontro e si gettò ai suoi piedi per rendergli omaggio. Ma Pietro lo rialzò, dicendo: «Alzati: anche io sono un uomo!».
Poi prese la parola e disse: «In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga».
Pietro stava ancora dicendo queste cose, quando lo Spirito Santo discese sopra tutti coloro che ascoltavano la Parola. E i fedeli circoncisi, che erano venuti con Pietro, si stupirono che anche sui pagani si fosse effuso il dono dello Spirito Santo; li sentivano infatti parlare in altre lingue e glorificare Dio.
Allora Pietro disse: «Chi può impedire che siano battezzati nell’acqua questi che hanno ricevuto, come noi, lo Spirito Santo?». E ordinò che fossero battezzati nel nome di Gesù Cristo. Quindi lo pregarono di fermarsi alcuni giorni.
At 10,25-26.34-35.44.48

Luca dopo aver riportato negli Atti il martirio di Stefano, la conversione dell’etiope da parte di Filippo e la “folgorazione” di Paolo sulla via di Damasco, con l’ingresso di Pietro nella casa di Cornelio, mette ancora in luce l’azione dello Spirito Santo.
Vediamo che Pietro prima si meraviglia di essere stato invitato nella casa di un pagano, poi prende coscienza e dice: “In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga”. Pietro si rende conto cioè che attraverso la parola, che egli ha sentito in prima persona, è invitato a superare le esteriorità e i formalismi, anche quelli della legge ebraica che a lui era stata insegnata, e pervadeva tutta la sua cultura e il suo modo di agire.
Nel corso degli eventi, raccontati negli Atti e nelle Lettere, si capisce come Pietro sia stato il primo ad accogliere i pagani, poi sarà Paolo ad istruirli, come avvocato dei pagani e apostolo delle genti.
Quando parliamo di amore, dobbiamo essere convinti anche noi oggi che Dio non fa discriminazioni o preferenze, ama tutti noi cristiani e non cristiani, nel modo, e ci ama nel modo a noi più appropriato, non ci ama in serie, conosce ognuno di noi fino in fondo, nulla di noi a Lui è nascosto. A tutti Dio dà la possibilità di esistere e di salvarsi, a prescindere da quanto ciascuno fa o non fa nella propria vita.
Se qualcuno ritiene di essere più vicino a Dio, ciò non vuol dire che gli sia stato concesso un privilegio speciale, ma che è stato chiamato a svolgere un servizio speciale in favore degli altri. Se Dio facesse preferenza per qualcuno non sarebbe più Dio.

Salmo 97 - Il Signore ha rivelato ai popoli la sua giustizia.
Cantate al Signore un canto nuovo,
perché ha compiuto meraviglie.
Gli ha dato vittoria la sua destra
e il suo braccio santo.

Il Signore ha fatto conoscere la sua salvezza,
agli occhi delle genti ha rivelato la sua giustizia.
Egli si è ricordato del suo amore,
della sua fedeltà alla casa d’Israele.

Tutti i confini della terra hanno veduto
la vittoria del nostro Dio.
Acclami il Signore tutta la terra,
gridate, esultate, cantate inni!

Il tempo della composizione di questo salmo è probabilmente quello del postesilio. Il motivo del suo invito ad un “canto nuovo” non è però ristretto al solo ritorno dall'esilio, ma nasce da tutti gli interventi di Dio per la liberazione di Israele dagli oppressori e dai nemici.
E' Dio stesso che, come prode guerriero, ha vinto i suoi nemici, che sono gli stessi nemici di Israele: “Gli ha dato vittoria la sua destra”.
Il “canto nuovo” celebra le “meraviglie” di Dio, tuttavia è aperto al futuro messianico, che abbraccerà tutti i popoli.
La sua salvezza”, mostrata ai popoli per mezzo di Israele, ridonda già su di loro: “Tutti i confini della terra hanno veduto la vittoria del nostro Dio”. Il Signore è colui che viene, che viene costantemente a giudicare la terra; e che verrà nel futuro per mezzo dell'azione del Messia, al quale darà il potere di giudicare nell'ultimo giorno la terra: “Giudicherà il mondo con giustizia e i popoli con rettitudine”.
Ogni episodio di liberazione il salmo lo vede come preparazione della diffusione a tutte le genti della salvezza del Signore. E' una salvezza universale che tocca anche il creato, che deve fremere di fronte agli eventi finali che lo sconvolgeranno: “Frema il mare...”; ma anche esultare, perché sarà sottratto dalla caducità introdotta da Adamo (Cf. Rm 8,19): “I fiumi battano le mani, esultino insieme le montagne”.
Noi, in Cristo, recitiamo il salmo nell'avvento messianico. La salvezza di Dio, quella che ci libera dal peccato - male supremo - è quella donataci per mezzo di Cristo. La giustizia che si è mostrata a noi è Cristo, che per noi è morto e ci ha resi giusti davanti al Padre per mezzo del lavacro del suo sangue. Dio, è il Dio che viene (Cf. Ap 1,7; 4,8) per mezzo dell'azione dello Spirito Santo, che presenta Cristo, nostra salvezza e giustizia.
Commento tratto da “l Cantico dei Cantici” di P. Paolo Berti

Dalla prima lettera di S.Giovanni apostolo
Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore.
In questo si è manifestato l’amore di Dio in noi: Dio ha mandato nel mondo il suo Figlio unigenito, perché noi avessimo la vita per mezzo di lui.
In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati. 1Gv 4,7-10

L’evangelista Giovanni nella sua lettera, dopo aver affrontato temi come: l'essere figli di Dio che nasce dall'amore; Gesù come vittima di espiazione, in questo brano che ha ispirato Benedetto XVI per la sua prima splendida Enciclica “Deus Caritas est”, afferma che Dio è amore e tutto il piano di salvezza, da Lui ideato e realizzato, non ha altro fine che l'amore.
Si può dire che tutta la teologia dell’amore si sviluppa nei pochi versetti di questo brano che riesce a darci la comprensione più profonda del cristianesimo.
Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio. I cristiani devono amarsi gli uni gli altri, l'amore è veramente una cosa meravigliosa perchè viene da Dio. L'atto di amare è una particolarità di coloro che provengono da Dio e Lo conoscono.
Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore.
Non puoi conoscere Dio e non amare. Dio è l'amore fatto persona, una Sua qualità fondamentale! ,
In questo si è manifestato l’amore di Dio in noi: Dio ha mandato nel mondo il suo Figlio unigenito, perché noi avessimo la vita per mezzo di lui.
Il nostro Dio non si nasconde, non vive nella Sua dimensione divina, ma si è voluto manifestare all'umanità, mandando Suo Figlio. Ecco il piano della salvezza che si realizza attraverso l'incarnazione! L'amore di Dio Padre ha come obiettivo la nostra vita, una vita in pienezza, felice, libera dalla morte e dalla sofferenza.
In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati.
Quindi il Padre ha fatto il primo passo, ci ha amati per primo e ha dato a noi la grazia cioè il dono di poter amare. Egli amandoci per primo, ha stabilito con noi un’alleanza eterna. L’incarnazione infatti è stata il suo legame eterno con l’umanità. Non ci ha amato per primo una sola volta, all’inizio, ma sempre, ogni giorno, ogni momento, ci ama per primo!
Noi possiamo attingere, da questo Suo amore la forza per amare a nostra volta Dio, il nostro prossimo, e per ottenere il perdono ogni volta che abbiamo mancato di farlo.

Dal Vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena.
Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi.
Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri».
Gv 15, 9-17

Anche questo brano, come quello di domenica scorsa, fa parte dei “discorsi di addio” che Giovanni pone nella cornice dell’ultima cena. Gesù continuando il Suo discorso dopo l’allegoria della vite e dei tralci, mette in luce come tutta la vita dei discepoli dipenda dal rapporto che hanno con Lui, il loro Maestro: “Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore”
Il Padre ama teneramente il Figlio, tanto da formare con Lui un solo essere, e per questo gli ha dato in mano ogni cosa. Con lo stesso amore con cui è amato dal Padre, Gesù ama i discepoli. Perciò li esorta a rimanere nel Suo amore: “Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore”.
Gesù ha dimostrato il Suo amore verso il Padre osservando i Suoi comandamenti. Anche discepoli potranno essere coinvolti in questo amore che unisce il Padre e il Figlio a patto però che osservino i Suoi “comandamenti”. Non si tratta tuttavia di osservare una serie di prescrizioni, ma di essere partecipi di quell’amore che Dio vuole diffondere nel mondo. Il Padre è la sorgente dell’amore, che si trasmette nel Figlio e dal Figlio nei discepoli, che a loro volta devono comunicarlo ai fratelli.
Dalla loro unione vitale con Gesù scaturisce per i discepoli l’esperienza della gioia: “Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena”. Accogliendo la Sua rivelazione, i discepoli sono stati purificati dai peccati e resi partecipi della sua comunione di vita con il Padre, che è sorgente della pace e della gioia più piena. Gesù spiega poi che partecipando all’amore del Padre e del Figlio i discepoli imparano ad amarsi tra loro: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi”.
L’amore che unisce Gesù al Padre non è solo il modello, ma anche il fondamento dell’amore che unisce i discepoli tra di loro. Amore e obbedienza sono reciprocamente dipendenti perchè l’amore “comandato” da Gesù non è un sentimento generico, ma impegno concreto e radicale.
Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici”. Gesù ha dimostrato l’amore più grande perché ha donato la propria vita per i Suoi amici e i discepoli devono fare altrettanto per i fratelli. Poi Gesù continua affermando: “Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi.”
Il concetto di amicizia viene spesso utilizzato nell’AT per indicare il rapporto con Dio a proposito di Abramo (Gen 18,17), di Mosè (Es 33,11) e di coloro che abitano con la Sapienza (Sap 7,27-28).
Qui si evidenzia che l’osservanza del Suo comandamento è una conseguenza dell’amicizia che li lega a Lui. Gesù non può più chiamarli servi perché ha rivelato loro tutto quello che ha udito dal Padre. Solo agli amici vengono confidati i segreti di famiglia, mentre i servi ne sono tenuti all’oscuro.
Ora, Gesù ha svelato ai discepoli, in quanto Suoi amici, i segreti più intimi di Dio, rendendoli partecipi della vita divina.
Gesù approfondisce ulteriormente questo concetto partendo dal tema dell’elezione:
Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri”.
Il rapporto di amicizia che lega i discepoli al Maestro non dipende da una loro scelta spontanea, ma è frutto del dono gratuito e della libera iniziativa di Gesù, che li ha “scelti per sé” e li “ha costituiti” per associarli intimamente alla Sua vita e per farli prosecutori della Sua opera. Inoltre Gesù assicura che il Padre concederà loro quanto essi chiederanno nel Suo nome.
In quanto amici, i discepoli ricevono da Gesù la rivelazione dei segreti di Dio.
Gesù è il massimo rivelatore non solo perché ha manifestato la natura di Dio, ma perché ha dato un volto umano a Dio, nella Sua natura più profonda, che è l’amore.
Per Giovanni il vangelo consiste essenzialmente nella manifestazione dell’Amore di Dio per mezzo della persona di Gesù. In questa rivelazione, colta e ritrasmessa dai discepoli, sta la proposta cristiana di salvezza.
Come i primi discepoli anche noi oggi dobbiamo “andare” uscendo dal Cenacolo dell’ultima Cena, dal circolo, un po’ ristretto, delle nostre chiese, e delle nostre case, per incamminarci lungo le strade del mondo ad annunziare quella Parola e a comunicare quell’amore che Gesù ha acceso e rende sempre vivo nei nostri cuori.

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“Il Vangelo di oggi ci riporta nel Cenacolo, dove ascoltiamo il comandamento nuovo di Gesù. Dice così: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io ho amato voi». E, pensando al sacrificio della croce ormai imminente, aggiunge: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando» Queste parole, pronunciate durante l’Ultima Cena, riassumono tutto il messaggio di Gesù; anzi, riassumono tutto ciò che Lui ha fatto: Gesù ha dato la vita per i suoi amici. Amici che non lo avevano capito, che nel momento cruciale lo hanno abbandonato, tradito e rinnegato. Questo ci dice che Egli ci ama pur non essendo noi meritevoli del suo amore: così ci ama Gesù!
In questo modo, Gesù ci mostra la strada per seguirlo, la strada dell’amore. Il suo comandamento non è un semplice precetto, che rimane sempre qualcosa di astratto o di esteriore rispetto alla vita. Il comandamento di Cristo è nuovo perché Lui per primo lo ha realizzato, gli ha dato carne, e così la legge dell’amore è scritta una volta per sempre nel cuore dell’uomo (Ger 31,33). E come è scritta? E’ scritta con il fuoco dello Spirito Santo. E con questo stesso Spirito, che Gesù ci dona, possiamo camminare anche noi su questa strada!
E’ una strada concreta, una strada che ci porta ad uscire da noi stessi per andare verso gli altri. Gesù ci ha mostrato che l’amore di Dio si attua nell’amore del prossimo. Tutti e due vanno insieme. Le pagine del Vangelo sono piene di questo amore: adulti e bambini, colti e ignoranti, ricchi e poveri, giusti e peccatori hanno avuto accoglienza nel cuore di Cristo.
Dunque, questa Parola del Signore ci chiama ad amarci gli uni gli altri, anche se non sempre ci capiamo, non sempre andiamo d’accordo… ma è proprio lì che si vede l’amore cristiano. Un amore che si manifesta anche se ci sono differenze di opinione o di carattere, ma l’amore è più grande di queste differenze! E’ questo l’amore che ci ha insegnato Gesù. E’ un amore nuovo perché rinnovato da Gesù e dal suo Spirito. E’ un amore redento, liberato dall’egoismo. Un amore che dona al nostro cuore la gioia, come dice Gesù stesso: «Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (v.11).
È proprio l’amore di Cristo, che lo Spirito Santo riversa nei nostri cuori, a compiere ogni giorno prodigi nella Chiesa e nel mondo. Sono tanti piccoli e grandi gesti che obbediscono al comandamento del Signore: “Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi”. Gesti piccoli, di tutti i giorni, gesti di vicinanza a un anziano, a un bambino, a un ammalato, a una persona sola e in difficoltà, senza casa, senza lavoro, immigrata, rifugiata… Grazie alla forza di questa Parola di Cristo, ognuno di noi può farsi prossimo verso il fratello e la sorella che incontra. Gesti di vicinanza, di prossimità. In questi gesti si manifesta l’amore che Cristo ci ha insegnato.
Ci aiuti in questo la nostra Madre Santissima, perché nella vita quotidiana di ognuno di noi l’amore di Dio e l’amore del prossimo siano sempre uniti.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 10 maggio 2015

Pubblicato in Liturgia
Mercoledì, 25 Aprile 2018 14:26

V Domenica di Pasqua - Anno B - 29 aprile 2018

Le letture liturgiche di questa quinta domenica di Pasqua sottolineano come deve essere l’unione tra Cristo e i suoi discepoli, di ogni tempo e di ogni luogo.
Nella prima lettura tratta dagli Atti degli Apostoli, Luca ci riporta come la comunità di Gerusalemme è testimone della profonda trasformazione di Paolo che, da persecutore dei cristiani, Gesù risorto ha chiamato a essere annunciatore del Vangelo. Vediamo che grazie a Barnaba, Paolo è accolto dai capi della comunità e riesce a dissipare i timori che vedevano ancora in lui il persecutore, e annuncia il Vangelo ai giudei di lingua greca, suoi precedenti amici, ora divenuti acerrimi nemici, che però tentano di ucciderlo.
Nella seconda lettura, nella sua prima lettera, Giovanni, afferma che l’amore fraterno è ciò che conduce alla pace e Dio non è un giudice severo, che applica solo la giustizia, ma un padre pieno di amore, che si prende cura di ciascuno di noi suoi figli.
Nel Vangelo di Giovanni, Gesù si presenta come la “vera” vite, forse con un’allusione alla “falsa vite”, cioè all’albero pieno di foglie, ma che produce solo uva selvatica e amara, Gesù si proclama la vera vite perchè il Suo sangue sottoforma di vino, sarà uno dei canali principali di trasmissione della vita a noi Suoi tralci.

Dagli Atti degli Apostoli
In quei giorni, Saulo, venuto a Gerusalemme, cercava di unirsi ai discepoli, ma tutti avevano paura di lui, non credendo che fosse un discepolo.
Allora Bàrnaba lo prese con sé, lo condusse dagli apostoli e raccontò loro come, durante il viaggio, aveva visto il Signore che gli aveva parlato e come in Damasco aveva predicato con coraggio nel nome di Gesù. Così egli poté stare con loro e andava e veniva in Gerusalemme, predicando apertamente nel nome del Signore. Parlava e discuteva con quelli di lingua greca; ma questi tentavano di ucciderlo. Quando vennero a saperlo, i fratelli lo condussero a Cesarèa e lo fecero partire per Tarso.
La Chiesa era dunque in pace per tutta la Giudea, la Galilea e la Samarìa: si consolidava e camminava nel timore del Signore e, con il conforto dello Spirito Santo, cresceva di numero.
At 9,26-31

Dopo aver narrato l’evangelizzazione della Samaria e la conversione di un eunuco etiope per opera di Filippo, Luca racconta la conversione-vocazione di Saulo di Tarso (9,1-19), che dopo la folgorazione sulle vie di Damasco, ha dato inizio ad una nuova vita, cambiando anche nome e col nome di Paolo, egli sarà il grande teologo, il principale missionario del Vangelo di Gesù tra i pagani greci e romani e il protagonista del racconto degli Atti a partire dal capitolo 12.
Il brano liturgico, non riporta tutto il racconto della vocazione di Paolo, ma ci narra la sua prima visita alla comunità di Gerusalemme. Nei versetti precedenti il brano, è scritto che subito dopo il suo battesimo Paolo si era fermato per un po’ di tempo con i cristiani di Damasco, presentandosi nelle sinagoghe e annunziando che Gesù è “il Figlio di Dio”. I suoi ascoltatori erano naturalmente meravigliati e si domandavano: “Ma costui non è quel tale che a Gerusalemme infieriva contro quelli che invocano questo nome ed era venuto qua precisamente per condurli in catene dai sommi sacerdoti?” (v. 21).
E ancora: Paolo “frattanto si rinfrancava sempre più e confondeva i Giudei residenti a Damasco, dimostrando che Gesù è il Cristo" (v. 22).
L’oratoria di Paolo era sicuramente irresistibile fatta “di una sapienza ispirata”, che ricorda quella del primo martire Stefano (v.6,10), e come nel suo caso suscitò una reazione violenta. Infatti dopo in po’ di giorni i Giudei fecero un complotto per ucciderlo.
È questa la prima manifestazione di un odio profondo con cui Paolo si scontrerà per tutto il resto della sua vita. A differenza di Stefano però Paolo non si lascia cogliere di sorpresa, perchè “i loro piani vennero a conoscenza di Saulo. Essi facevano la guardia anche alle porte della città di giorno e di notte per sopprimerlo; ma i suoi discepoli di notte lo presero e lo fecero discendere dalle mura, calandolo in una cesta”.. (vv. 24-25).
Da questo punto inizia il brano liturgico in cui Luca ci racconta che Paolo “venuto a Gerusalemme, cercava di unirsi ai discepoli, ma tutti avevano paura di lui, non credendo che fosse un discepolo”.
Paolo si reca a Gerusalemme, il luogo da cui era partito, per cercare di entrare a far parte della comunità dei discepoli, ma essi reagiscono con incredulità e paura “non credendo ancora che fosse un discepolo”.
La cosa è più che logica: il ricordo della persecuzione che Paolo aveva effettuata nei loro confronti doveva essere ancora vivo. Allora Barnaba, (che godeva la stima e la fiducia della comunità, tanto che gli Apostoli al suo nome originario di Giuseppe, aggiunsero il soprannome di Bàrnaba, che significa “figlio della consolazione o dell’esortazione”, a motivo della sua innata indole di saper dire la parola giusta per consolare e incoraggiare i fratelli a compiere il bene) difende la causa di Saulo davanti agli apostoli raccontando loro che durante il viaggio a Damasco, Paolo aveva visto il Signore che gli aveva parlato e “in Damasco aveva predicato con coraggio nel nome di Gesù.
In seguito all’intervento di Barnaba, Paolo entra a far parte della comunità di Gerusalemme infatti Luca riporta che “andava e veniva in Gerusalemme, predicando apertamente nel nome del Signore” mostrando anche qui lo stesso coraggio che aveva avuto a Damasco nell’annunziare il nome del Signore.
Dopo questa presentazione, Paolo ebbe contatto soprattutto con Pietro (come lo ricorda lui stesso nella lettera ai Galati 3,18), ma non mancò di predicare Gesù agli Ellenisti, quei Giudei della diaspora, con i quali egli aveva congiurato contro Stefano.
Lo scontro fu duro e gli antichi amici decisero di farlo fuori, ma i fratelli quando lo vennero a sapere lo condussero a Cesarea, e da lì “lo fecero partire per Tarso”, la sua città natale dove rimase fino all’anno 46. Del periodo che egli trascorre a Tarso non viene detto nulla né da lui nei suoi scritti, né da Luca che ritornerà a parlare di Paolo in occasione della visita che gli farà Barnaba per condurlo ad Antiochia. (v.11,25).
La nota finale di Luca è molto significativa: “La Chiesa era dunque in pace per tutta la Giudea, la Galilea e la Samarìa…
Era in pace!” Paolo con la passione che lo animava, dava l’impressione di cercare lo scontro; gli Apostoli, pur annunciando la Parola con franchezza e coraggio, hanno sempre evitato lo scontro diretto e cercavano di convivere con gli irriducibili del popolo. È nella pace infatti che la Chiesa “si consolidava e camminava nel timore del Signore e, con il conforto dello Spirito Santo, cresceva di numero.
Luca, coglie ancora l’occasione per sottolineare che La Chiesa cammina con Cristo nella storia unicamente perché è sostenuta dalla potenza dello Spirito Santo.

Salmo 21 A te la mia lode, Signore, nella grande assemblea.
Scioglierò i miei voti davanti ai suoi fedeli.
I poveri mangeranno e saranno saziati,
loderanno il Signore quanti lo cercano;
il vostro cuore viva per sempre!

Ricorderanno e torneranno al Signore
tutti i confini della terra;
davanti a te si prostreranno
tutte le famiglie dei popoli.

A lui solo si prostreranno
quanti dormono sotto terra,
davanti a lui si curveranno
quanti discendono nella polvere.

Ma io vivrò per lui,
lo servirà la mia discendenza.
Si parlerà del Signore alla generazione che viene;
annunceranno la sua giustizia;
al popolo che nascerà diranno:
«Ecco l’opera del Signore!».

Non c'è cristiano che non conosca la forza sconvolgente delle battute iniziali di questa celebre lamentazione, gridate da Gesù agonizzante: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? (Mt 27,46).
Un testo di grande desolazione striato dal sangue e dalle lacrime, segnato da immagini «bestiali» di sapore prettamente orientale (tori, leoni, mastini, bufali), affidato in filigrana alla raffigurazione di un corpo dalle ossa slogate, dal cuore molle come cera, dalla gola simile a creta riarsa, dal respiro affannato, dalle mani e dai piedi feriti... Attorno, il silenzio di Dio e l'ostilità degli uomini che già si spartiscono l'eredità, convinti di essere di fronte a un maledetto (v. 19). Ed invece, all'improvviso, ecco la svolta: «Esaudito, esaudito mi hai!» (v. 22). E il lamento si trasforma in inno di ringraziamento festoso (vv. 23-27) e in cantico al Signore, re dell'universo (vv. 28-29). Dalla disperazione alla speranza, dalla morte alla vita, dal sepolcro alla risurrezione: «Ecco l’opera del Signore!».
commento tratto da “I Salmi” di David Maria Turoldo e Gianfranco Ravasi

Dalla prima lettera di S.Giovanni Apostolo
Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità.
In questo conosceremo che siamo dalla verità e davanti a lui rassicureremo il nostro cuore, qualunque cosa esso ci rimproveri. Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa.
Carissimi, se il nostro cuore non ci rimprovera nulla, abbiamo fiducia in Dio, e qualunque cosa chiediamo, la riceviamo da lui, perché osserviamo i suoi comandamenti e facciamo quello che gli è gradito.
Questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri, secondo il precetto che ci ha dato. Chi osserva i suoi comandamenti rimane in Dio e Dio in lui. In questo conosciamo che egli rimane in noi: dallo Spirito che ci ha dato.
1Gv 3,18-24

L’Apostolo Giovanni nei capitoli 3 e 4 della sua prima lettera, ci presenta le tre condizioni per vivere da figli di Dio.
La prima è quella di rompere definitivamente con il peccato, la seconda, quella che troveremo nel brano di oggi, di osservare i comandamenti, soprattutto quello della carità. La terza è il guardarsi dagli anticristi e dalla mentalità del mondo.
Il brano inizia con l’esortazione: Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità. Tenendo presente il versetto precedente in cui diceva “se uno ha ricchezze di questo mondo e vedendo il suo fratello in necessità gli chiude il proprio cuore, come dimora in lui l’amore di Dio?” possiamo comprendere che l'apostolo ci esorta a esprimere un amore attivo, non solo a parole. Sono i fatti che manifestano la verità dell'amore!
Poi continua: “In questo conosceremo che siamo dalla verità e davanti a lui rassicureremo il nostro cuore, qualunque cosa esso ci rimproveri.” Se qualcuno dimostra la sua carità con i gesti concreti di amore e solidarietà è sicuro che la sua fede è solida e non si lascerà confondere da coloro che predicano una fede diversa.
Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa.” Questa osservazione è probabilmente scaturita forse dalla paura di non aver capito bene il messaggio di Dio, ma è consolante sapere che Dio è più grande del nostro cuore e lo possiamo constatare verificando il risultato delle nostre opere di bene.
Carissimi, se il nostro cuore non ci rimprovera nulla, abbiamo fiducia in Dio”, vale dire il cuore non può rimproverarci nulla se abbiamo amore verso gli altri. E questa sensazione liberandoci dagli scrupoli rafforza la fiducia in Dio e ci fa sentire in comunione con Lui!
e qualunque cosa chiediamo, la riceviamo da lui, perché osserviamo i suoi comandamenti e facciamo quello che gli è gradito”. Se siamo in comunione con Dio, vivendo della Sua stessa capacità di amore, possiamo chiedere qualsiasi cosa, ed Egli come figli obbedienti ci viene incontro nelle nostre richieste.
Questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri, secondo il precetto che ci ha dato.”
Questi sono i Suoi comandamenti. Il primo e più importante è quello di avere fede, di credere nel nome di Suo Figlio. Nella mentalità semitica il nome è tutta quanta la persona, la sua forza, la sua vera natura e credere nel nome è credere nella persona stessa. L'altro comandamento è quello di amarci gli uni gli altri. Questo è uno dei motivi più importanti e ricorrenti degli scritti di Giovanni.
Nei versetti finali del brano “Chi osserva i suoi comandamenti rimane in Dio e Dio in lui. In questo conosciamo che egli rimane in noi: dallo Spirito che ci ha dato“ si percepisce ancora un significato più profondo, perchè in “dimorare-rimanere” nel significato originale, si trovano più sfumature che fanno pensare all’intimità, alla fedeltà, alla comunione.
Inoltre si comprende in modo più chiaro che questo “dimorare-rimanere” nasce e si alimenta in un dialogo, in una reciprocità. Infatti noi “dimoriamo” in Dio proprio perchè Lui per primo ha scelto di venire a ”dimorare” in noi. E il nostro dimorare in Lui significa “osservare il Suo comandamento”, cioè credere nel nome del Figlio Suo Gesù Cristo e amarci gli uni gli altri, come Lui ci ha amato. In questa comunione reciproca c'è anche lo Spirito che ci permette di vivere e operare secondo la volontà di Dio.

Dal Vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto.
Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me.
Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano.
Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli».
Gv 15, 1-8

L’evangelista Giovanni nella seconda parte del suo vangelo, riporta, prima del racconto della passione, tre discorsi di addio che Gesù avrebbe pronunziato in occasione dell’ultima cena.
In essi Gesù presenta il tema del Suo ritorno al Padre e delle conseguenze che esso avrà nella vita dei Suoi discepoli. Nel secondo di questi discorsi sottolinea la necessità dell’unione vitale con Lui, che deve essere rafforzata dai discepoli praticando il comandamento dell’amore vicendevole.
Il brano si apre con la dichiarazione di Gesù: “Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore.”
Qui troviamo un’immagine classica della Bibbia, quella della vite, l’albero simbolico della prosperità e della gioia messianica, segno di Israele fedele e infedele (v.Isaia 5,1-7 cantico della vigna o il salmo 80 o la parabola della vigna di Marco 12,1-11).
In quanto vite, Gesù è dotato di tralci che sono oggetto delle cure del vignaiolo: “Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto”. I tralci rappresentano tutti coloro che, entrando in comunione con Gesù, diventano membri del nuovo popolo di Dio. In quanto vignaiolo, il Padre taglia i rami infruttuosi e pota quelli che danno frutto: i primi sono i credenti che non operano in sintonia con Cristo, e quindi si distaccano da Lui, mentre gli altri sono coloro che gli rimangono fedeli, ma non per questo sono dispensati da prove e sofferenze, perché solo attraverso queste possono progredire nel rapporto con Lui e con il Padre.
L’allegoria della vigna si sviluppa poi mediante una serie di esempi e di esortazioni.
Anzitutto Gesù osserva rivolgendosi ai suoi discepoli: “Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato”. Lo stretto rapporto che fa dei discepoli un’unica cosa con il Maestro scaturisce dalla Sua parola che dimora in essi e li purifica, realizzando così gli oracoli profetici della nuova alleanza (v. Ger 31,33-34). Questi discepoli non devono quindi temere di andare incontro a potature anche dolorose, perchè tutte queste sofferenze renderanno più salda la loro fede.
Gesù perciò rivolge loro questo invito: “Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla”.
Il Signore si attende dalla Sua vigna che produca frutto (v. Is 5,4.7) e questo si può realizzare nell’obbedire alla Sua volontà, vivendo “secondo i suoi statuti“ osservando e “mettendo in pratica le mie leggi.” (v. Ez 36,27).
Separandosi da Gesù il discepolo perde la possibilità stessa di produrre i frutti dell’amore e si dissecca come un ramo staccato dal tronco. La possibilità di fare frutto dipende dunque esclusivamente dal rapporto che i discepoli hanno con il loro Maestro.
Chiaramente non viene escluso l’impegno personale, ma esso è fruttuoso solo se deriva dalla piena comunione con Lui e dall’assimilazione di quei valori che hanno ispirato la Sua esistenza umana.
Gesù afferma ancora: “Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano”. Il ramo che non produce frutto non può restare collegato con la vite: perciò il Padre lo taglia e lo getta nel fuoco.
Con questa espressione si attribuisce a Dio, in sintonia con il linguaggio biblico, quella che è semplicemente una conseguenza dell’operare umano.
Alla fine del brano si riprende il tema del collegamento tra vite e tralci in funzione della preghiera: “Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto.
La preghiera del discepolo è efficace solo nella misura in cui resta in comunione con Cristo, perché solo così i suoi desideri sono in piena sintonia con quelli del Padre. Gesù infine conclude “In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli”. L’unione dei discepoli con Gesù non è altro che il prolungamento dell’amore che unisce il Padre e il Figlio: da esso derivano quei frutti che “glorificano” il Padre perché testimoniano la Sua opera efficace e continua per la salvezza di tutta l’umanità.
Rimanere uniti a Cristo per portare frutto è dunque la sfida del Vangelo di oggi, e portare frutto è sostanzialmente amare, amare con un amore pieno, perfetto: con lo stesso amore con cui Lui ci ha amato e ci ama.

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“Il Vangelo di oggi ci presenta Gesù durante l’Ultima Cena, nel momento in cui sa che la morte è ormai vicina. E’ giunta la sua “ora”. Per l’ultima volta Egli sta con i suoi discepoli, e allora vuole imprimere bene nella loro mente una verità fondamentale: anche quando Lui non sarà più fisicamente in mezzo a loro, essi potranno restare ancora uniti a Lui in un modo nuovo, e così portare molto frutto.
Tutti possiamo essere uniti a Gesù in un modo nuovo. Se al contrario uno perdesse questa unione con Lui, questa comunione con Lui, diventerebbe sterile, anzi, dannoso per la comunità. E per esprimere questa realtà, questo modo nuovo di essere uniti a Lui, Gesù usa l’immagine della vite e dei tralci e dice così: «Come il tralcio non può portare frutto da sé stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci». Con questa figura ci insegna come rimanere in Lui, essere uniti a Lui, benché Lui non sia fisicamente presente.
Gesù è la vite, e attraverso di Lui – come la linfa nell’albero – passa ai tralci l’amore stesso di Dio, lo Spirito Santo. Ecco: noi siamo i tralci, e attraverso questa parabola Gesù vuole farci capire l’importanza di rimanere uniti a Lui.
I tralci non sono autosufficienti, ma dipendono totalmente dalla vite, in cui si trova la sorgente della loro vita. Così è per noi cristiani. Innestati con il Battesimo in Cristo, abbiamo ricevuto da Lui gratuitamente il dono della vita nuova; e possiamo restare in comunione vitale con Cristo.
Occorre mantenersi fedeli al Battesimo, e crescere nell’amicizia con il Signore mediante la preghiera, la preghiera di tutti i giorni, l’ascolto e la docilità alla sua Parola - leggere il Vangelo -, la partecipazione ai Sacramenti, specialmente all’Eucaristia e alla Riconciliazione.
Se uno è intimamente unito a Gesù, gode dei doni dello Spirito Santo, che – come ci dice san Paolo – sono «amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé» (Gal 5,22). Questi sono i doni che ci vengono se noi rimaniamo uniti a Gesù; e di conseguenza una persona che è così unita a Lui fa tanto bene al prossimo e alla società, è una persona cristiana. Da questi atteggiamenti, infatti, si riconosce se uno è un vero cristiano, come dai frutti si riconosce l’albero.
I frutti di questa unione profonda con Gesù sono meravigliosi: tutta la nostra persona viene trasformata dalla grazia dello Spirito: anima, intelligenza, volontà, affetti, e anche il corpo, perché noi siamo unità di spirito e corpo. Riceviamo un nuovo modo di essere, la vita di Cristo diventa nostra: possiamo pensare come Lui, agire come Lui, vedere il mondo e le cose con gli occhi di Gesù. Di conseguenza, possiamo amare i nostri fratelli, a partire dai più poveri e sofferenti, come ha fatto Lui, e amarli con il suo cuore e portare così nel mondo frutti di bontà, di carità e di pace.
Ciascuno di noi è un tralcio dell’unica vite; e tutti insieme siamo chiamati a portare i frutti di questa comune appartenenza a Cristo e alla Chiesa.
Affidiamoci all’intercessione della Vergine Maria, affinché possiamo essere tralci vivi nella Chiesa e testimoniare in modo coerente la nostra fede - coerenza proprio di vita e di pensiero, di vita e di fede -, consapevoli che tutti, a seconda delle nostre vocazioni particolari, partecipiamo all’unica missione salvifica di Cristo.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 3 maggio 2015

Pubblicato in Liturgia

La quarta domenica di Pasqua ritorna ogni anno come giornata del Buon Pastore e della Vocazione, in particolare quella sacerdotale e religiosa. Le letture che la liturgia ci offre sono pervase dal simbolismo carico di risonanze del pastore che a noi spesso sfuggono perchè il pastore nell’antico Oriente non era solo la guida del gregge, ma il compagno di vita in modo totale, pronto a condividere con le sue pecore la sete, le marce, il sole infuocato, il freddo notturno.
Nella prima lettura tratta dagli Atti degli Apostoli, Luca ci presenta ancora Pietro, che dopo aver guarito lo storpio, risponde ai suoi accusatori per affermare che questo miracolo è stato compiuto nel nome di Gesù Cristo. Solo nel Cristo risorto c’è speranza per l’umanità.
Nella seconda lettura, nella sua prima lettera, Giovanni, dopo aver considerato che ogni ristiano nella sua realtà concreta di individuo è in comunione con il Padre e il Figlio, qui afferma che è realmente figlio di Dio e oggetto dell’amore del Padre. Questa realtà, che non può essere capita da coloro che non conoscono Dio, apre alla speranza della rivelazione totale di ciò che siamo.
Nel Vangelo di Giovanni, Gesù viene presentato come il Buon Pastore che a differenza del mercenario, il quale, svolgendo il suo compito solo per ottenere un salario, di fronte al pericolo fugge e abbandona le pecore, Gesù è invece il vero pastore, conosce le pecore per nome una per una e per loro è disposto a dare la vita. Tra i credenti e Gesù-buon Pastore intercorre una comunione reale e intensa che non è infranta dagli sbandamenti del gregge, che non è cancellata dalla solitudine e dall’isolamento creato dalle pecore ribelli. Anzi Gesù vuole aprire un altro orizzonte che si estende fino a pecore lontane, che non appartengono al primo ovile di Dio, quello di Israele.

Dagli Atti degli Apostoli
In quei giorni, Pietro, colmato di Spirito Santo, disse loro: «Capi del popolo e anziani, visto che oggi veniamo interrogati sul beneficio recato a un uomo infermo, e cioè per mezzo di chi egli sia stato salvato, sia noto a tutti voi e a tutto il popolo d’Israele: nel nome di Gesù Cristo il Nazareno, che voi avete crocifisso e che Dio ha risuscitato dai morti, costui vi sta innanzi risanato. Questo Gesù è la pietra, che è stata scartata da voi, costruttori, e che è diventata la pietra d’angolo. In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati».
At 4,8-12

Dopo la Pentecoste e la guarigione dello storpio, Pietro che aveva parlato al popolo nel portico di Salomone, viene arrestato insieme a Giovanni. Dopo una notte in carcere, entrambi vengono condotti al Sinedrio, il supremo Consiglio giudaico. Di fronte a questo tribunale vengono interrogati dai sommi sacerdoti, i quali vogliono sapere con quale potere e in nome di chi hanno fatto quel miracolo. Allora Pietro pieno di Spirito santo, inizia il suo discorso rifacendosi alla situazione concreta che ha determinato il suo arresto e quello di Giovanni. Pietro riconosce prima i presenti come “capi del popolo e anziani”, intendendo così rivolgersi attraverso loro a tutto il popolo che essi rappresentano. Egli ricorda poi il motivo per cui lui e Giovanni si trovano di fronte a loro: essi vengono “interrogati sul beneficio recato a un uomo infermo, e cioè per mezzo di chi egli sia stato salvato”.È importante che egli indichi la guarigione avvenuta con il verbo “salvare”, lasciando così intuire come l’azione risanatrice da lui esercitata vada oltre la guarigione fisica e riguardi tutta la persona. Subito dopo Pietro afferma che la guarigione dell’infermo è avvenuta nel nome di Gesù Cristo il Nazareno che essi hanno crocifisso e che Dio ha risuscitato dai morti. Egli qui dà a Gesù il titolo di Cristo e lo qualifica come il Nazareno. In tal modo egli mette in luce il suo collegamento con le promesse fatte al suo popolo in forza di un progetto divino.
Dopo questa proclamazione sommaria Pietro afferma che Gesù “è la pietra, che è stata scartata da voi, costruttori, e che è diventata la pietra d’angolo”. C’è una chiaro riferimento al salmo 118,22 nel quale, mediante il simbolismo della pietra scartata e poi diventata il fondamento di tutto l’edificio, si vuole indicare un evidente fallimento, a cui fa seguito un imprevedibile successo. In esso Pietro vede dunque, come è riportato anche in altri passi del N.T. (Mt 21,42; Ef 2,20;1Pt 2,6-7), una prefigurazione della morte e della risurrezione di Gesù. Con questo riferimento egli mostra che questi due eventi non si sono attuati come conseguenza di una fatalità imprevista, ma corrispondono al piano di Dio preannunziato nelle Scritture. Pietro conclude con una dichiarazione di fede: “In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati”. La guarigione dello storpio è dunque solo il segno di una salvezza che Gesù ha attuato con la Sua morte e risurrezione e che Lui soltanto può donare a tutta l’umanità. Con questa affermazione Pietro pone Gesù al centro del piano salvifico di Dio, che riguarda l’umanità di tutti i tempi e di tutti i luoghi.
Gesù è dunque l’esempio più chiaro e significativo di una logica divina che opera non attraverso i potenti di questo mondo, ma attraverso gli ultimi, gli emarginati, i disprezzati. Gesù ha vissuto la Sua passione rappresentando tutti i sofferenti di ogni tempo e di ogni luogo, e con la Sua risurrezione ha manifestato l’opera meravigliosa di Dio che li riabilita e dà loro la vita.

Salmo 117 (118) La pietra scartata dai costruttori è divenuta pietra d’angolo.

Rendete grazie al Signore perché è buono,
perché il suo amore è per sempre.
È meglio rifugiarsi nel Signore
che confidare nell’uomo.
È meglio rifugiarsi nel Signore
che confidare nei potenti.

Ti rendo grazie, perché mi hai risposto,
perché sei stato la mia salvezza.
La pietra scartata dai costruttori
è divenuta la pietra d’angolo.
Questo è stato fatto dal Signore:
una meraviglia ai nostri occhi.

Benedetto colui che viene nel nome del Signore.
Vi benediciamo dalla casa del Signore.
Sei tu il mio Dio e ti rendo grazie,
sei il mio Dio e ti esalto.
Rendete grazie al Signore, perché è buono,
perché il suo amore è per sempre.

Il salmo è stato composto per essere recitato con cori alterni e da un solista. Esso celebra una vittoria contro nemici numerosi.
Probabilmente è stato scritto al tempo di Giuda Maccabeo dopo la vittoria su Nicanore e la purificazione del tempio di Gerusalemme (1Mac7,33; 2Mac 10,1s) (165 a.C). Si è condotti a questa collocazione storica, a preferenza di quella del tempo della ricostruzione delle mura di Gerusalemme con Neemia (445 a.C), dal fatto che si parla di “grida di giubilo e di vittoria”, che sono proprie di una vittoria militare. Inoltre le “tende dei giusti” non possono essere né le case, né le capanne di frasche per la festa delle Capanne, ma le tende di un accampamento militare.
Il salmo inizia con l'invito a celebrare l'eterna misericordia di Dio. A questo viene invitato tutto il popolo: “Dica Israele il suo amore è per sempre"; i leviti e i sacerdoti: “Dica la casa di Aronne”; i “timorati di Dio”: “Dicano quelli che temono il Signore” (Cf. Ps 113 B).
Il solista - storicamente Giuda Maccabeo – presenta come Dio lo ha aiutato dandogli la forza, nella confidenza in lui, di sfidare i suoi nemici.
Egli non ha confidato, né intende confidare, in alleanze con potenti della terra, che lo avrebbero trascinato agli idoli, ma ha confidato nel Signore. Era circondato dal fronte compatto delle genti vicine asservite al dominio dei Seleucidi, ma “Nel nome del Signore le ho distrutte". L'urto contro di lui era stato forte, ma aveva vinto nel nome del Signore: “Mi avevano spinto con forza per farmi cadere, ma il Signore è stato il mio aiuto”. “Cadere” significa cedere all'idolatria.
Egli sa che deve continuare la lotta, ma è fiducioso nel Signore: “Non morirò, ma resterò in vita e annuncerò le opere del Signore”. “Le opere del Signore” sono la liberazione dall'Egitto, l'alleanza del Sinai e la conquista della Terra Promessa.
Il solista, che è alla testa di un corteo chiede che gli vengano aperte le porte del tempio purificato dopo le profanazioni di Nicanore per “ringraziare il Signore”: “Apritemi le porte della giustizia...”.
La pietra scartata dai costruttori”, è Giuda Maccabeo e i suoi, scartati da tanti di Israele che si erano fatti conquistare dai costumi ellenistici (1Mac 1,11s). Tale pietra per la forza di Dio era diventata “pietra d'angolo”, per Israele.
Questo è il giorno che fatto il Signore”; il giorno della vittoria, del ripristino del culto nel tempio, è dovuto al Signore. Per noi cristiani quel giorno è il giorno della risurrezione; della vittoria di Cristo contro il male.
Il corteo viene invitato a disporsi con ordine fino all'altare: “Formate il corteo con rami frondosi fino agli angoli dell'altare”.
Il salmo si conclude ripetendo l'invito a celebrare la misericordia del Signore.
Il salmo è messianico nel senso che esso profeticamente riguarda il Cristo: (Mt 21,42; Mc 12,10; Lc 20,17; At 4,11; Rm 9,23; 1Pt 2,7).
Commento di P.Paolo Berti

Dalla prima lettera di S.Giovanni apostolo
Carissimi, vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui.
Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è.
1Gv 3,1-2

Giovanni in questa lettera, che ha come destinatari tutti i pagani della comunità dell’Asia Minore, che si sono convertiti al Cristianesimo, si prefigge lo scopo di richiamare le comunità cristiane all'amore fraterno e di metterle in guardia verso i falsi maestri (gnostici ed eretici), che negavano l’incarnazione di Gesù Cristo (v. 2,18-19); alla comunione con Dio e con Suo Figlio, che si realizza con la verità (v.1,6), l'obbedienza (v.2,3) , la purezza (v.3,3) la fede (v.3,23; 4,3;5,5) e l'amore che è il cuore della dottrina del suo messaggio.
In questo brano egli considera il cristiano nella sua realtà concreta di creatura, che è in comunione con il Padre e il Figlio e ne spiega il motivo nel fatto che egli è, ora, realmente figlio di Dio, (v.Gv1.12: A quanti però l’hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome) e di conseguenza oggetto dell’amore del Padre.
Questa nostra realtà, che non può essere capita da coloro che non conoscono Dio, apre alla speranza della rivelazione totale di ciò che siamo, come dice anche S. Paolo: Quando si manifesterà Cristo …, allora anche voi sarete manifestati con lui nella gloria. Col3,4

Dal Vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, Gesù disse: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario - che non è pastore e al quale le pecore non appartengono - vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore.
Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore.
Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».
Gv 10,11-18

Questo brano tratto dal Vangelo di Giovanni, che è l’unico evangelista che ci racconta la parabola del Buon Pastore, ci riporta il discorso di Gesù iniziato nei versetti precedenti (meditati nella IV domenica di Pasqua – anno A) in cui parlava della triste situazione del gregge per colpa dei pastori (c’è un chiaro riferimento a quanto dice il profeta Ezechiele 30,1-10 e Geremia 23,1-3) e poi dell’annuncio che Dio fa di reggere come pastore il suo popolo mediante un nuovo pastore. Gesù dichiara: “Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore”. Al buon pastore si contrappone il mercenario, il quale, svolgendo il suo compito solo per ottenere un salario, di fronte al pericolo fugge e abbandona le pecore.
Il suo comportamento dà maggior risalto, per contrasto, a quello opposto del buon pastore.
Gesù si attribuisce di nuovo la qualifica di “buon pastore” e la spiega partendo dal rapporto che egli instaura con le sue pecore affermando “conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore.” Tra il pastore e le pecore si instaura quindi un intimo rapporto di conoscenza reciproca, come comunione profonda di vita. Il verbo “conoscere”, usato quattro volte nel presente brano, indica l’amore di Gesù per i suoi discepoli, che ha come fondamento e modello l’amore reciproco tra Lui e il Padre. In altre parole Gesù non intende semplicemente spiegare il rapporto che lo lega a coloro che credono in Lui, ma presentando il Suo rapporto con il Padre, ne indica anche l’origine. Infine Gesù ribadisce: “io do la mia vita per le pecore”.
La morte di Gesù rappresenterà l’espressione massima del Suo amore e la manifestazione suprema della bontà sconfinata del Padre verso l’umanità intera.
Gesù prosegue affermando che egli ha altre pecore che non sono di questo recinto: “anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore “.
Questa ultima parte introduce il tema della salvezza universale: le altre pecore sono i pagani che entreranno a far parte della comunità messianica. Anch’essi ascolteranno la “voce” di Gesù, cioè crederanno in Lui. Gesù continua affermando riguardo ai rapporti con il Padre: il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo, e subito aggiunge che nessuno gliela toglie, perché ha il potere di offrirla e di riprenderla. Con queste parole sottolinea la libertà con cui ha accettato la morte: non è il Padre che, come nei Vangeli sinottici, “consegna” il Figlio, ma è Gesù stesso che “dona” la Sua vita con decisione libera e autonoma. Ma come ha il “potere” di donare la propria vita, così ha pure il potere di riprenderla.
La morte di Gesù è strettamente legata alla Sua risurrezione, tanto da formare un unico atto salvifico.
Il deporre per poi riprendere la propria vita rappresenta per Gesù l’obbedienza a un comando che ha ricevuto dal Padre, ma qui è evidente che la volontà del Padre coincide esattamente con la decisione presa da Gesù.
Giovanni qui ci presenta Gesù come Colui che attua la promessa riguardante la venuta escatologica di DIO come unico Pastore del suo popolo: Gesù infatti è Colui che lo rappresenta in questa Sua funzione in forza della Sua morte e risurrezione. Nella Sua disponibilità a dare la Sua vita per coloro che credono in Lui si manifesta non solo il Suo amore per l’umanità, ma anche l’amore del Padre per il Figlio e da Lui si estende a tutti coloro che lo accolgono.
I veri credenti in Gesù Cristo partecipano della stessa libertà di cui è dotato il loro pastore. Essi non lo seguono perchè obbligati, ma perché sono entrati nella Sua mentalità, nel Suo modo di vivere, e non potrebbero concepire la propria vita senza di Lui.

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“La Quarta Domenica di Pasqua – questa -, detta “Domenica del Buon Pastore”, ogni anno ci invita a riscoprire, con stupore sempre nuovo, questa definizione che Gesù ha dato di sé stesso, rileggendola alla luce della sua passione, morte e risurrezione. «Il buon pastore offre la vita per le pecore» : queste parole si sono realizzate pienamente quando Cristo, obbedendo liberamente alla volontà del Padre, si è immolato sulla Croce. Allora diventa completamente chiaro che cosa significa che Egli è “il buon pastore”: dà la vita, ha offerto la sua vita in sacrificio per tutti noi: per te, per te, per te, per me, per tutti! E per questo è il buon pastore!
Cristo è il pastore vero, che realizza il modello più alto di amore per il gregge: Egli dispone liberamente della propria vita, nessuno gliela toglie, ma la dona a favore delle pecore
In aperta opposizione ai falsi pastori, Gesù si presenta come il vero e unico pastore del popolo: il cattivo pastore pensa a sé stesso e sfrutta le pecore; il pastore buono pensa alle pecore e dona sé stesso. A differenza del mercenario, Cristo pastore è una guida premurosa che partecipa alla vita del suo gregge, non ricerca altro interesse, non ha altra ambizione che quella di guidare, nutrire e proteggere le sue pecore. E tutto questo al prezzo più alto, quello del sacrificio della propria vita.
Nella figura di Gesù, pastore buono, noi contempliamo la Provvidenza di Dio, la sua sollecitudine paterna per ciascuno di noi. Non ci lascia da soli!
La conseguenza di questa contemplazione di Gesù Pastore vero e buono, è l’esclamazione di commosso stupore che troviamo nella seconda Lettura dell’odierna liturgia: «Vedete quale grande amore ci ha dato il Padre…» (1 Gv 3,1). È davvero un amore sorprendente e misterioso, perché donandoci Gesù come Pastore che dà la vita per noi, il Padre ci ha dato tutto ciò che di più grande e prezioso poteva darci! È l’amore più alto e più puro, perché non è motivato da alcuna necessità, non è condizionato da alcun calcolo, non è attratto da alcun interessato desiderio di scambio. Di fronte a questo amore di Dio, noi sperimentiamo una gioia immensa e ci apriamo alla riconoscenza per quanto abbiamo ricevuto gratuitamente.
Ma contemplare e ringraziare non basta. Occorre anche seguire il Buon Pastore. In particolare, quanti hanno la missione di guide nella Chiesa – sacerdoti, Vescovi, Papi – sono chiamati ad assumere non la mentalità del manager ma quella del servo, a imitazione di Gesù che, spogliando sé stesso, ci ha salvati con la sua misericordia. ….
Maria Santissima ottenga per me, per i Vescovi e per i sacerdoti di tutto il mondo la grazia di servire il popolo santo di Dio mediante la gioiosa predicazione del Vangelo, la sentita celebrazione dei Sacramenti e la paziente e mite guida pastorale.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 26 aprile 2015

Pubblicato in Liturgia

Le letture liturgiche di questa domenica, sotto varie forme ci danno il messaggio del risorto che ci invita ad andare oltre ogni incredulità.
Nella prima lettura, tratta dagli Atti degli Apostoli, Pietro è al suo secondo discorso che tiene nel portico del Tempio, e dopo aver ricordato il mistero pasquale – la vita di Gesù Cristo morto e risorto - invita al pentimento e alla conversione.
Nella seconda lettura, nella sua prima lettera, l’apostolo Giovanni, afferma che Gesù Cristo si fa nostro avvocato rivelandoci la forza del suo perdono che cancella tutti i nostri peccati. Osservare la parola di Gesù significa anche osservare i suoi comandamenti: “Chi osserva la sua parola, in lui l’amore di Dio è veramente perfetto”
Nel Vangelo, Luca ci presenta un’altra apparizione del Risorto che incontra l'incredulità dei discepoli ma Gesù li invita a toccare il suo corpo glorificato, e propone anche di mangiare con loro. Su questa esperienza poggia sicura la loro fede e sulla loro prima testimonianza si basa la nostra testimonianza di oggi.
I fratelli ortodossi nel tempo pasquale, si salutano dicendo: “Cristo è risorto” e l’altro risponde “E’ risorto in verità”. E’ una bella abitudine radicata nella gente, e noi cattolici dovremmo farla nostra, ma non solo a parole, ma anche con la nostra vita. Tutto passa, sia i momenti belli che quelli difficili e dolorosi, ma chi rimane è Lui, che con la Sua morte e resurrezione, è divenuto l’unico sostegno in mezzo a tante difficoltà, incertezze e pericoli.

Dagli Atti degli Apostoli
In quei giorni, Pietro disse al popolo: «Il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe, il Dio dei nostri padri ha glorificato il suo servo Gesù, che voi avete consegnato e rinnegato di fronte a Pilato, mentre egli aveva deciso di liberarlo; voi invece avete rinnegato il Santo e il Giusto, e avete chiesto che vi fosse graziato un assassino. Avete ucciso l’autore della vita, ma Dio l’ha risuscitato dai morti: noi ne siamo testimoni.
Ora, fratelli, io so che voi avete agito per ignoranza, come pure i vostri capi. Ma Dio ha così compiuto ciò che aveva preannunciato per bocca di tutti i profeti, che cioè il suo Cristo doveva soffrire. Convertitevi dunque e cambiate vita, perché siano cancellati i vostri peccati».
At 3,13-15.17-19

La guarigione miracolosa dello storpio presso la porta del tempio dettaBella”, attira una grande folla alla quale Pietro rivolge il suo secondo discorso missionario. Nella sua introduzione l’Apostolo fa riferimento alla guarigione dello storpio, ma solo per dire che essa non deve venire attribuita a particolari poteri suoi e del suo compagno Giovanni.
Inizia quindi il suo annunzio cominciando dalla glorificazione di Gesù dopo la Sua morte ed afferma che “Il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe, il Dio dei nostri padri ha glorificato il suo servo Gesù..
Con queste parole Pietro riassume quanto aveva detto più a lungo nel giorno di Pentecoste (2,22-32). La designazione di JHWH come il Dio dei padri viene spesso riportata nell’AT e contiene in sé una sintesi di tutta la storia passata di Israele: lo stesso Dio che un giorno ha scelto Abramo e la sua discendenza, ha operato meraviglie nella persona di Gesù. Qui Gesù viene definito “servo”, per cui c’è un voluto riferimento al protagonista dei quattro carmi del “Servo di JHWH” contenuti nel Deuteroisaia. Come avviene in questo carme, Pietro anticipa l’annunzio della glorificazione di Gesù per poi accennare alla Sua morte.
Egli lo fa rivolgendosi direttamente agli ascoltatori e accusandoli di averlo “consegnato e rinnegato di fronte a Pilato, mentre egli aveva deciso di liberarlo”.
Pietro evidenzia il fatto che Pilato aveva tentato di liberare Gesù concedendogli la grazia, che veniva data normalmente a un detenuto in occasione della Pasqua, mentre la folla aveva chiesto la liberazione di Barabba.
Dopo aver messo in luce la responsabilità dei presenti, Pietro sottolinea l’assurdità di quanto essi hanno compiuto: “voi invece avete rinnegato il Santo e il Giusto, e avete chiesto che vi fosse graziato un assassino” e così facendo hanno ucciso “l’autore della vita”.
L’appellativo di “giusto” attribuito a Gesù si riferisce ancora all’espressione del quarto carme del Servo (Is 53,11: “il giusto mio servo giustificherà molti”), mentre la santità è una prerogativa che compete a Dio stesso.
Con l’espressione “autore” della vita Pietro non vuole mettere qui Gesù sullo stesso piano di Dio, attribuendogli il ruolo di “creatore” della vita, ma semplicemente designarlo come colui che, ad immagine di Mosè, “porta alla vita”.
Per Pietro è importante sottolineare la scandalosa contrapposizione tra la grazia data a chi ha tolto la vita e l’uccisione di Colui che invece porta alla la vita.
Pietro prosegue affermando che Dio non ha abbandonato alla morte il santo e il giusto, l’autore della vita, ma l’ha risuscitato dai morti: riabilitandolo così agli occhi di tutti. Siccome però il fatto non poteva essere conosciuto dai presenti, Pietro aggiunge: “noi ne siamo testimoni”.
Con queste parole è riassunta in breve la testimonianza dei primi discepoli, ai quali Gesù si è fatto vedere dopo la Sua risurrezione.
Poi Pietro cerca di attenuare l’accusa fatta a chi lo ascoltava di aver ucciso l’autore della vita dicendo: “io so che voi avete agito per ignoranza, come pure i vostri capi..”. Ma proprio attraverso il loro crimine Dio ha compiuto quanto aveva fatto sapere per bocca di tutti i profeti, i quali avevano preannunziato la morte di Cristo.
In questo modo Pietro trasmette, senza portare alcun riferimento biblico, l’idea che Gesù era il Cristo promesso da Dio e che la Sua morte era stata preannunziata nelle Scritture.
Poi c’è l’esortazione finale: “Convertitevi dunque e cambiate vita, perché siano cancellati i vostri peccati”.
Per gli ascoltatori di Pietro questa conversione ha come scopo l’eliminazione dei “peccati”, non solo di quello compiuto uccidendo il santo e il giusto, ma di tutti i peccati che li tengono lontani da Dio.
Luca dà questa lettura della vicenda di Gesù alla luce delle Scritture perchè ritiene che sia pienamente comprensibile da parte dei giudei che, dopo essere stato coinvolti nella condanna dell’inviato di Dio, si possano sentire ora invitati a superare la loro ignoranza e ad accoglierlo come Colui da cui dipende la venuta della salvezza finale.

Salmo 4 - Risplenda su di noi, Signore, la luce del tuo volto.
Quando t’invoco, rispondimi,
Dio della mia giustizia!
Nell’angoscia mi hai dato sollievo;
pietà di me, ascolta la mia preghiera.

Sappiatelo,
il Signore fa prodigi per il suo fedele
Il Signore mi ascolta quando lo invoco

Molti dicono:
«Chi ci farà vedere il bene,
se da noi, Signore,
è fuggita la luce del tuo volto?».

In pace mi corico e subito di addormento,
perchè tu solo,Signore,
fiducioso mi fai risposare.

Il salmista guarda al triste spettacolo della durezza dei cuori, delle azioni di chi si avventura nelle strade della menzogna, e ne è insidiato. Il Signore gli è venuto in aiuto liberandolo dalle angosce allargandogli il cuore con la speranza, ma rimane ancora nel pericolo di essere travolto dagli ingiusti e chiede a Dio che esaudisca la sua preghiera.
Accerchiato dalle loro astuzie trova la forza di guardarli in faccia e di ammonirli dicendo loro l’inutilità del loro agire, poiché il Signore lo difenderà da loro. Li esorta pure, nella sua carità, a cambiare vita, a riflettere.
Il salmista ha nelle orecchie le parole degli scettici, che nell’incalzare delle azioni degli empi dicono: “Chi ci farà vedere il bene?”. Ma la fede del salmista è salda e invoca su tutti il suo sguardo di benevolenza.
Poi il salmista si rivolge a Dio con gratitudine per la gioia, la pace, la protezione, che gli ha comunicato.
Il salmo ha diversi passaggi d’animo. Da una preghiera ricca di supplica, che invoca pietà, il salmista passa ad una sfida-esortazione agli empi nella certezza dell’aiuto di Dio. Poi passa ad esortare gli empi al bene. Quindi rigetta lo scetticismo di tanti confermandosi nella fiducia in Dio: “In pace mi corico e subito mi addormento, perché tu solo, Signore, al sicuro mi fai riposare”.
La recita di questo salmo, che deve essere fatta in Cristo, il perfetto orante dei salmi, deve seguirne docilmente i passaggi
Commento di P.Paolo Berti

Dalla prima lettera di S.Giovanni apostolo
Figlioli miei, vi scrivo queste cose perché non pecchiate; ma se qualcuno ha peccato, abbiamo un Paràclito presso il Padre: Gesù Cristo, il giusto. È lui la vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo.
Da questo sappiamo di averlo conosciuto: se osserviamo i suoi comandamenti. Chi dice: «Lo conosco», e non osserva i suoi comandamenti, è bugiardo e in lui non c’è la verità. Chi invece osserva la sua parola, in lui l’amore di Dio è veramente perfetto.
1 Gv 2,1-5a

Lo stesso tema di annuncio di remissione dei peccati proclamato da Pietro, che è nel brano della prima lettura tratta dagli Atti degli Apostoli, lo troviamo in questo brano della prima lettera di Giovanni. Il perdono viene qui rappresentato in una scena magistrale. Sopra di noi c’è la figura di Dio che è giudice giusto delle ingiustizie umane; noi siamo di fronte a Lui, schiacciati dai nostri ripetuti peccati e umiliati dalle nostre infedeltà. Ma accanto a noi si accosta e si erge in nostra difesa un avvocato “Gesù Cristo, il giusto”. E’ Lui che ci protegge dalla collera divina, offrendo al Padre la Sua stessa vita come “vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo”.
Questa verità, esige però da parte nostra un atteggiamento di conversione fatta di pentimento per le nostre colpe e di impegno per una vera conoscenza di Dio, che si attua nella pratica dei suoi comandamenti, nello sforzo generoso di comportarsi come Gesù, modello perfetto di ogni cristiano.
Giovanni prosegue affermando: “Chi dice: «Lo conosco», e non osserva i suoi comandamenti, è bugiardo e in lui non c’è la verità. Chi invece osserva la sua parola, in lui l’amore di Dio è veramente perfetto.”
La Parola di Dio, non è tanto un messaggio culturale, quanto una proposta di vita, e la conoscenza di un dovere che, se non si trasforma in un impegno coerente di vita, ci rende automaticamente colpevoli.
Il comandamento più importante, quello che riassume tutti gli altri, è l’amore, e amare vuol dire donarsi, cercare il bene degli altri, fino a sacrificare il proprio tempo, i propri interessi, i propri gusti, la vita stessa, come Gesù che è morto per la salvezza di tutti. “Chi dice di dimorare in Cristo”, deve comportarsi veramente come Gesù si è comportato.

Dal Vangelo secondo Luca
In quel tempo, [i due discepoli che erano ritornati da Èmmaus] narravano [agli Undici e a quelli che erano con loro] ciò che era accaduto lungo la via e come avevano riconosciuto [Gesù] nello spezzare il pane.
Mentre essi parlavano di queste cose, Gesù in persona stette in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». Sconvolti e pieni di paura, credevano di vedere un fantasma. Ma egli disse loro: «Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho». Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi. Ma poiché per la gioia non credevano ancora ed erano pieni di stupore, disse: «Avete qui qualche cosa da mangiare?». Gli offrirono una porzione di pesce arrostito; egli lo prese e lo mangiò davanti a loro.
Poi disse: «Sono queste le parole che io vi dissi quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi». Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture e disse loro: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni».
Lc 24, 35-48

L’evangelista Luca presenta la resurrezione del Signore con il racconto del ritrovamento del sepolcro vuoto in linea con Marco e Matteo, poi prosegue riportando l’incontro di Gesù con i discepoli di Emmaus, infine come Matteo, riporta un’apparizione “ufficiale” di Gesù agli Undici e poi la Sua ascensione. (24,50-53)..
L’apparizione ai discepoli fa seguito all’episodio dei discepoli di Emmaus, che appena ritornati a Gerusalemme, vengono a sapere non solo che Gesù è veramente risorto, ma anche che è apparso a Simone (24,33-34). Solo dopo essi possono raccontare la loro esperienza, sottolineando che anche loro lo hanno incontrato e lo hanno riconosciuto allo spezzare del pane
Il brano inizia riportando che “Mentre essi parlavano di queste cose, Gesù in persona stette in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!»”. L’espressione “Pace a voi!” tipica del mondo ebraico (šalôm) ha qui un significato teologico in quanto indica il bene escatologico conquistato da Gesù con la Sua morte e resurrezione. I discepoli sono “sconvolti e pieni di paura, credevano di vedere un fantasma”. Ma Gesù li rimprovera per la loro incredulità e, per dissipare i loro dubbi dice loro “Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho»”. Essi però restano increduli, perché da una parte si sentono il cuore pieno di una grande gioia, mentre dall’altra sono pieni di stupore, a loro sembrava troppo bello per essere vero! Ma Gesù vedendo che la meraviglia di questi pescatori di Galilea era talmente grande, alla fine chiede loro “Avete qui qualche cosa da mangiare?”. Dopo che gli viene offerta una porzione di pesce arrostito, Gesù lo prese e lo mangiò davanti a loro.
La Sua è una duplice dimostrazione: che è vivo, che è vero e presente in carne ed ossa, non solo ma che può fare tutto: mangiare e non mangiare ed essere presente ovunque contemporaneamente. Poi, in sintonia con quanto detto sulla strada per Emmaus, Gesù continua: «Sono queste le parole che io vi dissi quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi». Poi apre loro la mente all'intelligenza delle Scritture e dice: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni».
Questa è l’ultima scena raccontata da Luca prima dell’ascensione di Gesù in cielo. Questa testimonianza dei primi discepoli è passata agli altri ed ora anche a noi oggi. Siamo tutti chiamati ad essere testimoni dell'avvenimento più importante, più sublime, più straordinario della storia umana: la Storia di un Dio che si fa uomo per morire con noi, come noi e peggio di noi, per risorgere prima di noi e precederci in una vita nuova, in un Regno che non avrà mai fine.

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"Nelle Letture bibliche della liturgia di oggi risuona per due volte la parola “testimoni”. La prima volta è sulle labbra di Pietro: egli, dopo la guarigione del paralitico presso la porta del tempio di Gerusalemme, esclama: «Avete ucciso l’autore della vita, ma Dio l’ha risuscitato dai morti: noi ne siamo testimoni» (At 3,15).
La seconda volta è sulle labbra di Gesù risorto: Egli, la sera di Pasqua, apre la mente dei discepoli al mistero della sua morte e risurrezione e dice loro: «Di questo voi siete testimoni» (Lc 24,48). Gli Apostoli, che videro con i propri occhi il Cristo risorto, non potevano tacere la loro straordinaria esperienza. Egli si era mostrato ad essi affinché la verità della sua risurrezione giungesse a tutti mediante la loro testimonianza. E la Chiesa ha il compito di prolungare nel tempo questa missione; ogni battezzato è chiamato a testimoniare, con le parole e con la vita, che Gesù è risorto, che Gesù è vivo e presente in mezzo a noi. Tutti noi siamo chiamati a dare testimonianza che Gesù è vivo.
Possiamo domandarci: ma chi è il testimone? Il testimone è uno che ha visto, che ricorda e racconta. Vedere, ricordare e raccontare sono i tre verbi che ne descrivono l’identità e la missione. Il testimone è uno che ha visto, con occhio oggettivo, ha visto una realtà, ma non con occhio indifferente; ha visto e si è lasciato coinvolgere dall’evento. Per questo ricorda, non solo perché sa ricostruire in modo preciso i fatti accaduti, ma anche perché quei fatti gli hanno parlato e lui ne ha colto il senso profondo. Allora il testimone racconta, non in maniera fredda e distaccata, ma come uno che si è lasciato mettere in questione, e da quel giorno ha cambiato vita. Il testimone è uno che ha cambiato vita.
Il contenuto della testimonianza cristiana non è una teoria, non è un’ideologia o un complesso sistema di precetti e divieti oppure un moralismo, ma è un messaggio di salvezza, un evento concreto, anzi una Persona: è Cristo risorto, vivente e unico Salvatore di tutti. Egli può essere testimoniato da quanti hanno fatto esperienza personale di Lui, nella preghiera e nella Chiesa, attraverso un cammino che ha il suo fondamento nel Battesimo, il suo nutrimento nell’Eucaristia, il suo sigillo nella Confermazione, la sua continua conversione nella Penitenza. Grazie a questo cammino, sempre guidato dalla Parola di Dio, ogni cristiano può diventare testimone di Gesù risorto. E la sua testimonianza è tanto più credibile quanto più traspare da un modo di vivere evangelico, gioioso, coraggioso, mite, pacifico, misericordioso. Se invece il cristiano si lascia prendere dalle comodità, dalla vanità, dall’egoismo, se diventa sordo e cieco alla domanda di “risurrezione” di tanti fratelli, come potrà comunicare Gesù vivo, come potrà comunicare la potenza liberatrice di Gesù vivo e la sua tenerezza infinita?
Maria nostra Madre ci sostenga con la sua intercessione, affinché possiamo diventare, con i nostri limiti, ma con la grazia della fede, testimoni del Signore risorto, portando alle persone che incontriamo i doni pasquali della gioia e della pace."
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 19 aprile 2015

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Pro Memoria

L'umanità è una grande e  immensa famiglia ... Troviamo la dimostrazione di ciò da quello che ci sentiamo nei nostri cuori a Natale.
(Papa Giovanni XXIII)

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