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S.Messe (settimana)
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Le letture liturgiche di questa domenica sono all’insegna di un grande simbolo biblico, quello della rivelazione-manifestazione gloriosa di Dio all’interno della storia umana. Il tempo quaresimale è tempo di penitenza, di attesa, di fede, di preghiera e le letture liturgiche ci offrono testi su cui meditare.
Nella prima lettura, tratta dal Libro della Genesi, vediamo che Dio stipula l’alleanza con Abramo. E’ Dio stesso che prende l’iniziativa e si manifesta ad Abramo, facendogli una promessa e stabilendo con lui un’alleanza.
Nella seconda lettura, S. Paolo nella sua lettera ai Filippesi afferma che la trasfigurazione di Gesù è figura e promessa della nostra trasfigurazione con Lui. “il Signore Gesù trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso”.
Nel Vangelo di Luca, con la sua gloriosa trasfigurazione Gesù ci invita a meditare sulla Sua prossima morte; lo fa per ricordarci che la Sua morte è l’antefatto della Sua risurrezione.
Morte e vita, penitenza e rigenerazione, Quaresima e Pasqua, Purgatorio e Paradiso, fede e salvezza, giustizia e amore, peccato e grazia sono i contrapposti binomi su cui si fondano la coscienza, l’esperienza e la speranza cristiana.

Dal libro della Gènesi
In quei giorni, Dio condusse fuori Abram e gli disse: «Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle» e soggiunse: «Tale sarà la tua discendenza». Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia.
E gli disse: «Io sono il Signore, che ti ho fatto uscire da Ur dei Caldei per darti in possesso questa terra». Rispose: «Signore Dio, come potrò sapere che ne avrò il possesso?». Gli disse: «Prendimi una giovenca di tre anni, una capra di tre anni, un ariete di tre anni, una tortora e un colombo». Andò a prendere tutti questi animali, li divise in due e collocò ogni metà di fronte all’altra; non divise però gli uccelli. Gli uccelli rapaci calarono su quei cadaveri, ma Abram li scacciò. Mentre il sole stava per tramontare, un torpore cadde su Abram, ed ecco terrore e grande oscurità lo assalirono.
Quando, tramontato il sole, si era fatto buio fitto, ecco un braciere fumante e una fiaccola ardente passare in mezzo agli animali divisi. In quel giorno il Signore concluse quest’alleanza con Abram:
“Alla tua discendenza io do questa terra, dal fiume d’Egitto al grande fiume,il fiume Eufrate”.
Gen 15,5-12.17-18

Il Libro della Genesi (in ebraico בראשית bereshìt, "in principio"), è il primo libro del Pentateuco (cinque libri; in origine tutti in un unico rotolo: la Tôrah), e tratta delle origini dell’universo, del genere umano del peccato originale, della storia dei patriarchi prediluviani, della chiamata di Abramo fino alla morte di Giacobbe. È stato scritto in ebraico e, secondo gli esperti, la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte. Nei primi 11, dei suoi 50 capitoli, descrive la cosiddetta "preistoria biblica" (creazione, peccato originale, diluvio universale), e nei rimanenti la storia dei patriarchi, Abramo, Isacco, Giacobbe-Israele e di Giuseppe, le cui vite si collocano nel vicino oriente del II millennio a.C. (attorno al 1800-1700 a.C).
Con la chiamata di Abramo (Gn 12,1-9) Dio inizia una fase nuova della storia della salvezza. Essa è accompagnata da una "benedizione": "in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra". La promessa della discendenza "Farò di te un grande popolo” si completa con una seconda promessa: "Tutto il paese che tu vedi lo darò a te e alla tua discendenza per sempre" (13,15).
In questo brano il Signore, rispondendo ad Abramo, che si lamenta di non avere figli, gli assicura un erede: “Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle… Tale sarà la tua discendenza”. L’erede sarà dunque un figlio di Abram, e da lui nascerà una discendenza numerosa come le stelle del cielo. Dio non dà ad Abram nessuna garanzia, se non la sua parola. Di fronte a questa promessa , Abram “credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia”. Alla promessa di Dio, Abram risponde con la fede.
Il Signore rinnova inoltre ad Abram la promessa di dargli la terra di Canaan, e alla richiesta di Abram di una garanzia, Dio gli dice di sacrificare alcuni animali, di dividerli ciascuno in due parti e di disporle l’una di fronte all’altra. Si tratta dei preparativi per un arcaico rito di alleanza, nel quale ciascuno dei due contraenti deve passare attraverso le vittime squartate, scongiurando le divinità di riservargli, in caso di infedeltà agli impegni presi, la sorte toccata a esse. Finiti i preparativi Abram cade in un profondo torpore accompagnato da terrore, segno dello smarrimento provocato nell’uomo dalla presenza di Dio.
Il brano termina con il commento: In quel giorno il Signore concluse quest’alleanza con Abram, e le parole di Dio : “Alla tua discendenza io do questa terra, dal fiume d’Egitto al grande fiume,il fiume Eufrate”
La fiaccola ardente che passa tra le vittime spezzate rappresenta DIO stesso che in questo modo “conclude” un’alleanza con Abram, in base alla quale si impegna ad attuare la promessa di dare la terra di Canaan non tanto a lui ma alla sua discendenza. Il fatto che Dio solo passi fra le parti degli animali indica il carattere unilaterale e gratuito dell’alleanza. Per Abram questo è un segno che conferma in modo indiscutibile l’attuazione di quanto Dio gli aveva promesso.
Il racconto dell’alleanza tra DIO e Abramo mette in luce come la fede sia la caratteristica fondamentale di Abramo. Questa fede non consiste nell’accettazione di particolari concezioni religiose, ma nell’adesione al piano di Dio che da lui vuole far nascere un grande popolo.
Nonostante la piena disponibilità di Abramo alla chiamata di Dio, la sua fede non è sempre stata all’altezza delle aspettative divine. Diverse volte egli viene meno, cercando soluzioni umane alla dolorosa situazione in cui si trovava, a motivo della sterilità di Sara. Ma Dio non lo abbandona e sempre il patriarca trova la forza di rialzarsi e di riprendere il suo cammino. Nella sua alleanza con DIO questa fede emerge come la scelta fondamentale che ispira tutta la sua vita. Egli diventa così il modello di Israele che, nonostante le sue frequenti infedeltà, resta legato a DIO e trae spunto anche dalle proprie cadute per rafforzare la sua fede.
San Paolo, proprio in forza della sua fede, nella lettera ai Romani, prenderà ad esempio Abramo come modello anche per i cristiani (V. Rm 4).
Salmo 26- Il Signore è mia luce e mia salvezza.

Il Signore è mia luce e mia salvezza:
di chi avrò timore?
Il Signore è difesa della mia vita:
di chi avrò paura?

Ascolta, Signore, la mia voce.
Io grido: abbi pietà di me, rispondimi!
Il mio cuore ripete il tuo invito:
«Cercate il mio volto!».
Il tuo volto, Signore, io cerco.

Non nascondermi il tuo volto,
non respingere con ira il tuo servo.
Sei tu il mio aiuto, non lasciarmi,
non abbandonarmi, Dio della mia salvezza.

Sono certo di contemplare la bontà del Signore
nella terra dei viventi.
Spera nel Signore, sii forte,
si rinsaldi il tuo cuore e spera nel Signore.

"Il Signore è mia luce”, dice il salmista. La luce è fonte di vita, fa vedere le cose, dona letizia e il salmista trova in Dio la sua luce, la sua sorgente di letizia, la sua conoscenza delle cose. E il Signore è pure sua salvezza assistendolo contro i nemici, che altrimenti prevarrebbero su di lui e gli strazierebbero la carne, tanto lo odiano. Ma col Signore non vede perché dovrebbe avere paura: “Di chi avrò timore;... di chi avrò paura?”.
E’ tanto sicuro nel Signore che se anche un esercito si accampasse contro di lui il suo cuore non temerebbe, e se si arrivasse alla battaglia e ne fosse nel folto anche allora avrebbe fiducia di vincere.
Egli non ha ambizioni di potere, di onori e ricchezze. Ha chiesto una sola cosa al Signore e questa sola cerca: “Abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita”. Noi chiediamo di vivere sempre centrati nell’Eucaristia, nella viva appartenenza alla Chiesa, in ammirazione della sua bellezza di pace, di carità, di fede, di speranza, di sacrificio, di testimonianza, di operosità instancabile.
“La casa del Signore” è per il salmista il luogo di rifugio offertogli dal Signore nel giorno della sventura, quando c’è la prova, la tribolazione. In essa si sente protetto, come nascosto, dalla turba degli uomini, e nello stesso tempo come posto su di una rupe inattaccabile.
Confortato nella casa del Signore non è pavido, ma in pieno sole rialza la testa da vincente; ha il coraggio di lottare certo della vittoria, che celebrerà nell’esultanza: “Immolerò nella sua tenda sacrifici di vittoria”. Noi non immoleremo tori o capri, bensì faremo offerte dei risultati del superamento del giorno in cui eravamo prossimi alla rovina, e faremo banchetti con i fratelli poveri.
Il salmista ritorna sulla sua situazione di dolore, trovando sempre conforto nella fede.
Umile, non può che presentarsi come reo di molti peccati davanti al Signore e chiede di non essere respinto con ira da Signore.
Egli ha un programma: “Cercare il volto del Signore”, per conoscerlo sempre di più e così sempre di più amarlo. E, ancora, cerca il volto del Signore per riceverne la volontà e la benevolenza. Il salmista mostra le sue ferite passate, la sua storia di dolore: “Mio padre e mia madre mi hanno abbandonato, ma il Signore mi ha raccolto”.
Ora è saldo e sicuro, ma insidiato da falsi testimoni che lo vogliono trascinare in giudizio e per questo diffondono negli animi violenza contro di lui. Ma anche se costoro avessero da prevalere egli è certo di “contemplare la bontà del Signore nella terra dei viventi”; nel cielo e poi un giorno nella risurrezione, nella creazione rinnovata.
Commento tratto da Perfetta Letiziai

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Filippési
Fratelli, fatevi insieme miei imitatori e guardate quelli che si comportano secondo l’esempio che avete in noi. Perché molti – ve l’ho già detto più volte e ora, con le lacrime agli occhi, ve lo ripeto – si comportano da nemici della croce di Cristo.
La loro sorte finale sarà la perdizione, il ventre è il loro dio. Si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi e non pensano che alle cose della terra. La nostra cittadinanza infatti è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, in virtù del potere che egli ha di sottomettere a sé tutte le cose.
Perciò, fratelli miei carissimi e tanto desiderati, mia gioia e mia corona, rimanete in questo modo saldi nel Signore, carissimi!
Fil 3,17-4,1

La Lettera ai Filippesi è stata scritta da Paolo fra il 53 e il 62, mentre si trovava in carcere, probabilmente durante la sua detenzione a Efeso, ed è ispirata da sentimenti di amicizia per la comunità cristiana di Filippi, la prima fondata da Paolo in Europa e con la quale l'apostolo aveva un legame particolarmente armonico e affettuoso. Filippi è una città nel nord della Grecia, situata a circa 15 chilometri dal mare, e i cristiani di questa comunità erano prevalentemente di origine pagana, e questo lo si deduce dal fatto che nella lettera Paolo, a parte una breve allusione, non cita mai l'Antico Testamento. Nella lettera non vengono trattati grandi temi, né vengono risolte particolari questioni: l'apostolo vuole semplicemente informare i filippesi della sua situazione, ringraziarli per l'attenzione dimostrata nei suoi confronti ed esortarli a proseguire sulla via dell'amore evangelico.
In questo brano Paolo ci parla della trasfigurazione che attende anche noi e si realizzerà quando Gesù verrà nella gloria. In questo terzo capitolo della lettera, Paolo attacca duramente alcuni missionari giudeo-cristiani che all'interno della comunità di Filippi avevano riportato le usanze della religione israelitica (specialmente la circoncisione) e che si ritenevano perfetti.
“Fratelli, fatevi insieme miei imitatori e guardate quelli che si comportano secondo l’esempio che avete in noi.”
Paolo nei versetti precedenti aveva parlato della sua esperienza. Da fiero membro del popolo di Israele, grazie all'incontro con Cristo ha cambiato completamente il suo modo di vedere le cose, non si sente un arrivato, ma si sforza di seguire il suo modello, Gesù, al fine di poter rimanere sempre con Lui. Perciò Paolo chiede ai Filippesi di imitare l'esempio suo e di quelli che hanno predicato con lui il vangelo. Anche lui, Paolo ha imitato gli apostoli: c'è una catena di imitatori, un esempio che si passa da credente a credente, che aiuta tutti a raggiungere la vera meta.
“Perché molti – ve l’ho già detto più volte e ora, con le lacrime agli occhi, ve lo ripeto – si comportano da nemici della croce di Cristo”.
Una sola è la via da seguire. Le altre sono da evitare, poiché vi sono alcuni che cercano proseliti e presentano una religiosità che può sembrare seria, ma che in realtà è contro la croce di Cristo, contro il Suo vangelo. Paolo parla di lacrime, è estremamente accorato perché vede il grande danno fatto da questi predicatori che riportano i credenti a pratiche religiose inutili che non portano alla salvezza.
“La loro sorte finale sarà la perdizione, il ventre è il loro dio. Si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi e non pensano che alle cose della terra.”
Di fatto questi andranno in perdizione, poiché non si aprono alla vera via della salvezza.
Le parole di condanna di Paolo sono certamente dure quando dicono che essi hanno per Dio il loro ventre, perché si fermano alle osservanze alimentari giudaiche, che riguardano appunto solo il ventre. Si vantano di essere perfetti perché seguono queste prescrizioni, ma dovrebbero vergognarsene, poiché in fondo si tratta solo di cose esteriori, solo questioni pratiche, materiali.
“La nostra cittadinanza infatti è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo” (*)
Chi è cristiano invece ha ben altro a cui guardare. Vive certamente le cose della terra, ma come se abitasse in terra straniera, con il cuore e il desiderio volto alla vera patria. Questa patria è nei cieli, quindi il credente si apre con la fede al mondo della grazia di Dio. La speranza e la gioia cristiana sono fisse in Lui. C'è un'attesa, ma c'è già un'anticipazione di questa pienezza, della salvezza che Gesù ci ha portato.
“il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, in virtù del potere che egli ha di sottomettere a sé tutte le cose.”
Come risorto Gesù possiede la stessa potenza divina di Signore dell'universo e a Lui ci si può affidare. Sarà proprio Lui a trasfigurare il nostro corpo mortale per renderci partecipi della sua gloria.
“Perciò, fratelli miei carissimi e tanto desiderati, mia gioia e mia corona, rimanete in questo modo saldi nel Signore, carissimi! “
Chiudendo la sua esortazione, Paolo chiama i Filippesi fratelli carissimi. Egli era molto affezionato alla comunità di Filippi perchè veramente in questa comunità aveva trovato una fede viva, molto affetto e soddisfazioni apostoliche. Erano la sua gioia e la sua corona, quindi sarebbe stato duro per lui perdere una comunità così fervente solo per un nostalgico ritorno alle consuetudini antiche. Egli ricorda dunque loro di rimanere saldi e di non lasciarsi sviare.

(*) Nella lettera a Diogneto, un testo cristiano di autore anonimo, risalente probabilmente alla fine del II secolo, viene approfondito questo concetto: (i cristiani) Vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è straniera …. . Dimorano nella terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo. . Obbediscono alle leggi stabilite, e con la loro vita superano le leggi. ..Sono poveri, e fanno ricchi molti; mancano di tutto, e di tutto abbondano.
…. A dirla in breve, come è l'anima nel corpo, così nel mondo sono i cristiani. L'anima è diffusa in tutte le parti del corpo e i cristiani nelle città della terra. L'anima abita nel corpo, ma non è del corpo; i cristiani abitano nel mondo, ma non sono del mondo. L'anima invisibile è racchiusa in un corpo visibile; i cristiani si vedono nel mondo, ma la loro religione è invisibile.

Dal vangelo secondo Luca
In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare. Mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante. Ed ecco, due uomini conversavano con lui: erano Mosè ed Elìa, apparsi nella gloria, e parlavano del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme. Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno; ma, quando si svegliarono, videro la sua gloria e i due uomini che stavano con lui. Mentre questi si separavano da lui, Pietro disse a Gesù: «Maestro, è bello per noi essere qui. Facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elìa». Egli non sapeva quello che diceva.
Mentre parlava così, venne una nube e li coprì con la sua ombra. All’entrare nella nube, ebbero paura. E dalla nube uscì una voce, che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!».
Appena la voce cessò, restò Gesù solo. Essi tacquero e in quei giorni non riferirono a nessuno ciò che avevano visto.
Lc 9: 28b-36

Con il Vangelo della prima Domenica di Quaresima, che raccontava le tentazioni di Gesù nel deserto, Luca ci vuol dire che le tentazioni non sono un limitato periodo della vita di Gesù, ma tutta la Sua vita è stata sotto il segno di tentazioni, di seduzioni, sia da parte di scribi, farisei, del popolo, ma anche da parte dei componenti della Sua comunità, il gruppo dei discepoli.
E’ ciò che l’evangelista ci afferma con la narrazione della trasfigurazione che inizia riportando:
“Gesù prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare”. Luca non dice di quale monte si tratti, a lui interessa solo indicare con il monte un luogo adatto alla preghiera, sia per la solitudine che vi regna, sia perché il monte è simbolo del luogo più vicino a Dio, che metaforicamente abita nei cieli. Questo monte è stato identificato con il Tabor, situato nei pressi di Nazareth, o con l’Hermon, nel Libano meridionale; in senso simbolico indica comunque il luogo in cui Dio si rivela al suo popolo.
Luca prosegue : “Mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante” poi all'improvviso Gesù non è più solo: “Ed ecco, due uomini conversavano con lui: erano Mosè ed Elìa, apparsi nella gloria, e parlavano del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme.” Diversamente da Marco, Luca segnala anche che Mosè ed Elia parlavano con Gesù degli eventi che avrebbero avuto luogo a Gerusalemme. L’allusione è chiaramente alla morte e alla risurrezione di Gesù, che vengono sintetizzate con l’espressione “suo esodo”. C’è qui anche il riferimento all’esodo degli israeliti dall’Egitto, che troverà nella morte e risurrezione di Gesù il suo compimento. Non stupisce il fatto che siano Mosè ed Elia a parlare con Gesù di questo, in quanto per Luca, Mosè e i profeti avevano predetto la sofferenza di Gesù.
”Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno; ma, quando si svegliarono, videro la sua gloria e i due uomini che stavano con lui.” I discepoli appesantiti dal sonno sta ad indicare che quando l’uomo è di fronte ad una rivelazione di Dio, non riesce a percepire con chiarezza quello che ha di fronte. Questo “sonno” è il segno di un mistero nel quale i discepoli stanno entrando lentamente. Vedono, ma non vedono tutto o non capiscono con chiarezza. Come era capitato ad Abramo, quando il Signore ha fatto alleanza con lui (v.1 lettura ), come era capitato ad Adamo, quando il Signore ha creato la donna e ha fatto scendere su di lui un torpore perché si addormentasse e non fosse testimone del come Dio compie le sue opere (Gen 2, 21). L’agire di Dio rimane e rimarrà sempre misterioso. I due sonni, quello che i discepoli avranno nel Getsemani e questo, sono piuttosto strani: nel Getsemani i discepoli si addormentano per la tristezza, qui sono appesantiti dal sonno, ma stanno svegli.
Sotto l’influsso di questa esperienza soprannaturale Pietro interviene e fa una proposta: “Maestro, è bello per noi essere qui. Facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elìa”.
Il termine “tenda” richiama la "Tenda dell'Arca dell’Alleanza", che fungeva da tempio durante il cammino di Israele nel deserto e indicava la presenza di Dio in mezzo al suo popolo. Essa esprimeva una sorta di luogo fisico in cui Dio si rendeva presente. È proprio questo che Pietro chiede a Gesù: di rendere anche fisicamente presente la gloria di Dio, così tutti avrebbero creduto.
Con questo suo intervento, Pietro ha colto correttamente la rivelazione della gloria di Dio in Gesù, ha colto la profezia della risurrezione e vorrebbe insediarsi nel mistero della risurrezione, vorrebbe abitare lì dove c’è la pienezza della gloria, ma il problema è che quella realtà della gloria giunge solo al termine del cammino della croce, quindi bisogna percorrere il cammino della croce per arrivarci, non ci si può arrivare evitando il cammino della sofferenza, di non prendere la propria croce per seguire il Signore. Perché quanto sta sperimentando è la gloria, ma legata alla croce e Pietro non se ne rende conto. Infatti Luca subito commenta che Pietro “non sapeva quello che diceva”. Dopo aver visto la gloria di Gesù i discepoli fanno un’altra esperienza straordinaria: “Mentre parlava così, venne una nube e li avvolse; all'entrare in quella nube, ebbero paura”.
Nel mondo biblico la nube sta ad indicare la presenza di Dio ed esprime una teofania, cioè una manifestazione divina. Questa nube che sul monte indicava la Dimora di Dio passò sul tabernacolo costruito da Mosè nel deserto (Es 40,34-35) e, nell’ora della dedicazione del Tempio, riempì il Santo (1Re 8,10-12). Questa nube è dunque la Presenza di Dio, letta dalla tradizione rabbinica come Presenza attraverso lo Spirito santo, è la gloria stessa di Dio. Dove c’è questa nube lì Dio è presente; ma naturalmente la nube nasconde, vela, impedisce di vedere in modo perfetto e pieno. Ed è questa la percezione della gloria di Dio che ci viene donata fino a che siamo sulla terra: il Signore c’è e la sua gloria è presente, ma nello stesso tempo è una gloria velata che non possiamo contemplare senza la fede.
Il racconto di Luca raggiunge il suo culmine con l’intervento diretto di Dio: “E dalla nube uscì una voce, che diceva: Questi è il Figlio mio, l'eletto; ascoltatelo”.
La nube che vela è anche la nube che rivela: una voce che dichiara Gesù l’eletto. Al centro della trasfigurazione c’è una proclamazione di fede; è la rivelazione dell’identità di Gesù fatta da Dio stesso: un riconoscimento di un legame unico di intimità e di comunione che lega quell’uomo, Gesù di Nazareth, a Dio; quell’uomo è “l’eletto di Dio”, l’unico; è colui nel quale Dio, come Padre, si riconosce: “è il Figlio mio, l'eletto ”. Qui si riprende la stessa rivelazione avvenuta al Battesimo (3, 21-22), ma seguita dall'imperativo: “ascoltatelo”. .
“Appena la voce cessò, restò Gesù solo”. L'evangelista sembra voler sottolineare questo restar solo di Gesù, questa sua solitudine. “Solo” vuol dire anzitutto senza la presenza di Mosè e di Elia; e quindi senza la presenza di quella consolazione che la presenza di Mosè ed Elia portava. “Solo” vuol dire anche che la voce risuonata dal cielo scompare e con la voce anche la visione celeste. Ciò che rimane è Gesù, il frutto di questa voce. Gesù, qui, è associato alla voce celeste, anzi, è Lui la voce del Padre venuta dal cielo; Lui il Verbo eterno del Padre in cui questa voce continua a risuonare. Gesù deve iniziare il suo cammino verso Gerusalemme; questo cammino lo farà rafforzato dalle consolazioni del Padre; e tuttavia lo farà da solo, col peso della croce dove la sofferenza è ben presente e sperimentabile, la gloria invece è futura e affidata unicamente alla fedeltà di Dio.
“Essi tacquero e in quei giorni non riferirono a nessuno ciò che avevano visto”.
Di fronte ad un evento sovrannaturale, alla comprensione di una presenza divina in cui si sta attuando il progetto di Dio, da secoli nascosto agli uomini, ma ora reso presente e rivelato in Gesù, l'uomo non può che tacere. Di fronte ad un Dio che parla l'uomo non può che tacere. Il silenzio si addice di fronte al mistero che si compie.

 

*****

“In questa seconda domenica di Quaresima, la liturgia ci fa contemplare l’evento della Trasfigurazione, nel quale Gesù concede ai discepoli Pietro, Giacomo e Giovanni di pregustare la gloria della Risurrezione: uno squarcio di cielo sulla terra.
L’evangelista Luca ci mostra Gesù trasfigurato sul monte, che è il luogo della luce, simbolo affascinante della singolare esperienza riservata ai tre discepoli. Essi salgono col Maestro sulla montagna, lo vedono immergersi in preghiera, e a un certo punto «il suo volto cambiò d’aspetto». Abituati a vederlo quotidianamente nella semplice sembianza della sua umanità, di fronte a quel nuovo splendore, che avvolge anche tutta la sua persona, rimangono stupiti. E accanto a Gesù appaiono Mosè ed Elia, che parlano con Lui del suo prossimo “esodo”, cioè della sua Pasqua di morte e risurrezione. È un anticipo della Pasqua. Allora Pietro esclama: «Maestro, è bello per noi essere qui» . Vorrebbe che quel momento di grazia non finisse più!
La Trasfigurazione si compie in un momento ben preciso della missione di Cristo, cioè dopo che Lui ha confidato ai discepoli di dover «soffrire molto, […] venire ucciso e risuscitare il terzo giorno». Gesù sa che loro non accettano questa realtà – la realtà della croce, la realtà della morte di Gesù –, e allora vuole prepararli a sopportare lo scandalo della passione e della morte di croce, perché sappiano che questa è la via attraverso la quale il Padre celeste farà giungere alla gloria il suo Figlio, risuscitandolo dai morti. E questa sarà anche la via dei discepoli: nessuno arriva alla vita eterna se non seguendo Gesù, portando la propria croce nella vita terrena. Ognuno di noi, ha la propria croce. Il Signore ci fa vedere la fine di questo percorso che è la Risurrezione, la bellezza, portando la propria croce.
Dunque, la Trasfigurazione di Cristo ci mostra la prospettiva cristiana della sofferenza. Non è un sadomasochismo la sofferenza: essa è un passaggio necessario ma transitorio. Il punto di arrivo a cui siamo chiamati è luminoso come il volto di Cristo trasfigurato: in Lui è la salvezza, la beatitudine, la luce, l’amore di Dio senza limiti. Mostrando così la sua gloria, Gesù ci assicura che la croce, le prove, le difficoltà nelle quali ci dibattiamo hanno la loro soluzione e il loro superamento nella Pasqua. Perciò, in questa Quaresima, saliamo anche noi sul monte con Gesù! Ma in che modo? Con la preghiera. Saliamo al monte con la preghiera: la preghiera silenziosa, la preghiera del cuore, la preghiera sempre cercando il Signore. Rimaniamo qualche momento in raccoglimento, ogni giorno un pochettino, fissiamo lo sguardo interiore sul suo volto e lasciamo che la sua luce ci pervada e si irradi nella nostra vita.
Infatti l’Evangelista Luca insiste sul fatto che Gesù si trasfigurò «mentre pregava». Si era immerso in un colloquio intimo con il Padre, in cui risuonavano anche la Legge e i Profeti – Mosè ed Elia – e mentre aderiva con tutto Sé stesso alla volontà di salvezza del Padre, compresa la croce, la gloria di Dio lo invase trasparendo anche all’esterno.
È così, fratelli e sorelle: la preghiera in Cristo e nello Spirito Santo trasforma la persona dall’interno e può illuminare gli altri e il mondo circostante. Quante volte abbiamo trovato persone che illuminano, che emanano luce dagli occhi, che hanno quello sguardo luminoso! Pregano, e la preghiera fa questo: ci fa luminosi con la luce dello Spirito Santo.
Proseguiamo con gioia il nostro itinerario quaresimale. Diamo spazio alla preghiera e alla Parola di Dio, che abbondantemente la liturgia ci propone in questi giorni. La Vergine Maria ci insegni a rimanere con Gesù anche quando non lo capiamo e non lo comprendiamo. Perché solo rimanendo con Lui vedremo la sua gloria.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 17 marzo 2019

Pubblicato in Liturgia

Da mercoledì scorso, con la liturgia delle ceneri, è iniziata la quaresima, tempo che ci riporta alla sostanza dell’esistenza cristiana invitandoci a intensificare nella preghiera e nella penitenza il cammino per la preparazione alla Pasqua di risurrezione.
Nella prima lettura, tratta dal Libro del Deuteronomio, ci viene proposto il più antico credo di Israele, in cui nel rito dell’offerta delle primizie, il popolo ricordava il grandioso intervento divino che lo liberò dall’umiliazione e dalla schiavitù d’Egitto per introdurlo nella Terra promessa.
Nella seconda lettura, nella sua lettera ai Romani, Paolo ci rassicura che “non c’è distinzione tra giudeo e greco”, dato che Gesù Cristo è il Signore di tutti, infatti “chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato”. Invocare il Signore in spirito di penitenza e umiltà significa ravvivare la propria fede: una fede da vivere con sincerità interiore ma anche con il coraggio di testimoniarla. .
Nel brano del Vangelo, Luca racconta che all’inizio della sua missione Gesù fu tentato da Satana, che lo invitava a salvare il mondo, obbedendo ad aspirazioni del tutto umane e non in sintonia con la volontà di Dio. Ma Gesù sul pinnacolo del tempio dichiara il suo “si” definitivo al Padre, diventando anche per tutti i suoi seguaci, di ogni tempo e di ogni luogo, l’emblema luminoso dell’adesione piena e totale Dio.

Dal libro del Deuteronòmio
Mosè parlò al popolo e disse:
«Il sacerdote prenderà la cesta dalle tue mani e la deporrà davanti all’altare del Signore, tuo Dio, e tu pronuncerai queste parole davanti al Signore, tuo Dio:
“Mio padre era un Aramèo errante; scese in Egitto, vi stette come un forestiero con poca gente e vi diventò una nazione grande, forte e numerosa. Gli Egiziani ci maltrattarono, ci umiliarono e ci imposero una dura schiavitù. Allora gridammo al Signore, al Dio dei nostri padri, e il Signore ascoltò la nostra voce, vide la nostra umiliazione, la nostra miseria e la nostra oppressione; il Signore ci fece uscire dall’Egitto con mano potente e con braccio teso, spargendo terrore e operando segni e prodigi. Ci condusse in questo luogo e ci diede questa terra, dove scorrono latte e miele. Ora, ecco, io presento le primizie dei frutti del suolo che tu, Signore, mi hai dato”.
Le deporrai davanti al Signore, tuo Dio, e ti prostrerai davanti al Signore, tuo Dio».
Dt 26,4-10

Il Deuteronomio è il quinto libro del Pentateuco ed essendo l’ultimo, ha la funzione di concludere la storia delle origini di Israele, e di fornire una sintesi delle tradizioni di fede contenute nella Torah. È stato scritto in ebraico intorno al VI-V secolo a.C. in Giudea, secondo l'ipotesi condivisa da molti studiosi. È composto da 34 capitoli descriventi la storia degli Ebrei durante il loro soggiorno nel deserto del Sinai (circa 1200 a.C.) e contiene varie leggi religiose e sociali.
Il nome “Deuteronomio”, come per gli altri libri del Pentateuco, viene dalla traduzione greca dei Settanta, e significa “seconda legge”. Tale titolo è preso da Dt 17,18, dove l’espressione ebraica che vuol dire “ una copia della legge (che il re è tenuto a trascrivere) venne erroneamente tradotta con “una seconda legge”.. Il titolo del libro secondo la tradizione ebraica è invece “Parole”, termine con cui inizia appunto il libro.
Dopo la Prima Legge, data da Dio sul Sinai, il Deuteronomio (Deuteros nomos) si presenta come la "Seconda Legge” la nuova Legge che Mosè consegna al popolo poco prima di morire. Questi nuovi precetti sono orientati a regolare la vita stabile, sedentaria, che di lì a poco il popolo d'Israele avrebbe iniziato all'arrivo alla Terra Promessa. Ciononostante, queste leggi sono stilate con grande affetto, animando il compimento della Legge con motivi teologici.
Il Deuteronomio ci consente di comprendere che cos’è il popolo di Dio, di cogliere quanto l’Alleanza che unisce a Dio, comporta un insieme di ricchezza e di esigenza: essa è un dono gratuito e appello pressante che bisogna vivere nelle realtà concrete.
Il Deuteronomio richiama continuamente il credente a quelli che sono gli atteggiamenti fondamentali: una fede che si fa sempre più profonda, un amore di Dio che esclude ogni compromesso, un servizio di Dio prestato con gioia, e una accettazione reale e fiduciosa delle realtà terrestri.
Il capitolo 26 da dove è tratto il brano, è uno dei testi strategici della storia d’Israele. Alla vigilia dell’ingresso nella terra promessa nelle parole che Mosè rivolge al popolo, troviamo formulata liturgicamente e tramandata la confessione di fede del popolo di Dio.
Nei versetti precedenti non riportati dal brano, Mose aveva detto rivolgendosi al popolo: “E quando sarai entrato” nel paese che l’Eterno, il tuo Dio, ti dà come eredità, e lo possederai e ti ci starai stabilito, prenderai le primizie di tutti i frutti del suolo da te raccolti nel paese che l’Eterno, il tuo Dio, ti dà, “le metterai in una cesta e andrai al luogo che il Signore, tuo Dio, avrà scelto per stabilirvi il suo nome- non in un luogo che essi potrebbero scegliere, o altri per loro, ma che il Signore ha scelto per loro -
“Ti presenterai al sacerdote in carica in quei giorni e gli dirai:“Io dichiaro oggi al Signore, tuo Dio, che sono entrato nella terra che il Signore ha giurato ai nostri padri di dare a noi”. L’israelita non offriva la cesta delle primizie dei frutti con lo scopo di entrare nel paese, ma perché vi era già realmente entrato.
Da qui inizia il brano liturgico
“Il sacerdote prenderà la cesta dalle tue mani e la deporrà davanti all’altare del Signore, tuo Dio e tu pronuncerai queste parole davanti al Signore, tuo Dio: “Mio padre era un Aramèo errante... “
Troviamo qui espresso il più antico Credo di Israele che gira intorno a tre articoli di fede: la vocazione dei patriarchi “Aramèi erranti ”, il dono della libertà dopo la terribile esperienza dell’oppressione egiziana, il dono della terra promessa.
Offrendo al Signore le primizie dei suoi raccolti, ogni israelita così riconosce che la terra è un dono di Dio. La professione di fede che egli pronuncia in occasione di tale offerta, rievoca non la creazione del mondo, ma l'evento principale della storia della salvezza.
L'epopea dell'esodo inizia con la migrazione del "padre" delle dodici tribù di Israele, Giacobbe, il quale scese in Egitto “come un forestiero con poca gente e vi diventò una nazione grande, forte e numerosa”. Oppresso dagli egiziani, il popolo alzò la voce al Dio dei padri, “e il Signore ascoltò”, il suo grido, vide la sua umiliazione, la sua miseria e la sua oppressione; "con mano potente e con braccio teso" lo liberò dalla schiavitù e lo condusse nella terra promessa, dandogli quel luogo "dove scorrono latte e miele“.
In questa estrema semplicità della fede degli Israeliti emerge un dato decisivo: Dio non si rivela con apparizioni mistiche o paranormali, non si affaccia in mezzo a cieli limpidi o sopra a nuvole dorate, ma si nasconde nelle cose semplici, nel quotidiano delle nostre giornate.
La più completa risposta di fede non è quella che si esaurisce nel silenzio della contemplazione orante, ma è quella che oltrepassa i confini e si espande nelle case e nelle strade, nell’impegno di ogni giorno, negli atti di amore verso il nostro prossimo.

Salmo 90/91 Resta con noi, Signore, nell'ora della prova.
Chi abita al riparo dell’Altissimo
passerà la notte all’ombra dell’Onnipotente.
Io dico al Signore: «Mio rifugio e mia fortezza,
mio Dio in cui confido».

Chi abita al riparo dell’Altissimo
passerà la notte all’ombra dell’Onnipotente.
Io dico al Signore: «Mio rifugio e mia fortezza,
mio Dio in cui confido».

Sulle mani essi ti porteranno,
perché il tuo piede non inciampi nella pietra.
Calpesterai leoni e vipere,
schiaccerai leoncelli e draghi.

«Lo libererò, perché a me si è legato,
lo porrò al sicuro, perché ha conosciuto il mio nome.
Mi invocherà e io gli darò risposta;
nell’angoscia io sarò con lui,
lo libererò e lo renderò glorioso».

Il salmista professa di trovare la sua forza e pace nel Signore, nel quale confida: “Io dico al Signore: ”.
Il salmo vuole infondere fiducia nel futuro, sicuramente positivo per chi confida nel Signore (Cf. Dt 6,14).
Il "laccio del cacciatore”, sono le trappole poste dai nemici per giungere a compromettere il giusto.
“Dalla peste che distrugge”; più giustamente secondo l'originale ebraico dovrebbe tradursi: “Dalla parola che distrugge”, cioè dalla parola calunniatrice.
“Il terrore della notte”, sono gli assalti dei briganti, le incursioni dei nemici.
“La freccia che vola di giorno”, sono gli attacchi in pieno giorno dei nemici: di notte le frecce non si usano.
“La peste che vaga nelle tenebre”, l'uomo non vede il propagarsi del contagio; per questo “nelle tenebre”.
“Lo sterminio che devasta a mezzogiorno”, è l'azione delle carestie.
Di fronte all'imperversare delle sventure: “Mille cadranno al tuo fianco e diecimila alla tua destra, ma nulla ti potrà colpire”.
Indubbiamente il salmo presenta una situazione del giusto non costantemente frequente, per cui va aperta ad una lettura in chiave figurata, dal momento che le sventure colpiscono anche i giusti. Le sventure non colpiscono il giusto nel senso che in tutte le circostanze avrà l'aiuto di Dio per non cadere nell'infedeltà a Dio ed essere felice della sua presenza: Dio è il più grande bene.
Gli angeli custodiranno il giusto in tutti i suoi passi, cioè nei suoi viaggi, nelle sue iniziative. Anzi, tutto sarà facilitato dagli angeli, la cui azione è presentata con l'immagine degli angeli che stendono le loro mani a formare la strada dove percorre il giusto, affinché non inciampi nella pietra il suo piede.
Il giusto assistito da Dio camminerà indenne
nei pericoli: “Calpesterai leoni e vipere, schiaccerai leoncelli e draghi”. I “draghi”, sono un'immagine tratta dalla mitologia cananea (Vedi il Leviatan; Cf. Ps 73).
Il salmista alla fine “passa la parola” a Dio: “Lo libererò, perché a me si è legato, lo porrò al sicuro, perché ha conosciuto il mio nome...lo libererò e lo renderò glorioso. Lo sazierò di lunghi giorni e gli farò vedere la mia salvezza”.
Commento tratto da Perfetta Letizia i

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani
Fratelli, che cosa dice [Mosè]? «Vicino a te è la Parola, sulla tua bocca e nel tuo cuore», cioè la parola della fede che noi predichiamo. Perché se con la tua bocca proclamerai: «Gesù è il Signore!», e con il tuo cuore crederai che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo. Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia, e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza.
Dice infatti la Scrittura: «Chiunque crede in lui non sarà deluso». Poiché non c’è distinzione fra Giudeo e Greco, dato che lui stesso è il Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che lo invocano. Infatti: «Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato».
Rm 10,8-13

San Paolo scrisse la lettera ai Romani da Corinto probabilmente tra gli anni 58-59 e lo fa anche per presentare se stesso, in vista di un suo viaggio a Roma. La comunità dei cristiani di Roma era già ben formata e coordinata, ma lui ancora non la conosceva. Forse il primo annuncio fu portato a Roma da quei “Giudei di Roma”, presenti a Gerusalemme nel giorno della Pentecoste e che accolsero il messaggio di Pietro e il Battesimo da lui amministrato, diventando cristiani. Nacque subito la necessità di avere a Roma dei presbiteri e questi non poterono che essere nominati a Gerusalemme.
La Lettera ai Romani, che è uno dei testi più alti e più impegnativi degli scritti di Paolo, ed è anche la più lunga e più importante come contenuto teologico, è composta da 16 capitoli: i primi 11 contengono insegnamenti sull'importanza della fede in Gesù per la salvezza, contrapposta alla vanità delle opere della Legge; il seguito è composto da esortazioni morali. Paolo, in particolare, fornisce indicazioni di comportamento per i cristiani all'interno e all'esterno della loro comunità.
In questo brano tratto dal capitolo 10, Paolo continuando il discorso già iniziato, ricorda che l'elemento fondamentale per ottenere la salvezza è la fede in Gesù Cristo, l'adesione alla Sua parola. Nel capitolo precedente aveva trattato della sorte degli ebrei che non avevano aderito alla salvezza inaugurata da Cristo.
“Fratelli, che cosa dice [Mosè]? «Vicino a te è la Parola, sulla tua bocca e nel tuo cuore», cioè la parola della fede che noi predichiamo.”
All’inizio del capitolo 10, Paolo aveva affermato che gli ebrei si sono costruiti una loro giustizia a partire dalla Legge, ignorando la giustizia di Dio. Ma il termine della Legge è Cristo e la giustizia non deriva più dalla legge ma dalla fede. Per sostenere le sue affermazioni Paolo in questo brano cita il Deuteronomio (30,14) ricordando che Dio ha messo la Sua parola, “nella bocca e nel cuore" degli Israeliti, facilitando l'ascolto e l'obbedienza. E' interessante notare che queste parole riguardanti la giustizia che deriva dalla fede (e non dalla Legge) siano riprese dai discorsi di Mosè, ciò significa che anche agli ebrei era stata aperta la porta della fede, ma essi non hanno voluto entrarvi.
“Perché se con la tua bocca proclamerai: «Gesù è il Signore!», e con il tuo cuore crederai che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo.”
Non bisogna compiere chissà quale impresa per raggiungere la salvezza. (Paolo in questi versetti probabilmente si riferisce all'epopea di Gilgamesh, l'eroe mesopotamico che per raggiungere l'immortalità aveva scalato il cielo e camminato sulle acque dell'oceano della morte). Chi ha ascoltato la predicazione degli apostoli deve proclamare con la propria bocca e riconoscere Gesù come il Signore, e credere con tutto il cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti.
“Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia, e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza.”
Paolo sottolinea l'ultima affermazione che è fondamentale: nel cuore si crede e grazie a questa fede si ottiene di essere "giusti" davanti a Dio. Con la bocca dunque si esprime all'esterno questa fede e si può ottenere così la salvezza.
“Dice infatti la Scrittura: «Chiunque crede in lui non sarà deluso».”
La fede non delude, qui Paolo riporta un versetto dal profeta Isaia " chi crede non si turberà" (Is 28,16).
“Poiché non c’è distinzione fra Giudeo e Greco, dato che lui stesso è il Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che lo invocano”.
Qui Paolo coglie l'occasione per precisare che la fede è la via alla salvezza per tutti gli uomini, siano essi pagani, siano giudei. Ogni discriminazione è superata da Cristo, proclamato nella risurrezione Signore dell'umanità intera. Privilegi e limitazioni religiose e morali non hanno più valore determinante: tutti gli uomini sono equiparati di fronte all'evento salvifico della risurrezione. Gli ebrei non hanno alcuni privilegio rispetto agli altri.
“Infatti: «Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato»”.
Tutti possono attingere alla sua salvezza. L'unica cosa necessaria è riconoscere Gesù come il Signore e invocare il suo nome.
Invocare il Signore in spirito di penitenza e umiltà significa ravvivare la propria fede: una fede da vivere con sincerità interiore ma anche con coraggio per poterlo testimoniare.

Dal Vangelo secondo Luca
In quel tempo, Gesù, pieno di Spirito Santo, si allontanò dal Giordano ed era guidato dallo Spirito nel deserto, per quaranta giorni, tentato dal diavolo. Non mangiò nulla in quei giorni, ma quando furono terminati, ebbe fame. Allora il diavolo gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ a questa pietra che diventi pane». Gesù gli rispose: «Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo”».
Il diavolo lo condusse in alto, gli mostrò in un istante tutti i regni della terra e gli disse: «Ti darò tutto questo potere e la loro gloria, perché a me è stata data e io la do a chi voglio. Perciò, se ti prostrerai in adorazione dinanzi a me, tutto sarà tuo». Gesù gli rispose: «Sta scritto: “Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto”».
Lo condusse a Gerusalemme, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù di qui; sta scritto infatti:
“Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo affinché essi ti custodiscano”;
e anche: “Essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra”».
Gesù gli rispose: «È stato detto: “Non metterai alla prova il Signore Dio tuo”».
Dopo aver esaurito ogni tentazione, il diavolo si allontanò da lui fino al momento fissato.
Lc4,1-13

L’Evangelista Luca, come Marco e Matteo, fa delle tentazioni uno schema di tutta la vita di Gesù, però solo lui le estende a tutti i quaranta giorni.
Il brano inizia riportando che “Gesù, pieno di Spirito Santo, si allontanò dal Giordano ed era guidato dallo Spirito nel deserto, per quaranta giorni, tentato dal diavolo …” Con l ‘espressione “Gesù pieno di Spirito Santo ... Luca collega le tentazioni al battesimo di Gesù, dove lo Spirito discese su di lui e dove Gesù è stato dichiarato "Figlio amato" dal Padre.
Con tale richiamo ci viene introdotto il tema delle tentazioni: esse metteranno alla prova Gesù come "Figlio di Dio". E', dunque, la figliolanza divina di Gesù l'oggetto della prova. Infatti, per ben due volte Satana si rivolge a Gesù dicendo: "Se tu sei il Figlio di Dio...".
“ed era guidato dallo Spirito nel deserto, per quaranta giorni, tentato dal diavolo”
Si può notare che Gesù non è mosso dallo Spirito, ma “è guidato dallo Spirito”.
“Non mangiò nulla in quei giorni, ma quando furono terminati, ebbe fame”
la fame dice tutta la fragilità della condizione umana, che per sostenersi ha bisogno di cercare nella creazione il suo sostentamento. Questo per dire che l'uomo non possiede in sé la vita, ma questa dipende da qualcos'altro. Anche Gesù, rinunciando alle sue qualità divine (Fil. 2,6-11), viene assoggettato a tutta la fragilità dell'uomo. Gesù, dunque, si pone di fronte alla missione, che gli viene affidata, non come un super eroe invincibile, che grazie ai suoi super poteri travolge ogni resistenza, ma come un uomo che cerca di trovare in sé e al di fuori di sé il senso del proprio vivere e della propria missione, avendo sempre come riferimento la volontà del Padre, che Gesù scopre non solo in sé, ma anche nella Sacra Scrittura. Non a caso a tutte le tentazioni Lui risponde con citazioni bibliche.
Prima tentazione
“ Allora il diavolo gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ a questa pietra che diventi pane»”
Nella condizione della fragilità umana, simboleggiata dalla fame, si svolge, questa prima tentazione. "Se tu sei il Figlio di Dio…". La tentazione nasce dalla sproporzione della fragilità umana di Gesù posta a confronto con la sua condizione divina, a cui Gesù ha rinunciato entrando nella storia. Paolo lo ricorda nella sua lettera ai Filippesi: “... egli pur essendo nella condizione di Dio non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo” ha messo da parte la sua natura divina per fare spazio alle esigenze del Padre. Gesù, qui, si presenta come il Dio che è venuto a servire gli uomini, non a conquistarli o a dominarli (Mc10,45; Mt 20,28).
La missione di Gesù è pertanto una missione di servizio all'uomo, perché proprio vivendo fino in fondo la condizione umana, Gesù poi saprà riscattarla pienamente con la Sua risurrezione. La tentazione che Gesù subisce è quella di poter usare le sue prerogative divine per rendere più facile la Sua missione e il Suo permanere qui nell'ambito della storia. Ma le sue prerogative divine non le usa per se stesso, ma per gli uomini, che Lui è venuto a servire.
“Gesù gli rispose: «Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo»”. Gesù risponde citando il libro del Deuteronomio: “…l’uomo non vive soltanto di pane, ma …l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore. " (Dt 8,3). Qui Luca lascia intendere che il senso della missione di Gesù non è quello di soddisfare le esigenze umane, ma di ricondurre l'uomo a Dio.
La parola che esce "dalla bocca del Signore", infatti, è Cristo stesso, Parola eterna del Padre, offertasi all'uomo affinché comprenda le esigenze di Dio.
Seconda tentazione
“Il diavolo lo condusse in alto, gli mostrò ….tutti i regni della terra e gli disse: «Ti darò tutto questo potere e la loro gloria, … perché a me è stata data e io la do a chi voglio …. se ti prostrerai in adorazione dinanzi a me”
L’espressione "condurre in alto" potrebbe far pensare il far prendere coscienza a Gesù della Sua divinità, che sta sopra ad ogni potere umano, simboleggiato dai regni della terra.
Gesù è ancora una volta messo alla prova nella Sua divinità. Satana, qui, assume il significato e il valore del potere politico di fronte al quale Gesù è invitato a prostrarsi, cioè a seguirlo, a farne uno strumento di dominio.
Ma il potere che Gesù ha, non è suo, ma del Padre e lo ricorderà a Satana rispondendo: «Sta scritto: “Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto”».
Anche questa riposta è ispirata al Deuteronomio che dice: “ Temerai il Signore Dio tuo, lo servirai e giurerai per il suo nome. (Dt 6,13) e ancora: “Temi il Signore tuo Dio, a lui servi, restagli fedele e giura nel suo nome” (Dt 10,20). In altre parole, la divinità di Gesù e il suo potere è posto soltanto al servizio del Padre, perché da questo potere appaia e si realizzi il suo progetto di salvezza, che si compirà, quale nuova creazione, nella risurrezione stessa di Gesù.
Terza tentazione
“Lo condusse a Gerusalemme, lo pose sul punto più alto del tempio..”.
Satana conduce Gesù a Gerusalemme. Per Luca Gerusalemme è la meta finale verso cui Gesù è rivolto e attorno a cui è incentrato un'ampia parte dell'intero suo vangelo (Lc 9,51-19,28). Gerusalemme è il luogo in cui si compirà la salvezza e si realizzerà pienamente il progetto del Padre: morte e risurrezione di Gesù.
Satana mette alla prova ancora una volta la divinità di Gesù e lo pone sul pinnacolo del tempio, che è la casa del Padre.
Il porre Gesù sul tempio è un tentativo di porre Gesù al di sopra del Padre. L'invito di Satana rivolto a Gesù di buttarsi giù costringendo Dio a intervenire a suo favore per evitargli di massacrarsi al suolo, corrisponde all'invito di spingere Dio a modificare il Suo piano iniziale avvalendosi della Sua stessa divinità.
“Dopo aver esaurito ogni tentazione, il diavolo si allontanò da lui fino al momento fissato.”
Luca condensa nel suo racconto tutte le prove che Gesù, presentatosi nella fragilità della carne umana, ha dovuto subire. Si parla, infatti, di "ogni specie di tentazione", mostrando così, tutta intera, la povertà della sua umanità. Il racconto, infine, si conclude con Satana che si allontana da Gesù, ma solo temporaneamente, per ritornare al tempo fissato, il tempo in cui si compirà la salvezza per mezzo della Sua morte e risurrezione, che avverranno a Gerusalemme, dove Satana lo aveva lasciato.
La narrazione delle tentazioni suddivisa in tre scene ha una insolita inversione nella seconda e terza scena rispetto al racconto di Matteo; per Luca il vertice della tentazione non è il monte alto, come per Matteo, ma Gerusalemme, la città verso la quale è orientato tutto il Vangelo lucano. Ebbene, è proprio a Gerusalemme, vertice della vita di Gesù, che ha il suo culmine anche la tentazione e la professione di fiducia di Gesù .
A Gerusalemme, infatti, si compie la suprema prova della Sua messianicità : Gesù poteva rifiutare il Suo destino ultimo, quello della salvezza, raggiunta non trionfalmente, ma attraverso il sacrificio estremo della croce. Gesù, se avesse accettato questa tentazione, avrebbe rinunciato al Suo perfetto affidamento al Padre e noi come conseguenza avremmo perso la fede nel vero Salvatore. Ma Gesù sul punto più alto del tempio dichiara il Suo sì definitivo al Padre diventando per il credente di ogni tempo e di ogni luogo l’emblema luminoso dell’adesione piena e totale a Dio al Suo piano di salvezza.

 

*****

“Il Vangelo di questa prima domenica di Quaresima narra l’esperienza delle tentazioni di Gesù nel deserto. Dopo aver digiunato per quaranta giorni, Gesù è tentato tre volte dal diavolo. Costui prima lo invita a trasformare una pietra in pane; poi gli mostra dall’alto i regni della terra e gli prospetta di diventare un messia potente e glorioso; infine lo conduce sul punto più alto del tempio di Gerusalemme e lo invita a buttarsi giù, per manifestare in maniera spettacolare la sua potenza divina .
Le tre tentazioni indicano tre strade che il mondo sempre propone promettendo grandi successi, tre strade per ingannarci: l’avidità di possesso – avere, avere, avere –, la gloria umana e la strumentalizzazione di Dio. Sono tre strade che ci porteranno alla rovina.
La prima, la strada dell’avidità di possesso. È sempre questa la logica insidiosa del diavolo. Egli parte dal naturale e legittimo bisogno di nutrirsi, di vivere, di realizzarsi, di essere felici, per spingerci a credere che tutto ciò è possibile senza Dio, anzi, persino contro di Lui. Ma Gesù si oppone dicendo: «Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo”». Ricordando il lungo cammino del popolo eletto attraverso il deserto, Gesù afferma di volersi abbandonare con piena fiducia alla provvidenza del Padre, che sempre si prende cura dei suoi figli.
La seconda tentazione: la strada della gloria umana. Il diavolo dice: «Se ti prostrerai in adorazione dinanzi a me, tutto sarà tuo». Si può perdere ogni dignità personale, ci si lascia corrompere dagli idoli del denaro, del successo e del potere, pur di raggiungere la propria autoaffermazione. E si gusta l’ebbrezza di una gioia vuota che ben presto svanisce. E questo ci porta anche a fare “i pavoni”, la vanità, ma questo svanisce. Per questo Gesù risponde: «Solo al Signore Dio tuo ti prostrerai, lui solo adorerai» .
E poi la terza tentazione: strumentalizzare Dio a proprio vantaggio. Al diavolo che, citando le Scritture, lo invita a cercare da Dio un miracolo eclatante, Gesù oppone di nuovo la ferma decisione di rimanere umile, rimanere fiducioso di fronte al Padre: «È stato detto: “Non metterai alla prova il Signore tuo Dio”». E così respinge la tentazione forse più sottile: quella di voler “tirare Dio dalla nostra parte”, chiedendogli grazie che in realtà servono e serviranno a soddisfare il nostro orgoglio.
Sono queste le strade che ci vengono messe davanti, con l’illusione di poter così ottenere il successo e la felicità. Ma, in realtà, esse sono del tutto estranee al modo di agire di Dio; anzi, di fatto ci separano da Dio, perché sono opera di Satana. Gesù, affrontando in prima persona queste prove, vince per tre volte la tentazione per aderire pienamente al progetto del Padre. E ci indica i rimedi: la vita interiore, la fede in Dio, la certezza del suo amore, la certezza che Dio ci ama, che è Padre, e con questa certezza vinceremo ogni tentazione.
Ma c’è una cosa, su cui vorrei attirare l’attenzione, una cosa interessante. Gesù nel rispondere al tentatore non entra in dialogo, ma risponde alle tre sfide soltanto con la Parola di Dio. Questo ci insegna che con il diavolo non si dialoga, non si deve dialogare, soltanto gli si risponde con la Parola di Dio.
Approfittiamo dunque della Quaresima, come di un tempo privilegiato per purificarci, per sperimentare la consolante presenza di Dio nella nostra vita.
La materna intercessione della Vergine Maria, icona di fedeltà a Dio, ci sostenga nel nostro cammino, aiutandoci a rigettare sempre il male e ad accogliere il bene.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 10 marzo 2019

Pubblicato in Liturgia
Mercoledì, 02 Marzo 2022 15:56

I giorno di Quaresima - Anno C - 2 marzo 2022

Il Mercoledì delle Ceneri segna, nella tradizione cristiana, l'inizio della Quaresima, il tempo di preparazione alla Pasqua. Il carattere penitenziale della Quaresima si rende visibile proprio in questo giorno attraverso l’austero rito dell’imposizione delle ceneri che ha la sua origine nel battesimo poiché la penitenza è nell’insieme fondata sulla stessa realtà battesimale per il perdono dei peccati ed è poi ripresa e resa segno espressivo, per quanti ricadono nel peccato, nel sacramento della Riconciliazione.
L’invito alla riconciliazione è naturalmente il filo conduttore di tutte e tre le letture liturgiche.
Nella prima lettura, tratta dal Libro del profeta Gioele, il Signore ci invita a tornare a Lui con tutto il cuore…. Non basta offrire a Dio le primizie della terra, ma bisogna che l’uomo riconosca i propri limiti e offra a Dio il suo cuore pentito.
Nella seconda lettura, nella seconda lettera di S.Paolo ai Corinzi, l’apostolo si presenta come ambasciatore di Cristo ed esorta i Corinzi a riconciliarsi senza indugio con Dio, ricordando quanto sia stato grande l’amore di Dio per loro.
Nel brano del Vangelo di Matteo, Gesù ci rivela il senso profondo delle pratiche religiose e penitenziali del cristianesimo che prima erano del giudaismo: l’elemosina, la preghiera e il digiuno. Gesù ci incoraggia a fare tutto il bene possibile, però nel segreto del proprio cuore, per avere l'approvazione solo dal Padre misericordioso.
La vita cristiana esige l’autentico coinvolgimento di tutta la nostra persona: pensieri, desideri, corporeità, comunione e relazione con gli altri e con Dio.

Dal libro del profeta Gioèle
Così dice il Signore: « ritornate a me con tutto il cuore, con digiuni, con pianti e lamenti.
Laceratevi il cuore e non le vesti,
ritornate al Signore, vostro Dio,
perché egli è misericordioso e pietoso,
lento all’ira, di grande amore, pronto a ravvedersi riguardo al male».
Chi sa che non cambi e si ravveda
e lasci dietro a sé una benedizione?
Offerta e libagione per il Signore, vostro Dio.
Suonate il corno in Sion, proclamate un solenne digiuno, convocate una riunione sacra.
Radunate il popolo, indite un’assemblea solenne,
chiamate i vecchi, riunite i fanciulli, i bambini lattanti; esca lo sposo dalla sua camera
e la sposa dal suo talamo.
Tra il vestibolo e l’altare piangano i sacerdoti, ministri del Signore, e dicano:
«Perdona, Signore, al tuo popolo
e non esporre la tua eredità al ludibrio
e alla derisione delle genti».
Perché si dovrebbe dire fra i popoli:
«Dov’è il loro Dio?».
Il Signore si mostra geloso per la sua terra
e si muove a compassione del suo popolo.
Gl 2,12-18

Il Libro del profeta Gioele è un testo contenuto sia nella Bibbia ebraica (Tanak) che quella cristiana. E’ stato scritto in ebraico e secondo l'ipotesi maggiormente condivisa dagli studiosi, la redazione del libro è avvenuta nel Regno di Giuda, forse tra la fine VII - inizio VI secolo a.C.. E’ un libro breve, di appena 4 capitoli in cui nella prima parte presenta l'invasione delle cavallette e il ritorno del popolo a Dio che, nel peccato, ha riconosciuto la causa di questa calamità; nella seconda parte predice l'intervento futuro di Dio che, con il perdono, concede il dono dello Spirito santo che fa nuove tutte le cose
Sappiamo molto poco del profeta Gioele, che visse sicuramente a Gerusalemme, il cui nome significa “Yahweh è Dio”, tutto ciò che ci viene detto a suo riguardo si trova in Gioele 1:1: “Parola del Signore, rivolta a Gioele, figlio di Petuel.” Da alcuni è definito il profeta della Pentecoste per la profezia sull'effusione dello Spirito Santo realizzatasi il giorno della Pentecoste (Atti 2). È molto difficile stabilire il periodo in cui Gioele profetizzò; comunque, la maggior parte degli studiosi lo considera il primo dei profeti minori, visse durante il regno di Joas (circa 800 a.C.); si è scelta questa datazione perché si ritiene che Amos (760-747) abbia usato i testi di Gioele (v,Amos 9:13). Il tema centrale del messaggio di Gioele è il “Giorno del Signore”, sia sotto l'aspetto negativo sia sotto quello positivo. Egli ne parla negativamente presentando la collera divina, le tenebre e la vendetta contro i malvagi, citando avvenimenti naturali come siccità e invasione di insetti. Ne parla anche positivamente quando presenta la riabilitazione per i giusti, quando Dio invierà a tutti i membri del suo popolo il dono dello Spirito. In questo contesto Gioele parla della valle di Giosafat (dall'ebraico Jehôshafat, «Jahweh giudica»), parola usata per indicare il luogo ideale dove convergeranno tutte le genti. Ogni profeta ha un suo punto di vista e vuole raggiungere dei precisi obiettivi, e Gioele, di fronte ad una grande carestia provocata dall'invasione delle cavallette, che ha colpito la terra di Giuda, non si sente di considerarla un fatto naturale, ma un segno del giudizio di Dio e a questo giudizio non basta prepararsi con un semplice rito penitenziale.
In questo brano egli esprime con parole accorate il messaggio del Signore: “ritornate a me con tutto il cuore, con digiuni, con pianti e lamenti. Laceratevi il cuore e non le vesti,ritornate al Signore, vostro Dio, perché egli è misericordioso e pietoso, lento all’ira, di grande amore, pronto a ravvedersi riguardo al male”.
L'invito a lacerarsi il cuore, è un termine che richiama la sofferenza dello strappo da cui si vorrebbe fuggire, ma a leggerlo in profondità, accostandolo ad altri passi biblici, vi troviamo non un invito alla morte ma alla vita, alla pienezza della vita.
Come ultima nota si può sottolineare che Gioele è anche un poeta che sa gridare il proprio messaggio con un linguaggio chiaro e tono poetico. E’ il profeta della quaresima e della Pentecoste e durante le settimane che precedono la Pasqua i testi di Gioele ci esortano ad una seria conversione. Il racconto stesso della Pentecoste vede diffondersi sul mondo intero i doni dello Spirito che questo profeta promette (At 2,17-21)

Salmo 50- Perdonaci, Signore: abbiamo peccato.

Pietà di me, o Dio, nel tuo amore;
nella tua grande misericordia
cancella la mia iniquità.
Lavami tutto dalla mia colpa,
dal mio peccato rendimi puro.

Sì, le mie iniquità io le riconosco,
il mio peccato mi sta sempre dinanzi.
Contro di te, contro te solo ho peccato,
quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto.

Rendimi la gioia della tua salvezza,
sostienimi con uno spirito generoso.
Signore, apri le mie labbra
e la mia bocca proclami la tua lode.

Questo salmo la tradizione lo dice scritto da Davide dopo il suo peccato, e mi pare di dovere aggiungere durante la congiura del figlio Assalonne, dove Davide vide avverarsi la sventura sulla sua casa annunciatagli dal profeta Natan (2Sam 12,10). Fa un po’ di difficoltà all’attribuzione a Davide del salmo l’ultimo versetto dove l’orante invoca che siano rialzate le mura di Gerusalemme, poiché questo porterebbe al tempo del ritorno dall’esilio. E’ comune, tuttavia, risolvere il caso dicendo che è un’aggiunta messa durante l’esilio per un adattamento del salmo alla situazione di distruzione di Gerusalemme.
Ma considerando che il salmo non poteva essere adatto in tutto alla situazione dell’esilio, poiché sacrifici ed olocausti (“non gradisci il sacrificio; se offro olocausti, non li accetti”) in terra straniera non potevano essere fatti, bisogna pensare che le mura abbattute sono un’immagine drammatica della presa di possesso di Gerusalemme da parte di Assalonne; Gerusalemme era conquistata e come “Città di Davide” veniva a finire.
L’orante si apre a Dio in un invocazione di misericordia. Domanda pietà.
Si sente imbrattato interiormente. Il rimorso lo attanaglia, si sente nella sventura. Non ricorre alla presentazioni di circostanze, di spinte al peccato, lui coscientemente l’ha fatto: “Contro di te, contro te solo ho peccato, quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto”. Tuttavia presenta a Dio la sua debolezza di creatura ferita dall’antica colpa che destò al senso la carne: “Ecco, nella colpa sono io stato nato, nel peccato mi ha concepito mia madre”. Con ciò non intende scusarsi poiché aggiunge che Dio vuole la sincerità nell'intimo, cioè nel cuore, e che anche illumina intimamente il cuore dell’uomo affinché non ceda alle lusinghe del peccato: “Ma tu gradisci la sincerità nel mio intimo, nel segreto del cuore mi insegni la sapienza”.
Ancora l’orante innalza a Dio un grido per essere purificato, per essere liberato dalle sventure che lo colpiscono.
Egli prosegue la sua supplica chiedendo: “Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo”. Il peccato lo ha indebolito, gli sta sempre dinanzi e vorrebbe non averlo commesso.
E’ umile, pienamente umile, e domanda a Dio di non essere respinto dalla sua presenza e privato del dono del suo “santo spirito”; quel “santo spirito” che aveva ricevuto al momento della sua consacrazione a re. Quel “santo spirito” che gli dava forza e sapienza nel governare e nel guidare i sudditi al bene, all’osservanza della legge.
Consapevole della sua debolezza ora domanda umilmente di essere aiutato: “sostieni con me un spirito generoso”.
Ha creato del male ad Israele col suo peccato, ma rimedierà, con l’aiuto di Dio: “Insegnerò ai ribelli le tue vie e i peccatori a te ritorneranno”.
Ma il peccato veramente gli “sta sempre dinanzi”. Egli non solo è stato adultero, ma anche omicida: “Liberami dal sangue, o Dio, Dio mia salvezza”. Salvato dal peccato che l’opprime, egli esalterà la giustizia di Dio, che si attua nella misericordia. Salvato, dal peso del peccato e dalla rottura con Dio egli potrà di nuovo lodare Dio: “La mia bocca proclami la tua lode”.
Ha provato a presentare a Dio sacrifici e olocausti, ma è stato rifiutato. Così ha percependo il rifiuto di Dio è arrivato al massimo del dolore, e questo dolore di contrito lo presenta a Dio: “Uno spirito contrito è sacrificio a Dio”. Egli sa che Dio non disprezza “un cuore contrito e affranto”.
Davide presenta infine Sion, Gerusalemme, che è stata occupata e con ciò è stata messa in difficoltà l’unità di Israele che con tanta fatica aveva saputo costruire.
Riedificate le mura di Gerusalemme, nel senso di ricomposta la forza di Gerusalemme, sede dell’arca e del trono, e attuato un risveglio religioso in Israele, allora i sacrifici e gli olocausti torneranno ad essere graditi a Dio perché fatti nell’osservanza alla legge, nella corrispondenza al dono dell’alleanza.
Commento tratto da Perfetta Letiziai

Dalla seconda lettera di S.Paolo Apostolo ai Corinzi
Fratelli, noi, in nome di Cristo, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta.
Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio.
Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio. Poiché siamo suoi collaboratori, vi esortiamo a non accogliere invano la grazia di Dio.
Egli dice infatti: «Al momento favorevole ti ho esaudito e nel giorno della salvezza ti ho soccorso». Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza!
2Cor 5,20-6,2

Paolo scrisse la seconda lettera al Corinzi, spinto dai gravi avvenimenti che avevano scosso la comunità di Corinto. Nell’anno 56 Paolo è a Efeso (At 19) e viene a sapere che alcuni contestatori giudeo-cristiani stanno sollevando la comunità contro di lui. Vi fa una breve visita, ma è ricevuto freddamente, stanco e forse implicato troppo personalmente nel conflitto, non riesce ad aggiustare nulla, anzi la sua visita accresce piuttosto il disordine, si ripromette allora di ritornare in seguito.
Meno ricca della prima in insegnamenti dottrinali, la seconda lettera ai Corinzi ha il grande merito di introdurci nella vita interiore dell’Apostolo, in cui traspare il suo carattere appassionato. E’ una lettera ardente che può essere considerata come il suo diario intimo, le sue “confessioni”.
Nei primi 6 capitoli Paolo ripercorre la sua vocazione di predicatore del Vangelo e della situazione che si era creata con la comunità di Corinto. I contorni veri di questo malinteso non sono chiari , ma questo diventa per Paolo un motivo per ricordare le motivazioni del suo impegno a favore del Vangelo.
Il brano che abbiamo è la parte finale in cui ritroviamo il motivo fondamentale della lettera: la riconciliazione tra Dio e gli uomini.
“…in nome di Cristo, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio”.
Qui Paolo ricorda che la salvezza operata da Cristo, si può considerare come una grande opera di riconciliazione di cui lui, Paolo, ne è ambasciatore. Egli quindi esorta i Corinzi fino a supplicarli a riconciliarsi senza indugio con Dio, ricordando quanto sia stato grande l’amore di Dio per loro. E continua affermando:”Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio”. L'opera della riconciliazione si è potuta realizzare attraverso la morte in croce di Gesù, che pur non avendo peccato è stato trattato da peccato, ha subito la morte del malfattore, perché noi, i veri peccatori, potessimo diventare giusti davanti a Dio.
“Poiché siamo suoi collaboratori, vi esortiamo a non accogliere invano la grazia di Dio”
Di nuovo Paolo ricorda la propria qualità di collaboratore di Dio e in questa veste comunica che questa grazia della riconciliazione richiede una pronta risposta. Non si può rimandare l'adesione a Dio perché si tratta di una realtà davvero importante.
“Egli dice infatti: «Al momento favorevole ti ho esaudito e nel giorno della salvezza ti ho soccorso». Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza!”
Questa citazione è tratta da Is 49,8. Paolo la rilegge come promessa divina che si attua al presente: “ecco ora il il momento favorevole!” Riconciliarsi con Dio per l'apostolo è esigenza improrogabile, perché per la storia umana è suonata l'ora in cui Dio ha deciso di accogliere come amici coloro che gli erano diventati nemici. E' il giorno della pace con il Padre e tra gli uomini!

Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «State attenti a non praticare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere ammirati da loro, altrimenti non c’è ricompensa per voi presso il Padre vostro che è nei cieli. Dunque, quando fai l’elemosina, non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipòcriti nelle sinagoghe e nelle strade, per essere lodati dalla gente. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Invece, mentre tu fai l’elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra, perché la tua elemosina resti nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.
E quando pregate, non siate simili agli ipòcriti che, nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, amano pregare stando ritti, per essere visti dalla gente. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Invece, quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.
E quando digiunate, non diventate malinconici come gli ipòcriti, che assumono un’aria disfatta per far vedere agli altri che digiunano. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Invece, quando tu digiuni, profùmati la testa e làvati il volto, perché la gente non veda che tu digiuni, ma solo il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà».
Mt 6,1-6,16-18

Questo brano del Vangelo di Matteo fa parte del discorso della montagna, in cui Gesù presenta le nove Beatitudini. Il discorso segue quanto detto prima nel versetto precedente (5,20); “ se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli”, e questo brano inizia con il monito: “State attenti a non praticare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere ammirati da loro, altrimenti non c’è ricompensa per voi presso il Padre vostro che è nei cieli.”
Il termine giustizia è usato nella Bibbia per riassumere i rapporti dell'uomo con Dio, la pietà, la religiosità, la fede e con questo termine Gesù intendeva un comportamento che sia conforme alla volontà divina.
“Dunque, quando fai l’elemosina, non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipòcriti nelle sinagoghe e nelle strade, per essere lodati dalla gente. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa”.
Gesù non voleva dire che non bisogna mai compiere azioni buone in pubblico, dato che aveva esortato prima i discepoli a far ‘risplendere la loro luce davanti agli uomini’. (Mt. 5:14-16) , ma non avremo nessuna “ricompensa’” dal nostro Padre celeste se facciamo le cose “per essere osservati” e ammirati, come attori che recitano a teatro.
I “doni di misericordia” erano offerte a favore dei bisognosi. (v. Isaia 58:6, 7). Gesù e gli apostoli avevano un fondo comune da usare per aiutare i poveri. (Gv. 12:5-8; 13:29), dato che prima di fare l’elemosina non si suonava letteralmente la tromba, Gesù evidentemente usò un esempio esagerato quando disse che non dobbiamo “suonare la tromba” (*) davanti a noi quando facciamo “l’elemosina” . Non dobbiamo cioè sbandierare la nostra generosità, come facevano i farisei. Gesù li chiama ipocriti perché rendevano note le loro offerte “nelle sinagoghe e nelle strade”. Quegli ipocriti ‘hanno già ricevuto la loro ricompensa”, ossia avrebbero ricevuto soltanto il plauso degli uomini non certo il premio del Signore.
Come dovevano agire invece i discepoli ed anche noi oggi? Gesù dice: “quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà” .
Ci ricompensa permettendoci di stringere un’intima relazione con Lui, perdonando i nostri peccati e concedendoci la vita eterna. (Prov. 3:32; Giov. 17:3; Efes. 1:7) Questo è decisamente meglio che ricevere l’approvazione degli uomini. Gesù incoraggia a fare tutto il bene possibile, però nel segreto del proprio cuore, per avere l'approvazione solo dal Padre misericordioso.
Nel capitolo precedente Gesù ha esortato ad essere perfetti “come è perfetto il Padre celeste” (5,48), ora Egli spiega ai suoi discepoli che è la relazione con il Padre la sorgente del nostro essere e agire; solo in Lui essi si possono sentire come figli liberi, amati e felici, capaci di portare tanto frutto di bontà verso gli altri.
(* )Nota – Sul termine “suonare la tromba” un esegeta ha dato un’ulteriore spiegazione: il tempio di Gerusalemme aveva fuori le fessure da cui entravano le monete e all’interno del tempio c’era una piccola stanzetta, dove andava chi voleva fare un’offerta senza essere visto. Quando la gente voleva essere notata, l’offerta la faceva fuori, non soltanto perché era visibile, ma perché le monete entrando scivolavano e facevano un rumore come di tromba molto forte, e tutti si giravano per ammirare. Realmente c’era un’acustica ed era stato fatto apposta perché si lodasse e si evidenziasse la persona.

 

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Le parole di Papa Francesco



Iniziamo il cammino della Quaresima. Esso si apre con le parole del profeta Gioele, che indicano la direzione da seguire. C’è un invito che nasce dal cuore di Dio, che con le braccia spalancate e gli occhi pieni di nostalgia ci supplica: «Ritornate a me con tutto il cuore» . Ritornate a me. La Quaresima è un viaggio di ritorno a Dio. Quante volte, indaffarati o indifferenti, gli abbiamo detto: “Signore, verrò da Te dopo, aspetta… Oggi non posso, ma domani comincerò a pregare e a fare qualcosa per gli altri”. E così un giorno dopo l’altro. Ora Dio fa appello al nostro cuore. Nella vita avremo sempre cose da fare e avremo scuse da presentare, ma, fratelli e sorelle, oggi è il tempo di ritornare a Dio.
Ritornate a me, dice, con tutto il cuore. La Quaresima è un viaggio che coinvolge tutta la nostra vita, tutto noi stessi. È il tempo per verificare le strade che stiamo percorrendo, per ritrovare la via che ci riporta a casa, per riscoprire il legame fondamentale con Dio, da cui tutto dipende. La Quaresima non è una raccolta di fioretti, è discernere dove è orientato il cuore. Questo è il centro della Quaresima: dove è orientato il mio cuore? Proviamo a chiederci: dove mi porta il navigatore della mia vita, verso Dio o verso il mio io? Vivo per piacere al Signore, o per essere notato, lodato, preferito, al primo posto e così via? Ho un cuore “ballerino”, che fa un passo avanti e uno indietro, ama un po’ il Signore e un po’ il mondo, oppure un cuore saldo in Dio? Sto bene con le mie ipocrisie, o lotto per liberare il cuore dalle doppiezze e dalle falsità che lo incatenano?
Il viaggio della Quaresima è un esodo, è un esodo dalla schiavitù alla libertà. Sono quaranta giorni che ricordano i quarant’anni in cui il popolo di Dio viaggiò nel deserto per tornare alla terra di origine. Ma quanto fu difficile lasciare l’Egitto! È stato più difficile lasciare l’Egitto del cuore del popolo di Dio, quell’Egitto che portavano sempre dentro, che lasciare la terra d’Egitto… È molto difficile lasciare l’Egitto. Sempre, durante il cammino, c’era la tentazione di rimpiangerne le cipolle, di tornare indietro, di legarsi ai ricordi del passato, a qualche idolo. Anche per noi è così: il viaggio di ritorno a Dio è ostacolato dai nostri malsani attaccamenti, è trattenuto dai lacci seducenti dei vizi, dalle false sicurezze dei soldi e dell’apparire, dal lamento vittimista che paralizza. Per camminare bisogna smascherare queste illusioni.
Ma ci domandiamo: come procedere allora nel cammino verso Dio? Ci aiutano i viaggi di ritorno che la Parola di Dio ci racconta.
Guardiamo al figlio prodigo e capiamo che pure per noi è tempo di ritornare al Padre. Come quel figlio, anche noi abbiamo dimenticato il profumo di casa, abbiamo dilapidato beni preziosi per cose da poco e siamo rimasti con le mani vuote e il cuore scontento. Siamo caduti: siamo figli che cadono in continuazione, siamo come bimbi piccoli che provano a camminare ma vanno in terra, e hanno bisogno di essere rialzati ogni volta dal papà. È il perdono del Padre che ci rimette sempre in piedi: il perdono di Dio, la Confessione, è il primo passo del nostro viaggio di ritorno. Ho detto alla Confessione, mi raccomando i confessori: siate come il padre, non con la frusta, con l’abbraccio.
Poi abbiamo bisogno di ritornare a Gesù, di fare come quel lebbroso risanato che tornò a ringraziarlo. In dieci erano stati guariti, ma lui solo fu anche salvato, perché era tornato da Gesù (cfr Lc 17,12-19). Tutti, tutti abbiamo delle malattie spirituali, da soli non possiamo guarirle; tutti abbiamo dei vizi radicati, da soli non possiamo estirparli; tutti abbiamo delle paure che ci paralizzano, da soli non possiamo sconfiggerle.
Abbiamo bisogno di imitare quel lebbroso, che tornò da Gesù e si buttò ai suoi piedi. Ci serve la guarigione di Gesù, serve mettergli davanti le nostre ferite e dirgli: “Gesù, sono qui davanti a Te, con il mio peccato, con le mie miserie. Tu sei il medico, Tu puoi liberarmi. Guarisci il mio cuore”.
Ancora: la Parola di Dio ci chiede di ritornare al Padre, ci chiede di ritornare a Gesù, e siamo chiamati a ritornare allo Spirito Santo. La cenere sul capo ci ricorda che siamo polvere e in polvere torneremo. Ma su questa nostra polvere Dio ha soffiato il suo Spirito di vita. Allora non possiamo vivere inseguendo la polvere, andando dietro a cose che oggi ci sono e domani svaniscono. Torniamo allo Spirito, Datore di vita, torniamo al Fuoco che fa risorgere le nostre ceneri, a quel Fuoco che ci insegna ad amare. Saremo sempre polvere ma, come dice un inno liturgico, polvere innamorata. Ritorniamo a pregare lo Spirito Santo, riscopriamo il fuoco della lode, che brucia le ceneri del lamento e della rassegnazione.
Fratelli e sorelle, questo nostro viaggio di ritorno a Dio è possibile solo perché c’è stato il suo viaggio di andata verso di noi. Altrimenti non sarebbe stato possibile. Prima che noi andassimo da Lui, Lui è sceso verso di noi. Ci ha preceduti, ci è venuto incontro. Per noi è sceso più in basso di quanto potevamo immaginare: si è fatto peccato, si è fatto morte. È quanto ci ha ricordato San Paolo: «Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore» . Per non lasciarci soli e accompagnarci nel cammino è sceso dentro al nostro peccato e alla nostra morte, ha toccato il peccato, ha toccato la nostra morte. Il nostro viaggio, allora, è un lasciarci prendere per mano. Il Padre che ci chiama a tornare è Colui che esce di casa per venirci a cercare; il Signore che ci guarisce è Colui che si è lasciato ferire in croce; lo Spirito che ci fa cambiare vita è Colui che soffia con forza e dolcezza sulla nostra polvere.
Ecco allora la supplica dell’Apostolo: «Lasciatevi riconciliare con Dio» . Lasciatevi riconciliare: il cammino non si basa sulle nostre forze; nessuno può riconciliarsi con Dio con le proprie forze, non può. La conversione del cuore, con i gesti e le pratiche che la esprimono, è possibile solo se parte dal primato dell’azione di Dio. A farci ritornare a Lui non sono le nostre capacità e i nostri meriti da ostentare, ma la sua grazia da accogliere. Ci salva la grazia, la salvezza è pura grazia, pura gratuità. Gesù ce l’ha detto chiaramente nel Vangelo: a renderci giusti non è la giustizia che pratichiamo davanti agli uomini, ma la relazione sincera con il Padre. L’inizio del ritorno a Dio è riconoscerci bisognosi di Lui, bisognosi di misericordia bisognosi della sua grazia. Questa è la via giusta, la via dell’umiltà. Io mi sento bisognoso o mi sento autosufficiente?
Oggi abbassiamo il capo per ricevere le ceneri. Finita la Quaresima ci abbasseremo ancora di più per lavare i piedi dei fratelli. La Quaresima è una discesa umile dentro di noi e verso gli altri. È capire che la salvezza non è una scalata per la gloria, ma un abbassamento per amore. È farci piccoli. In questo cammino, per non perdere la rotta, mettiamoci davanti alla croce di Gesù: è la cattedra silenziosa di Dio. Guardiamo ogni giorno le sue piaghe, le piaghe che Lui ha portato in Cielo e fa vedere al Padre, tutti i giorni, nella sua preghiera di intercessione. Guardiamo ogni giorno le sue piaghe. In quei fori riconosciamo il nostro vuoto, le nostre mancanze, le ferite del peccato, i colpi che ci hanno fatto male. Eppure proprio lì vediamo che Dio non ci punta il dito contro, ma ci spalanca le mani. Le sue piaghe sono aperte per noi e da quelle piaghe siamo stati guariti (cfr 1 Pt 2,25; Is 53,5). Baciamole e capiremo che proprio lì, nei buchi più dolorosi della vita, Dio ci aspetta con la sua misericordia infinita. Perché lì, dove siamo più vulnerabili, dove ci vergogniamo di più, Lui ci è venuto incontro. E ora che ci è venuto incontro, ci invita a ritornare a Lui, per ritrovare la gioia di essere amati.

Mercoledì delle Ceneri – Omelia di Papa Francesco
durante la Santa Messa del 17 Febbraio 2021

Pubblicato in Liturgia
Domenica, 14 Marzo 2021 16:13

SUSSIDIO DIOCESANO - IV SETTIMANA DI QUARESIMA

«In quel tempo, Gesù disse:«Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna.

Premi per leggere il Sussidio diocesano per la quarta di Quaresima 2021

Premi il quarto video per la Quaresima: “L'Amore di Dio”

Premi le indicazioni metodologiche per il sussidio

Grazie a Diocesi di Roma e alla sua pagina facebook

Pubblicato in Vita Parrocchiale
Venerdì, 05 Marzo 2021 16:15

SUSSIDIO DIOCESIANO - III SETTIMANA DI QUARESIMA

«Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!».

 

Premi per leggere il Sussidio diocesano per la terza di Quaresima 2021

Premi il terzo video per la Quaresima: “La Casa del Padre”

Premi le indicazioni metodologiche per il sussidio

Grazie alla Diocesi di Roma e alla sua pagina facebook

Pubblicato in Vita Parrocchiale
Venerdì, 26 Febbraio 2021 16:16

SUSSIDIO DIOCESIANO - II SETTIMANA DI QUARESIMA

"Signore, che io possa vedermi come tu mi vedi: un prodigio, fatto dalle tue mani".

Premi per leggere il Sussidio diocesano per la seconda settimana di Quaresima 2021.

Premi il secondo video per la Quaresima: “La luce”

Premi le indicazioni metodologiche per il sussidio

grazie a Diocesi di Roma e alla sua pagina facebook

Pubblicato in Vita Parrocchiale
Venerdì, 19 Febbraio 2021 16:52

SUSSIDIO DIOCESIANO - I SETTIMANA DI QUARESIMA

«Abbiamo elaborato per la Quaresima, come per l’Avvento, un sussidio da mettere a disposizione delle famiglie della parrocchia. È uno strumento utile per vivere la liturgia nella piccola Chiesa domestica che è la famiglia, un tempo prezioso per pregare intorno alla Parola, per offrire un approfondimento catechetico ai bambini e ai ragazzi, per scegliere di impegnarsi insieme in un’azione di carità. Il sussidio tiene conto non solo delle famiglie con bambini piccoli, ma anche di quelle con figli adolescenti». Il cardinale vicario Angelo De Donatis annuncia con queste parole, in una lettera per le famiglie, il nuovo sussidio diocesano per la Quaresima.

Per ogni scheda sarà disponibile anche un video, che sarà possibile scaricare a partire da venerdì 19 febbraio. In ognuno monsignor Dario Gervasi, vescovo delegato per la Pastorale familiare, e una famiglia ogni volta diversa, commentano insieme il Vangelo facendo riferimento all’esperienza quotidiana di ciascuno, dei bambini, dei ragazzi, dei genitori, dei nonni, nelle sue luci e nei suoi passaggi faticosi… Per continuare a leggere grazie a Diocesi di Roma

 

Premi Sussidio della I settimana

Premi le indicazioni metodologiche per il sussidio

Premi il primo video per la Quaresima: “Il deserto”

Grazie a Diocesi di Roma e alla sua pagina facebook

Pubblicato in Vita Parrocchiale
Giovedì, 18 Febbraio 2021 16:36

Quaresima - Preghiera

Grazie Signore
per il Tuo infinito amore per noi,
per l'infinita misericordia che usi
per ognuno e il mondo intero,
per donare il perdono a chi si pente
e la pace a chi si converte,
per donarci la grazia della conversione
e di credere al Vangelo,
per svegliarci
e donarci di cantare le Tue lodi
in questo tempo di grazia, in quaresima,
sii per noi il nostro scudo, la nostra forza,
donaci di attingere alla Parola,
ai sacramenti,
di intercedere per tutti, per il mondo in pandemia,
donaci di essere caritatevoli con gli altri,
di avere occhi che vedono l'altro e le sue necessità,
di essere la Tua vicinanza, la Tua carezza, il Tuo donarsi per amore,
avvolgici nel fuoco dirompente di annunciarTi a tutti,
donaci la gioia di glorificarTi con la nostra vita,
amen!

Elena  Tasso

Pubblicato in Vita Parrocchiale
Giovedì, 18 Febbraio 2021 16:28

I Domenica di Quaresima - Anno B - 21 febbraio 2021

Da mercoledì scorso, con la liturgia delle ceneri è iniziata la quaresima, tempo che ci riporta alla sostanza dell’esistenza cristiana, invitandoci a intensificare nella preghiera e nella penitenza il cammino per la preparazione alla Pasqua di risurrezione.
Nella prima lettura, tratta dal Libro della Genesi, vediamo come una nuova umanità nasce purificata dalle acque del diluvio. L’alleanza di Dio con Noè è il primo annuncio della grande Alleanza che sarà compiuta da Cristo nella Pasqua, con il Suo sangue.
Nella seconda lettura, nella prima lettera di S.Pietro, leggiamo come il diluvio ha fatto nuova la terra, così il battesimo fa nuovo ogni uomo. E’ la novità che nasce dalla risurrezione di Cristo e abbraccia tutta l’umanità e l’intero creato.
Nel brano del suo Vangelo, Marco facendo seguire subito dopo il battesimo di Gesù l’episodio delle tentazioni, vuole indicare che il punto fondamentale della missione del Figlio di Dio è la lotta contro satana, che si può vincere solo se ci rivestiamo delle armi della fede in Colui che ha vinto il mondo. La quaresima perciò inizia con l’appello di Cristo: Convertitevi e credete al Vangelo! Nella loro essenzialità e nella loro forza, queste parole sono come un fulmine che squarcia il grigiore, la superficialità, il compromesso e le abitudini consolidate della nostra esistenza umana!

Dal libro della Genesi
Dio disse a Noè e ai suoi figli con lui: «Quanto a me, ecco io stabilisco la mia alleanza con voi e con i vostri discendenti dopo di voi, con ogni essere vivente che è con voi, uccelli, bestiame e animali selvatici, con tutti gli animali che sono usciti dall’arca, con tutti gli animali della terra. Io stabilisco la mia alleanza con voi: non sarà più distrutta alcuna carne dalle acque del diluvio, né il diluvio devasterà più la terra».
Dio disse:
«Questo è il segno dell’alleanza,
che io pongo tra me
e voi e ogni essere vivente che è con voi,
per tutte le generazioni future.
Pongo il mio arco sulle nubi,
perché sia il segno dell’alleanza
tra me e la terra.
Quando ammasserò le nubi sulla terra
e apparirà l’arco sulle nubi,
ricorderò la mia alleanza
che è tra me e voi
e ogni essere che vive in ogni carne,
e non ci saranno più le acque per il diluvio,
per distruggere ogni carne».
Gen 9,8-15

Il Libro della Genesi (che significa: "nascita", "creazione", "origine"), è il primo libro della Torah ebraica e della Bibbia cristiana. E’ stato scritto in ebraico, e secondo molti studiosi, la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata intorno al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte. Nei primi 11 dei suoi 50 capitoli, descrive la cosiddetta "preistoria biblica" (creazione, peccato originale, diluvio universale), e nei rimanenti la storia dei patriarchi Abramo, Isacco, Giacobbe-Israele e di Giuseppe, le cui vite si collocano nel vicino oriente (soprattutto in Palestina) del II millennio a.C. (la datazione dei patriarchi, tradizionale ma ipotetica, è attorno al 1800-1700).
Il libro della Genesi è suddiviso in due grandi sezioni. La prima, corrispondente ai capitoli 1-11, comprende il racconto della creazione e la storia del genere umano. La seconda sezione, dal capitolo 12 al capitolo 50, narra la storia del popolo eletto, mediante i racconti sui patriarchi.
Questo brano lo troviamo alla conclusione del racconto del diluvio, dopo i racconti riguardanti la creazione. Il diluvio è presentato come un evento che ha sconvolto tutto l’universo, come punizione per un’ulteriore diffusione del peccato.
Il racconto, che si trova anche in altre religioni, ha solo valore teologico ed è la risposta che l’uomo si dà al perchè c’è il male nel mondo. Questo brano ci parla dell’alleanza che Dio offre a Noè liberato dalle acque del diluvio. “Questo è il segno dell’alleanza, che io pongo tra me e voi e ogni essere vivente che è con voi,
per tutte le generazioni future. Pongo il mio arco sulle nubi, perché sia il segno dell’alleanza tra me e la terra. Quando ammasserò le nubi sulla terra e apparirà l’arco sulle nubi, ricorderò la mia alleanza che è tra me e voi e ogni essere che vive in ogni carne, e non ci saranno più le acque per il diluvio, per distruggere ogni carne”.
Più di un’alleanza, si può dire che è una garanzia, un impegno assunto soltanto da parte di Dio perchè non dipende dal futuro comportamento dell’uomo, perché il Signore non chiede a Noè nessun impegno in particolare. E’ perciò un puro atto di misericordia verso tutta l’umanità intera: uomini ed animali.
Come negli accordi terreni, viene stabilito anche un segno esterno che possa ricordare l’impegno assunto e questo segno sarà l’arcobaleno. L’arcobaleno, che sorge dopo ogni temporale, viene scelto perché fa pensare ad un arco da guerra deposto sulle nubi, significando così la fine di un conflitto tra Dio e il cosmo e una garanzia di pace.
Nella prospettiva biblica questa pace non si esaurisce nella stabilità delle leggi della natura, ma è l’espressione della misericordia infinita di Dio per tutta l’umanità. Infine questa alleanza si estende alle “generazioni future”, è cioè un’alleanza perenne, come quella stabilita con Abramo. Viene così confermata la misericordia di Dio che rispetta la vita di ogni vivente, specialmente dell’uomo che rappresenta il vertice di tutto il creato.

Salmo 24: Tutti i sentieri del Signore sono amore e fedeltà.
Fammi conoscere, Signore, le tue vie,
insegnami i tuoi sentieri.
Guidami nella tua fedeltà e istruiscimi,
perché sei tu il Dio della mia salvezza.

Ricordati, Signore, della tua misericordia
e del tuo amore, che è da sempre.
Ricordati di me nella tua misericordia,
per la tua bontà, Signore.

Buono e retto è il Signore,
indica ai peccatori la via giusta;
guida i poveri secondo giustizia,
insegna ai poveri la sua via.

Il salmista è pieno d’umiltà al ricordo delle sue numerose colpe della sua giovinezza. E’ sgomento alla vista che tanti suoi amici lo hanno tradito per un nulla. Uno screzio è bastato perché si mettessero contro di lui. Egli, piegato dal peso dei suoi peccati, domanda che Dio guardi a lui e non a quanto ha fatto non osservando “la sua alleanza e i suoi precetti”. Si trova in grande difficoltà di fronte ad avversari che lo odiano in modo violento e lui non ha via di salvezza che quella del Signore. Gli errori passati sono il frutto del suo abbandono della “via giusta”. Ora sa che “tutti i sentieri del Signore sono amore e fedeltà”, cioè non portano a rovina, ma anzi danno prosperità, poiché la discendenza di chi teme il Signore “possederà la terra”. L’orante voleva affermarsi sugli altri agendo con spavalderia, con vie traverse, ed ecco che sconfessa tutto il suo passato, trattenendone però la lezione di umiltà, che gli ha dato. Egli sa che non andrà deluso perché ha deciso di essere protetto da "integrità e rettitudine”, cioè dall’osservanza dell’alleanza stabilita da Dio con Israele. L’orante non pensa solo a se stesso, si sente parte del popolo di Dio, e invoca la liberazione di Israele dalle angosce date dai nemici. La liberazione dell’Israele di Dio, la Chiesa, cioè l’Israele fondato sulla fede in Cristo, non escludendo nella sua carità quello etnico basato sulla carne e sul sangue, per il quale la pace passerà dall’accoglienza del Principe della pace.
Commento di P.Paolo Berti

Dalla prima lettera di san Pietro apostolo
Carissimi, Cristo è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio; messo a morte nel corpo, ma reso vivo nello spirito. E nello spirito andò a portare l’annuncio anche alle anime prigioniere, che un tempo avevano rifiutato di credere, quando Dio, nella sua magnanimità, pazientava nei giorni di Noè, mentre si fabbricava l’arca, nella quale poche persone, otto in tutto, furono salvate per mezzo dell’acqua.
Quest’acqua, come immagine del battesimo, ora salva anche voi; non porta via la sporcizia del corpo, ma è invocazione di salvezza rivolta a Dio da parte di una buona coscienza, in virtù della risurrezione di Gesù Cristo. Egli è alla destra di Dio, dopo essere salito al cielo e aver ottenuto la sovranità sugli angeli, i Principati e le Potenze.
1Pt 3,18-22

La Prima lettera di Pietro è un testo scritto alla fine del I secolo che si presenta come opera del grande apostolo di cui porta il nome, ma secondo gli esperti è una raccolta di tradizioni che al massimo potrebbero risalire a Pietro o al suo ambiente. Non è una lettera vera e propria, ma un’omelia a sfondo battesimale, che si apre con l’indirizzo e una benedizione iniziale (1,1-5) a cui fa seguito il corpo della lettera che si divide in tre parti: 1) Identità e responsabilità dei rigenerati (1,6 - 2,10); 2) I cristiani nella società civile (2,11 - 4,11); 3) Presente e futuro della Chiesa (4,12 - 5,11).
Il brano che abbiamo fa parte della parte centrale dello scritto, nella quale si danno direttive per la partecipazione dei cristiani alla vita sociale (2,11-4,11).
Pietro inizia ricordando che “Cristo è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio; messo a morte nel corpo, ma reso vivo nello spirito”.
Egli non si limita però a richiamare le sofferenze di Cristo, ma ne mette in luce il significato ribadendo che “Cristo è morto una volta per sempre”, cioè con il suo gesto ha raggiunto pienamente, una volta per tutte, il suo scopo. Inoltre egli è morto “per i peccati” cioè per liberare l’uomo dai peccati che lo tengono schiavo.
Proprio Lui, che era giusto, ha dato la vita per uomini ingiusti, attuando così il compito di ricondurli a Dio.
Infine Pietro sottolinea che Cristo è stato “messo a morte nel corpo”, cioè nella sua realtà umana, povera e limitata, che lo accomuna a tutta l’umanità, ma è stato “reso vivo nello Spirito”, cioè in forza della potenza stessa di Dio che Egli possiede nella sua pienezza. In altre parole Pietro vuole dire che, dopo e in forza della morte che lo ha colpito come ogni altro essere umano, lo Spirito di Dio ha attuato in lui una vita nuova, che si manifesta mediante la Sua resurrezione, e da Lui si estende a tutti i credenti (questo concetto lo si può ritrovare anche in Rm 1,4).
Pietro prende lo spunto dalla morte di Cristo per parlare della sua discesa agli inferi che descrive così: “nello spirito andò a portare l’annuncio anche alle anime prigioniere, che un tempo avevano rifiutato di credere, quando Dio, nella sua magnanimità, pazientava nei giorni di Noè, mentre si fabbricava l’arca, nella quale poche persone, otto in tutto, furono salvate per mezzo dell’acqua”.
Pietro allude qui sicuramente allo Sheol, che era considerato come il regno dei morti, nel quale vanno a finire le anime dei trapassati, per i sadducei senza alcuna speranza di cambiamento, per i farisei in attesa della risurrezione finale. Secondo la terminologia ebraica “andare agli inferi” era semplicemente una giro di parole per indicare la morte. Pietro invece la interpreta come una visita in quella regione tenebrosa, nella quale secondo lui erano tenuti come prigionieri tutti coloro che erano vissuti al tempo del diluvio universale. Costoro, pur vedendo che Noè costruiva l’arca, invece di approfittare dell’ultima possibilità che veniva loro concessa dalla pazienza di Dio, non avevano creduto ed così salvati. In altre parole si tratterebbe dell’umanità che è stata sterminata per la sua malvagità al tempo di Noè. Ma forse Pietro pensa più in generale a tutta l’umanità vissuta prima di Cristo, che egli vede contrassegnata dallo stesso peccato che ha provocato la distruzione del diluvio.
A questi spiriti racchiusi nello Sheol come in una prigione, Cristo “andò a portare l’annuncio”. Anche se il testo non mette l’oggetto dell’annuncio ossia la “salvezza”, molti padri (tra i quali Agostino) e esegeti moderni sottintendono “annuncio di salvezza”, e una liberazione vera e propria.
Nell’ultima parte del brano si parla dell’acqua del diluvio “Quest’acqua, come immagine del battesimo, ora salva anche voi”; Pietro intravede qui una specie di analogia tra il diluvio e il battesimo cristiano: l’acqua del diluvio, da cui solo alcuni si salvarono, simboleggia l’economia dell’antica legge, le cui prescrizioni rituali ottenevano molto spesso solo una purificazione esteriore e “carnale”.
È vero che l’acqua del diluvio è stata soprattutto strumento di morte, mentre quella del battesimo porta la salvezza, ma bisogna riconoscere che ambedue hanno in comune l’effetto di purificazione dal contagio del peccato. Il battesimo è presentato anzitutto come un mezzo di salvezza che opera “ora”.
Pietro precisa che il battesimo “non porta via la sporcizia del corpo, ma è invocazione di salvezza rivolta a Dio da parte di una buona coscienza”, cioè la richiesta a Dio perché mantenga l’impegno da lui preso in favore di chi lo riceve con retta intenzione.
La preghiera che accompagna il rito battesimale, non può non essere esaudita se chi la pronunzia non ha una “buona coscienza ”, cioè le disposizioni del cuore che sono richieste per ritornare a Dio.
Queste disposizioni non vengono dalla buona volontà dell’uomo, ma sono anch’esse un dono di Dio, che riceviamo “in virtù della risurrezione di Gesù Cristo”.
Il brano termina con una professione di fede cristologica: questo Cristo che è risorto “è alla destra di Dio, dopo essere salito al cielo e aver ottenuto la sovranità sugli angeli, i Principati e le Potenze.”
Questa espressione riprende le affermazioni delle lettere paoline circa l’esaltazione di Cristo (v. Ef 1,20-21; Col 2,15), alle quali Luca attinge riportando il racconto dell’ascensione (At 1,9), facendole poi presentare da Pietro nella sua prima predica dopo la Pentecoste.
Nel contesto del mistero pasquale, Cristo ha dunque ricevuto la pienezza dello Spirito per proporre la salvezza a tutti gli uomini, anche a quelli che erano vissuti prima di lui, non esclusi i peccatori più pervertiti, come quelli del tempo di Noè.
Pietro vuole qui affermare che la salvezza portata da Cristo opera in modo misterioso a favore di tutti gli uomini, anche di coloro che sono vissuti prima di Lui. Infatti nella sua esperienza personale si rende visibile, in modo chiaro e urgente, quella spinta che ha portato uomini di ogni razza e religione a dare la vita per i loro fratelli.

Dal vangelo secondo Marco
In quel tempo, lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana. Stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano.
Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo».
Mc 1, 12-15

Nella breve introduzione del suo vangelo, Marco, dopo aver parlato di Giovanni il Battista e il battesimo di Gesù, accenna in modo molto conciso al periodo che Gesù trascorre nel deserto. Diversamente dunque da Matteo e Luca, Marco narra la tentazione di Gesù in modo veramente molto conciso: “lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana. Stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano”.
Vediamo che ancora una volta, dopo la sua apparizione al battesimo, interviene nella vita di Gesù lo Spirito di Dio, per indicargli che cosa deve fare per realizzare il suo progetto di salvezza. Sotto l’azione dello Spirito, Gesù dunque si reca nel deserto, cioè nella regione desolata che si estende tra la zona montagnosa della Giudea e il mar Morto (deserto di Giuda), e lì resta quaranta giorni.
I quaranta giorni sono un periodo di tempo simbolico, che richiama i quarant’anni trascorsi dal popolo di Israele nel deserto (Nm 14,34), dove è stato messo alla prova da Dio (Dt 8,2) o i quaranta giorni trascorsi da Mosè sul Sinai (Es 24,18) o quelli impiegati da Elia per raggiungere l’Oreb (1Re 19,8). Il tema della tentazione inoltre rievoca anche la figura di Adamo, il quale era stato tentato dal serpente (Gen 3,1-7).
Sebbene sia stato sospinto nel deserto dallo Spirito, Gesù non è messo alla prova da Dio (come il popolo in Dt 8,2), ma da satana. Questo per non offuscare l’immagine di Dio i giudei del tempo di Gesù si erano abituati ad attribuire la tentazione a un non meglio precisato “avversario” (satana; v.. Gb 1-2), che con il tempo era stato considerato come un’entità diabolica personificata (v. 1Cr 21,1) Questa maggiore sensibilità teologica appare anche nella rilettura sapienziale della vicenda di Adamo, dove il serpente non è più un semplice animale, ma è identificato con il diavolo (v. Sap 2,24).
Anche l’accenno agli animali selvatici viene utilizzato per creare un quadro simbolico, ossia che Gesù vive in mezzo ad essi in piena armonia. Questo ricorda il celebre passo messianico di Isaia (11,6-8) “… Il lupo dimorerà insieme con l’agnello …., il vitello e il leoncello pascoleranno insieme e un fanciullo li guiderà.” L’ostilità tra animali selvatici e domestici, tra belve, serpenti e uomo si cancellerà e si ricomporrà l’orizzonte paradisiaco celebrato nel II capitolo della Genesi col giardino dell’Eden, dove Adamo, l’uomo del progetto creativo divino, viveva in compagnia degli animali, e su di essi dominava come guida voluta dal Signore.
Mentre stava con le fiere, “gli angeli lo servivano”: questo è chiaramente un segno inequivocabile della vicinanza di Dio, che si fa rappresentare dai Suoi messaggeri; ma diversamente da Israele, che nel deserto ha mormorato e si è ribellato contro Dio, e da Adamo che ha mangiato il frutto dell’albero proibito, Gesù non ha ceduto alle lusinghe del tentatore.
Marco introduce la predicazione di Gesù in Galilea con due versetti che rappresentano il primo dei sommari di cui è ricco il suo vangelo: “Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo”.
Invece di recarsi in Giudea, zona densamente abitata da giudei, dove avevano sede le principali istituzioni giudaiche, Gesù torna in Galilea, Sua terra d’origine, che a quei tempi veniva chiamata “Galilea delle genti”, appellativo che richiamava il carattere misto della sua popolazione (V. Mt 4,15).
Il termine “proclamare” o predicare, con cui è indicata l’attività di Gesù in Galilea, indica la proclamazione pubblica fatta da un araldo; con esso i cristiani indicavano l’annunzio della salvezza fatto dagli apostoli (v. At 8,5; Rm 10,8; 1Cor 1,23).
Anche l’espressione “vangelo di Dio”, appartiene al linguaggio della prima comunità cristiana (v. Rm 1,1; 15,16; 2Cor 11,7) e indica non tanto la buona novella che ha per oggetto Dio, ma quella che proviene da Dio stesso, in quanto autore della salvezza.
Il lieto annunzio proclamato da Gesù è espresso con una frase molto concisa. Anzitutto egli afferma, con un linguaggio che si ispira all’apocalittica giudaica, che “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino” Il tempo (kairos), cioè il periodo dell’attesa, che prepara il momento attuale da quello finale e conclusivo della storia, è giunto al termine; di conseguenza il “regno di Dio”, cioè l’esercizio pieno e definitivo della sovranità divina in questo mondo, “è vicino” sta per realizzarsi in questa terra.
“convertitevi e credete nel Vangelo”. Come già aveva fatto Giovanni il Battista, Gesù invita a “convertirsi” (metanoein, cambiare mente) cioè a “ritornare” a Dio, cambiando mentalità e sottomettendosi una volta per tutte alla Sua sovranità; ma per fare ciò è necessario “credere nel vangelo”, cioè aprirsi al lieto annunzio ed essere disposti a basare su di esso tutta la propria vita. Nella loro essenzialità e nella loro forza queste parole sono come una sferzata che squarcia il grigiore, la superficialità, il compromesso e le abitudini consolidate dell’esistenza umana.

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“In questa prima domenica di Quaresima, il Vangelo richiama i temi della tentazione, della conversione e della Buona notizia. Scrive l’evangelista Marco: «Lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana». Gesù va nel deserto per prepararsi alla sua missione nel mondo. Egli non ha bisogno di conversione, ma, in quanto uomo, deve passare attraverso questa prova, sia per Sé stesso, per obbedire alla volontà del Padre, sia per noi, per darci la grazia di vincere le tentazioni. Questa preparazione consiste nel combattimento contro lo spirito del male, cioè contro il diavolo.
Anche per noi la Quaresima è un tempo di “agonismo” spirituale, di lotta spirituale: siamo chiamati ad affrontare il Maligno mediante la preghiera per essere capaci, con l’aiuto di Dio, di vincerlo nella nostra vita quotidiana. Noi lo sappiamo, il male è purtroppo all’opera nella nostra esistenza e attorno a noi, dove si manifestano violenze, rifiuto dell’altro, chiusure, guerre, ingiustizie. Tutte queste sono opere del maligno, del male.
Subito dopo le tentazioni nel deserto, Gesù comincia a predicare il Vangelo, cioè la Buona notizia, la seconda parola. La prima era “tentazione”; la seconda, “Buona notizia”. E questa Buona notizia esige dall’uomo conversione - terza parola - e fede. Egli annuncia: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino»; poi rivolge l’esortazione: «Convertitevi e credete nel Vangelo», credete cioè a questa Buona notizia che il regno di Dio è vicino.
Nella nostra vita abbiamo sempre bisogno di conversione - tutti i giorni! -, e la Chiesa ci fa pregare per questo. Infatti, non siamo mai sufficientemente orientati verso Dio e dobbiamo continuamente indirizzare la nostra mente e il nostro cuore a Lui. Per fare questo bisogna avere il coraggio di respingere tutto ciò che ci porta fuori strada, i falsi valori che ci ingannano attirando in modo subdolo il nostro egoismo. Invece dobbiamo fidarci del Signore, della sua bontà e del suo progetto di amore per ciascuno di noi. La Quaresima è un tempo di penitenza, sì, ma non è un tempo triste! È un tempo di penitenza, ma non è un tempo triste, di lutto. E’ un impegno gioioso e serio per spogliarci del nostro egoismo, del nostro uomo vecchio, e rinnovarci secondo la grazia del nostro Battesimo.
Soltanto Dio ci può donare la vera felicità: è inutile che perdiamo il nostro tempo a cercarla altrove, nelle ricchezze, nei piaceri, nel potere, nella carriera… Il regno di Dio è la realizzazione di tutte le nostre aspirazioni, perché è, al tempo stesso, salvezza dell’uomo e gloria di Dio. In questa prima domenica di Quaresima siamo invitati ad ascoltare con attenzione e raccogliere questo appello di Gesù a convertirci e a credere nel Vangelo. Siamo esortati a iniziare con impegno il cammino verso la Pasqua, per accogliere sempre più la grazia di Dio, che vuole trasformare il mondo in un regno di giustizia, di pace, di fraternità.
Maria Santissima ci aiuti a vivere questa Quaresima con fedeltà alla Parola di Dio e con una preghiera incessante, come fece Gesù nel deserto. Non è impossibile! Si tratta di vivere le giornate con il desiderio di accogliere l’amore che viene da Dio e che vuole trasformare la nostra vita e il mondo intero.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 18 febbraio 2018

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