Grazie Signore
per il Tuo infinito amore per noi,
per l'infinita misericordia che usi
per ognuno e il mondo intero,
per donare il perdono a chi si pente
e la pace a chi si converte,
per donarci la grazia della conversione
e di credere al Vangelo,
per svegliarci
e donarci di cantare le Tue lodi
in questo tempo di grazia, in quaresima,
sii per noi il nostro scudo, la nostra forza,
donaci di attingere alla Parola,
ai sacramenti,
di intercedere per tutti, per il mondo in pandemia,
donaci di essere caritatevoli con gli altri,
di avere occhi che vedono l'altro e le sue necessità,
di essere la Tua vicinanza, la Tua carezza, il Tuo donarsi per amore,
avvolgici nel fuoco dirompente di annunciarTi a tutti,
donaci la gioia di glorificarTi con la nostra vita,
amen!
Elena Tasso
Da mercoledì scorso, con la liturgia delle ceneri è iniziata la quaresima, tempo che ci riporta alla sostanza dell’esistenza cristiana, invitandoci a intensificare nella preghiera e nella penitenza il cammino per la preparazione alla Pasqua di risurrezione.
Nella prima lettura, tratta dal Libro della Genesi, vediamo come una nuova umanità nasce purificata dalle acque del diluvio. L’alleanza di Dio con Noè è il primo annuncio della grande Alleanza che sarà compiuta da Cristo nella Pasqua, con il Suo sangue.
Nella seconda lettura, nella prima lettera di S.Pietro, leggiamo come il diluvio ha fatto nuova la terra, così il battesimo fa nuovo ogni uomo. E’ la novità che nasce dalla risurrezione di Cristo e abbraccia tutta l’umanità e l’intero creato.
Nel brano del suo Vangelo, Marco facendo seguire subito dopo il battesimo di Gesù l’episodio delle tentazioni, vuole indicare che il punto fondamentale della missione del Figlio di Dio è la lotta contro satana, che si può vincere solo se ci rivestiamo delle armi della fede in Colui che ha vinto il mondo. La quaresima perciò inizia con l’appello di Cristo: Convertitevi e credete al Vangelo! Nella loro essenzialità e nella loro forza, queste parole sono come un fulmine che squarcia il grigiore, la superficialità, il compromesso e le abitudini consolidate della nostra esistenza umana!
Dal libro della Genesi
Dio disse a Noè e ai suoi figli con lui: «Quanto a me, ecco io stabilisco la mia alleanza con voi e con i vostri discendenti dopo di voi, con ogni essere vivente che è con voi, uccelli, bestiame e animali selvatici, con tutti gli animali che sono usciti dall’arca, con tutti gli animali della terra. Io stabilisco la mia alleanza con voi: non sarà più distrutta alcuna carne dalle acque del diluvio, né il diluvio devasterà più la terra».
Dio disse:
«Questo è il segno dell’alleanza,
che io pongo tra me
e voi e ogni essere vivente che è con voi,
per tutte le generazioni future.
Pongo il mio arco sulle nubi,
perché sia il segno dell’alleanza
tra me e la terra.
Quando ammasserò le nubi sulla terra
e apparirà l’arco sulle nubi,
ricorderò la mia alleanza
che è tra me e voi
e ogni essere che vive in ogni carne,
e non ci saranno più le acque per il diluvio,
per distruggere ogni carne».
Gen 9,8-15
Il Libro della Genesi (che significa: "nascita", "creazione", "origine"), è il primo libro della Torah ebraica e della Bibbia cristiana. E’ stato scritto in ebraico, e secondo molti studiosi, la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata intorno al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte. Nei primi 11 dei suoi 50 capitoli, descrive la cosiddetta "preistoria biblica" (creazione, peccato originale, diluvio universale), e nei rimanenti la storia dei patriarchi Abramo, Isacco, Giacobbe-Israele e di Giuseppe, le cui vite si collocano nel vicino oriente (soprattutto in Palestina) del II millennio a.C. (la datazione dei patriarchi, tradizionale ma ipotetica, è attorno al 1800-1700).
Il libro della Genesi è suddiviso in due grandi sezioni. La prima, corrispondente ai capitoli 1-11, comprende il racconto della creazione e la storia del genere umano. La seconda sezione, dal capitolo 12 al capitolo 50, narra la storia del popolo eletto, mediante i racconti sui patriarchi.
Questo brano lo troviamo alla conclusione del racconto del diluvio, dopo i racconti riguardanti la creazione. Il diluvio è presentato come un evento che ha sconvolto tutto l’universo, come punizione per un’ulteriore diffusione del peccato.
Il racconto, che si trova anche in altre religioni, ha solo valore teologico ed è la risposta che l’uomo si dà al perchè c’è il male nel mondo. Questo brano ci parla dell’alleanza che Dio offre a Noè liberato dalle acque del diluvio. “Questo è il segno dell’alleanza, che io pongo tra me e voi e ogni essere vivente che è con voi,
per tutte le generazioni future. Pongo il mio arco sulle nubi, perché sia il segno dell’alleanza tra me e la terra. Quando ammasserò le nubi sulla terra e apparirà l’arco sulle nubi, ricorderò la mia alleanza che è tra me e voi e ogni essere che vive in ogni carne, e non ci saranno più le acque per il diluvio, per distruggere ogni carne”.
Più di un’alleanza, si può dire che è una garanzia, un impegno assunto soltanto da parte di Dio perchè non dipende dal futuro comportamento dell’uomo, perché il Signore non chiede a Noè nessun impegno in particolare. E’ perciò un puro atto di misericordia verso tutta l’umanità intera: uomini ed animali.
Come negli accordi terreni, viene stabilito anche un segno esterno che possa ricordare l’impegno assunto e questo segno sarà l’arcobaleno. L’arcobaleno, che sorge dopo ogni temporale, viene scelto perché fa pensare ad un arco da guerra deposto sulle nubi, significando così la fine di un conflitto tra Dio e il cosmo e una garanzia di pace.
Nella prospettiva biblica questa pace non si esaurisce nella stabilità delle leggi della natura, ma è l’espressione della misericordia infinita di Dio per tutta l’umanità. Infine questa alleanza si estende alle “generazioni future”, è cioè un’alleanza perenne, come quella stabilita con Abramo. Viene così confermata la misericordia di Dio che rispetta la vita di ogni vivente, specialmente dell’uomo che rappresenta il vertice di tutto il creato.
Salmo 24: Tutti i sentieri del Signore sono amore e fedeltà.
Fammi conoscere, Signore, le tue vie,
insegnami i tuoi sentieri.
Guidami nella tua fedeltà e istruiscimi,
perché sei tu il Dio della mia salvezza.
Ricordati, Signore, della tua misericordia
e del tuo amore, che è da sempre.
Ricordati di me nella tua misericordia,
per la tua bontà, Signore.
Buono e retto è il Signore,
indica ai peccatori la via giusta;
guida i poveri secondo giustizia,
insegna ai poveri la sua via.
Il salmista è pieno d’umiltà al ricordo delle sue numerose colpe della sua giovinezza. E’ sgomento alla vista che tanti suoi amici lo hanno tradito per un nulla. Uno screzio è bastato perché si mettessero contro di lui. Egli, piegato dal peso dei suoi peccati, domanda che Dio guardi a lui e non a quanto ha fatto non osservando “la sua alleanza e i suoi precetti”. Si trova in grande difficoltà di fronte ad avversari che lo odiano in modo violento e lui non ha via di salvezza che quella del Signore. Gli errori passati sono il frutto del suo abbandono della “via giusta”. Ora sa che “tutti i sentieri del Signore sono amore e fedeltà”, cioè non portano a rovina, ma anzi danno prosperità, poiché la discendenza di chi teme il Signore “possederà la terra”. L’orante voleva affermarsi sugli altri agendo con spavalderia, con vie traverse, ed ecco che sconfessa tutto il suo passato, trattenendone però la lezione di umiltà, che gli ha dato. Egli sa che non andrà deluso perché ha deciso di essere protetto da "integrità e rettitudine”, cioè dall’osservanza dell’alleanza stabilita da Dio con Israele. L’orante non pensa solo a se stesso, si sente parte del popolo di Dio, e invoca la liberazione di Israele dalle angosce date dai nemici. La liberazione dell’Israele di Dio, la Chiesa, cioè l’Israele fondato sulla fede in Cristo, non escludendo nella sua carità quello etnico basato sulla carne e sul sangue, per il quale la pace passerà dall’accoglienza del Principe della pace.
Commento di P.Paolo Berti
Dalla prima lettera di san Pietro apostolo
Carissimi, Cristo è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio; messo a morte nel corpo, ma reso vivo nello spirito. E nello spirito andò a portare l’annuncio anche alle anime prigioniere, che un tempo avevano rifiutato di credere, quando Dio, nella sua magnanimità, pazientava nei giorni di Noè, mentre si fabbricava l’arca, nella quale poche persone, otto in tutto, furono salvate per mezzo dell’acqua.
Quest’acqua, come immagine del battesimo, ora salva anche voi; non porta via la sporcizia del corpo, ma è invocazione di salvezza rivolta a Dio da parte di una buona coscienza, in virtù della risurrezione di Gesù Cristo. Egli è alla destra di Dio, dopo essere salito al cielo e aver ottenuto la sovranità sugli angeli, i Principati e le Potenze.
1Pt 3,18-22
La Prima lettera di Pietro è un testo scritto alla fine del I secolo che si presenta come opera del grande apostolo di cui porta il nome, ma secondo gli esperti è una raccolta di tradizioni che al massimo potrebbero risalire a Pietro o al suo ambiente. Non è una lettera vera e propria, ma un’omelia a sfondo battesimale, che si apre con l’indirizzo e una benedizione iniziale (1,1-5) a cui fa seguito il corpo della lettera che si divide in tre parti: 1) Identità e responsabilità dei rigenerati (1,6 - 2,10); 2) I cristiani nella società civile (2,11 - 4,11); 3) Presente e futuro della Chiesa (4,12 - 5,11).
Il brano che abbiamo fa parte della parte centrale dello scritto, nella quale si danno direttive per la partecipazione dei cristiani alla vita sociale (2,11-4,11).
Pietro inizia ricordando che “Cristo è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio; messo a morte nel corpo, ma reso vivo nello spirito”.
Egli non si limita però a richiamare le sofferenze di Cristo, ma ne mette in luce il significato ribadendo che “Cristo è morto una volta per sempre”, cioè con il suo gesto ha raggiunto pienamente, una volta per tutte, il suo scopo. Inoltre egli è morto “per i peccati” cioè per liberare l’uomo dai peccati che lo tengono schiavo.
Proprio Lui, che era giusto, ha dato la vita per uomini ingiusti, attuando così il compito di ricondurli a Dio.
Infine Pietro sottolinea che Cristo è stato “messo a morte nel corpo”, cioè nella sua realtà umana, povera e limitata, che lo accomuna a tutta l’umanità, ma è stato “reso vivo nello Spirito”, cioè in forza della potenza stessa di Dio che Egli possiede nella sua pienezza. In altre parole Pietro vuole dire che, dopo e in forza della morte che lo ha colpito come ogni altro essere umano, lo Spirito di Dio ha attuato in lui una vita nuova, che si manifesta mediante la Sua resurrezione, e da Lui si estende a tutti i credenti (questo concetto lo si può ritrovare anche in Rm 1,4).
Pietro prende lo spunto dalla morte di Cristo per parlare della sua discesa agli inferi che descrive così: “nello spirito andò a portare l’annuncio anche alle anime prigioniere, che un tempo avevano rifiutato di credere, quando Dio, nella sua magnanimità, pazientava nei giorni di Noè, mentre si fabbricava l’arca, nella quale poche persone, otto in tutto, furono salvate per mezzo dell’acqua”.
Pietro allude qui sicuramente allo Sheol, che era considerato come il regno dei morti, nel quale vanno a finire le anime dei trapassati, per i sadducei senza alcuna speranza di cambiamento, per i farisei in attesa della risurrezione finale. Secondo la terminologia ebraica “andare agli inferi” era semplicemente una giro di parole per indicare la morte. Pietro invece la interpreta come una visita in quella regione tenebrosa, nella quale secondo lui erano tenuti come prigionieri tutti coloro che erano vissuti al tempo del diluvio universale. Costoro, pur vedendo che Noè costruiva l’arca, invece di approfittare dell’ultima possibilità che veniva loro concessa dalla pazienza di Dio, non avevano creduto ed così salvati. In altre parole si tratterebbe dell’umanità che è stata sterminata per la sua malvagità al tempo di Noè. Ma forse Pietro pensa più in generale a tutta l’umanità vissuta prima di Cristo, che egli vede contrassegnata dallo stesso peccato che ha provocato la distruzione del diluvio.
A questi spiriti racchiusi nello Sheol come in una prigione, Cristo “andò a portare l’annuncio”. Anche se il testo non mette l’oggetto dell’annuncio ossia la “salvezza”, molti padri (tra i quali Agostino) e esegeti moderni sottintendono “annuncio di salvezza”, e una liberazione vera e propria.
Nell’ultima parte del brano si parla dell’acqua del diluvio “Quest’acqua, come immagine del battesimo, ora salva anche voi”; Pietro intravede qui una specie di analogia tra il diluvio e il battesimo cristiano: l’acqua del diluvio, da cui solo alcuni si salvarono, simboleggia l’economia dell’antica legge, le cui prescrizioni rituali ottenevano molto spesso solo una purificazione esteriore e “carnale”.
È vero che l’acqua del diluvio è stata soprattutto strumento di morte, mentre quella del battesimo porta la salvezza, ma bisogna riconoscere che ambedue hanno in comune l’effetto di purificazione dal contagio del peccato. Il battesimo è presentato anzitutto come un mezzo di salvezza che opera “ora”.
Pietro precisa che il battesimo “non porta via la sporcizia del corpo, ma è invocazione di salvezza rivolta a Dio da parte di una buona coscienza”, cioè la richiesta a Dio perché mantenga l’impegno da lui preso in favore di chi lo riceve con retta intenzione.
La preghiera che accompagna il rito battesimale, non può non essere esaudita se chi la pronunzia non ha una “buona coscienza ”, cioè le disposizioni del cuore che sono richieste per ritornare a Dio.
Queste disposizioni non vengono dalla buona volontà dell’uomo, ma sono anch’esse un dono di Dio, che riceviamo “in virtù della risurrezione di Gesù Cristo”.
Il brano termina con una professione di fede cristologica: questo Cristo che è risorto “è alla destra di Dio, dopo essere salito al cielo e aver ottenuto la sovranità sugli angeli, i Principati e le Potenze.”
Questa espressione riprende le affermazioni delle lettere paoline circa l’esaltazione di Cristo (v. Ef 1,20-21; Col 2,15), alle quali Luca attinge riportando il racconto dell’ascensione (At 1,9), facendole poi presentare da Pietro nella sua prima predica dopo la Pentecoste.
Nel contesto del mistero pasquale, Cristo ha dunque ricevuto la pienezza dello Spirito per proporre la salvezza a tutti gli uomini, anche a quelli che erano vissuti prima di lui, non esclusi i peccatori più pervertiti, come quelli del tempo di Noè.
Pietro vuole qui affermare che la salvezza portata da Cristo opera in modo misterioso a favore di tutti gli uomini, anche di coloro che sono vissuti prima di Lui. Infatti nella sua esperienza personale si rende visibile, in modo chiaro e urgente, quella spinta che ha portato uomini di ogni razza e religione a dare la vita per i loro fratelli.
Dal vangelo secondo Marco
In quel tempo, lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana. Stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano.
Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo».
Mc 1, 12-15
Nella breve introduzione del suo vangelo, Marco, dopo aver parlato di Giovanni il Battista e il battesimo di Gesù, accenna in modo molto conciso al periodo che Gesù trascorre nel deserto. Diversamente dunque da Matteo e Luca, Marco narra la tentazione di Gesù in modo veramente molto conciso: “lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana. Stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano”.
Vediamo che ancora una volta, dopo la sua apparizione al battesimo, interviene nella vita di Gesù lo Spirito di Dio, per indicargli che cosa deve fare per realizzare il suo progetto di salvezza. Sotto l’azione dello Spirito, Gesù dunque si reca nel deserto, cioè nella regione desolata che si estende tra la zona montagnosa della Giudea e il mar Morto (deserto di Giuda), e lì resta quaranta giorni.
I quaranta giorni sono un periodo di tempo simbolico, che richiama i quarant’anni trascorsi dal popolo di Israele nel deserto (Nm 14,34), dove è stato messo alla prova da Dio (Dt 8,2) o i quaranta giorni trascorsi da Mosè sul Sinai (Es 24,18) o quelli impiegati da Elia per raggiungere l’Oreb (1Re 19,8). Il tema della tentazione inoltre rievoca anche la figura di Adamo, il quale era stato tentato dal serpente (Gen 3,1-7).
Sebbene sia stato sospinto nel deserto dallo Spirito, Gesù non è messo alla prova da Dio (come il popolo in Dt 8,2), ma da satana. Questo per non offuscare l’immagine di Dio i giudei del tempo di Gesù si erano abituati ad attribuire la tentazione a un non meglio precisato “avversario” (satana; v.. Gb 1-2), che con il tempo era stato considerato come un’entità diabolica personificata (v. 1Cr 21,1) Questa maggiore sensibilità teologica appare anche nella rilettura sapienziale della vicenda di Adamo, dove il serpente non è più un semplice animale, ma è identificato con il diavolo (v. Sap 2,24).
Anche l’accenno agli animali selvatici viene utilizzato per creare un quadro simbolico, ossia che Gesù vive in mezzo ad essi in piena armonia. Questo ricorda il celebre passo messianico di Isaia (11,6-8) “… Il lupo dimorerà insieme con l’agnello …., il vitello e il leoncello pascoleranno insieme e un fanciullo li guiderà.” L’ostilità tra animali selvatici e domestici, tra belve, serpenti e uomo si cancellerà e si ricomporrà l’orizzonte paradisiaco celebrato nel II capitolo della Genesi col giardino dell’Eden, dove Adamo, l’uomo del progetto creativo divino, viveva in compagnia degli animali, e su di essi dominava come guida voluta dal Signore.
Mentre stava con le fiere, “gli angeli lo servivano”: questo è chiaramente un segno inequivocabile della vicinanza di Dio, che si fa rappresentare dai Suoi messaggeri; ma diversamente da Israele, che nel deserto ha mormorato e si è ribellato contro Dio, e da Adamo che ha mangiato il frutto dell’albero proibito, Gesù non ha ceduto alle lusinghe del tentatore.
Marco introduce la predicazione di Gesù in Galilea con due versetti che rappresentano il primo dei sommari di cui è ricco il suo vangelo: “Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo”.
Invece di recarsi in Giudea, zona densamente abitata da giudei, dove avevano sede le principali istituzioni giudaiche, Gesù torna in Galilea, Sua terra d’origine, che a quei tempi veniva chiamata “Galilea delle genti”, appellativo che richiamava il carattere misto della sua popolazione (V. Mt 4,15).
Il termine “proclamare” o predicare, con cui è indicata l’attività di Gesù in Galilea, indica la proclamazione pubblica fatta da un araldo; con esso i cristiani indicavano l’annunzio della salvezza fatto dagli apostoli (v. At 8,5; Rm 10,8; 1Cor 1,23).
Anche l’espressione “vangelo di Dio”, appartiene al linguaggio della prima comunità cristiana (v. Rm 1,1; 15,16; 2Cor 11,7) e indica non tanto la buona novella che ha per oggetto Dio, ma quella che proviene da Dio stesso, in quanto autore della salvezza.
Il lieto annunzio proclamato da Gesù è espresso con una frase molto concisa. Anzitutto egli afferma, con un linguaggio che si ispira all’apocalittica giudaica, che “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino” Il tempo (kairos), cioè il periodo dell’attesa, che prepara il momento attuale da quello finale e conclusivo della storia, è giunto al termine; di conseguenza il “regno di Dio”, cioè l’esercizio pieno e definitivo della sovranità divina in questo mondo, “è vicino” sta per realizzarsi in questa terra.
“convertitevi e credete nel Vangelo”. Come già aveva fatto Giovanni il Battista, Gesù invita a “convertirsi” (metanoein, cambiare mente) cioè a “ritornare” a Dio, cambiando mentalità e sottomettendosi una volta per tutte alla Sua sovranità; ma per fare ciò è necessario “credere nel vangelo”, cioè aprirsi al lieto annunzio ed essere disposti a basare su di esso tutta la propria vita. Nella loro essenzialità e nella loro forza queste parole sono come una sferzata che squarcia il grigiore, la superficialità, il compromesso e le abitudini consolidate dell’esistenza umana.
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“In questa prima domenica di Quaresima, il Vangelo richiama i temi della tentazione, della conversione e della Buona notizia. Scrive l’evangelista Marco: «Lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana». Gesù va nel deserto per prepararsi alla sua missione nel mondo. Egli non ha bisogno di conversione, ma, in quanto uomo, deve passare attraverso questa prova, sia per Sé stesso, per obbedire alla volontà del Padre, sia per noi, per darci la grazia di vincere le tentazioni. Questa preparazione consiste nel combattimento contro lo spirito del male, cioè contro il diavolo.
Anche per noi la Quaresima è un tempo di “agonismo” spirituale, di lotta spirituale: siamo chiamati ad affrontare il Maligno mediante la preghiera per essere capaci, con l’aiuto di Dio, di vincerlo nella nostra vita quotidiana. Noi lo sappiamo, il male è purtroppo all’opera nella nostra esistenza e attorno a noi, dove si manifestano violenze, rifiuto dell’altro, chiusure, guerre, ingiustizie. Tutte queste sono opere del maligno, del male.
Subito dopo le tentazioni nel deserto, Gesù comincia a predicare il Vangelo, cioè la Buona notizia, la seconda parola. La prima era “tentazione”; la seconda, “Buona notizia”. E questa Buona notizia esige dall’uomo conversione - terza parola - e fede. Egli annuncia: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino»; poi rivolge l’esortazione: «Convertitevi e credete nel Vangelo», credete cioè a questa Buona notizia che il regno di Dio è vicino.
Nella nostra vita abbiamo sempre bisogno di conversione - tutti i giorni! -, e la Chiesa ci fa pregare per questo. Infatti, non siamo mai sufficientemente orientati verso Dio e dobbiamo continuamente indirizzare la nostra mente e il nostro cuore a Lui. Per fare questo bisogna avere il coraggio di respingere tutto ciò che ci porta fuori strada, i falsi valori che ci ingannano attirando in modo subdolo il nostro egoismo. Invece dobbiamo fidarci del Signore, della sua bontà e del suo progetto di amore per ciascuno di noi. La Quaresima è un tempo di penitenza, sì, ma non è un tempo triste! È un tempo di penitenza, ma non è un tempo triste, di lutto. E’ un impegno gioioso e serio per spogliarci del nostro egoismo, del nostro uomo vecchio, e rinnovarci secondo la grazia del nostro Battesimo.
Soltanto Dio ci può donare la vera felicità: è inutile che perdiamo il nostro tempo a cercarla altrove, nelle ricchezze, nei piaceri, nel potere, nella carriera… Il regno di Dio è la realizzazione di tutte le nostre aspirazioni, perché è, al tempo stesso, salvezza dell’uomo e gloria di Dio. In questa prima domenica di Quaresima siamo invitati ad ascoltare con attenzione e raccogliere questo appello di Gesù a convertirci e a credere nel Vangelo. Siamo esortati a iniziare con impegno il cammino verso la Pasqua, per accogliere sempre più la grazia di Dio, che vuole trasformare il mondo in un regno di giustizia, di pace, di fraternità.
Maria Santissima ci aiuti a vivere questa Quaresima con fedeltà alla Parola di Dio e con una preghiera incessante, come fece Gesù nel deserto. Non è impossibile! Si tratta di vivere le giornate con il desiderio di accogliere l’amore che viene da Dio e che vuole trasformare la nostra vita e il mondo intero.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 18 febbraio 2018
Il Mercoledì delle Ceneri segna, nella tradizione cristiana, l'inizio della Quaresima, il tempo di preparazione alla Pasqua. Il carattere penitenziale della Quaresima si rende visibile proprio in questo giorno attraverso l’austero rito dell’imposizione delle ceneri che ha la sua origine nel battesimo poiché la penitenza è nell’insieme fondata sulla stessa realtà battesimale per il perdono dei peccati ed è poi ripresa e resa segno espressivo, per quanti ricadono nel peccato, nel sacramento della Riconciliazione.
L’invito alla riconciliazione è naturalmente il filo conduttore di tutte e tre le letture liturgiche.
Nella prima lettura, tratta dal Libro del profeta Gioele, il Signore ci invita a tornare a Lui con tutto il cuore…. Non basta offrire a Dio le primizie della terra, ma bisogna che l’uomo riconosca i propri limiti e offra a Dio il suo cuore pentito.
Nella seconda lettura, nella seconda lettera di S.Paolo ai Corinzi, l’apostolo si presenta come ambasciatore di Cristo ed esorta i Corinzi a riconciliarsi senza indugio con Dio, ricordando quanto sia stato grande l’amore di Dio per loro.
Nel brano del Vangelo Matteo, Gesù ci rivela il senso profondo delle pratiche religiose e penitenziali che prima erano del giudaismo e del cristianesimo: l’elemosina, la preghiera e il digiuno. Gesù ci incoraggia a fare tutto il bene possibile, però nel segreto del proprio cuore, per avere l'approvazione solo dal Padre misericordioso.
La vita cristiana esige l’autentico coinvolgimento di tutta la nostra persona: pensieri, desideri, corporeità, comunione e relazione con gli altri e con Dio.
Dal libro del profeta Gioèle
Così dice il Signore: « ritornate a me con tutto il cuore, con digiuni, con pianti e lamenti.
Laceratevi il cuore e non le vesti,
ritornate al Signore, vostro Dio,
perché egli è misericordioso e pietoso,
lento all’ira, di grande amore, pronto a ravvedersi riguardo al male».
Chi sa che non cambi e si ravveda
e lasci dietro a sé una benedizione?
Offerta e libagione per il Signore, vostro Dio.
Suonate il corno in Sion, proclamate un solenne digiuno, convocate una riunione sacra.
Radunate il popolo, indite un’assemblea solenne,
chiamate i vecchi, riunite i fanciulli, i bambini lattanti; esca lo sposo dalla sua camera
e la sposa dal suo talamo.
Tra il vestibolo e l’altare piangano i sacerdoti, ministri del Signore, e dicano:
«Perdona, Signore, al tuo popolo
e non esporre la tua eredità al ludibrio
e alla derisione delle genti».
Perché si dovrebbe dire fra i popoli:
«Dov’è il loro Dio?».
Il Signore si mostra geloso per la sua terra
e si muove a compassione del suo popolo.
Gl 2,12-18
Il Libro del profeta Gioele è un testo contenuto sia nella Bibbia ebraica (Tanakh) che quella cristiana. E’ stato scritto in ebraico e secondo l'ipotesi maggiormente condivisa dagli studiosi, la redazione del libro è avvenuta nel Regno di Giuda, forse tra la fine VII - inizio VI secolo a.C.. E’ un libro breve, di appena 4 capitoli in cui nella prima parte presenta l'invasione delle cavallette e il ritorno del popolo a Dio che, nel peccato, ha riconosciuto la causa di questa calamità; nella seconda parte predice l'intervento futuro di Dio che, con il perdono, concede il dono dello Spirito santo che fa nuove tutte le cose
Sappiamo molto poco del profeta Gioele, che visse sicuramente a Gerusalemme, il cui nome significa “Yahweh è Dio”, tutto ciò che ci viene detto a suo riguardo si trova in Gioele 1:1: “Parola del Signore, rivolta a Gioele, figlio di Petuel.”Da alcuni è definito il profeta della Pentecoste per la profezia sull'effusione dello Spirito Santo avveratasi il giorno della Pentecoste (Atti 2). È molto difficile stabilire il periodo in cui Gioele profetizzò; comunque, la maggior parte degli studiosi lo considera il primo dei profeti minori, visse durante il regno di Joas (circa 800 a.C.); si è scelta questa datazione perché si ritiene che Amos (760-747) abbia usato i testi di Gioele (v,Amos 9:13). Il tema centrale del messaggio di Gioele è il “Giorno del Signore”, sia sotto l'aspetto negativo sia sotto quello positivo. Egli ne parla negativamente presentando la collera divina, le tenebre e la vendetta contro i malvagi, citando avvenimenti naturali come siccità e invasione di insetti. Ne parla anche positivamente quando presenta la riabilitazione per i giusti, quando Dio invierà a tutti i membri del suo popolo il dono dello Spirito. In questo contesto Gioele parla della valle di Giosafat (dall'ebraico Jehôshafat, «Jahweh giudica»), parola usata per indicare il luogo ideale dove convergeranno tutte le genti. Ogni profeta ha un suo punto di vista e vuole raggiungere dei precisi obiettivi, e Gioele, di fronte ad una grande carestia provocata dall'invasione delle cavallette, che ha colpito la terra di Giuda, non si sente di considerarla un fatto naturale, ma un segno del giudizio di Dio e a questo giudizio non basta prepararsi con un semplice rito penitenziale.
In questo brano egli esprime con queste parole il messaggio del Signore: “ritornate a me con tutto il cuore, con digiuni, con pianti e lamenti. Laceratevi il cuore e non le vesti,ritornate al Signore, vostro Dio, perché egli è misericordioso e pietoso, lento all’ira, di grande amore, pronto a ravvedersi riguardo al male”.
L'invito a lacerarsi il cuore, è un termine che richiama la sofferenza dello strappo da cui si vorrebbe fuggire, ma a leggerlo in profondità, accostandolo ad altri passi biblici, vi troviamo non un invito alla morte ma alla vita, alla pienezza della vita.
Come ultima nota possiamo sottolineare che Gioele è anche un poeta che sa gridare il proprio messaggio con un linguaggio chiaro e tono lirico. E’ il profeta della quaresima e della Pentecoste. Durante le settimane che precedono la Pasqua i testi di Gioele ci esortano ad una seria conversione. Il racconto stesso della Pentecoste vede diffondersi sul mondo intero i doni dello Spirito che questo profeta promette (At 2,17-21)
Salmo 50- Perdonaci, Signore: abbiamo peccato.
Pietà di me, o Dio, nel tuo amore;
nella tua grande misericordia
cancella la mia iniquità.
Lavami tutto dalla mia colpa,
dal mio peccato rendimi puro.
Sì, le mie iniquità io le riconosco,
il mio peccato mi sta sempre dinanzi.
Contro di te, contro te solo ho peccato,
quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto.
Rendimi la gioia della tua salvezza,
sostienimi con uno spirito generoso.
Signore, apri le mie labbra
e la mia bocca proclami la tua lode.
Questo salmo la tradizione lo dice scritto da Davide dopo il suo peccato, e mi pare di dovere aggiungere durante la congiura del figlio Assalonne, dove Davide vide avverarsi la sventura sulla sua casa annunciatagli dal profeta Natan (2Sam 12,10). Fa un po’ di difficoltà all’attribuzione a Davide del salmo l’ultimo versetto dove l’orante invoca che siano rialzate le mura di Gerusalemme, poiché questo porterebbe al tempo del ritorno dall’esilio. E’ comune, tuttavia, risolvere il caso dicendo che è un’aggiunta messa durante l’esilio per un adattamento del salmo alla situazione di distruzione di Gerusalemme.
Ma considerando che il salmo non poteva essere adatto in tutto alla situazione dell’esilio, poiché sacrifici ed olocausti (“non gradisci il sacrificio; se offro olocausti, non li accetti”) in terra straniera non potevano essere fatti, bisogna pensare che le mura abbattute sono un’immagine drammatica della presa di possesso di Gerusalemme da parte di Assalonne; Gerusalemme era conquistata e come “Città di Davide” veniva a finire.
L’orante si apre a Dio in un invocazione di misericordia. Domanda pietà.
Si sente imbrattato interiormente. Il rimorso lo attanaglia, si sente nella sventura. Non ricorre alla presentazioni di circostanze, di spinte al peccato, lui coscientemente l’ha fatto: “Contro di te, contro te solo ho peccato, quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto”. Tuttavia presenta a Dio la sua debolezza di creatura ferita dall’antica colpa che destò al senso la carne: “Ecco, nella colpa sono io stato nato, nel peccato mi ha concepito mia madre”. Con ciò non intende scusarsi poiché aggiunge che Dio vuole la sincerità nell'intimo, cioè nel cuore, e che anche illumina intimamente il cuore dell’uomo affinché non ceda alle lusinghe del peccato: “Ma tu gradisci la sincerità nel mio intimo, nel segreto del cuore mi insegni la sapienza”.
Ancora l’orante innalza a Dio un grido per essere purificato, per essere liberato dalle sventure che lo colpiscono.
Egli prosegue la sua supplica chiedendo: “Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo”. Il peccato lo ha indebolito, gli sta sempre dinanzi e vorrebbe non averlo commesso.
E’ umile, pienamente umile, e domanda a Dio di non essere respinto dalla sua presenza e privato del dono del suo “santo spirito”; quel “santo spirito” che aveva ricevuto al momento della sua consacrazione a re. Quel “santo spirito” che gli dava forza e sapienza nel governare e nel guidare i sudditi al bene, all’osservanza della legge.
Consapevole della sua debolezza ora domanda umilmente di essere aiutato: “sostieni con me un spirito generoso”.
Ha creato del male ad Israele col suo peccato, ma rimedierà, con l’aiuto di Dio: “Insegnerò ai ribelli le tue vie e i peccatori a te ritorneranno”.
Ma il peccato veramente gli “sta sempre dinanzi”. Egli non solo è stato adultero, ma anche omicida: “Liberami dal sangue, o Dio, Dio mia salvezza”. Salvato dal peccato che l’opprime, egli esalterà la giustizia di Dio, che si attua nella misericordia. Salvato, dal peso del peccato e dalla rottura con Dio egli potrà di nuovo lodare Dio: “La mia bocca proclami la tua lode”.
Ha provato a presentare a Dio sacrifici e olocausti, ma è stato rifiutato. Così ha percependo il rifiuto di Dio è arrivato al massimo del dolore, e questo dolore di contrito lo presenta a Dio: “Uno spirito contrito è sacrificio a Dio”. Egli sa che Dio non disprezza “un cuore contrito e affranto”.
Davide presenta infine Sion, Gerusalemme, che è stata occupata e con ciò è stata messa in difficoltà l’unità di Israele che con tanta fatica aveva saputo costruire.
Riedificate le mura di Gerusalemme, nel senso di ricomposta la forza di Gerusalemme, sede dell’arca e del trono, e attuato un risveglio religioso in Israele, allora i sacrifici e gli olocausti torneranno ad essere graditi a Dio perché fatti nell’osservanza alla legge, nella corrispondenza al dono dell’alleanza.
Commento di P.Paolo Berti
Dalla seconda lettera di S.Paolo Apostolo ai Corinzi
Fratelli, noi, in nome di Cristo, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta.
Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio.
Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio. Poiché siamo suoi collaboratori, vi esortiamo a non accogliere invano la grazia di Dio.
Egli dice infatti: «Al momento favorevole ti ho esaudito e nel giorno della salvezza ti ho soccorso». Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza!
2Cor 5,20-6,2
Paolo scrisse la seconda lettera al Corinzi, spinto dai gravi avvenimenti che avevano scosso la comunità di Corinto. Nell’anno 56 Paolo è a Efeso (At 19) e viene a sapere che alcuni contestatori giudeo-cristiani stanno sollevando la comunità contro di lui. Vi fa una breve visita, ma è ricevuto freddamente, stanco e forse implicato troppo personalmente nel conflitto, non riesce ad aggiustare nulla, anzi la sua visita accresce piuttosto il disordine, si ripromette allora di ritornare in seguito.
Meno ricca della prima in insegnamenti dottrinali, la seconda lettera ai Corinzi ha il grande merito di introdurci nella vita interiore dell’Apostolo, in cui traspare il suo carattere appassionato. E’ una lettera ardente che può essere considerata come il suo diario intimo, le sue “confessioni”.
Nei primi 6 capitoli Paolo ripercorre la sua vocazione di predicatore del Vangelo e della situazione che si era creata con la comunità di Corinto. I contorni veri di questo malinteso non sono chiari , ma questo diventa per Paolo un motivo per ricordare le motivazioni del suo impegno a favore del Vangelo.
Il brano che abbiamo è la parte finale in cui ritroviamo il motivo fondamentale della lettera: la riconciliazione tra Dio e gli uomini.
“…in nome di Cristo, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio”.
Qui Paolo ricorda che la salvezza operata da Cristo, si può considerare come una grande opera di riconciliazione di cui lui, Paolo, ne è ambasciatore. Egli quindi esorta i Corinzi fino a supplicarli a riconciliarsi senza indugio con Dio, ricordando quanto sia stato grande l’amore di Dio per loro. E continua affermando:”Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio”. L'opera della riconciliazione si è potuta realizzare attraverso la morte in croce di Gesù, che pur non avendo peccato è stato trattato da peccato, ha subito la morte del malfattore, perché noi, i veri peccatori, potessimo diventare giusti davanti a Dio.
“Poiché siamo suoi collaboratori, vi esortiamo a non accogliere invano la grazia di Dio”
Di nuovo Paolo ricorda la propria qualità di collaboratore di Dio e in questa veste comunica che questa grazia della riconciliazione richiede una pronta risposta. Non si può rimandare l'adesione a Dio perché si tratta di una realtà davvero importante.
“Egli dice infatti: «Al momento favorevole ti ho esaudito e nel giorno della salvezza ti ho soccorso». Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza!”
Questa citazione è tratta da Is 49,8. Paolo la rilegge come promessa divina che si attua al presente: “ecco ora il il momento favorevole!” Riconciliarsi con Dio per l'apostolo è esigenza improrogabile, perché per la storia umana è suonata l'ora in cui Dio ha deciso di accogliere come amici coloro che gli erano diventati nemici. E' il giorno della pace con il Padre e tra gli uomini!
Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «State attenti a non praticare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere ammirati da loro, altrimenti non c’è ricompensa per voi presso il Padre vostro che è nei cieli. Dunque, quando fai l’elemosina, non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipòcriti nelle sinagoghe e nelle strade, per essere lodati dalla gente. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Invece, mentre tu fai l’elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra, perché la tua elemosina resti nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.
E quando pregate, non siate simili agli ipòcriti che, nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, amano pregare stando ritti, per essere visti dalla gente. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Invece, quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.
E quando digiunate, non diventate malinconici come gli ipòcriti, che assumono un’aria disfatta per far vedere agli altri che digiunano. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Invece, quando tu digiuni, profùmati la testa e làvati il volto, perché la gente non veda che tu digiuni, ma solo il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà».
Mt 6,1-6,16-18
Questo brano del Vangelo di Matteo fa parte del discorso della montagna, in cui Gesù presenta le nove Beatitudini. Il discorso segue quanto detto prima nel versetto 5,20; “ se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli”, e questo brano inizia con il monito: “State attenti a non praticare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere ammirati da loro, altrimenti non c’è ricompensa per voi presso il Padre vostro che è nei cieli.”
Il termine giustizia è usato nella Bibbia per riassumere i rapporti dell'uomo con Dio, la pietà, la religiosità, la fede e con questo termine Gesù intendeva un comportamento che sia conforme alla volontà divina.
“Dunque, quando fai l’elemosina, non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipòcriti nelle sinagoghe e nelle strade, per essere lodati dalla gente. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa”.
Gesù non voleva dire che non bisogna mai compiere azioni buone in pubblico, dato che aveva esortato prima i discepoli a far ‘risplendere la loro luce davanti agli uomini’. (Mt. 5:14-16) , ma non avremo nessuna “ricompensa’” dal nostro Padre celeste se facciamo le cose “per essere osservati” e ammirati, come attori che recitano a teatro.
I “doni di misericordia” erano offerte a favore dei bisognosi. (v. Isaia 58:6, 7). Gesù e gli apostoli avevano un fondo comune da usare per aiutare i poveri. (Gv. 12:5-8; 13:29), dato che prima di fare l’elemosina non si suonava letteralmente la tromba, Gesù evidentemente usò un esempio esagerato quando disse che non dobbiamo “suonare la tromba” (*) davanti a noi quando facciamo “l’elemosina” . Non dobbiamo cioè sbandierare la nostra generosità, come facevano i farisei. Gesù li chiama ipocriti perché rendevano note le loro offerte “nelle sinagoghe e nelle strade”. Quegli ipocriti ‘hanno già ricevuto la loro ricompensa”, ossia avrebbero ricevuto soltanto il plauso degli uomini non certo il premio del Signore.
Come dovevano agire invece i discepoli ed anche noi oggi? Gesù dice: “quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà” .
Ci ricompensa permettendoci di stringere un’intima relazione con Lui, perdonando i nostri peccati e concedendoci la vita eterna. (Prov. 3:32; Giov. 17:3; Efes. 1:7) Questo è decisamente meglio che ricevere l’approvazione degli uomini. Gesù incoraggia a fare tutto il bene possibile, però nel segreto del proprio cuore, per avere l'approvazione solo dal Padre misericordioso.
Nel capitolo precedente Gesù ha esortato ad essere perfetti “come è perfetto il Padre celeste” (5,48), ora Egli spiega ai suoi discepoli che è la relazione con il Padre la sorgente del nostro essere e agire; solo in Lui essi si possono sentire come figli liberi, amati e felici, capaci di portare tanto frutto di bontà verso gli altri.
(* )Nota – Sul termine “suonare la tromba” un esegeta ha dato un’ulteriore spiegazione: il tempio di Gerusalemme aveva fuori le fessure da cui entravano le monete e all’interno del tempio c’era una piccola stanzetta, dove andava chi voleva fare un’offerta senza essere visto. Quando la gente voleva essere notata, l’offerta la faceva fuori, non soltanto perché era visibile, ma perché le monete entrando scivolavano e facevano un rumore come di tromba molto forte, e tutti si giravano per ammirare. Realmente c’era un’acustica ed era stato fatto apposta perché si lodasse e si evidenziasse la persona.
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Messaggio del Santo Padre Francesco per la Quaresima 2021
Cari fratelli e sorelle!
la Quaresima è un tempo di rinnovamento per la Chiesa, le comunità e i singoli fedeli. Soprattutto però è un “tempo di grazia” (2 Cor 6,2). Dio non ci chiede nulla che prima non ci abbia donato: “Noi amiamo perché egli ci ha amati per primo” (1 Gv 4,19). Lui non è indifferente a noi. Ognuno di noi gli sta a cuore, ci conosce per nome, ci cura e ci cerca quando lo lasciamo. Ciascuno di noi gli interessa; il suo amore gli impedisce di essere indifferente a quello che ci accade. Però succede che quando noi stiamo bene e ci sentiamo comodi, certamente ci dimentichiamo degli altri (cosa che Dio Padre non fa mai), non ci interessano i loro problemi, le loro sofferenze e le ingiustizie che subiscono… allora il nostro cuore cade nell’indifferenza: mentre io sto relativamente bene e comodo, mi dimentico di quelli che non stanno bene. Questa attitudine egoistica, di indifferenza, ha preso oggi una dimensione mondiale, a tal punto che possiamo parlare di una globalizzazione dell’indifferenza. Si tratta di un disagio che, come cristiani, dobbiamo affrontare.
Quando il popolo di Dio si converte al suo amore, trova le risposte a quelle domande che continuamente la storia gli pone. Una delle sfide più urgenti sulla quale voglio soffermarmi in questo Messaggio è quella della globalizzazione dell’indifferenza. L’indifferenza verso il prossimo e verso Dio è una reale tentazione anche per noi cristiani. Abbiamo perciò bisogno di sentire in ogni Quaresima il grido dei profeti che alzano la voce e ci svegliano.Dio non è indifferente al mondo, ma lo ama fino a dare il suo Figlio per la salvezza di ogni uomo. Nell’incarnazione, nella vita terrena, nella morte e risurrezione del Figlio di Dio, si apre definitivamente la porta tra Dio e uomo, tra cielo e terra. E la Chiesa è come la mano che tiene aperta questa porta mediante la proclamazione della Parola, la celebrazione dei Sacramenti, la testimonianza della fede che si rende efficace nella carità (cfr Gal 5,6). Tuttavia, il mondo tende a chiudersi in se stesso e a chiudere quella porta attraverso la quale Dio entra nel mondo e il mondo in Lui. Così la mano, che è la Chiesa, non deve mai sorprendersi se viene respinta, schiacciata e ferita.Il popolo di Dio ha perciò bisogno di rinnovamento, per non diventare indifferente e per non chiudersi in se stesso. Vorrei proporvi tre passi da meditare per questo rinnovamento.
1. “Se un membro soffre, tutte le membra soffrono” (1 Cor 12,26) – La Chiesa
La carità di Dio che rompe quella mortale chiusura in se stessi che è l’indifferenza, ci viene offerta dalla Chiesa con il suo insegnamento e, soprattutto, con la sua testimonianza. Si può però testimoniare solo qualcosa che prima abbiamo sperimentato. Il cristiano è colui che permette a Dio di rivestirlo della sua bontà e misericordia, di rivestirlo di Cristo, per diventare come Lui, servo di Dio e degli uomini. Ce lo ricorda bene la liturgia del Giovedì Santo con il rito della lavanda dei piedi. Pietro non voleva che Gesù gli lavasse i piedi, ma poi ha capito che Gesù non vuole essere solo un esempio per come dobbiamo lavarci i piedi gli uni gli altri. Questo servizio può farlo solo chi prima si è lasciato lavare i piedi da Cristo. Solo questi ha “parte” con lui (Gv 13,8) e così può servire l’uomo. La Quaresima è un tempo propizio per lasciarci servire da Cristo e così diventare come Lui. Ciò avviene quando ascoltiamo la Parola di Dio e quando riceviamo i sacramenti, in particolare l’Eucaristia. In essa diventiamo ciò che riceviamo: il corpo di Cristo. In questo corpo quell’indifferenza che sembra prendere così spesso il potere sui nostri cuori, non trova posto. Poiché chi è di Cristo appartiene ad un solo corpo e in Lui non si è indifferenti l’uno all’altro. “Quindi se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui” (1 Cor 12,26).
La Chiesa è communio sanctorum perché vi partecipano i santi, ma anche perché è comunione di cose sante: l’amore di Dio rivelatoci in Cristo e tutti i suoi doni. Tra essi c’è anche la risposta di quanti si lasciano raggiungere da tale amore. In questa comunione dei santi e in questa partecipazione alle cose sante nessuno possiede solo per sé, ma quanto ha è per tutti. E poiché siamo legati in Dio, possiamo fare qualcosa anche per i lontani, per coloro che con le nostre sole forze non potremmo mai raggiungere, perché con loro e per loro preghiamo Dio affinché ci apriamo tutti alla sua opera di salvezza.
2. “Dov’è tuo fratello?” (Gen 4,9) – Le parrocchie e le comunità
Quanto detto per la Chiesa universale è necessario tradurlo nella vita delle parrocchie e comunità. Si riesce in tali realtà ecclesiali a sperimentare di far parte di un solo corpo? Un corpo che insieme riceve e condivide quanto Dio vuole donare? Un corpo, che conosce e si prende cura dei suoi membri più deboli, poveri e piccoli? O ci rifugiamo in un amore universale che si impegna lontano nel mondo, ma dimentica il Lazzaro seduto davanti alla propria porta chiusa ? (cfr Lc 16,19-31). Per ricevere e far fruttificare pienamente quanto Dio ci dà vanno superati i confini della Chiesa visibile in due direzioni. In primo luogo, unendoci alla Chiesa del cielo nella preghiera. Quando la Chiesa terrena prega, si instaura una comunione di reciproco servizio e di bene che giunge fino al cospetto di Dio. Con i santi che hanno trovato la loro pienezza in Dio, formiamo parte di quella comunione nella quale l’indifferenza è vinta dall’amore. La Chiesa del cielo non è trionfante perché ha voltato le spalle alle sofferenze del mondo e gode da sola. Piuttosto, i santi possono già contemplare e gioire del fatto che, con la morte e la resurrezione di Gesù, hanno vinto definitivamente l’indifferenza, la durezza di cuore e l’odio. Finché questa vittoria dell’amore non compenetra tutto il mondo, i santi camminano con noi ancora pellegrini. Santa Teresa di Lisieux, dottore della Chiesa, scriveva convinta che la gioia nel cielo per la vittoria dell’amore crocifisso non è piena finché anche un solo uomo sulla terra soffre e geme: “Conto molto di non restare inattiva in cielo, il mio desiderio è di lavorare ancora per la Chiesa e per le anime” (Lettera 254 del 14 luglio 1897).
Anche noi partecipiamo dei meriti e della gioia dei santi ed essi partecipano alla nostra lotta e al nostro desiderio di pace e di riconciliazione. La loro gioia per la vittoria di Cristo risorto è per noi motivo di forza per superare tante forme d’indifferenza e di durezza di cuore. D’altra parte, ogni comunità cristiana è chiamata a varcare la soglia che la pone in relazione con la società che la circonda, con i poveri e i lontani. La Chiesa per sua natura è missionaria, non ripiegata su se stessa, ma mandata a tutti gli uomini. Questa missione è la paziente testimonianza di Colui che vuole portare al Padre tutta la realtà ed ogni uomo. La missione è ciò che l’amore non può tacere. La Chiesa segue Gesù Cristo sulla strada che la conduce ad ogni uomo, fino ai confini della terra (cfr At 1,8). Così possiamo vedere nel nostro prossimo il fratello e la sorella per i quali Cristo è morto ed è risorto. Quanto abbiamo ricevuto, lo abbiamo ricevuto anche per loro. E parimenti, quanto questi fratelli possiedono è un dono per la Chiesa e per l’umanità intera. Cari fratelli e sorelle, quanto desidero che i luoghi in cui si manifesta la Chiesa, le nostre parrocchie e le nostre comunità in particolare, diventino delle isole di misericor- dia in mezzo al mare dell’indifferenza!
3. “Rinfrancate i vostri cuori !” (Gc 5,8) – Il singolo fedele
Anche come singoli abbiamo la tentazione dell’indifferenza. Siamo saturi di notizie e immagini sconvolgenti che ci narrano la sofferenza umana e sentiamo nel medesimo tempo tutta la nostra incapacità ad intervenire. Che cosa fare per non lasciarci assorbire da questa spirale di spavento e di impotenza? In primo luogo, possiamo pregare nella comunione della Chiesa terrena e ce- leste. Non trascuriamo la forza della preghiera di tanti! L’iniziativa 24 ore per il Signore, che auspico si celebri in tutta la Chiesa, anche a livello diocesano, nei giorni 13 e 14 marzo, vuole dare espressione a questa necessità della preghiera. In secondo luogo, possiamo aiutare con gesti di carità, raggiungendo sia i vicini che i lontani, grazie ai tanti organismi di carità della Chiesa. La Quaresima è un tempo propizio per mostrare questo interesse all’altro con un segno, anche piccolo, ma con- creto, della nostra partecipazione alla comune umanità. E in terzo luogo, la sofferenza dell’altro costituisce un richiamo alla conversione, perché il bisogno del fratello mi ricorda la fragilità della mia vita, la mia dipendenza da Dio e dai fratelli. Se umilmente chiediamo la grazia di Dio e accettiamo i limiti delle nostre possibilità, allora confideremo nelle infinite possibilità che ha in serbo l’amore di Dio. E potremo resistere alla tentazione diabolica che ci fa credere di poter salvarci e salvare il mondo da soli.
Per superare l’indifferenza e le nostre pretese di onnipotenza, vorrei chiedere a tutti di vivere questo tempo di Quaresima come un percorso di formazione del cuore, come ebbe a dire Benedetto XVI (Lett. enc. Deus caritas est, 31). Avere un cuore misericordioso non significa avere un cuore debole. Chi vuole essere misericordioso ha bisogno di un cuore forte, saldo, chiuso al tentatore, ma aperto a Dio. Un cuore che si lasci compenetrare dallo Spirito e portare sulle strade dell’amore che conducono ai fratelli e alle sorelle. In fondo, un cuore povero, che conosce cioè le proprie povertà e si spende per l’altro. Per questo, cari fratelli e sorelle, desidero pregare con voi Cristo in questa Quaresima: “Fac cor nostrum secundum cor tuum”: “Rendi il nostro cuore simile al tuo” (Supplica dalle Litanie al Sacro Cuore di Gesù). Allora avremo un cuore forte e misericordioso, vigile e generoso, che non si lascia chiudere in se stesso e non cade nella vertigine della globalizzazione dell’indifferenza.
Con questo auspicio, assicuro la mia preghiera affinché ogni credente e ogni comunità ecclesiale percorra con frutto l’itinerario quaresimale, e vi chiedo di pregare per me. Che il Signore vi benedica e la Madonna vi custodisca.
Papa Francesco
1. Il 17 febbraio – mercoledì delle ceneri, inizio della Quaresima, tempo di preparazione alla Pasqua. E’ giorno di astinenza e di digiuno. Durante le Ss. Messe alle ore 9,00 – 11,00 – 17,00 e 18,30 ci sarà l’imposizione delle ceneri.
2. Da venerdì prossimo 19 febbraio inizia il pio esercizio della Via Crucis alle ore 17,45.
3. Si ringrazia tutti coloro che in questo tempo di pandemia sostengono i malati e tutti coloro che si impegnano ad aiutare i poveri.
Le letture che la liturgia di questa domenica ci presenta, hanno ancora come filo conduttore la sofferenza, la malattia, l’emarginazione e la guarigione
Nella prima lettura, tratta dal libro del Levitico, troviamo elencate alcune prescrizioni della legislazione mosaica riguardanti i colpiti di lebbra. Questa malattia non era solo sofferenza di tipo fisico, ma aveva una forte ripercussione morale, perchè il malato andava incontro all’emarginazione più assoluta. Certi tipi di malattia a volte contagiose, venivano considerate conseguenza di gravi peccati e, quindi, la persona che ne era affetta, doveva essere esclusa da qualsiasi tipo di relazione umana.
Nella seconda lettura, nella sua lettera ai Corinzi, l’apostolo ci offre un’esemplare stile di vita cristiana invitandoci a fare tutto per la gloria di Dio, divenendo suoi imitatori, come lui lo è di Cristo.
L’evangelista Marco, nel brano del suo Vangelo, ci racconta di come Gesù nei confronti di un lebbroso non si limita alla sola guarigione, ma lo tocca, pur sapendo di andare contro le severe leggi del suo ambiente. È significativo che la guarigione avvenga proprio in forza di questa trasgressione. Gesù porta la purezza proprio là dove le leggi umane, in nome di Dio, proclamavano l’impurità e imponevano una separazione che nulla aveva a che vedere con la dignità della persona umana creata da Dio.
Dal Libro del Levitico
Il Signore parlò a Mosè e ad Aronne e disse: «Se qualcuno ha sulla pelle del corpo un tumore o una pustola o macchia bianca che faccia sospettare una piaga di lebbra, quel tale sarà condotto dal sacerdote Aronne o da qualcuno dei sacerdoti, suoi figli.
Il lebbroso colpito da piaghe porterà vesti strappate e il capo scoperto; velato fino al labbro superiore, andrà gridando: “Impuro! Impuro!”. Sarà impuro finché durerà in lui il male; è impuro, se ne starà solo, abiterà fuori dell’accampamento».
Lv 13,1-2, 45-46
Il libro del Levitico è stato scritto in Giudea da autori ignoti intorno al VI-V secolo a.C. È composto da 27 capitoli e si presenta come la continuazione dell’Esodo, in quanto riporta una grande quantità di materiale legislativo che Dio avrebbe rivelato a Mosè mentre si trovava sul Sinai. Si tratta in sostanza di norme e prescrizioni che riguardano il servizio del tempio, il sacerdozio e la tutela della purezza rituale nei settori più disparati della vita individuale e sociale. I riti e le osservanze prescritte sono spiegati con cura, ma si dice ben poco riguardo al loro significato.
Il libro presenta due grandi sezioni contenenti molte delle formule tipiche delle “mitzvot” ebraiche che sono 613 precetti, che l'ebreo ortodosso deve seguire per adempiere al suo ruolo sacerdotale nel mondo. Nella prima sezione (cc. 1-16) si regolano ambiti cultuali, gestiti direttamente dai sacerdoti: sacrifici, il ruolo sacerdotale e la purezza; nella seconda invece (cc. 17-26) vengono trattate questioni legali riguardanti il comportamento della comunità e dei singoli sia in pubblico sia nella vita privata. Il libro termina con un’appendice relativa ai voti (c. 27).
Nella prima parte del libro uno spazio notevole è assegnato alla lebbra (cc. 13-14), che viene esaminata non dal punto di vista sanitario, ma da quello dell’impurità che essa provoca. Perciò vengono elencati i diversi tipi di lebbra, sia degli uomini, dei vestiti e delle case, le loro manifestazioni, nonché le procedure richieste per la purificazione da parte dei sacerdoti.
Il questo brano, che riprende i versetti iniziali del c. 13 (vv. 1-2), sono elencate le prescrizioni relative a coloro che erano malati di lebbra, e la diagnosi dei casi di lebbra viene assegnata da DIO a Mosè e ad Aronne e quindi ai loro successori, i sacerdoti.
“Se qualcuno ha sulla pelle del corpo un tumore o una pustola o macchia bianca che faccia sospettare una piaga di lebbra, quel tale sarà condotto dal sacerdote Aronne o da qualcuno dei sacerdoti, suoi figli.”
Ai sacerdoti non si richiedono particolari competenze mediche, perché qui il problema non è di carattere sanitario, ma rituale. Le forme di lebbra, cioè di malattie della pelle che possono andare sotto questo nome, non sono tutte uguali e non tutte hanno le stesse conseguenze perché alcune sono anche guaribili. I sacerdoti devono limitarsi a scoprire, in base a criteri tradizionali accuratamente catalogati, quali malattie della pelle siano veramente lebbra, e quindi portatrici di impurità.
Il brano prosegue riportando come deve comportarsi il lebbroso:
“Il lebbroso colpito da piaghe porterà vesti strappate e il capo scoperto; velato fino al labbro superiore, andrà gridando: “Impuro! Impuro!”. Sarà impuro finché durerà in lui il male; è impuro, se ne starà solo, abiterà fuori dell’accampamento”.
L’impurità qui descritta non ha nulla a che vedere con la sporcizia fisica o con il peccato: si tratta semplicemente di un modo di essere che non si addice al rapporto con la divinità e neppure con gli altri membri del popolo eletto. Nelle varie forme di impurità e nei riti di purificazione, la religione israelitica si può dire che abbia conservato costumi sorpassati, che a volte sembra rasentino la superstizione.
La troppa meticolosità data per la distinzione tra puro e impuro, ha avuto l’effetto di far dimenticare, almeno nella vita pratica della gente, l’importanza dell’amore, che è la massima espressione della legge conferita da Dio al Suo popolo. La necessità di stabilire confini netti tra puro e impuro ha portato a emarginare dalla vita religiosa intere categorie di persone, creando diffidenza e disprezzo nei loro riguardi. Di riflesso le leggi di purità hanno dato origine a gruppi di persone che facevano della loro osservanza lo scopo principale della loro vita, facendoli sentire come i veri e unici rappresentanti del popolo di Dio. Le norme sulla “Purità e Impurità” sono state per questo difficilmente comprese nel mondo greco-romano, e ciò ha fatto sì che i giudei della diaspora le interpretassero in modo allegorico.
Dobbiamo ricordare che Gesù le ha dichiarate decadute e questo lo troviamo nel Vangelo di Marco quando dice: “Ascoltatemi tutti e intendete bene: non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa contaminarlo; sono invece le cose che escono dall’uomo a contaminarlo”…. (Mc 7,15). Gesù ha fatto persino gesti che, come quello di toccare un lebbroso, rappresentavano delle vere e proprie provocazioni.
Il credente che avrà la costanza di leggere questo libro, (alcune pagine sono ripetitive ed anche noiose, ma fanno anche comprendere ed arrivare fino al cuore della coscienza religiosa di Israele) avrà alla fine il vantaggio di capire meglio il valore del sacrificio mediante il quale Gesù ha salvato l’umanità con il dono della Sua vita.
Salmo 31 - Tu sei il mio rifugio, mi liberi dall’angoscia.
Beato l’uomo a cui è tolta la colpa
e coperto il peccato.
Beato l’uomo a cui Dio non imputa il delitto
e nel cui spirito non è inganno.
Ti ho fatto conoscere il mio peccato,
non ho coperto la mia colpa.
Ho detto: «Confesserò al Signore le mie iniquità»
e tu hai tolto la mia colpa e il mio peccato.
Rallegratevi nel Signore ed esultate, o giusti!
Voi tutti, retti di cuore, gridate di gioia!
L’autore del salmo ha fatto la gioiosa esperienza del perdono di Dio: "Beato l'uomo a cui è tolta la colpa e coperto il peccato". L'umiltà di ammettere il proprio peccato e chiederne perdono a Dio ottiene che la colpa venga tolta, ma anche "coperta", poiché l'umile con l'aiuto di Dio fa dimenticare agli uomini il proprio passato di peccato mediante la carità. Perciò è beato chi si è riconciliato con Dio e "nel cui spirito non c'è inganno". La conseguenza è che Dio nel giudizio “non (gli) imputa il delitto”. L’autore presenta poi la sua situazione di dolore, di agitazione, quando era nel peccato e Dio lo colpiva col suo salutare castigo: “Giorno e notte pesava su di me la tua mano, come nell'arsura estiva si inaridiva il mio vigore”; ma poi, umile, ha manifestato a Dio il proprio peccato. L’ha manifestato, confessato, ammesso. Prima non lo voleva ammettere e si poneva davanti a Dio giustificando il suo errore, ma Dio glielo imputava incessantemente gravando su di lui la mano.
A motivo della misericordia di Dio, dice il salmista, “ti prega ogni fedele nel tempo dell’angoscia”, sicuro di avere aiuto. Il “tempo dell’angoscia” è qui distinto dal tempo del castigo: è il tempo delle sventure del giusto. Ma il giusto sa che Dio è bontà infinita, proprio perché è sempre pronto al perdono. Quando si scateneranno le catastrofi sociali, “quando irromperanno grandi acque”, il giusto non sarà inghiottito dall’odio, perché Dio è il suo rifugio.
Il salmista poi fa parlare Dio. Dio promette, con promessa immutabile, che chi rimarrà con lui diventerà saggio, conoscerà la via da seguire in mezzo ai percorsi di labirinto degli uomini. Dio dice che volendo accanto a sé l’uomo è pronto ad usare le maniere forti: “il morso e le briglie”. L’autore ha sperimentato “il morso e le briglie”, cioè tutti gli impedimenti che Dio nel suo amore gli ha messo dinanzi, perché non andasse lontano da lui. L’empio, invece, che rompe “il morso e le briglie”, corre verso la rovina e i dolori. Al contrario il giusto è circondato dalle premure del Signore.
L’autore ispirato termina il salmo con un invito a prendere coscienza del grande dono dell’unione con Dio: “Rallegratevi nel Signore ed esultate, o giusti!”.
Commento di P.Paolo Berti
Dalla prima lettera di S.Paolo apostolo ai Corinzi
Fratelli, sia che mangiate sia che beviate sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio. Non siate motivo di scandalo né ai Giudei, né ai Greci, né alla Chiesa di Dio; così come io mi sforzo di piacere a tutti in tutto, senza cercare il mio interesse ma quello di molti, perché giungano alla salvezza.
Diventate miei imitatori, come io lo sono di Cristo.
1Cor 10,31-11,1
Paolo continuando la sua prima lettera ai Corinzi, dopo aver posto all’inizio l’accento sul rispetto della coscienza altrui, aver portato il suo esempio di disponibilità verso tutti, e sottolineato il rischio dell’idolatria, nel capitolo 10, da dove è tratto questo brano, chiude la lunga sezione dedicata alle carni sacrificate agli idoli con un’esortazione in cui propone un orientamento generale valido in tutti i campi in cui il credente si trova ad operare ed afferma:
“sia che mangiate sia che beviate sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio”. Ciascuno deve porsi come meta non l’affermazione delle proprie idee e l’azione che ne deriva, ma la gloria di Dio, cioè l’attuazione della Sua volontà che consiste nella ricerca del bene comune.
Ciò deve avvenire anche nel campo alimentare (mangiare e bere) che nella cultura dell’epoca condizionava in modo determinante i rapporti tra le persone. Ma in realtà questo principio si applica in tutti i settori in cui le persone interagiscono.
L’ambito in cui i corinzi devono cercare la gloria di Dio non è dunque principalmente quello della preghiera, ma quello ben più impegnativo dei rapporti con la comunità.
Poi l’Apostolo continua con la sua esortazione: “Non siate motivo di scandalo né ai Giudei, né ai Greci, né alla Chiesa di Dio; così come io mi sforzo di piacere a tutti in tutto, senza cercare il mio interesse ma quello di molti, perché giungano alla salvezza”
Il credente deve evitare di dare scandalo, cioè non deve adottare un comportamento contrario alla fede che pratica, per non dare occasione agli altri di criticare e di essere anche ostacolo nel loro cammino verso Dio.
È importante che ciò deve avvenire non solo nei confronti della comunità che già appartiene a Dio, ma anche con i giudei e con i greci..
Questa regola viene da Paolo spiegata sulla propria disponibilità verso tutti, da lui espressa precedentemente (9,19-23): egli per primo si sforza di piacere “a tutti in tutto, senza cercare il proprio interesse” ma quello di “molti”, cioè di un numero sempre maggiore di persone, “perché giungano alla salvezza”.
Su questo sfondo di impegno per gli altri Paolo conclude con l’invito: “Diventate miei imitatori, come io lo sono di Cristo”. Attraverso il suo comportamento i corinzi devono dunque imparare a cogliere nelle loro situazioni di vita tutte le conseguenze della predicazione e dell’esempio di Cristo. Solo così anche loro possono diventare suoi discepoli.
È importante il fatto che Paolo esorti i corinzi a non provocare il biasimo non solo della Chiesa di Dio, cioè dei loro fratelli nella fede, ma anche dei giudei e dei greci. In questa frase emerge la convinzione secondo cui anche i non cristiani sono in grado di dare corretti giudizi morali, e quindi di valutare la coerenza dei cristiani con il credo che professano. Il cristiano deve dunque comportarsi in modo tale da indicare a tutti strade e percorsi per giungere a un corretto rapporto con Dio. Paolo lo sottolinea in particolare rifacendosi al proprio atteggiamento di condivisione con tutti, finalizzato esclusivamente alla loro salvezza.. Egli invita dunque tutti i credenti ad essere missionari come lui, intendendo per missione la lotta quotidiana per un mondo migliore.
Dal vangelo secondo Marco
In quel tempo, venne da Gesù un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: «Se vuoi, puoi purificarmi!». Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: «Lo voglio, sii purificato!». E subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato.
E, ammonendolo severamente, lo cacciò via subito e gli disse: «Guarda di non dire niente a nessuno; va’, invece, a mostrarti al sacerdote e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha prescritto, come testimonianza per loro».
Ma quello si allontanò e si mise a proclamare e a divulgare il fatto, tanto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma rimaneva fuori, in luoghi deserti; e venivano a lui da ogni parte.
Mc 1,40-45
L’evangelista Marco, dopo aver narrato la chiamata dei primi quattro discepoli e una “giornata-tipo”, svoltasi a Cafarnao, racconta la guarigione da parte di Gesù di un lebbroso.
Il malato si accosta a Gesù e lo supplica in ginocchio, dicendo:”Se vuoi, puoi purificarmi”. Al tempo di Gesù la lebbra comprendeva diverse malattie della pelle, di cui alcune erano guaribili. L’atteggiamento umile del malato dipende dal fatto che, secondo la legge mosaica, il lebbroso era considerato impuro e non poteva avere contatti con il resto della popolazione; sullo sfondo vi è dunque il tema della “impurità”, che separa gli esseri umani tra loro e da Dio come viene precisato nel libro del Levitico (13,45-46)., Il lebbroso in questo racconto dimostra una grande fede nei poteri straordinari di Gesù, sa cosa vuole e intuisce la possibilità nuova che Gesù può operare e la chiede. Quello che ancora non sa è se Gesù vuole guarirlo.
Marco osserva che, di fronte alla richiesta del malato, Gesù “ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: «Lo voglio, sii purificato!»”. Nel linguaggio biblico la compassione di Gesù, espressa con un verbo (splanchnizô), che richiama il movimento delle viscere, non è tanto un sentimento umanitario, quanto piuttosto una manifestazione di quella misericordia che spinge DIO a radunare il suo popolo e unirlo a sé (Es 34,6): si tratta dello stesso impulso che Gesù sentirà di fronte a una folla disorientata e divisa come pecore senza pastore (Mc 6,34).
Il gesto poi di toccare il lebbroso è un segno di solidarietà con l’umanità sofferente, ma al tempo stesso rappresenta una dura contestazione delle leggi di “purità e impurità”, che impedivano a chiunque di venire a contatto con questi malati. L’evangelista qui presenta il lebbroso mondato il passaggio dall’uomo vecchio a quello nuovo, reso possibile dalla compassione di Dio verso di noi, cioè dal Suo amore materno che non si dimentica del frutto delle sue viscere.
Subito dopo averlo guarito, Gesù ammonisce severamente il miracolato dicendogli “Guarda di non dire niente a nessuno; va’, invece, a mostrarti al sacerdote e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha prescritto, come testimonianza per loro”. Solo il riconoscimento da parte dei sacerdoti poteva infatti eliminare l’emarginazione sociale e religiosa provocata dalla lebbra (Lv 14,1-32).
Ma il lebbroso sanato, pur credendo e amando Gesù, non ascolta la Sua richiesta di silenzio, e pensando persino di fare del bene, vinto anche dal bisogno di parlare, lui che era stato condannato a rimanere isolato e non parlare con nessuno, diviene ora annunciatore, araldo, mettendosi a proclamare e a divulgare il fatto: la buona notizia lui la portava nella carne, era luce, sale e lievito perché recava in sé l'opera di Dio compiuta in lui.
Con la guarigione del lebbroso Gesù manifesta il Suo rifiuto nei confronti di una norma che, interpretata rigidamente, separa l’uomo dal suo prossimo e da Dio. È significativo che la guarigione avvenga proprio in forza di questa trasgressione! Gesù porta la purezza proprio là dove le leggi umane, in nome di Dio, proclamavano l’impurità e imponevano una separazione che nulla aveva a che vedere con la dignità della persona umana creata da Dio.
In questo episodio si comprende ancora di più il valore altissimo del “com-patire” dolce e forte di Gesù nei confronti del mondo degli ultimi. Oggi forse la nuova lebbra può prendere nomi diversi e può assumere i mille volti dell’emarginazione. Il vero cristiano deve allora continuare a camminare come il Signore Gesù sulle strade dei “lebbrosi” provando “compassione” vera, stendendo le sue mani, toccando le loro piaghe esterne e interne (come ha detto più volte papa Francesco) invocando l’aiuto dall’Unico che può guarire e salvare da ogni male.,
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“L’odierna pagina evangelica ci presenta la guarigione di un uomo malato di lebbra, una patologia che nell’Antico Testamento veniva considerata una grave impurità e comportava la separazione del lebbroso dalla comunità: vivevano da soli. La sua condizione era veramente penosa, perché la mentalità del tempo lo faceva sentire impuro anche davanti a Dio non solo davanti agli uomini. Anche davanti a Dio. Perciò il lebbroso del Vangelo supplica Gesù con queste parole: «Se vuoi, puoi purificarmi!».
All’udire ciò, Gesù sente compassione. È molto importante fissare l’attenzione su questa risonanza interiore di Gesù, come abbiamo fatto a lungo durante il Giubileo della Misericordia. Non si capisce l’opera di Cristo, non si capisce Cristo stesso, se non si entra nel suo cuore pieno di compassione e di misericordia. E’ questa che lo spinge a stendere la mano verso quell’uomo malato di lebbra, a toccarlo e a dirgli: «Lo voglio, sii purificato!». Il fatto più sconvolgente è che Gesù tocca il lebbroso, perché ciò era assolutamente vietato dalla legge mosaica. Toccare un lebbroso significava essere contagiati anche dentro, nello spirito, cioè diventare impuri. Ma in questo caso l’influsso non va dal lebbroso a Gesù per trasmettere il contagio, bensì da Gesù al lebbroso per donargli la purificazione. In questa guarigione noi ammiriamo, oltre alla compassione, la misericordia, anche l’audacia di Gesù, che non si preoccupa né del contagio né delle prescrizioni, ma è mosso solo dalla volontà di liberare quell’uomo dalla maledizione che lo opprime.
Fratelli e sorelle, nessuna malattia è causa di impurità: la malattia certamente coinvolge tutta la persona, ma in nessun modo intacca o impedisce il suo rapporto con Dio. Anzi, una persona malata può essere ancora più unita a Dio. Invece il peccato, quello sì che ci rende impuri! L’egoismo, la superbia, l’entrare nel mondo della corruzione, queste sono malattie del cuore da cui c’è bisogno di essere purificati, rivolgendosi a Gesù come il lebbroso: «Se vuoi, puoi purificarmi!».
E adesso, facciamo un attimo di silenzio, e ognuno di noi – tutti voi, io, tutti – può pensare al suo cuore, guardare dentro di sé, e vedere le proprie impurità, i propri peccati. E ognuno di noi, in silenzio, ma con la voce del cuore dire a Gesù: “Se vuoi, puoi purificarmi”. Lo facciamo tutti in silenzio.
“Se vuoi, puoi purificarmi”.
“Se vuoi, puoi purificarmi”.
E ogni volta che ci accostiamo al sacramento della Riconciliazione con cuore pentito, il Signore ripete anche a noi: «Lo voglio, sii purificato!». Quanta gioia c’è in questo! Così la lebbra del peccato scompare, ritorniamo a vivere con gioia la nostra relazione filiale con Dio e siamo riammessi pienamente nella comunità.
Per intercessione della Vergine Maria, nostra Madre Immacolata, chiediamo al Signore, che ha portato agli ammalati la salute, di sanare anche le nostre ferite interiori con la sua infinita misericordia, per ridonarci così la speranza e la pace del cuore.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 11 febbraio 2018
L'umanità è una grande e immensa famiglia ... Troviamo la dimostrazione di ciò da quello che ci sentiamo nei nostri cuori a Natale.
(Papa Giovanni XXIII)