1. Consiglio Episcopale Permanente della CEI ha preparato il messaggio per la 43a Giornata Nazionale per la Vita che si celebrerà il 7 febbraio 2021 sul tema “Libertà e vita”. La Giornata per la Vita 2021 vuol essere un’occasione preziosa per sensibilizzare tutti al valore dell’autentica libertà, nella prospettiva di un suo esercizio a servizio della vita: la libertà non è il fine, ma lo “strumento” per raggiungere il bene proprio e degli altri, un bene strettamente interconnesso. Papa Francesco ci ricorda che l’amore è la vera libertà perché distacca dal possesso, ricostruisce le relazioni, sa accogliere e valorizzare il prossimo, trasforma in dono gioioso ogni fatica e rende capaci di comunione.
2. Carissimi, giovedì prossimo, 11 febbraio, memoria della Beata Vergine Maria di Lourdes, è la Giornata Mondiale del Malato. Facciamo anche noi come la gente dei tempi di Gesù: spiritualmente presentiamo a Lui tutti i malati, fiduciosi che Egli vuole e può guarirli. E invochiamo l’intercessione della Madonna, specialmente per le situazioni di maggiore sofferenza e abbandono. Maria, Salute dei malati, prega per noi! Preghiamo Maria, Salute dei malati, affinché ogni persona nella malattia possa sperimentare, grazie alla sollecitudine di chi le sta accanto, la potenza dell’amore di Dio e il conforto della sua tenerezza materna.
3. Martedì 23 febbraio alle ore 19,00 inizierà il corso prematrimoniale nella nostra parrocchia. I fidanzati che si sposeranno in quest’anno possono iscriversi nell’ufficio parrocchiale.
4. Giovedì 11 febbraio dalle ore 17,30 alle ore 18,30 ci sarà l’adorazione eucaristica.
Le letture, che la liturgia di questa domenica ci presenta, hanno come filo conduttore la sofferenza, la malattia e la guarigione
Nella prima lettura, tratta dal libro di Giobbe, vediamo il protagonista, Giobbe, un fedele di Dio, prima ricco e felice, e poi improvvisamente colpito dalla sventura, perde i figli, i beni, la salute. Egli vorrebbe che Dio intervenisse in suo favore, non tanto perché ciò metterebbe fine alle sue sofferenze, ma perché così egli saprebbe che gli è vicino e lo ama. La sua tentazione è quella di imporre a Dio un comportamento conforme alle sue aspettative, giudicando il suo silenzio come un’ingiustizia insopportabile.
Nella seconda lettura, nella sua lettera ai Corinzi, l’apostolo nel suo desiderio di portare a tutti la salvezza egli afferma che non ha avuto paura di rinunziare a qualsiasi privilegio personale. In altre parole egli ritiene di poter acquistare per se stesso la salvezza contenuta nel vangelo, non semplicemente perché lo annunzia agli altri, ma perché adotta nei loro confronti quegli atteggiamenti di amore e di dedizione che il vangelo gli ispira.
L’evangelista Marco, nel brano del suo Vangelo, ci racconta una giornata tipica di Gesù: guarisce i malati che incontra, annuncia nelle sinagoghe della Galilea la venuta del Regno, ma sa anche riservare un tempo per la preghiera dove incontra il Padre. Questo deve insegnare anche a noi che l'unica vera ricarica, dopo un'intensa giornata di lavoro, è proprio la preghiera che ci aiuta a prendere contatto con il Padre, tutto il resto anche le cose più importanti non ci ricaricano, non ci danno la forza necessaria per proseguire giorno per giorno il nostro cammino.
Dal libro di Giobbe
Giobbe parlò e disse:
«L’uomo non compie forse un duro servizio sulla terra
e i suoi giorni non sono come quelli
d’un mercenario?
Come lo schiavo sospira l’ombra e come il mercenario aspetta il suo salario,
così a me sono toccati mesi d’illusione
e notti di affanno mi sono state assegnate.
Se mi corico dico: “Quando mi alzerò?”.
La notte si fa lunga e sono stanco di rigirarmi fino all’alba.
I miei giorni scorrono più veloci d’una spola,
svaniscono senza un filo di speranza.
Ricordati che un soffio è la mia vita:i
il mio occhio non rivedrà più il bene».
Gb 7,1-4, 6-7
Il Libro di Giobbe, composto da 42 capitoli, è stato scritto in ebraico e secondo l'ipotesi di molti studiosi, la prima redazione risale all'XI-X secolo a.C., mentre la redazione definitiva, con le aggiunte in prosa, è stata composta in Giudea verso il 575 a.C.. La storia di Giobbe nasce dagli infiniti interrogativi che il problema del male porta all'umanità. Ci troviamo di fronte ad una ricerca drammatica sul senso dell'esistenza, sull'amore di Dio, e sulla fedeltà verso di Lui.
Ambientata in un paese favoloso, anche per quel tempo, dell'Antico Medio Oriente, il protagonista, Giobbe, un fedele di Dio, prima ricco e felice, e poi improvvisamente colpito dalla sventura, perde i figli, i beni, la salute. Sarà poi afflitto da una piaga maligna, sarà cacciato anche di casa dalla moglie che stanca di quest'uomo per la sua fedeltà incrollabile, urlerà, alla fine: Rimani ancor fermo nella tua integrità? Benedici Dio e muori!”. Ma egli le rispose: “Come parlerebbe una stolta tu hai parlato! Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremo accettare il male?”.“Gb 2,9-10
Non sono pochi coloro che hanno commentato che per rendere peggiore la situazione di Giobbe, Dio gli ha lasciato quel tipo di moglie.
Il brano che la liturgia ci propone fa parte del ciclo dei dibattiti di Giobbe con i suoi amici e più specificamente dalla risposta che Giobbe dà all’intervento di Elifaz, che in base alla teoria della retribuzione, che riteneva che le sofferenze che colpiscono l’uomo non possono che essere la conseguenza dei suoi peccati, aveva sottolineato che nessun mortale può essere giusto davanti a Dio e di conseguenza aveva invitato Giobbe, torturato dalla sofferenza, a pentirsi dei suoi peccati.
Giobbe risponde riaffermando la sua innocenza e descrive la sua situazione come parte del destino che colpisce tutta l’umanità: non solo la sua sofferenza, ma anche quella dei suoi simili, rappresenta una sfida alla giustizia di Dio.
Giobbe si lamenta degli amici e di Dio, ma soprattutto di sé, e descrive la sofferenza dell’uomo sulla terra con tre immagini, quella del militare, del mercenario e dello schiavo.
Nell’antichità il servizio militare era paragonabile al lavoro forzato a causa delle dure punizioni a cui il soldato veniva facilmente sottoposto e dello spietato dispotismo dei comandanti. Il mercenario era l’operaio pagato a giornata, che faticava tutto il giorno per una misera paga, che gli serviva unicamente per sopravvivere, e non diversa, se non peggiore, era la situazione dello schiavo, che non aveva diritto ad alcun compenso per il suo lavoro. La condizione del soldato, del mercenario e dello schiavo erano evidentemente le situazioni più basse della scala sociale. Ma se ognuno di loro aspettava con impazienza la sera, quando la fatica quotidiana terminava e durante il giorno era una consolazione pensare a questa sosta alla loro sofferenza, anche se breve, Giobbe invece non ha neppure questa soddisfazione: gli sono toccati mesi di illusione e notti di dolore. Come chi soffre d’insonnia e si rigira nel letto, aspettando l’alba che non sembra arrivare mai, così anche lui passa il suo tempo nell’attesa di qualcosa di impossibile.
Poiché il dolore, pur non essendo produttivo, lo affatica più del lavoro, egli passa anche le sue notti nell’angoscia. La sua è una sofferenza senza senso, che gli è ormai diventata insopportabile e i suoi “giorni scorrono più veloci d’una spola, svaniscono senza un filo di speranza”.
E Giobbe conclude con una preghiera, che sembra un lungo lamento:
“Ricordati che un soffio è la mia vita:il mio occhio non rivedrà più il bene”.
La sensazione della brevità della vita colpisce tutti gli esseri umani, ma diventa più forte per coloro che non trovano in essa un senso, che non sperano di poter vedere a un certo punto un bene veramente sicuro e duraturo.
La sofferenza di Giobbe però è causata non tanto dal dolore fisico e dall’incomprensione dei suoi cari e amici, ma piuttosto dalla sensazione di essere abbandonato da Dio, nonostante che egli gli sia sempre stato fedele. In questa prospettiva egli vede l’esistenza umana come un seguito di avvenimenti senza senso, che gli procurano angoscia, mentre il tempo passa troppo in fretta o troppo lentamente secondo le situazioni. Egli vorrebbe che Dio intervenisse in suo favore, non tanto perché ciò metterebbe fine alle sue sofferenze, ma perché così egli saprebbe che Dio gli è vicino e lo ama ancora. La sua tentazione è quella di imporre a Dio un comportamento conforme alle sue aspettative, giudicando il suo silenzio come un’ingiustizia sempre più insopportabile.
Alla fine Dio si manifesterà a Giobbe, non per giustificare la propria condotta o per rivelargli qualche verità nascosta, ma semplicemente per renderlo consapevole del mistero che lo circonda, davanti al quale Giobbe non può far altro che abbassare la testa e credere che Dio è buono, anche se le Sue scelte restano misteriose. Nel capitolo prima dell’epilogo Giobbe dice: “Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono. Perciò mi ricredo e ne provo pentimento sopra polvere e cenere.” Gb 42,5-6 Per giungere a questa consapevolezza Giobbe deve abbandonare tante false sicurezze, prima di tutte quella di un Dio che interviene a sistemare le cose secondo un’idea di giustizia retributiva simile a quella su cui si basano i rapporti umani.
La storia di Giobbe comunque ha un lieto fine che l’epilogo del libro riporta:
“Dio ristabilì Giobbe nello stato di prima, avendo egli pregato per i suoi amici; accrebbe anzi del doppio quanto Giobbe aveva posseduto…. Dopo tutto questo, Giobbe visse ancora centoquarant’anni e vide figli e nipoti di quattro generazioni.. Poi Giobbe morì, vecchio e sazio di giorni.”
Salmo 146-147 Risanaci, Signore, Dio della vita.
È bello cantare inni al nostro Dio,
è dolce innalzare la lode.
Il Signore ricostruisce Gerusalemme,
raduna i dispersi d’Israele.
Risana i cuori affranti
e fascia le loro ferite.
Egli conta il numero delle stelle
e chiama ciascuna per nome.
Risana i cuori affranti
e fascia le loro ferite.
Egli conta il numero delle stelle
e chiama ciascuna per nome.
Il salmo è stato composto nel postesilio durante la ricostruzione morale ed economica di Gerusalemme, che era di invito ad altri esuli di intraprendere il viaggio di rientro in patria.
Il salmista invita alla lode dicendo che “È bello cantare inni al nostro Dio, è dolce innalzare la lode". A lui conviene la lode, e una lode adeguata, cioè che sgorga da un cuore aperto a lui, senza donazioni parziali di sé. Lodare è celebrare la bontà del Signore manifestata nelle sue opere. Lodare è rivolgersi a lui pieni di fede, compresi della sua misericordia, della sua giustizia, della sua provvidenza, della sua volontà di comunione con l'uomo; anzi è riconoscere che lui è la misericordia, la giustizia, la comunione, la bontà, la bellezza, il perdono, la vita (Vedi le lodi a Dio di san Francesco). Lodare è amare; è il ritorno a lui - mai sufficiente e perciò sempre da far crescere - dell'amore che ci dona incessantemente nel dono dello Spirito Santo (Rm 5,5). Lodare è aver sperimentato la potenza della sua Parola, accolta nella fede e nell'obbedienza. Lodare è desiderare lui; è volere lui, perciò non è sospensione del domandare a lui di crescere nell'amore verso lui. Lodare è aver sperimentato la gioia di amare i fratelli, è pregare per loro. Lodare non è sospensione del ringraziar, poiché il lodare Dio porta con sé il ringraziare di poterlo lodare, perché “è dolce innalzare la lode”. Lodare Dio è umiltà, è riconoscere che si è sue creature, bisognose di salvezza, di aiuto, e che salvezza e aiuto si riversano su ciascuno di noi inesauste e sovrabbondanti (Rm 5,20; 1Tm 1,14).
“Il Signore ricostruisce Gerusalemme”; ciò non riguarda la ricostruzione delle mura, ma l'organizzazione interna della città, la sua solidità economica, la sua capacità difensiva.
“Risana i cuori affranti e fascia le loro ferite”; con l'avvento di una normalità di vita i cuori ritornano a guardare con serenità al futuro.
Il pietoso Dio che fascia le ferite dei cuori affranti è anche colui che è sovrano dell'universo, poiché “Egli conta il numero delle stelle e chiama ciascuna per nome”. Egli conosce il numero sterminato degli astri (in Terra Santa le condizioni atmosferiche permettono di vedere un cielo denso di stelle) e ogni stella è conosciuta da lui nella sua realtà: “chiama ciascuna per nome”.
Dallo sguardo all'immensità del numero delle stelle, il salmista sale a considerare la grandezza, l'onnipotenza e la sapienza di Dio: “Grande è il Signore nostro, grande nella sua potenza; la sua sapienza non si può calcolare”.
Il salmista prosegue considerando come Dio sostiene gli umili, e abbatte gli empi. Perché l'umiltà è il porsi giusto davanti al Creatore, che è pure salvatore; è il vincere il voler essere come Dio; è gioia e gratitudine di essere amati e perdonati. L'umile sa amare, sa lodare, sa riconoscere i benefici ricevuti; così il salmista invita a cantare un “canto di grazie” a Dio perché regola le stagioni a favore dell'uomo: “Egli copre il cielo di nubi, prepara la pioggia per la terra, fa germogliare l'erba sui monti”. Il bestiame tenuto al pascolo ha così cibo, ma anche gli uccelli di cui nessuno se ne cura hanno cibo dalla provvidenza di Dio.
Inutile pensare che Dio deleghi la sua assistenza contro i nemici del suo popolo alla forza dei cavalli e all'agilità dei guerrieri, quasi che non potesse agire in altro modo che per mezzo di un esercito. Questo Dio l'aveva dimostrato molte volte, e di recente sventando la coalizione armata contro Gerusalemme mentre stava ricostruendo le sue mura (Ne 4,9). Dio non si compiace dell'autosufficienza di chi crede di salvarsi per la forza dei cavalli o l'abilità dei guerrieri, ma si compiace di “chi lo teme, chi spera nel suo amore”.
Commento di P.Paolo Berti
Dalla prima lettera di S.Paolo apostolo ai Corinzi
Fratelli, annunciare il Vangelo non è per me un vanto, perché è una necessità che mi si impone: guai a me se non annuncio il Vangelo!
Se lo faccio di mia iniziativa, ho diritto alla ricompensa; ma se non lo faccio di mia iniziativa, è un incarico che mi è stato affidato. Qual è dunque la mia ricompensa? Quella di annunciare gratuitamente il Vangelo senza usare il diritto conferitomi dal Vangelo.
Infatti, pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero. Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno. Ma tutto io faccio per il Vangelo, per diventarne partecipe anch’io.
1Cor 9,16-19.22-23
Paola continuando la sua prima lettera ai Corinzi , nei capitoli 8-10 affronta un altro problema, su cui i corinzi avevano chiesto il suo parere, riguardo i rapporti tra i cristiani e la società esterna, permeata com’era di riti religiosi nei quali direttamente o indirettamente era facile venire coinvolti.
Nel brano liturgico che abbiamo riguardo alla sua scelta di non farsi finanziare dalla comunità, Paolo afferma che il semplice fatto di annunziare il vangelo, non è per lui motivo di vanto, ma un obbligo che gli è stato imposto in forza della vocazione ricevuta, per questo dichiara: “guai a me se non annuncio il Vangelo!” e poi afferma: “Se lo faccio di mia iniziativa, ho diritto alla ricompensa; ma se non lo faccio di mia iniziativa, è un incarico che mi è stato affidato”, vale a dire se Paolo si fosse messo a servizio del vangelo di sua iniziativa, avrebbe diritto come ogni lavoratore a ricevere una ricompensa da parte di Dio; ma trattandosi di un incarico che gli è stato affidato, egli si sente come lo schiavo che non può pretendere una remunerazione per il lavoro che fa.
Quindi se vuole avere una ricompensa deve fare qualcosa di più, che egli identifica precisamente nel predicare il vangelo gratuitamente, senza usare il “diritto conferitogli dal vangelo”, quello cioè di farsi finanziare dalle comunità. Solo facendo qualcosa in più di quanto gli è richiesto, può meritarsi un premio da parte del suo Signore.
A questo punto Paolo osserva che :“pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero”. Paolo perciò se ha rinunciato a questa sua libertà, lo ha fatto per uno scopo ben preciso: “guadagnare” al vangelo il maggior numero di persone. Gli interessi del vangelo sono dunque al di sopra dei suoi interessi personali.
Infine, Paolo menziona il suo atteggiamento nei confronti dei “deboli” per cui afferma: “Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli” Anche con costoro egli ha rinunciato al diritto di comportarsi secondo ciò che gli suggeriva la conoscenza e, per guadagnarli a Cristo, ha rinunziato a esercitare quelli che considerava suoi sacrosanti diritti.
Paolo conclude questi esempi esprimendo un principio generale: “mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno. Ma tutto io faccio per il Vangelo, per diventarne partecipe anch’io.”
Nel suo desiderio di portare a tutti la salvezza, Paolo non ha avuto paura di rinunziare a qualsiasi privilegio personale. in altre parole egli ritiene di poter acquistare per se stesso la salvezza contenuta nel vangelo, non semplicemente perché lo annunzia agli altri, ma perché adotta nei loro confronti quegli atteggiamenti di amore e di dedizione che il vangelo gli ispira
Dal vangelo secondo Marco
In quel tempo, Gesù, uscito dalla sinagoga, subito andò nella casa di Simone e Andrea, in compagnia di Giacomo e Giovanni. La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei. Egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva. Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati. Tutta la città era riunita davanti alla porta. Guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demòni; ma non permetteva ai demòni di parlare, perché lo conoscevano.
Al mattino presto si alzò quando ancora era buio e, uscito, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava. Ma Simone e quelli che erano con lui si misero sulle sue tracce. Lo trovarono e gli dissero: «Tutti ti cercano!». Egli disse loro: «Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!».
E andò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demòni.
Mc 1,29-39
Il brano che la liturgia ci propone, come quello della domenica scorsa, fa parte di una serie di racconti di una giornata tipo di Gesù e viene subito dopo l’episodio della liberazione dell’indemoniato.
Marco ci riferisce che :“Gesù, uscito dalla sinagoga, subito andò nella casa di Simone e Andrea, in compagnia di Giacomo e Giovanni. La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei”.
Qui assistiamo ad un altro tipo di potere che Gesù ha, quello sulla malattia: ““Egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva.”
Dopo il tramonto del sole, cioè al termine della giornata di sabato,”gli portavano tutti i malati e gli indemoniati. Tutta la città era riunita davanti alla porta. Guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demòni; ma non permetteva ai demòni di parlare, perché lo conoscevano.”
Marco qui ambienta, anche se in un episodio quotidiano e ordinario, il mistero sempre straordinario della sofferenza umana. La prima protagonista vediamo è la suocera di Pietro, inchiodata a letto dalla febbre che i rabbini al tempo di Gesù definivano “il fuoco che beve l’energia delle persone”. Gesù le si avvicina, si china su quel letto, la prende per mano, non pronunzia una sola parola, non dice neppure una preghiera, e la guarisce solo con la Sua azione diretta, con la Sua natura divina non ancora svelata agli occhi dei presenti.
Sull’onda di questa guarigione a sera si presentano una gran fila di malati che sperano in ciò che Lui solo può fare. Nella penombra di quel tramonto sembra quasi che sia stato convocato davanti a Gesù la raffigurazione di tutto il dolore del mondo!
L’evangelista sottolinea anche che Gesù impediva ai demoni di parlare, perché lo conoscevano. Si può dedurre che i demòni conoscessero la realtà della sua natura, e loro malgrado, siano persino suoi testimoni. Si può inoltre notare che Gesù impone il silenzio , non solo ai demoni , ma anche ai miracolati e perfino agli apostoli, sulla sua identità messianica che sarà tolta solo dopo la Sua morte. Questo perché il popolo si faceva una idea nazionalista e combattente del Messia, molto diversa da quella che Gesù voleva incarnare, bisognava perciò a Gesù usare molta prudenza, almeno per il popolo d’Israele per evitare equivoci sulla Sua missione.
Il “segreto messianico” non è una tesi inventata più tardi da Marco come molti pensano, risponde invece a un atteggiamento storico di Gesù, benché Marco ne abbia fatto un tema su cui ama insistere.
Poi l’evangelista evidenzia che Gesù “Al mattino presto si alzò quando ancora era buio e, uscito, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava”.
Simone e gli altri discepoli “si misero sulle sue tracce. Lo trovarono e gli dissero: «Tutti ti cercano!»”. Questo verbo “cercare” di solito in Marco è sempre negativo e qui Gesù risponde: “Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!”.
Gesù comincia dunque a predicare, non più a insegnare! Ha insegnato nella sinagoga dove insegnare significa annunciare qualcosa basandosi sui testi della scrittura, quindi l’Antico Testamento. Ma Gesù, dopo la delusione provata nella sinagoga, non insegna, bensì predica! Predicare significa annunziare la novità del regno di Dio senza poggiarsi sulla tradizione del passato.
Il brano conclude con l’annotazione: “E andò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demòni”. L’evangelista sembra alludere al fatto che il luogo dove i demòni sono annidati sono proprio le sinagoghe, i luoghi di culto.
Meditando sulla giornata tipica di Gesù che con tutti i suoi impegni la conclude con la preghiera, deve insegnare anche a noi che l'unica vera ricarica, dopo un'intensa giornata di lavoro, è proprio la preghiera che ci aiuta a prendere contatto con il Padre, tutto il resto anche le cose più importanti non ci ricaricano, non ci danno la forza necessaria per proseguire giorno per giorno il nostro cammino.
***************
“Il Vangelo di questa domenica prosegue la descrizione di una giornata di Gesù a Cafarnao, un sabato, festa settimanale per gli ebrei . Questa volta l’evangelista Marco mette in risalto il rapporto tra l’attività taumaturgica di Gesù e il risveglio della fede nelle persone che incontra. Infatti, con i segni di guarigione che compie per i malati di ogni tipo, il Signore vuole suscitare come risposta la fede.
La giornata di Gesù a Cafarnao incomincia con la guarigione della suocera di Pietro e termina con la scena della gente di tutta la cittadina che si accalca davanti alla casa dove Lui alloggiava, per portargli tutti i malati. La folla, segnata da sofferenze fisiche e da miserie spirituali, costituisce, per così dire, “l’ambiente vitale” in cui si attua la missione di Gesù, fatta di parole e di gesti che risanano e consolano.
Gesù non è venuto a portare la salvezza in un laboratorio; non fa la predica da laboratorio, staccato dalla gente: è in mezzo alla folla! In mezzo al popolo! Pensate che la maggior parte della vita pubblica di Gesù è passata sulla strada, fra la gente, per predicare il Vangelo, per guarire le ferite fisiche e spirituali.
E’ una umanità solcata da sofferenze, questa folla, di cui il Vangelo parla molte volte. È un’umanità solcata da sofferenze, fatiche e problemi: a tale povera umanità è diretta l’azione potente, liberatrice e rinnovatrice di Gesù. Così, in mezzo alla folla fino a tarda sera, si conclude quel sabato. E che cosa fa dopo, Gesù?
Prima dell’alba del giorno seguente, Egli esce non visto dalla porta della città e si ritira in un luogo appartato a pregare. Gesù prega. In questo modo sottrae anche la sua persona e la sua missione ad una visione trionfalistica, che fraintende il senso dei miracoli e del suo potere carismatico. I miracoli infatti sono “segni”, che invitano alla risposta della fede; segni che sempre sono accompagnati dalle parole, che li illuminano; e insieme, segni e parole, provocano la fede e la conversione per la forza divina della grazia di Cristo.
La conclusione del brano odierno indica che l’annuncio del Regno di Dio da parte di Gesù ritrova il suo luogo più proprio nella strada. Ai discepoli che lo cercano per riportarlo in città – i discepoli sono andati a trovarlo dove Lui pregava e volevano riportarlo in città -, che cosa risponde Gesù? «Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là». Questo è stato il cammino del Figlio di Dio e questo sarà il cammino dei suoi discepoli. E dovrà essere il cammino di ogni cristiano. La strada, come luogo del lieto annuncio del Vangelo, pone la missione della Chiesa sotto il segno dell’“andare”, del cammino, sotto il segno del “movimento” e mai della staticità.
La Vergine Maria ci aiuti ad essere aperti alla voce dello Spirito Santo, che spinge la Chiesa a porre sempre più la propria tenda in mezzo alla gente per recare a tutti la parola risanatrice di Gesù, medico delle anime e dei corpi.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 4 febbraio 2018
1. 68^ GIORNATA MONDIALE DEI MALATI DI LEBBRA, 31 GENNAIO 2021.
I volontari da 60 anni lavorano al rafforzamento dei sistemi socio-sanitari, alla creazione di opportunità lavorative per le persone più vulnerabili, allo sviluppo economico delle
comunità.
Oggi si impegnano contro il COVID-19 per garantire ovunque il diritto alla salute.
2. Martedì prossimo 2 febbraio, celebreremo la festa della Presentazione del Signore al tempio. Invochiamo con fiducia Maria Santissima, affinché guidi i nostri cuori ad attingere sempre dalla misericordia divina, che libera e guarisce la nostra umanità, ricolmandola di ogni grazia e benevolenza, con la potenza dell’amore. Durante le Ss. messe alle ore 9,00 e 18,30 ci sarà la benedizione delle candele. (Candelora).
3. Il 2 febbraio di ogni anno, celebriamo la giornata mondiale della vita consacrata. Come religiosi Missionari della Madonna de la Salette, auguriamo a tutti i religiosi e le religiose che frequentano la nostra parrocchia e del mondo che in questo anno segnato dalla pandemia possano riscoprire la gioia di vivere e di servire il Signore in letizia e semplicità di cuore.
La XXV giornata della vita consacrata vedrà la presenza di Papa Francesco nella Basilica di San Pietro, alle ore 17,30, il quale presiederà una celebrazione eucaristica, spoglia dei segni e dei volti gioiosi che la illuminavano negli anni precedenti, eppure sempre espressione di quella gratitudine feconda che caratterizza le nostre vite.
4. Mercoledì 3 febbraio si celebra la memoria liturgica di S. Biagio – vescovo e martire. Dopo le Ss. messe delle ore 9,00 e 18,30 ci sarà la tradizionale benedizione della gola in modo comunitario.
5. Giovedì 4 febbraio dalle ore 17,30 alle ore 18,30 ci sarà l’adorazione eucaristica.
6. In questa settimana si celebra il primo giovedì, venerdì e sabato del mese.
Ogni domenica, la liturgia ci propone determinate letture, che se anche non hanno un filo conduttore tra loro, ci aiutano sempre a conoscere meglio il Signore Gesù. Sono come un mosaico che formano un dipinto, un’opera d’arte che trova il suo compimento solo alla fine.
Nella prima lettura, tratta dal libro del Deuteronomio, il Signore, per bocca di Mosè, promette al popolo di suscitare tra di loro in continuità, un profeta, cioè un uomo non compromesso con centri di potere politico e religioso, che possa essere un porta-parola di Dio. Sulla base di questo testo i Giudei hanno atteso il Messia come un nuovo Mosè.
Nella seconda lettura, nella sua lettera ai corinzi, l’apostolo Paolo continua ad indicare i motivi che gli fanno ritenere la verginità superiore al matrimonio. L’apostolo non pensa certo che il celibato possa eliminare del tutto le preoccupazioni legate alla vita in questo mondo, ma sembra convinto che possa attenuarle, affinché il credente sia unicamente preoccupato per le cose del Signore. Secondo Paolo chi ha rinunziato al matrimonio ha trovato la sua unità profonda nell’appartenere totalmente a Cristo, chi invece è sposato deve tendere anche lui alle realtà ultime del regno, ma servendosi di un mezzo, il proprio coniuge, che facilmente, per la debolezza umana, tende a separarlo da Cristo e a porsi come fine autonomo della sua vita.
L’evangelista Marco, nel brano del suo Vangelo, ci racconta che la gente osserva che Gesù insegna con autorità e che la sua dottrina è nuova, confrontata con quella degli scribi. Quando poi Gesù libera l’uomo posseduto dallo spirito impuro sono presi da timore e si chiedono chi sia mai costui che persino agli spiriti impuri e gli obbediscono!».
Dal libro del Deuteronomio
Mosè parlò al popolo dicendo: «Il Signore, tuo Dio, susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me. A lui darete ascolto. Avrai così quanto hai chiesto al Signore, tuo Dio, sull’Oreb, il giorno dell’assemblea, dicendo: “Che io non oda più la voce del Signore, mio Dio, e non veda più questo grande fuoco, perché non muoia”. Il Signore mi rispose: “Quello che hanno detto, va bene. Io susciterò loro un profeta in mezzo ai loro fratelli e gli porrò in bocca le mie parole ed egli dirà loro quanto io gli comanderò. Se qualcuno non ascolterà le parole che egli dirà in mio nome, io gliene domanderò conto. Ma il profeta che avrà la presunzione di dire in mio nome una cosa che io non gli ho comandato di dire, o che parlerà in nome di altri dèi, quel profeta dovrà morire”».
Dt 18,15-20
Il Deuteronomio è il quinto e ultimo libro del Pentateuco e ha la funzione di concludere la storia delle origini di Israele, e di fornire una sintesi delle tradizioni di fede contenute nella Torah. È stato scritto in ebraico e, secondo l'ipotesi condivisa da molti studiosi, la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte
È’ composto da 34 capitoli descriventi la storia degli Ebrei durante il loro soggiorno nel deserto del Sinai (circa 1200 a.C.) e contiene varie leggi religiose e sociali (nella Torah, o “Legge mosaica”, sono enumerati anche un insieme di 613 mitzvòt, o precetti). Dopo la Prima Legge, data da Dio sul Sinai, il Deuteronomio (Deuteros nomos) si presenta come la "Seconda Legge", la nuova Legge che Mosè consegna al popolo poco prima di morire e invita a tradurre l'amore per Dio nella vita sociale e familiare, non limitandosi dunque allo stretto compimento della Legge.
E’ uno dei libri più intensi di tutto l’Antico Testamento, e presenta una lettura teologica della storia del popolo eletto: Mosè, prima di morire, ricorda a Israele gli avvenimenti passati, mostrando come essi facciano parte di una economia salvifica che ha come punti centrali la promessa ai Padri, l’elezione d’Israele fra tutti i popoli della terra e l’alleanza sinaitica. Questa consapevolezza di appartenere a Dio, privilegio unico ed esclusivo, fa nascere nel popolo l’esigenza di una risposta decisa e libera a favore di Dio e della Sua legge.
In questo brano, dopo aver messo in guardia il popolo contro coloro che praticano la divinazione e la magia, Mosè indica come alternativa il ruolo dei profeti, presentandoli come i più immediati continuatori della sua opera e indica i criteri da adottare per provare la loro autenticità
Mosè esordisce con una promessa: “Il Signore tuo Dio susciterà per te, in mezzo a te, fra i tuoi fratelli, un profeta pari a me; a lui darete ascolto”, vale a dire i profeti suscitati da Dio saranno “simili a Mosè”, cioè avranno le sue stesse prerogative: ciò significa che i veri continuatori dell’opera di Mosè non saranno i re o i sacerdoti, ma uomini scelti di volta in volta da DIO e dotati di un carisma particolare.
L’origine divina del ruolo del profeta fa sì che il popolo sia tenuto ad ascoltare le loro parole per cui obbedire al profeta significa infatti obbedire a Dio.
Alla promessa iniziale Mosè aggiunge una motivazione: “Avrai così quanto hai chiesto al Signore, tuo Dio, sull’Oreb, il giorno dell’assemblea, dicendo: “Che io non oda più la voce del Signore, mio Dio, e non veda più questo grande fuoco, perché non muoia”.
Quanto descritto si riferisce al racconto della teofania avvenuta ai piedi del Sinai, quando il popolo, spaventato dai lampi e dai tuoni mediante i quali Dio si faceva sentire e dettava personalmente il decalogo, aveva chiesto a Mosè “Parla tu a noi e noi ascolteremo, ma non ci parli Dio, altrimenti moriremo!”.(Es 20,19). Tutto questo Mosè l’aveva fatto durante la sua vita e i profeti faranno dopo la sua morte.
Mosè riprende poi la promessa appena fatta mettendola direttamente sulla bocca di Dio, il quale dice di aver concesso quanto gli israeliti gli avevano chiesto durante la teofania e conferma quanto Mosè ha detto e continua precisando: “Io susciterò loro un profeta in mezzo ai loro fratelli e gli porrò in bocca le mie parole ed egli dirà loro quanto io gli comanderò.”
L’immagine è suggestiva: il profeta dovrà parlare, ma le parole che dirà non saranno sue, ma di DIO che parlerà attraverso di lui., per cui le parole umane del profeta saranno a tutti gli effetti parole di Dio. Questo intervento speciale del Signore in favore del profetismo ha importanti conseguenze, sia per il popolo che per lo stesso profeta.
Anzitutto per il popolo: “Se qualcuno non ascolterà le parole che egli dirà in mio nome, io gliene domanderò conto”.
Poi per il profeta: “Ma il profeta che avrà la presunzione di dire in mio nome una cosa che io non gli ho comandato di dire, o che parlerà in nome di altri dèi, quel profeta dovrà morire”.
Non viene richiesta un’obbedienza cieca, ma piuttosto una capacità di discernimento, il cui criterio principale è che il profeta parli a nome di DIO, e non degli idoli.
Il profeta è dunque un uomo che parla in nome di Dio e che agisce solo sotto la Suo azione, ma è anche uno che scopre la parola di Dio attraverso un cammino di riflessione umana alla luce della fede sugli eventi di cui è testimone.
Ciò appare chiaro dal fatto che, secondo il Deuteronomio, anche il profeta può sbagliare: se ciò dovesse accadere, egli dovrà rendere conto del proprio errore; ma anche il popolo, se si lascerà condurre per strade errate, sarà responsabile del proprio comportamento. Questa affermazione dunque rende responsabile anche il popolo che dovrà così essere dotato di un carisma profetico.
La stessa ispirazione che agisce nel profeta dunque deve illuminare chi lo ascolta affinché sappia discernere nelle sue parole la parola di Dio.
Salmo 95 (94) Ascoltate oggi la voce del Signore.
Venite, cantiamo al Signore,
acclamiamo la roccia della nostra salvezza.
Accostiamoci a lui per rendergli grazie,
a lui acclamiamo con canti di gioia.
Entrate: prostràti, adoriamo,
in ginocchio davanti al Signore che ci ha fatti.
È lui il nostro Dio e noi il popolo del suo pascolo,
il gregge che egli conduce.
Se ascoltaste oggi la sua voce!
«Non indurite il cuore come a Merìba,
come nel giorno di Massa nel deserto,
dove mi tentarono i vostri padri:
mi misero alla prova pur avendo visto le mie opere».
Il salmo è un invito alla preghiera durante una visita al tempio, probabilmente durante la festa delle capanne, che celebrava il cammino nel deserto (Cf. Dt 31,11), visto che il salmo ricorda l'episodio di Massa e Meriba.
Dio è presentato come “roccia della nostra salvezza”, indicando la roccia la sicurezza data da Dio di fronte ai nemici.
Egli è “grande re sopra tutti gli dei”; sono gli dei concepiti dai pagani, dietro i quali striscia l'azione dei demoni
Egli è colui che ha in suo potere ogni cosa: “Nella sua mano sono gli abissi della terra, sono sue le vette dei monti...”.
Il gruppo orante è invitato ad accostarsi a Dio, cioè ad entrare nell'atrio del tempio. Successivamente il gruppo è invitato a prostrarsi davanti al Signore. Segue l'invito ad ascoltare la voce del Signore. Nel silenzio dell'adorazione davanti al tempio Dio muove il cuore (“la sua voce”) indirizzandolo al bene, all'obbedienza dei comandamenti, al cambiamento della vita.
“Non indurite il cuore”; il cuore indurito non ascolta la voce del Signore e segue i suoi pensieri, ma si troverà a vagare nei deserti di un'esistenza senza Dio, senza alcun riposo.
Commento di P.Paolo Berti
Dalla prima lettera di San Paolo apostolo ai Corinzi
Fratelli, io vorrei che foste senza preoccupazioni: chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore, come possa piacere al Signore; chi è sposato invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere alla moglie, e si trova diviso!
Così la donna non sposata, come la vergine, si preoccupa delle cose del Signore, per essere santa nel corpo e nello spirito; la donna sposata invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere al marito.
Questo lo dico per il vostro bene: non per gettarvi un laccio, ma perché vi comportiate degnamente e restiate fedeli al Signore, senza deviazioni.
1Cor 7,32-35
Paolo scrivendo ai Corinzi, continua a rispondere ai loro quesiti, riguardante la vita sessuale nel matrimonio e nel celibato. In questo brano in particolare esordisce così:
“io vorrei che foste senza preoccupazioni: chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore, come possa piacere al Signore;”
Chi ha abbracciato la fede cristiana deve impegnarsi a comprendere cosa è bene e cosa è male, cosa porta al Signore e ciò che invece ci distoglie da Lui e dal Suo amore. Secondo Paolo chi non è sposato ha maggiori possibilità di dedicarsi alle cose del Signore. E’ evidente che la spiritualità di Paolo riguardo il matrimonio è alquanto preconcetta.
“chi è sposato invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere alla moglie, e si trova diviso! “
Paolo sente gli effetti della mentalità dualista della sua epoca, che contrappone il mondo presente e il mondo di Dio. Dobbiamo ricordare che nel matrimonio i due coniugi assumono dei doveri l'uno verso l'altro e che quindi è una scelta che va presa in modo serio e vissuta fino in fondo. Non si rinuncia al Signore, se si sceglie il matrimonio, anzi si può comprendere ancora di più come Dio è il compendio di ogni amore.
“Così la donna non sposata, come la vergine, si preoccupa delle cose del Signore, per essere santa nel corpo e nello spirito; la donna sposata invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere al marito.”
Paolo ripete il concetto indirizzandolo al femminile. Egli presenta il coniuge come un immaginabile concorrente di Dio in amore. Se è vero che l’impegno per il coniuge e per la famiglia può ostacolare il completo interesse per Dio e per i fratelli, non si può non ammettere che anche il celibato comporta il rischio di uno spiritualismo che non è il linea con le esigenze reali delle persone. Il matrimonio infatti impone un continuo e diretto confronto con l’altro (il coniuge, i figli e la società), al quale il celibe può facilmente sottrarsi.
“Questo lo dico per il vostro bene: non per gettarvi un laccio, ma perché vi comportiate degnamente e restiate fedeli al Signore, senza deviazioni”.
Paolo si rende conto che sostenendo la superiorità del celibato potrebbe urtare la sensibilità di quanti vivono la vita matrimoniale, ma di fatto tutte le realtà di questo mondo, se vissute con troppa apprensione o troppo materialismo possono distoglierci dal servire bene il Signore.
La nostra umana sensibilità ci porta oggi a ritenere che entrambe le scelte (sia quella della castità, come quella matrimoniale) sono vocazioni di vita, che se vissute nel bene, nulla tolgono al regno di Dio, per cui sono sempre efficaci per seguire Gesù. Ciascuno ha il suo proprio dono, come afferma sempre Paolo (1 Cor 7,7) e in quanto reciproco dono, ciascuno, per la sua parte, collabora alla crescita del corpo di Cristo che è la Chiesa.
Dal Vangelo secondo Marco
In quel tempo, Gesù, entrato di sabato nella sinagoga, [a Cafàrnao,] insegnava. Ed erano stupiti del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi. Ed ecco, nella loro sinagoga vi era un uomo posseduto da uno spirito impuro e cominciò a gridare, dicendo: «Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!». E Gesù gli ordinò severamente: «Taci! Esci da lui!». E lo spirito impuro, straziandolo e gridando forte, uscì da lui.
Tutti furono presi da timore, tanto che si chiedevano a vicenda: «Che è mai questo? Un insegnamento nuovo, dato con autorità. Comanda persino agli spiriti impuri e gli obbediscono!». La sua fama si diffuse subito dovunque, in tutta la regione della Galilea.
Mc 1,21-28
L’evangelista Marco dopo aver raccontato la chiamata dei quatto pescatori, riporta una serie di brani ambientati a Cafarnao, località che Gesù ha scelto come centro della Sua attività in Galilea. Gli eventi narrati sono distribuiti nell’arco di una giornata-tipo, che Gesù viveva.
Il brano liturgico propone il primo episodio di questa piccola serie, la liberazione di un indemoniato.
L’evangelista presenta Gesù che insegna in un giorno di sabato nella sinagoga di Cafarnao e sottolinea che i presenti “erano stupiti del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi”,quando insegnavano nelle sinagoghe.
Dopo questa introduzione sull’insegnamento di Gesù, l’evangelista racconta il fatto dell’indemoniato che è presentato come un uomo posseduto da uno “spirito impuro”. Impressiona subito il fatto che questo spirito impuro stia in un luogo di culto come una sinagoga, e ci stia tranquillo, senza essere scoperto, fino all’arrivo di Gesù, e solo al Suo arrivo gli si rivolge chiedendogli, con tono ostile : “Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!”. L’espressione “che vuoi da noi” oltre ad indicare che non aveva nulla in comune con Gesù, il demonio lo accusa di essere venuto a mettere in pericolo il suo potere, e usando la prima persona plurale, dimostra di rappresentare un numero molto vasto di forze opposte a Dio, ma soprattutto mostra anche di conoscere la vera identità di Gesù.
L’appellativo “santo di Dio” che gli attribuisce, mette in luce il particolare rapporto che Egli ha con Dio: il demonio dunque considera Gesù come colui che, in quanto rappresentante di Dio, possiede un potere opposto al suo. Gesù allora sgrida duramente il demonio e gli “ordinò severamente: «Taci! Esci da lui!»”.
E’ questa la prima volta in cui l’evangelista introduce, per iniziativa dello stesso Gesù, il velo del segreto messianico. E lo spirito impuro, straziandolo e gridando forte, uscì da lui.”
Lo “spirito impuro” non può far altro che obbedire, pur provocando urla e contorsioni nel povero posseduto. In tal modo Gesù dimostra di avere un potere superiore a quello dei demoni.
Al termine del racconto viene ripreso il tema iniziale: la gente è meravigliata, rendendosi conto che egli propone una dottrina nuova e la insegna con autorità. La dottrina nuova insegnata da Gesù consiste naturalmente nell’annunzio dell’imminente venuta del regno di Dio e con la liberazione dell’indemoniato la sua autorità viene qualificata non solo più in rapporto al suo modo di insegnare, ma anche perchè “comanda persino agli spiriti impuri e gli obbediscono”. Il gesto da lui compiuto fa sì che la sua fama si diffonda in tutta la regione della Galilea.
L’evangelista sottolinea così per la prima volta che Gesù comincia ad essere conosciuto anche al di fuori della sua regione, cioè in zone abitate quasi esclusivamente da pagani. Si parlerà in seguito di folle venute appunto dalle regioni confinanti con la Galilea, di pagani che si mescolano ai giudei.
****************************
“Il Vangelo di questa domenica fa parte della più ampia narrazione indicata come la “giornata di Cafarnao”. Al centro dell’odierno racconto sta l’evento dell’esorcismo, attraverso il quale Gesù è presentato come profeta potente in parole e in opere.
Egli entra nella sinagoga di Cafarnao di sabato e si mette a insegnare; le persone rimangono stupite delle sue parole, perché non sono parole ordinarie, non assomigliano a quanto loro ascoltano di solito. Gli scribi, infatti, insegnano ma senza avere una propria autorevolezza. E Gesù insegna con autorità. Gesù, invece, insegna come uno che ha autorità, rivelandosi così come l’Inviato di Dio, e non come un semplice uomo che deve fondare il proprio insegnamento solo sulle tradizioni precedenti. Gesù ha una piena autorevolezza. La sua dottrina è nuova e il Vangelo dice che la gente commentava: «Un insegnamento nuovo, dato con autorità» .
Al tempo stesso, Gesù si rivela potente anche nelle opere. Nella sinagoga di Cafarnao c’è un uomo posseduto da uno spirito immondo, che si manifesta gridando queste parole: «Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!» . Il diavolo dice la verità: Gesù è venuto per rovinare il diavolo, per rovinare il demonio, per vincerlo. Questo spirito immondo conosce la potenza di Gesù e ne proclama anche la santità. Gesù lo sgrida, dicendogli: «Taci! Esci da lui» . Queste poche parole di Gesù bastano per ottenere la vittoria su Satana, il quale esce da quell’uomo «straziandolo e gridando forte», dice il Vangelo.
Questo fatto impressiona molto i presenti; tutti sono presi da timore e si chiedono: «Ma, chi è mai questo? […] Comanda persino agli spiriti impuri e gli obbediscono!» La potenza di Gesù conferma l’autorevolezza del suo insegnamento. Egli non pronuncia solo parole, ma agisce. Così manifesta il progetto di Dio con le parole e con la potenza delle opere. Nel Vangelo, infatti, vediamo che Gesù, nella sua missione terrena, rivela l’amore di Dio sia con la predicazione sia con innumerevoli gesti di attenzione e soccorso ai malati, ai bisognosi, ai bambini, ai peccatori.
Gesù è il nostro Maestro, potente in parole e opere. Gesù ci comunica tutta la luce che illumina le strade, a volte buie, della nostra esistenza; ci comunica anche la forza necessaria per superare le difficoltà, le prove, le tentazioni.
Pensiamo a quale grande grazia è per noi aver conosciuto questo Dio così potente e così buono! Un maestro e un amico, che ci indica la strada e si prende cura di noi, specialmente quando siamo nel bisogno.
La Vergine Maria, donna dell’ascolto, ci aiuti a fare silenzio attorno e dentro di noi, per ascoltare, nel frastuono dei messaggi del mondo, la parola più autorevole che ci sia: quella del suo Figlio Gesù, che annuncia il senso della nostra esistenza e ci libera da ogni schiavitù, anche da quella del Maligno.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 28 gennaio 2018
Le letture della liturgia di questa domenica ci presenta ancora due racconti di vocazione come nella scorsa settimana
Nella prima lettura, incontriamo Giona, un profeta un po’ renitente alla chiamata, che solo in seconda istanza si rassegna ad annunziare la conversione e la salvezza a Ninive, la capitale assira, esempio di città pagana, nemica di Dio e del suo popolo. La parola profetica costringe Giona a combattere contro le sue stesse convinzioni politiche e religiose, ma al richiamo di Giona alla conversione, gli abitanti di Ninive si pentono, credono e si convertono, fanno tutti penitenza cambiando radicalmente il sistema di vivere, ed evitano così la distruzione.
Nella seconda lettura, nella sua lettera ai corinzi, l’apostolo Paolo ci ricorda che il tempo si è fatto breve, le cose di questo mondo sono passeggere e di fronte a tale realtà il cristiano deve riuscire a vivere in modo distaccato dagli interessi effimeri di questo mondo.
L’evangelista Marco, nel brano del suo Vangelo, riferisce che Gesù inizia la sua predicazione, e invitando alla conversione dice: ”il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino”. I primi discepoli hanno risposto senza esitazione lasciando tutti i loro averi ed anche gli affetti familiari per seguirlo: da quel momento prendeva vita la Chiesa. Ascoltando la voce di Gesù e degli apostoli, ognuno può scoprire in ogni tempo la sua chiamata alla gioia di quel Regno che è già stato inaugurato e che è “già in mezzo a noi”.
Dal libro del profeta Giona
Fu rivolta a Giona questa parola del Signore: «Àlzati, va’ a Nìnive, la grande città, e annuncia loro quanto ti dico». Giona si alzò e andò a Nìnive secondo la parola del Signore. Nìnive era una città molto grande, larga tre giornate di cammino. Giona cominciò a percorrere la città per un giorno di cammino e predicava: «Ancora quaranta giorni e Nìnive sarà distrutta». I cittadini di Nìnive credettero a Dio e bandirono un digiuno, vestirono il sacco, grandi e piccoli. Dio vide le loro opere, che cioè si erano convertiti dalla loro condotta malvagia, e Dio si ravvide riguardo al male che aveva minacciato di fare loro e non lo fece.
Gn 3,1-5.10
Giona è un profeta (vissuto forse nell’VIII secolo a.C.) ed è il protagonista dell’omonimo libro. Sebbene sia citato nel II libro dei Re ed anche nel Corano, non è certo che sia veramente vissuto. E’ incerto anche il periodo in cui il testo sia stato scritto (forse durante il regno di Geroboamo II nell’VIII secolo), ma l’idea più diffusa è quella che vede in Giona l'immagine negativa dell'ebraismo post-esilico: per cui è probabile che il libro sia stato composto durante l'epoca persiana o agli inizi di quella ellenistica (sec. IV).
Il racconto si divide in due parti principali, che iniziano entrambe con il conferimento al profeta dell'incarico, espresso quasi con gli stessi termini, di annunciare il giudizio di Dio sulla città di Ninive.
Nella prima parte (Gn 1-2) Giona reagisce fuggendo su una nave che incorre nel pericolo di naufragare, cosa che, alla fine, conduce i marinai a riconoscere il Signore come Dio (1,3-16). Nella seconda parte (Gn 3-4) Giona svolge il suo incarico e gli abitanti di Ninive fanno penitenza (3,3-10). Entrambe le parti principali del libro terminano con una preghiera di Giona: la prima (2,3-10) consiste in un “salmo”, mentre la seconda (4,2-3) è una preghiera che conduce ad una discussione, con la quale si conclude il libro, tra Giona e Dio, e sarà proprio Do a spiegare in modo esemplare il Suo modo di agire: “e io non dovrei aver pietà di Ninive, quella grande città, nella quale sono più di centoventimila persone, che non sanno distinguere fra la mano destra e la sinistra, e una grande quantità di animali?”. (4,11)
Nel brano che abbiamo viene riportato l’inizio della seconda parte del libro. Giona riceve una seconda volta l’incarico di recarsi a Ninive. Questa volta egli obbedisce, va a Ninive e percorre in tre giorni la città annunziando che, se entro quaranta giorni non si fosse convertita, sarebbe stata distrutta. Gli abitanti della città credettero a Dio e bandirono un digiuno, vestirono il sacco, grandi e piccoli. Non solo, ma nei versetti non riportati dal brano si legge che ”Giunta la notizia fino al re di Ninive, egli si alzò dal trono, si tolse il manto, si coprì di sacco e si mise a sedere sulla cenere. “Poi fu proclamato in Ninive questo decreto, per ordine del re e dei suoi grandi: “Uomini e animali, grandi e piccoli, non gustino nulla, non pascolino, non bevano acqua. Uomini e bestie si coprano di sacco e si invochi Dio con tutte le forze; ognuno si converta dalla sua condotta malvagia e dalla violenza che è nelle sue mani. Chi sa che Dio non cambi, si impietosisca, deponga il suo ardente sdegno sì che noi non moriamo?”.(6-9) Questo per capire fino a che punto gli abitanti di Ninive fecero penitenza.
“Dio vide le loro opere, che cioè si erano convertiti dalla loro condotta malvagia”, e non dà seguito al castigo che aveva minacciato.
Il libro di Giona affronta in modo mirabile il tema dell’universalismo della salvezza, presentando un profeta giudaico di mentalità molto limitata, il quale si rifiuta di predicare a Ninive perché sa che Dio perdonerà la città peccatrice e sospenderà il castigo che Lui stesso aveva annunziato. Nel suo fervore religioso Giona avrebbe preferito che la città nemica fosse completamente distrutta, invece Dio vuole la salvezza di tutti e attesta la Sua misericordia risparmiando gli abitanti della città. Tutto il libro è dunque un’esaltazione della misericordia divina, che si estende a tutte le creature senza distinzione di credo o di cultura ed è una preziosa testimonianza in favore dell'universalismo della salvezza. Il racconto ha chiaramente l’intento di far sì che all’interno di Israele si sviluppi un concetto di Dio molto più aperto e sensibile ai bisogni di tutti gli esseri umani.
Salmo 24 - Fammi conoscere, Signore, le tue vie.
Fammi conoscere, Signore, le tue vie,
insegnami i tuoi sentieri.
Guidami nella tua fedeltà e istruiscimi,
perché sei tu il Dio della mia salvezza.
Ricòrdati, Signore, della tua misericordia
e del tuo amore, che è da sempre.
Ricòrdati di me nella tua misericordia,
per la tua bontà, Signore.
Buono e retto è il Signore,
indica ai peccatori la via giusta;
guida i poveri secondo giustizia,
insegna ai poveri la sua via.
Il salmista è pieno d’umiltà al ricordo delle sue numerose colpe della sua giovinezza.
E’ sgomento alla vista che tanti suoi amici lo hanno tradito per un nulla. Uno screzio è bastato perché si mettessero contro di lui. Egli, piegato dal peso dei suoi peccati, domanda che Dio guardi a lui e non a quanto ha fatto non osservando “la sua alleanza e i suoi precetti”. Si trova in grande difficoltà di fronte ad avversari che lo odiano in modo violento e lui non ha via di salvezza che quella del Signore. Gli errori passati sono il frutto del suo abbandono della “via giusta”. Ora sa che “tutti i sentieri del Signore sono amore e fedeltà”, cioè non portano a rovina, ma anzi danno prosperità, poiché la discendenza di chi teme il Signore “possederà la terra”. L’orante voleva affermarsi sugli altri agendo con spavalderia, con vie traverse, ed ecco che sconfessa tutto il suo passato, trattenendone però la lezione di umiltà, che gli ha dato. Egli sa che non andrà deluso perché ha deciso di essere protetto da "integrità e rettitudine”, cioè dall’osservanza dell’alleanza stabilita da Dio con Israele. L’orante non pensa solo a se stesso, si sente parte del popolo di Dio, e invoca la liberazione di Israele dalle angosce date dai nemici. La liberazione dell’Israele di Dio, la Chiesa, cioè l’Israele fondato sulla fede in Cristo, non escludendo nella sua carità quello etnico basato sulla carne e sul sangue, per il quale la pace passerà dall’accoglienza del Principe della pace.
Commento di P.Paolo Berti
Dalla prima lettera di San Paolo apostolo ai Corinzi
Questo vi dico, fratelli: il tempo si è fatto breve; d’ora innanzi, quelli che hanno moglie, vivano come se non l’avessero; quelli che piangono, come se non piangessero; quelli che gioiscono, come se non gioissero; quelli che comprano, come se non possedessero; quelli che usano i beni del mondo, come se non li usassero pienamente: passa infatti la figura di questo mondo!
1^Cor 7,29-31
Giona è un profeta (vissuto forse nell’VIII secolo a.C.) ed è il protagonista dell’omonimo libro. Sebbene sia citato nel II libro dei Re ed anche nel Corano, non è certo che sia veramente vissuto. E’ incerto anche il periodo in cui il testo sia stato scritto (forse durante il regno di Geroboamo II nell’VIII secolo), ma l’idea più diffusa è quella che vede in Giona l'immagine negativa dell'ebraismo post-esilico: per cui è probabile che il libro sia stato composto durante l'epoca persiana o agli inizi di quella ellenistica (sec. IV).
Il racconto si divide in due parti principali, che iniziano entrambe con il conferimento al profeta dell'incarico, espresso quasi con gli stessi termini, di annunciare il giudizio di Dio sulla città di Ninive.
Nella prima parte (Gn 1-2) Giona reagisce fuggendo su una nave che incorre nel pericolo di naufragare, cosa che, alla fine, conduce i marinai a riconoscere il Signore come Dio (1,3-16). Nella seconda parte (Gn 3-4) Giona svolge il suo incarico e gli abitanti di Ninive fanno penitenza (3,3-10). Entrambe le parti principali del libro terminano con una preghiera di Giona: la prima (2,3-10) consiste in un “salmo”, mentre la seconda (4,2-3) è una preghiera che conduce ad una discussione, con la quale si conclude il libro, tra Giona e Dio, e sarà proprio Do a spiegare in modo esemplare il Suo modo di agire: “e io non dovrei aver pietà di Ninive, quella grande città, nella quale sono più di centoventimila persone, che non sanno distinguere fra la mano destra e la sinistra, e una grande quantità di animali?”. (4,11)
Nel brano che abbiamo viene riportato l’inizio della seconda parte del libro. Giona riceve una seconda volta l’incarico di recarsi a Ninive. Questa volta egli obbedisce, va a Ninive e percorre in tre giorni la città annunziando che, se entro quaranta giorni non si fosse convertita, sarebbe stata distrutta. Gli abitanti della città credettero a Dio e bandirono un digiuno, vestirono il sacco, grandi e piccoli. Non solo, ma nei versetti non riportati dal brano si legge che ”Giunta la notizia fino al re di Ninive, egli si alzò dal trono, si tolse il manto, si coprì di sacco e si mise a sedere sulla cenere. “Poi fu proclamato in Ninive questo decreto, per ordine del re e dei suoi grandi: “Uomini e animali, grandi e piccoli, non gustino nulla, non pascolino, non bevano acqua. Uomini e bestie si coprano di sacco e si invochi Dio con tutte le forze; ognuno si converta dalla sua condotta malvagia e dalla violenza che è nelle sue mani. Chi sa che Dio non cambi, si impietosisca, deponga il suo ardente sdegno sì che noi non moriamo?”.(6-9) Questo per capire fino a che punto gli abitanti di Ninive fecero penitenza.
“Dio vide le loro opere, che cioè si erano convertiti dalla loro condotta malvagia”, e non dà seguito al castigo che aveva minacciato.
Il libro di Giona affronta in modo mirabile il tema dell’universalismo della salvezza, presentando un profeta giudaico di mentalità molto limitata, il quale si rifiuta di predicare a Ninive perché sa che Dio perdonerà la città peccatrice e sospenderà il castigo che Lui stesso aveva annunziato. Nel suo fervore religioso Giona avrebbe preferito che la città nemica fosse completamente distrutta, invece Dio vuole la salvezza di tutti e attesta la Sua misericordia risparmiando gli abitanti della città. Tutto il libro è dunque un’esaltazione della misericordia divina, che si estende a tutte le creature senza distinzione di credo o di cultura ed è una preziosa testimonianza in favore dell'universalismo della salvezza. Il racconto ha chiaramente l’intento di far sì che all’interno di Israele si sviluppi un concetto di Dio molto più aperto e sensibile ai bisogni di tutti gli esseri umani.
Dal vangelo secondo Marco
Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo».
Passando lungo il mare di Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. Gesù disse loro: «Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini». E subito lasciarono le reti e lo seguirono.
Andando un poco oltre, vide Giacomo, figlio di Zebedèo, e Giovanni suo fratello, mentre anch’essi nella barca riparavano le reti. E subito li chiamò. Ed essi lasciarono il loro padre Zebedèo nella barca con i garzoni e andarono dietro a lui.
Mc 1,14-20
Il prologo del vangelo di Marco termina con la tentazione di Gesù nel deserto. Dopo l’evangelista riporta il ministero pubblico di Gesù in Galilea e riassume la predicazione di Gesù tutta incentrata sulla venuta imminente del regno di Dio. L’evangelista vuole mettere in luce l’impatto che l’apparizione di Gesù ha avuto in Galilea e diversamente da Matteo, il quale riporta subito all’inizio del vangelo un discorso programmatico di Gesù (Discorso della montagna), Marco attesta la venuta del regno di Dio da lui annunziato mediante il racconto delle sue opere straordinarie.
Il brano liturgico introduce la predicazione di Gesù in Galilea: “Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo».”
La notizia secondo cui Gesù ha iniziato il suo ministero pubblico dopo l’arresto di Giovanni contrasta con il fatto che il quarto vangelo ricorda un’attività parallela dei due (Gv 3,22-24), e Marco stesso narrerà solo in seguito l’arresto e la morte di Giovanni (6,17-29). È probabile che egli voglia qui separare nettamente l’opera del Battista da quella di Gesù per motivi più teologici che storici. Invece di recarsi in Giudea, zona densamente abitata da giudei, dove avevano sede le principali istituzioni giudaiche, Gesù torna in Galilea, sua terra d’origine.
L’espressione “vangelo di Dio”, è tipica della prima comunità cristiana (V.Rm 1,1; 15,16) e indica non la buona novella che ha per oggetto Dio, ma quella che proviene da Dio stesso, in quanto autore della salvezza. Gesù si presenta dunque come colui che, in nome di Dio, annunzia che la salvezza è vicina.
Il lieto annunzio proclamato da Gesù è espresso con un linguaggio che si ispira all’apocalittica giudaica: ”l tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino”. Il “tempo” (kairos), cioè il periodo dell’attesa, che separa il momento attuale da quello finale e conclusivo della storia, è arrivato al termine; di conseguenza il “regno di Dio è vicino»”, sta per realizzarsi in questa terra. In altre parole sta ora iniziando il periodo finale della storia, caratterizzato dal fatto che Dio stesso interviene per far riconoscere e accettare pienamente la Sua sovranità non solo su Israele, ma su tutta l’umanità.
Al tempo di Gesù la questione della regalità del Signore era molto sentita nel giudaismo perché aveva le sue radici nell’esperienza primordiale di Israele, il quale attribuiva il titolo di re a Dio che lo aveva liberato dalla schiavitù d’Egitto. In questo contesto la regalità di Dio assumeva una dimensione di potenza, ma soprattutto di misericordia, e originava l’impegno per una liberazione interiore basata su norme di giustizia e di uguaglianza. Il periodo trascorso in esilio aveva conferito a questa esperienza un aspetto di universalismo e una forte dimensione escatologica: il Signore è re di tutta l’umanità, ma non ha ancora rivelato pienamente la Sua sovranità, cosa che farà quanto prima sconfiggendo in modo definitivo le potenze del male, identificate spesso con l’impero romano, oppressore dei giudei.
Il prologo del vangelo di Marco termina con la tentazione di Gesù nel deserto. Dopo l’evangelista riporta il ministero pubblico di Gesù in Galilea e riassume la predicazione di Gesù tutta incentrata sulla venuta imminente del regno di Dio. L’evangelista vuole mettere in luce l’impatto che l’apparizione di Gesù ha avuto in Galilea e diversamente da Matteo, il quale riporta subito all’inizio del vangelo un discorso programmatico di Gesù (Discorso della montagna), Marco attesta la venuta del regno di Dio da lui annunziato mediante il racconto delle sue opere straordinarie.
Il brano liturgico introduce la predicazione di Gesù in Galilea: “Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo».”
La notizia secondo cui Gesù ha iniziato il suo ministero pubblico dopo l’arresto di Giovanni contrasta con il fatto che il quarto vangelo ricorda un’attività parallela dei due (Gv 3,22-24), e Marco stesso narrerà solo in seguito l’arresto e la morte di Giovanni (6,17-29). È probabile che egli voglia qui separare nettamente l’opera del Battista da quella di Gesù per motivi più teologici che storici. Invece di recarsi in Giudea, zona densamente abitata da giudei, dove avevano sede le principali istituzioni giudaiche, Gesù torna in Galilea, sua terra d’origine.
L’espressione “vangelo di Dio”, è tipica della prima comunità cristiana (V.Rm 1,1; 15,16) e indica non la buona novella che ha per oggetto Dio, ma quella che proviene da Dio stesso, in quanto autore della salvezza. Gesù si presenta dunque come colui che, in nome di Dio, annunzia che la salvezza è vicina.
Il lieto annunzio proclamato da Gesù è espresso con un linguaggio che si ispira all’apocalittica giudaica: ”l tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino”. Il “tempo” (kairos), cioè il periodo dell’attesa, che separa il momento attuale da quello finale e conclusivo della storia, è arrivato al termine; di conseguenza il “regno di Dio è vicino»”, sta per realizzarsi in questa terra. In altre parole sta ora iniziando il periodo finale della storia, caratterizzato dal fatto che Dio stesso interviene per far riconoscere e accettare pienamente la Sua sovranità non solo su Israele, ma su tutta l’umanità.
Al tempo di Gesù la questione della regalità del Signore era molto sentita nel giudaismo perché aveva le sue radici nell’esperienza primordiale di Israele, il quale attribuiva il titolo di re a Dio che lo aveva liberato dalla schiavitù d’Egitto. In questo contesto la regalità di Dio assumeva una dimensione di potenza, ma soprattutto di misericordia, e originava l’impegno per una liberazione interiore basata su norme di giustizia e di uguaglianza. Il periodo trascorso in esilio aveva conferito a questa esperienza un aspetto di universalismo e una forte dimensione escatologica: il Signore è re di tutta l’umanità, ma non ha ancora rivelato pienamente la Sua sovranità, cosa che farà quanto prima sconfiggendo in modo definitivo le potenze del male, identificate spesso con l’impero romano, oppressore dei giudei.
********************************
Le Parole di Papa Francesco
“Il Vangelo di oggi ci presenta l’inizio della predicazione di Gesù in Galilea. San Marco sottolinea che Gesù cominciò a predicare «dopo che Giovanni [il Battista] fu arrestato» . Proprio nel momento in cui la voce profetica del Battezzatore, che annunciava la venuta del Regno di Dio, viene messa a tacere da Erode, Gesù inizia a percorrere le strade della sua terra per portare a tutti, specialmente ai poveri, «il Vangelo di Dio». L’annuncio di Gesù è simile a quello di Giovanni, con la differenza sostanziale che Gesù non indica più un altro che deve venire: Gesù è Lui stesso il compimento delle promesse; è Lui stesso la "buona notizia" da credere, da accogliere e da comunicare agli uomini e alle donne di tutti i tempi, affinché anch’essi affidino a Lui la loro esistenza. Gesù Cristo in persona è la Parola vivente e operante nella storia: chi lo ascolta e segue entra nel Regno di Dio.
Gesù è il compimento delle promesse divine perché è Colui che dona all’uomo lo Spirito Santo, l’"acqua viva" che disseta il nostro cuore inquieto, assetato di vita, di amore, di libertà, di pace: assetato di Dio. Quante volte sentiamo, o abbiamo sentito il nostro cuore assetato! Lo ha rivelato Egli stesso alla donna samaritana, incontrata presso il pozzo di Giacobbe, alla quale disse: «Dammi da bere» (Gv 4,7). Proprio queste parole di Cristo, rivolte alla Samaritana, hanno costituito il tema dell’annuale Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani che oggi si conclude. Questa sera, con i fedeli della diocesi di Roma e con i rappresentanti delle diverse Chiese e Comunità ecclesiali, ci riuniremo nella Basilica di San Paolo fuori le mura per pregare intensamente il Signore, affinché rafforzi il nostro impegno per la piena unità di tutti i cristiani. E’ una cosa brutta che i cristiani siano divisi! Gesù ci vuole uniti: un solo corpo. I nostri peccati, la storia, ci hanno divisi e per questo dobbiamo pregare tanto perché sia lo stesso Spirito Santo ad unirci di nuovo.
Dio, facendosi uomo, ha fatto propria la nostra sete, non solo dell’acqua materiale, ma soprattutto la sete di una vita piena, di una vita libera dalla schiavitù del male e della morte. Nello stesso tempo, con la sua incarnazione Dio ha posto la sua sete – perché anche Dio ha sete - nel cuore di un uomo: Gesù di Nazareth. Dio ha sete di noi, dei nostri cuori, del nostro amore, e ha messo questa sete nel cuore di Gesù. Dunque, nel cuore di Cristo si incontrano la sete umana e la sete divina. E il desiderio dell’unità dei suoi discepoli appartiene a questa sete. Lo troviamo espresso nella preghiera elevata al Padre prima della Passione: «Perché tutti siano una sola cosa» (Gv 17,21). Quello che voleva Gesù: l’unità di tutti! Il diavolo - lo sappiamo - è il padre delle divisioni, è uno che sempre divide, che sempre fa guerre, fa tanto male.
Che questa sete di Gesù diventi sempre più anche la nostra sete! Continuiamo, pertanto, a pregare e ad impegnarci per la piena unità dei discepoli di Cristo, nella certezza che Egli stesso è al nostro fianco e ci sostiene con la forza del suo Spirito affinché tale meta si avvicini. E affidiamo questa nostra preghiera alla materna intercessione di Maria Vergine, Madre di Cristo, Madre della Chiesa, perché Lei ci unisca tutti come una buona madre.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 25 gennaio 2015
L'umanità è una grande e immensa famiglia ... Troviamo la dimostrazione di ciò da quello che ci sentiamo nei nostri cuori a Natale.
(Papa Giovanni XXIII)