Dove siamo:
Vedi sulla carta
S.Messe (settimana)
9:00  18:30

KRZYZ

Elena Tasso

Elena Tasso

Domenica, 09 Giugno 2024 19:55

AVVISI - 9 giugno 2024

1. I LAICI SALETTINI avranno il loro ultimo incontro di quest’anno sociale, lunedì 10 giugno alle ore 17:00, nell'aula battesimale. Siamo tutti invitati.

2. Il CONSIGLIO PASTORALE PARROCCHIALE avrà la sua riunione ordinaria martedì 11 giugno alle ore 19:15, presso la “Sala centrale di catechismo” (nella Rotonda).

3. Giovedì 13 giugno faremo la nostra ultima ADORAZIONE EUCARISTICA comunitaria, quella di tutti i giovedì pomeriggio. E venerdì, 14 giugno, chiudiamo anche quella individuale, che si fa da lunedì a venerdì mattina.

4. Domenica 7 luglio inizierà L’ORARIO ESTIVO delle nostre messe. Per le solennità e le domeniche avremo tre (3) messe: 09:00, 11:00 e 18:30. Per i giorni feriali continua lo stesso orario: 09:00 e 18:30. L’orario invernale sarà ripreso domenica 8 settembre.

Giovedì, 30 Maggio 2024 14:23

AVVISI - 26 maggio 2024

Avvisi26maggio2024

La festa del Corpus Domini, più propriamente chiamata solennità del santissimo Corpo e Sangue di Cristo, è una delle principali solennità dell'anno liturgico e la celebrazione, chiudendo il ciclo delle feste del dopo Pasqua, vuole celebrare il mistero dell'Eucaristia. Questa festa è stata istituita nel lontano 1264 da Papa Urbano IV a ricordo del miracolo eucaristico avvenuto nel 1263 a Bolsena, sebbene di miracoli eucaristici si erano verificati molto tempo prima.
Nella prima lettura, tratta dal Libro dell’Esodo, leggiamo che il popolo d’Israele ai piedi del monte Sinai strinse solennemente l’alleanza con Dio, impegnandosi ad osservare con totale fedeltà i comandamenti del Signore. Il sangue sparso sull’altare e sul popolo prefigura il sangue di Cristo nostro Salvatore.
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera agli Ebrei, l’autore afferma che il sangue di Cristo, immolato sulla croce una volta per sempre, elimina l’ostacolo dell’incontro con Dio, cioè il peccato, che l’antico rituale ebraico non era in grado di togliere.
Nel Vangelo, l’evangelista Marco ci fa rivivere la scena della Cena Pasquale, in cui Gesù istituisce l’Eucaristia nella quale si offre vittima per i peccati del mondo. La cena eucaristica che noi oggi celebriamo nella solennità del Corpo e del Sangue del Signore è una pregustazione di una intimità senza incrinature e senza frontiere con Dio. E’ per questo che l’Eucaristia domenicale è celebrata sempre “nell’attesa della venuta” gloriosa di Cristo. L’eucaristia è espressione della presente vicinanza di Dio con il Suo popolo, che pellegrina in mezzo alle oscurità della storia, ma è anche squarcio di luce verso la speranza che il dolore e la morte saranno eliminati per sempre.

Dal Libro dell’Esodo
In quei giorni, Mosè andò a riferire al popolo tutte le parole del Signore e tutte le norme. Tutto il popolo rispose a una sola voce dicendo: «Tutti i comandamenti che il Signore ha dato, noi li eseguiremo!».
Mosè scrisse tutte le parole del Signore. Si alzò di buon mattino ed eresse un altare ai piedi del monte, con dodici stele per le dodici tribù d’Israele. Incaricò alcuni giovani tra gli Israeliti di offrire olocausti e di sacrificare giovenchi come sacrifici di comunione, per il Signore.
Mosè prese la metà del sangue e la mise in tanti catini e ne versò l’altra metà sull’altare. Quindi prese il libro dell’alleanza e lo lesse alla presenza del popolo. Dissero: «Quanto ha detto il Signore, lo eseguiremo e vi presteremo ascolto». Mosè prese il sangue e ne asperse il popolo, dicendo: «Ecco il sangue dell’alleanza che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole!».
Es. 24,3-8

Il Libro dell'Esodo è il secondo libro del Pentateuco (Torah ebraica), è stato scritto in ebraico e, secondo l'ipotesi di molti studiosi, la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte. È composto da 40 capitoli e nei primi 14 descrive il soggiorno degli Ebrei in Egitto, la loro schiavitù e la miracolosa liberazione tramite Mosè, mentre nei restanti descrive il soggiorno degli Ebrei nel deserto del Sinai. Il libro si apre con la descrizione dello stato di schiavitù del popolo ebreo in Egitto e giunge con il suo racconto sino al patto di Dio con il popolo e alla promulgazione della legge divina, e si conclude con lunghe sezioni legali. Gli studiosi collocano questi avvenimenti tra il 15^ e il 13^ secolo a.C.
Nel brano che la Liturgia ci propone, tratto dal 24^ capitolo, troviamo descritte varie operazioni che compie Mosé per celebrare un rito che sancisce un'Alleanza con Dio e il Suo l popolo. Dio accetta questi riti perché sono segni che si praticavano a quei tempi e la gente li capiva. In questo modo il Signore vuole garantire un'alleanza concreta con il Suo popolo attraverso il sacrificio di animali con il mutuo consenso del popolo intero e non solo di Mosè. Così metà del sangue è versato sull'altare (che rappresenta Dio): Dio in tal modo esprime il Suo consenso. Un'altra metà è posta in catini. Poi dopo queste azioni Mosé “prese il libro dell’alleanza e lo lesse alla presenza del popolo. Dissero: «Quanto ha detto il Signore, lo eseguiremo e vi presteremo ascolto».” Un'alleanza si compie quando per tutti sono chiare le clausole e si sa quello che si accetta. E qui vengono lette le leggi che il popolo deve mantenere per stare ai patti e quindi meritare la fiducia del Signore e la Sua protezione. Il popolo accetta e formula anche verbalmente la propria adesione. Accettata l'alleanza perché c'è accordo con le regole-leggi di Dio, Mosè versa l'altra metà del sangue contenuta nei catini “dicendo «Ecco il sangue dell’alleanza che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole!”.
Con tutta probabilità, anche se non viene riportato, si asperge il popolo versando il sangue su dodici stele o colonnine, presumibilmente disposte in cerchio che rappresentano le 12 tribù. La medesima vita, rappresentata dal sangue, lega i due contraenti: Dio e il Suo popolo diventano "consanguinei". Un patto di sangue lega ormai il Signore e Israele in una relazione di intimità e di amore.
E’ proprio a quelle parole che Gesù si ricollega nell’ultima sera della Sua vita terrena, quando nel cenacolo celebra la cena pasquale con i Suoi discepoli.

Salmo 115 - Alzerò il calice della salvezza e invocherò il nome del Signore.

Che cosa renderò al Signore,
per tutti i benefici che mi ha fatto?
Alzerò il calice della salvezza
e invocherò il nome del Signore.

Agli occhi del Signore è preziosa
la morte dei suoi fedeli.
Io sono tuo servo, figlio della tua schiava:
tu hai spezzato le mie catene.

A te offrirò un sacrificio di ringraziamento
e invocherò il nome del Signore.
Adempirò i miei voti al Signore
davanti a tutto il suo popolo.

Il salmista ha provato momenti di sgomento di fronte agli inganni degli uomini. Si era trovato imprigionato, ma poi ha visto la libertà: “hai spezzato le mie catene”. Come risposta il salmista offrirà “un sacrificio di ringraziamento".
Una parte delle vittime sacrificate spettava all'offerente, che la consumava in un convito coi famigliari, gli amici, i poveri (Cf. Ps 21,27). Durante il convito l'offerente prendeva una coppa di vino presentandola al Signore e poi ne beveva lui e tutti gli altri: “Alzerò il calice della salvezza”.
Il salmista dice che “Agli occhi del Signore è preziosa la morte dei suoi fedeli”, intendendo affermare che l'ora della morte dei fedeli a Dio non è ad arbitrio degli uomini. Lui decide il dove, il come e il quando, e questo per il bene del fedele.
Il salmista offrirà "un sacrificio di ringraziamento" davanti a tutto il popolo, e con piena ortodossia nel tempio del Signore, a Gerusalemme, testimoniando così pubblicamente la sua fede nel Signore.
L'esistenza del tempio porta a pensare ad un personaggio perseguitato per la sua fedeltà a Dio da un qualche re di Gerusalemme rivolto agli dei pagani; come fu il caso di Geremia.
“Il calice della salvezza”, nel sensus plenior è quello eucaristico.
Commento tratto da “Perfetta Letizia”

Lettera agli Ebrei
Fratelli, Cristo è venuto come sommo sacerdote dei beni futuri, attraverso una tenda più grande e più perfetta, non costruita da mano d’uomo, cioè non appartenente a questa creazione. Egli entrò una volta per sempre nel santuario, non mediante il sangue di capri e di vitelli, ma in virtù del proprio sangue, ottenendo così una redenzione eterna.
Infatti, se il sangue dei capri e dei vitelli e la cenere di una giovenca, sparsa su quelli che sono contaminati, li santificano purificandoli nella carne, quanto più il sangue di Cristo – il quale, mosso dallo Spirito eterno, offrì se stesso senza macchia a Dio – purificherà la nostra coscienza dalle opere di morte, perché serviamo al Dio vivente?
Per questo egli è mediatore di un’alleanza nuova, perché, essendo intervenuta la sua morte in riscatto delle trasgressioni commesse sotto la prima alleanza, coloro che sono stati chiamati ricevano l’eredità eterna che era stata promessa.
Eb 9,11-15

L’autore della Lettera agli Ebrei è rimasto anonimo, anche se nei primi tempi si è pensato a Paolo di Tarzo, ma sia la critica antica che moderna, ha escluso quasi concordemente questa attribuzione.
L’autore è certamente di origine giudaica, perchè conosce perfettamente la Bibbia, ha una fede integra e profonda, una grande cultura, ma tutte le congetture fatte sul suo nome rimangono congetture, si può solo dedurre che nel cristianesimo primitivo ci furono notevoli personalità oltre agli apostoli, anche se rimaste sconosciute. Quanto ai destinatari – ebrei – è certo che l’autore non si rivolge agli ebrei per invitarli a credere in Cristo, il suo scopo è invece quello di ravviare la fede e il coraggio ai convertiti di antica data, con tutta probabilità di origine giudaica. Infatti per discutere con essi, l’autore cita in continuazione la Scrittura e richiama incessantemente le idee e le realtà più importanti della religione giudaica .
Il capitolo 9, da dove è tratto questo brano, mette a confronto il sacrificio di Cristo, sacerdote e vittima con quello offerto nel grande giorno dell’espiazione. Nel rito ebraico il sommo sacerdote una volta all’anno, durante la festa dell’Espiazione (Yom Kippur), entrava con il sangue dell’espiazione nel Santo dei Santi e lì, nascosto alla vista del popolo, rimaneva però al suo servizio in quanto ne espiava le colpe offrendo il sacrificio annuale.
A confronto del sommo Sacerdote, Cristo è entrato una sola volta e per sempre nel santuario celeste e non con il sangue di capri e di tori ha offerto il sacrificio, ma con il proprio sangue proclamando per tutti una redenzione definitiva, eterna, perchè il Suo sacrificio ha valore eterno. Infatti se già purificava il sacrificio di sangue di capri e tori, di gran lunga maggiore sarà la purificazione ottenuta con un sangue senza macchia e per di più del Figlio di Dio. Per questo Gesù è divenuto mediatore di un nuovo patto, una nuova alleanza, assolutamente perfetta, che assicura a quelli che credono in Lui l’eredità promessa.

Il “Santo dei Santi o Sancta sanctorum”, letteralmente “camera posteriore”, era la parte più santa del tempio, era il luogo della presenza di Dio, il luogo in cui si trovava l’arca con le tavole della legge, coperta dal propiziatorio costituito da una lastra d’oro e due angeli che la coprivano con le loro ali.
Il Santo dei Santi era una cella cubica di circa 9 metri di lato e separata dall’altra parte del tempio da una porta, poi sostituita da una tenda: il “Velo del tempio” che si squarciò alla morte di Gesù in croce (Mc 15,38; Mt, 27,51; Lc 23,45

Dal Vangelo secondo Marco
Il primo giorno degli Àzzimi, quando si immolava la Pasqua, i discepoli dissero a Gesù: «Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?».
Allora mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro: «Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua; seguitelo. Là dove entrerà, dite al padrone di casa: “Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?”. Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta; lì preparate la cena per noi».
I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono la Pasqua.
Mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo». Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse loro: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti. In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio».
Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi.
Mc 14,12-16.22-26

L’evangelista Marco struttura il racconto della cena del Signore su quanto si legge nel Libro dell’Esodo, in cui Mosè prese il libro dell’alleanza e lo lesse alla presenza del popolo, poi prese il sangue e ne asperse il popolo e disse “Ecco il sangue dell’alleanza che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole”.
Il brano liturgico inizia in questo modo: Il primo giorno degli Àzzimi, quando si immolava la Pasqua, i discepoli dissero a Gesù: «Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?». 1
I discepoli chiedono a Gesù dove vuole celebrare la Pasqua in modo di avere il tempo per i vari preparativi come la pulizia rituale degli ambienti e l’acquisto dell’agnello e di gli altri cibi necessari prima del calar del sole. Come risposta alla domanda dei discepoli Gesù manda due di loro in città dopo aver programmato tutto nel minimo dettaglio. I discepoli allora vanno e, entrati in città, trovano come aveva detto loro e preparano per la Pasqua. Ancora una volta, come in occasione dell’ingresso in Gerusalemme, Gesù agisce come il regista di un piano preordinato da Dio e da Lui pienamente conosciuto e accettato.
All’inizio della cena Gesù dimostra nuovamente la piena consapevolezza di quanto sta per accadere (anche il tradimento di Giuda) e dei suoi sviluppi futuri. Il brano precisa che mentre mangiavano, Gesù “prese il pane e recitò la benedizione”; questi gesti richiamano il rito con cui aveva inizio non solo la cena pasquale, ma ogni banchetto giudaico.
Per i giudei la benedizione consisteva in un ringraziamento a Dio per i benefici accordati al Suo popolo, dei quali il pane era simbolo; mangiando insieme il pane spezzato i commensali esprimevano da una parte l’accettazione dei doni di Dio e dall’altra il rapporto di comunione tra loro, che ne era la diretta conseguenza. Gesù, pur seguendo il rituale, ne offre all’improvviso un significato sorprendente e inedito perchè afferma rivolto ai commensali “Prendete, questo è il mio corpo!”. Ciò significa, secondo il linguaggio biblico, che il pane rappresenta Lui stesso, la Sua persona. Spezzando quel pane e offrendolo ai commensali, Gesù stabiliva con loro un legame di comunione profonda, facendo si che essi entrassero nella Sua stessa vita, nella Sua morte e nella Sua gloria.
Secondo il costume giudaico, alla consumazione del pane azzimo e dell’agnello pasquale seguiva la benedizione solenne che si pronunziava su una coppa di vino per ringraziare Dio per i benefici concessi al Suo popolo: tutti i commensali poi ne bevevano, per testimoniare così nuovamente la comunione che si era stabilita tra di loro in forza del dono ricevuto da Dio. Anche a questo punto Gesù imprime al rituale una svolta con le parole del Suo “ringraziamento”: “ Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti”. E’ qui che riecheggiano le parole di Mosè al Sinai: il vino della Pasqua è ora il sangue di Cristo, che crea l’alleanza piena e perfetta tra Dio e l’uomo. “Il sangue versato per molti”, è un’espressione orientale per indicare che è il sangue di una persona sacrificata per salvare tutti gli uomini.
Gesù poi aggiunge un ultimo messaggio: “io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio” ossia Egli annunzia che dopo la cena eucaristica e la pausa buia della morte, berrà il calice del vino nuovo nel regno di Dio.
E’ il banchetto della perfezione celeste cantato da Isaia, in cui “il Signore Dio eliminerà la morte per sempre; asciugherà le lacrime su ogni volto” Is 25,8
La cena eucaristica che noi oggi celebriamo nella solennità del Corpo e del Sangue del Signore è, quindi una pregustazione di un’intimità senza limiti con Dio.
Dobbiamo sempre avere in mente che l’eucaristia è espressione della presente vicinanza di Dio con il Suo popolo in cammino in mezzo alle oscurità della storia, ma anche squarcio di luce verso la speranza che il dolore e la morte saranno eliminate per sempre.

*************************

Si conoscono tanti Miracoli Eucaristici, il più conosciuto è quello di Bolsena, che ha dato origine alla festa del Corpus Domini, ma il più straordinario è senza dubbio quello di Lanciano che è avvenuto intorno all'anno settecento.. Ciò si desume da circostanze e concomitanze storiche dovute alla persecuzione in Oriente da parte dell'Imperatore Leone III, l'Isaurico, il quale iniziò una feroce persecuzione contro la Chiesa e il culto delle immagini sacre (iconoclastia).
In concomitanza della "lotta iconoclasta" nella Chiesa orientale, molti monaci greci si rifugiarono in Italia, tra essi i monaci basiliani, discepoli di San Basilio (329-379) Vescovo di Cesarea di Cappadocia (nell'attuale Turchia Orientale). Alcune comunità di esse si rifugiarono a Lanciano.
Un giorno un monaco mentre celebrava la Santa Messa fu assalito dal dubbio circa la presenza reale di Gesù nella Santa Eucaristia. Pronunziate le parole della consacrazione sul pane e sul vino, all'improvviso, dinanzi ai suoi occhi vide il pane trasformarsi in Carne, il vino in Sangue…
Alle varie ricognizioni ecclesiastiche, condotte fin dal 1574, seguì, nel 1970-1971 e ripresa in parte nel 1981, quella scientifica, compiuta da illustri scienziati. Le analisi, eseguite con assoluto rigore scientifico e documentate da una serie di fotografie al microscopio, hanno dato questi risultati: La Carne è vera Carne. Il Sangue è vero Sangue. La Carne e il Sangue appartengono alla specie umana. La Carne è un "CUORE" completo nella sua struttura essenziale. Nella Carne sono presenti, in sezione, il miocardio, l'endocardio, il nervo vago e, per il rilevante spessore del miocardio, il ventricolo cardiaco sinistro. La Carne e il Sangue hanno lo stesso gruppo sanguigno: AB, lo stesso del lenzuolo della Sacra sindone di Torino .
La conservazione della Carne e del Sangue miracolosi, lasciati allo stato naturale per dodici secoli ed esposti all'azione di agenti fisici, atmosferici e biologici, rimane un fenomeno straordinario.
A conclusione si può dire che la Scienza, chiamata in causa, ha dato una risposta sicura ed esauriente circa la autenticità del Miracolo Eucaristico di Lanciano.

****************************************************************************************

Le parole di Papa Francesco

Oggi, in Italia e in altri Paesi, si celebra la Solennità del Corpo e Sangue di Cristo. Il Vangelo ci presenta il racconto dell’Ultima Cena (Mc 14,12-16.22-26). Le parole e i gesti del Signore ci toccano il cuore: Egli prende il pane nelle sue mani, pronuncia la benedizione, lo spezza e lo porge ai discepoli, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo».
È così, con semplicità, che Gesù ci dona il sacramento più grande. Il suo è un gesto umile di dono, un gesto di condivisione. Al culmine della sua vita, non distribuisce pane in abbondanza per sfamare le folle, ma spezza sé stesso nella cena pasquale con i discepoli. In questo modo Gesù ci mostra che il traguardo della vita sta nel donarsi, che la cosa più grande è servire. E noi ritroviamo oggi la grandezza di Dio in un pezzetto di Pane, in una fragilità che trabocca amore, trabocca condivisione.
Fragilità è proprio la parola che vorrei sottolineare. Gesù si fa fragile come il pane che si spezza e si sbriciola. Ma proprio lì sta la sua forza, nella sua fragilità. Nell’Eucaristia la fragilità è forza: forza dell’amore che si fa piccolo per poter essere accolto e non temuto; forza dell’amore che si spezza e si divide per nutrire e dare vita; forza dell’amore che si frammenta per riunire tutti noi in unità.
E c’è un’altra forza che risalta nella fragilità dell’Eucaristia: la forza di amare chi sbaglia. È nella notte in cui viene tradito che Gesù ci dà il Pane della vita. Ci regala il dono più grande mentre prova nel cuore l’abisso più profondo: il discepolo che mangia con Lui, che intinge il boccone nello stesso piatto, lo sta tradendo. E il tradimento è il dolore più grande per chi ama. E che cosa fa Gesù? Reagisce al male con un bene più grande. Al no” di Giuda risponde con il “sì” della misericordia. Non punisce il peccatore, ma dà la vita per lui, paga per lui. Quando riceviamo l’Eucaristia, Gesù fa lo stesso con noi: ci conosce, sa che siamo peccatori, sa che sbagliamo tanto, ma non rinuncia a unire la sua vita alla nostra. Sa che ne abbiamo bisogno, perché l’Eucaristia non è il premio dei santi, no, è il Pane dei peccatori. Per questo ci esorta: “Non abbiate paura! Prendete e mangiate”.
Ogni volta che riceviamo il Pane di vita, Gesù viene a dare un senso nuovo alle nostre fragilità. Ci ricorda che ai suoi occhi siamo più preziosi di quanto pensiamo. Ci dice che è contento se condividiamo con Lui le nostre fragilità. Ci ripete che la sua misericordia non ha paura delle nostre miserie. La misericordia di Gesù non ha paura delle nostre miserie. E soprattutto ci guarisce con amore da quelle fragilità che da soli non possiamo risanare. Quali fragilità? Pensiamo. Quella di provare risentimento verso chi ci ha fatto del male – questa da soli non la possiamo guarire –; quella di prendere le distanze dagli altri e isolarci in noi stessi – questa da soli non la possiamo guarire –; quella di piangerci addosso e lamentarci senza trovare pace – anche questa noi soli non la possiamo guarire. È Lui che ci guarisce con la sua presenza, con il suo Pane, con l’Eucaristia. L’Eucaristia è farmaco efficace contro queste chiusure. Il Pane di vita, infatti, risana le rigidità e le trasforma in docilità. L’Eucaristia guarisce perché unisce a Gesù: ci fa assimilare il suo modo di vivere, la sua capacità di spezzarsi e donarsi ai fratelli, di rispondere al male con il bene. Ci dona il coraggio di uscire da noi stessi e di chinarci con amore verso le fragilità altrui. Come fa Dio con noi. Questa è la logica dell’Eucaristia: riceviamo Gesù che ci ama e sana le nostre fragilità per amare gli altri e aiutarli nelle loro fragilità. E questo, durante tutta la vita. Oggi, nella Liturgia delle Ore, abbiamo pregato un inno: quattro versetti che sono il riassunto di tutta la vita di Gesù. Ci dicono così: che Gesù, nascendo, si è fatto compagno di viaggio nella vita; poi, nella cena, si è dato come cibo; poi, nella croce, nella sua morte, si è fatto “prezzo”, ha pagato per noi; e adesso, regnando nei Cieli, è il nostro premio, che noi andiamo a cercare, quello che ci aspetta.
La Vergine Santa, in cui Dio si è fatto carne, ci aiuti ad accogliere con cuore grato il dono dell’Eucaristia e a fare anche della nostra vita un dono. Che l’Eucaristia ci faccia un dono per tutti gli altri.
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 6 giugno 2021

 

1 Il termine Pasqua indica due feste che in origine erano separate, la Pasqua propriamente detta, che consisteva nell’immolazione dell’agnello e nella sua consumazione nell’ambito familiare, e gli Azzimi, che consisteva nel consumare pane azzimo per la durata di una settimana (Es 12,1-20). Nel volgere degli anni le due feste sono state fuse: il giorno di Pasqua in senso proprio è diventato così il primo giorno della settimana degli Azzimi, la quale termina poi con un’altra assemblea festiva. La Pasqua aveva luogo il 15 del mese di Nisan. Siccome il calendario allora in uso era basato sui cicli lunari, la data della pasqua variava ogni anno. La celebrazione della festa iniziava il giorno precedente, dopo il calar del sole. La Pasqua rappresenta per gli ebrei il ricordo annuale dell’uscita degli israeliti dall’Egitto; ad essa era collegato, il ricordo di altri eventi salvifici, quali la creazione, l’alleanza di Dio con Abramo, il sacrificio di Isacco e infine la venuta del Messia.

Le letture liturgiche di questa domenica dopo Pentecoste, invitandoci a fissare lo sguardo sul mistero della SS Trinità, ci fanno intravedere il volto di Dio invisibile, misericordioso e pietoso, che si occupa di ognuno di noi, che è Padre, Figlio e Spirito Santo.
Nella prima lettura, tratta dal libro del Deuteronomio, Mosè parla alla sua gente per spiegare loro che mai nessun popolo sulla terra ha avuto l’esperienza di Dio come Israele in Egitto: sentirsi scelti da Dio e soprattutto sul Sinai sentire la voce del proprio Dio e rimanere vivi.
Nella seconda lettura, Paolo nella sua lettera ai Romani, approfondisce il tema della figliolanza con Dio, facendo osservare ai destinatari della sua lettera che essi non hanno ricevuto uno spirito da schiavi, che li farebbe ricadere inevitabilmente nella paura, ma uno Spirito che rende figli adottivi. E aggiunge che proprio in forza di questo Spirito noi gridiamo: Abbà! Padre!.
Nel Vangelo, Matteo ci dice che tra i compiti affidati da Gesù ai suoi discepoli prima di ascendere al cielo c’è quello di battezzare “nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”.
Nel Battesimo il credente è introdotto nella vita di Dio ed è immerso nel Suo amore trinitario, e come figlio può chiamare Dio “Padre”, perché partecipe dello stesso Spirito del Figlio Unigenito. La Trinità non è un mistero da contemplare o da sforzarsi di capire:, è un abbraccio di amore in cui abbandonarsi.

Dal Libro del Deuteronomio
Mosè parlò al popolo dicendo: «Interroga pure i tempi antichi, che furono prima di te: dal giorno in cui Dio creò l’uomo sulla terra e da un’estremità all’altra dei cieli, vi fu mai cosa grande come questa e si udì mai cosa simile a questa? Che cioè un popolo abbia udito la voce di Dio parlare dal fuoco, come l’hai udita tu, e che rimanesse vivo?
O ha mai tentato un dio di andare a scegliersi una nazione in mezzo a un’altra con prove, segni, prodigi e battaglie, con mano potente e braccio teso e grandi terrori, come fece per voi il Signore, vostro Dio, in Egitto, sotto i tuoi occhi?
Sappi dunque oggi e medita bene nel tuo cuore che il Signore è Dio lassù nei cieli e quaggiù sulla terra: non ve n’è altro. Osserva dunque le sue leggi e i suoi comandi che oggi ti do, perché sia felice tu e i tuoi figli dopo di te e perché tu resti a lungo nel paese che il Signore, tuo Dio, ti dà per sempre».
Dt 4,32-34,39-40

Il Deuteronomio è il quinto e ultimo libro del Pentateuco e ha la funzione di concludere la storia delle origini di Israele, e di fornire una sintesi delle tradizioni di fede contenute nella Torah. È stato scritto in ebraico e, secondo l'ipotesi condivisa da molti studiosi, la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte
È’ composto da 34 capitoli descriventi la storia degli Ebrei durante il loro soggiorno nel deserto del Sinai (circa 1200 a.C.) e contiene varie leggi religiose e sociali (nella Torah, o “Legge mosaica”, sono enumerati anche un insieme di 613 mitzvòt, o precetti). Dopo la Prima Legge, data da Dio sul Sinai, il Deuteronomio (Deuteros nomos) si presenta come la "Seconda Legge", la nuova Legge che Mosè consegna al popolo poco prima di morire e invita a tradurre l'amore per Dio nella vita sociale e familiare, non limitandosi dunque solo allo stretto compimento della Legge.
E’ uno dei libri più intensi di tutto l’Antico Testamento, e presenta una lettura teologica della storia del popolo eletto: Mosè, prima di morire, ricorda a Israele gli avvenimenti passati, mostrando come essi facciano parte di una economia salvifica che ha come punti centrali la promessa ai Padri, l’elezione d’Israele fra tutti i popoli della terra e l’alleanza sinaitica. Questa consapevolezza di appartenere a Dio, privilegio unico ed esclusivo, fa nascere nel popolo l’esigenza di una risposta decisa e libera a favore di Dio e della Sua legge.
Questo brano, in cui Mosè continua a ricordare alla sua gente la grandezza di Dio e le grandi cose che Lui ha fatto per il Suo popolo, inizia con delle domande che non necessitano di risposta: “vi fu mai cosa grande come questa e si udì mai cosa simile a questa? Che cioè un popolo abbia udito la voce di Dio parlare dal fuoco, come l’hai udita tu, e che rimanesse vivo?”... Mai nessun popolo sulla terra ha avuto l’esperienza di Dio come Israele in Egitto … riuscire a capire che Dio è vicino al Suo popola per essere sorgente di vita!
Poi Mosè invita il popolo a meditare bene nel proprio cuore che: “il Signore è Dio lassù nei cieli e quaggiù sulla terra: non ve n’è altro. Osserva dunque le sue leggi e i suoi comandi che oggi ti do, perché sia felice tu e i tuoi figli dopo di te e perché tu resti a lungo nel paese che il Signore, tuo Dio, ti dà per sempre”.
L'esperienza d'Israele è quella di “un Dio misericordioso; che non ti abbandonerà e non ti distruggerà, non dimenticherà l’alleanza che ha giurata ai tuoi padri”. (Dt4,31).
Il senso della fede del popolo di Dio è tutta relazionale; la dimensione spirituale passa attraverso il rapporto amorevole o conflittuale con l'unico Dio che ha scelto per ragioni misteriose proprio quel popolo, lo ha reso Suo “partner” con un Patto che si è mantenuto saldo per Sua misericordiosa volontà.
Tutto quello che siamo anche noi oggi è legato al bene che Dio ci vuole; ogni giorno possiamo essere certi che Lui ci vuole bene perché il bene, che i nostri padri hanno ricevuto al loro tempo, in realtà è fatto anche a noi oggi. Quella che ora meditiamo è una grande dichiarazione d'amore che è scritta nel nostro DNA e che va oltre lo spazio e il tempo.
La felicità per noi oggi, e per i nostri figli domani, sta nella fede che ci fa sentire Dio vicino a noi, come nostro Padre, nella gioia originata dalla comunione col Signore Gesù che ci fa gustare il sapore della vera felicità nel rendere felici gli altri, perché testimoni della Misericordia che lo Spirito Santo continuamente ci annuncia.

Salmo 32 Beato il popolo scelto dal Signore.
Retta è la parola del Signore
e fedele ogni sua opera.
Egli ama la giustizia e il diritto;
dell’amore del Signore è piena la terra.

Dalla parola del Signore furono fatti i cieli,
dal soffio della sua bocca ogni loro schiera.
Perché egli parlò e tutto fu creato,
comandò e tutto fu compiuto.

Ecco, l’occhio del Signore è su chi lo teme,
su chi spera nel suo amore,
per liberarlo dalla morte
e nutrirlo in tempo di fame.

L’anima nostra attende il Signore:
egli è nostro aiuto e nostro scudo.
Su di noi sia il tuo amore,
Signore, come da te noi speriamo.

Il salmo comincia con un’esortazione alla gioia. Infatti la tentazione della tristezza è sottile, porta l’anima a stancarsi nel perseverare nel bene e, alla fine, a rivolgersi al male come fonte sicura di consolazioni.
La tristezza non s’accompagna con la lode, ma con la lamentosità, e dunque bisogna mantenersi nella gioia per lodare il Signore, e del resto lodare il Signore mantiene nella gioia, quella vera, che non è euforia, ma realtà dell’amore.
Il salmista esorta ad allontanarsi dalla tristezza accompagnando la lode con la cetra, con l’arpa a dieci corde. La lode sia canto. Canto che nasce dall’amore, dal cuore, da un cuore puro. Non canto di bella voce, ma canto di bel cuore. “Cantate un canto nuovo”, esorta il salmista; il che vuol dire che il canto sia nuovo nell’amore. Si potranno usare le stesse parole, ma il canto sarà sempre nuovo se avrà la novità dell’amore. Non c’è atto d’amore che non possa dirsi nuovo se fatto con tutto il cuore.
“Con arte”, bisogna suonare, nell’esultanza e non nell’esaltazione.
Il salmista dice il perché della lode a Dio; perché “retta è la parola del Signore”, cioè non mente, costruisce, guida, dà luce, dà pace e gioia. E ogni opera sua è segnata dalla fedeltà all’alleanza che egli ha stabilito col suo popolo.
Egli ama il diritto e la giustizia, cioè la pace tra gli uomini, la comunione della carità, il rispetto dei diritti dell’uomo.
Egli ha creato le cose come dono all’uomo, per cui ogni cosa ha una ragione d’amore: “dell'amore del Signore è piena la terra”.
La creazione procede dal suo volere, dalla sua Parola. Tutte le cose sono state create con un semplice palpito del suo volere.
Le stelle, che nella volta celeste si muovono (moto relativo al nostro punto di vista) come schiere. Le acque del mare sono ferme come dentro un otre: esse non possono dilagare sulla terra. Nelle cavità profonde della terra ha confinato parimenti le acque abissali, che sfociano in superficie nelle sorgenti. Esse sono chiuse (“chiude in riserve gli abissi ”), e non diromperanno sulla terra unendosi a quelle dei mari e del cielo per sommergere la terra (Cf. Gn 1,6-10; 7,11).
Il salmista proclama il suo amore a Dio a tutta la terra, invitando tutti gli uomini a temere Dio, cioè a temere di offenderlo perché egli è infinitamente amabile. Gli abitanti del mondo tremino davanti a lui, perché misericordioso, ma è anche giusto giudice e non lascia impunito chi si ribella a lui. Egli è l’Onnipotente perché: “parlò e tutto fu creato, comandò e tutto fu compiuto”.
I popoli, le nazioni, che vogliono costruirsi senza di lui non avranno che sconfitta. I loro progetti sono vani, non avranno successo. Al contrario il disegno salvifico ed elevante del Signore rimane per sempre. Nessuno lo può arrestare. Esso procede dal suo cuore, cioè dal suo amore - “i progetti del suo cuore” - e rimane per sempre, per tutte le generazioni.
Il salmista poi celebra Israele; il nuovo Israele, quello che ha come capo Cristo, e del quale Israele un giorno farà parte (Rm 11,15).
Nessuno sfugge allo sguardo del Signore: “guarda dal cielo: egli vede tutti gli uomini”. E lui sa ben vedere il cuore dell’uomo poiché lui l’ha creato, e sa “comprendere tutte le sue opere”, perché sa vedere il merito o il demerito sulla base dell’adesione all’orientamento al bene del cuore, e alla grazia che egli dona.
La sua grazia è la forza dell’uomo nelle situazioni di difficoltà. L’uomo non deve credere di salvarsi dalle catastrofi sociali perché possiede cavalli, ma deve rivolgersi a Dio, che può “liberarlo dalla morte e nutrirlo in tempo di fame”.
Il salmista, unito ai giusti, esprime una dolce professione di fede in Dio, una dolce speranza in lui: “L’anima nostra attende il Signore: egli è nostro aiuto e nostro scudo”; conclude poi con un’ardente invocazione: “Su di noi sia il tuo amore, Signore, come da te noi speriamo”.
Commento tratto da “Perfetta Letizia”

Dalla lettera di San Paolo Apostolo ai Romani
Fratelli, tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: «Abbà! Padre!».
Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria.
Rm 8,14-17

Il Deuteronomio è il quinto e ultimo libro del Pentateuco e ha la funzione di concludere la storia delle origini di Israele, e di fornire una sintesi delle tradizioni di fede contenute nella Torah. È stato scritto in ebraico e, secondo l'ipotesi condivisa da molti studiosi, la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte
È’ composto da 34 capitoli descriventi la storia degli Ebrei durante il loro soggiorno nel deserto del Sinai (circa 1200 a.C.) e contiene varie leggi religiose e sociali (nella Torah, o “Legge mosaica”, sono enumerati anche un insieme di 613 mitzvòt, o precetti). Dopo la Prima Legge, data da Dio sul Sinai, il Deuteronomio (Deuteros nomos) si presenta come la "Seconda Legge", la nuova Legge che Mosè consegna al popolo poco prima di morire e invita a tradurre l'amore per Dio nella vita sociale e familiare, non limitandosi dunque solo allo stretto compimento della Legge.
E’ uno dei libri più intensi di tutto l’Antico Testamento, e presenta una lettura teologica della storia del popolo eletto: Mosè, prima di morire, ricorda a Israele gli avvenimenti passati, mostrando come essi facciano parte di una economia salvifica che ha come punti centrali la promessa ai Padri, l’elezione d’Israele fra tutti i popoli della terra e l’alleanza sinaitica. Questa consapevolezza di appartenere a Dio, privilegio unico ed esclusivo, fa nascere nel popolo l’esigenza di una risposta decisa e libera a favore di Dio e della Sua legge.
Questo brano, in cui Mosè continua a ricordare alla sua gente la grandezza di Dio e le grandi cose che Lui ha fatto per il Suo popolo, inizia con delle domande che non necessitano di risposta: “vi fu mai cosa grande come questa e si udì mai cosa simile a questa? Che cioè un popolo abbia udito la voce di Dio parlare dal fuoco, come l’hai udita tu, e che rimanesse vivo?”... Mai nessun popolo sulla terra ha avuto l’esperienza di Dio come Israele in Egitto … riuscire a capire che Dio è vicino al Suo popola per essere sorgente di vita!
Poi Mosè invita il popolo a meditare bene nel proprio cuore che: “il Signore è Dio lassù nei cieli e quaggiù sulla terra: non ve n’è altro. Osserva dunque le sue leggi e i suoi comandi che oggi ti do, perché sia felice tu e i tuoi figli dopo di te e perché tu resti a lungo nel paese che il Signore, tuo Dio, ti dà per sempre”.
L'esperienza d'Israele è quella di “un Dio misericordioso; che non ti abbandonerà e non ti distruggerà, non dimenticherà l’alleanza che ha giurata ai tuoi padri”. (Dt4,31).
Il senso della fede del popolo di Dio è tutta relazionale; la dimensione spirituale passa attraverso il rapporto amorevole o conflittuale con l'unico Dio che ha scelto per ragioni misteriose proprio quel popolo, lo ha reso Suo “partner” con un Patto che si è mantenuto saldo per Sua misericordiosa volontà.
Tutto quello che siamo anche noi oggi è legato al bene che Dio ci vuole; ogni giorno possiamo essere certi che Lui ci vuole bene perché il bene, che i nostri padri hanno ricevuto al loro tempo, in realtà è fatto anche a noi oggi. Quella che ora meditiamo è una grande dichiarazione d'amore che è scritta nel nostro DNA e che va oltre lo spazio e il tempo.
La felicità per noi oggi, e per i nostri figli domani, sta nella fede che ci fa sentire Dio vicino a noi, come nostro Padre, nella gioia originata dalla comunione col Signore Gesù che ci fa gustare il sapore della vera felicità nel rendere felici gli altri, perché testimoni della Misericordia che lo Spirito Santo continuamente ci annuncia.

Dal Vangelo secondo Matteo
In quel tempo, gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato.
Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono.
Gesù si avvicinò e disse loro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».
Mt 28, 16-20

L’evangelista Matteo nel capitolo 28 nel suo Vangelo racconta che l’angelo al sepolcro aveva detto alle donne di riferire ai discepoli che Gesù risorto li avrebbe preceduti in Galilea e là lo avrebbero visto. Ora egli precisa che effettivamente i discepoli si sono recati in Galilea e si sono radunati su un monte. Anche questo monte, come quello delle beatitudini, ha un significato teologico perchè proprio nel luogo prescelto essi vedono Gesù e si prostrano davanti a Lui, ma Matteo però precisa che nello stesso tempo essi dubitano.
La loro reazione evidenzia una fede mescolata al dubbio, che nel cammino dei credenti rimane sempre presente, come un’ombra inseparabile. Matteo non descrive i dettagli di questa apparizione, ma riporta che è Gesù che prende l’iniziativa facendosi vedere; e avvicinandosi a loro dichiara: “A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra.” In forza della Sua morte e risurrezione è stato conferito a Gesù il potere stesso di Dio, che consiste nella capacità di instaurare il Suo regno e di portare la salvezza a tutta l’umanità. La pienezza di questo potere è sottolineata dall’espressione “in cielo e sulla terra”, che indica i due estremi che racchiudono ogni realtà creata.
“Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato”.
L’autorità del Risorto viene conferita ai discepoli, che in nome del Maestro dovranno andare in tutto il mondo per compiere diverse azioni: fare discepoli, battezzare, insegnare.
L’attività degli Undici consisterà dunque nel “fare discepoli tutti i popoli”… il programma dunque è il discepolato, che ora, dopo la risurrezione di Gesù, deve essere esteso a tutti. Matteo non pensa a una cristianizzazione in massa dei pagani, ma alla formazione di comunità in cui i pagani diventano, allo stesso modo dei giudei, discepoli di Gesù. Questi pagani, come conseguenza del fatto di essere diventati anche loro discepoli, dovranno essere battezzati nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo: in questa formula si mostra come il battesimo, amministrato originariamente nel nome di Gesù (v. At 8,16; 10,48; 19,5), comporti non solo un coinvolgimento nella persona e nell’insegnamento del Figlio, ma anche un’immersione per mezzo Suo nel Padre e nello Spirito Santo.
Ciò che Gesù comanda ai suoi discepoli non è certo facile da eseguire, il suo sembrerebbe un comandamento alquanto difficile se Lui non avesse aggiunto: “io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”. Gesù assumendo la nostra natura umana, è divenuto veramente l'"Emmanuele", cioè il "Dio con noi" .In un dialogo incessante d'amore Gesù risorto continua a ripetere ad ognuno di noi, specialmente nei momenti più dolorosi: “non temere Io sono con te!“.

********************

Stavo rimpiangendo il passato
e temendo il futuro.
Improvvisamente il Signore parlò:
Mi chiamo: Io sono.
Tacque
Attesi
Egli continuò:
Quando vivi nel passato,
coi suoi errori e i suoi rimpianti è duro:
io non ci sono.
Il mio nome non è: io ero.
Quando vivi nel futuro,
coi suoi problemi e le sue paure,
è duro. Io non ci sono.
Il mio nome non è: io sarò.
Quando vivi nel momento presente
non è difficile.
Io ci sono,
il mio nome è: IO SONO

*****

“In questa festa nella quale celebriamo Dio: il mistero di un unico Dio. E questo Dio è il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo. Tre persone, ma Dio è uno! Il Padre è Dio, il Figlio è Dio, lo Spirito è Dio. Ma non sono tre dei: è un solo Dio in tre Persone. È un mistero che ci ha rivelato Gesù Cristo: la Santa Trinità.
Oggi ci fermiamo a celebrare questo mistero, perché le Persone non sono aggettivazione di Dio, no. Sono Persone reali, diverse, differenti; non sono – come diceva quel filosofo – “emanazioni di Dio”, no, no! Sono Persone. C’è il Padre, che io prego con il Padre Nostro; c’è il Figlio, che mi ha dato la redenzione, la giustificazione; c’è lo Spirito Santo, che abita in noi e abita la Chiesa. E questo parla al nostro cuore, perché lo troviamo racchiuso in quella espressione di San Giovanni che riassume tutta la Rivelazione: «Dio è amore» (1 Gv 4,8.16). Il Padre è amore, il figlio è amore, lo Spirito Santo è amore. E in quanto è amore, Dio, pur essendo uno e unico, non è solitudine ma comunione, fra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Perché l’amore è essenzialmente dono di sé, e nella sua realtà originaria e infinita è Padre che si dona generando il Figlio, il quale si dona a sua volta al Padre e il loro reciproco amore è lo Spirito Santo, vincolo della loro unità. Non è facile da capire, ma si può vivere questo mistero, tutti noi, si può vivere tanto.
Questo mistero della Trinità ci è stato svelato da Gesù stesso. Egli ci ha fatto conoscere il volto di Dio come Padre misericordioso; ha presentato Sé stesso, vero uomo, come Figlio di Dio e Verbo del Padre, Salvatore che dà la sua vita per noi; e ha parlato dello Spirito Santo che procede dal Padre e dal Figlio, Spirito di Verità, Spirito Paraclito – ne abbiamo parlato, domenica scorsa, di questa parola “Paraclito” – cioè Consolatore e Avvocato. E quando Gesù è apparso agli Apostoli dopo la risurrezione, Gesù li ha inviati ad evangelizzare «tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo» (Mt 28,19).
La festa odierna, dunque, ci fa contemplare questo meraviglioso mistero di amore e di luce da cui proveniamo e a cui è orientato il nostro cammino terreno.
Nell’annuncio del Vangelo e in ogni forma della missione cristiana, non si può prescindere da questa unità alla quale chiama Gesù, fra noi, seguendo l’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo: non si può prescindere da questa unità. La bellezza del Vangelo richiede di essere vissuta – l’unità – e testimoniata nella concordia tra noi, che siamo così diversi! E questa unità oso dire che è essenziale al cristiano: non è un atteggiamento, un modo di dire, no, è essenziale, perché è l’unità che nasce dall’amore, dalla misericordia di Dio, dalla giustificazione di Gesù Cristo e dalla presenza dello Spirito Santo nei nostri cuori.
Maria Santissima, nella sua semplicità e umiltà, riflette la Bellezza di Dio Uno e Trino, perché ha accolto pienamente Gesù nella sua vita. Ella sostenga la nostra fede; ci renda adoratori di Dio e servitori dei fratelli.”

Papa Francesco Parte dell’Angelus del 30 maggio 2021

Le letture che la liturgia di questa settima domenica di Pasqua, in cui celebriamo l’Ascensione del Signore, hanno la stessa scenografia che ha come sfondo il cielo.
Nella prima lettura, tratta dagli Atti degli Apostoli, Luca ci racconta che Gesù, dopo aver promesso ai suoi il dono dello Spirito Santo, che darà loro la forza di “testimoniarlo a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra,” sale al cielo, alla destra del Padre,
Nella seconda lettura, Paolo nella sua lettera agli efesini, afferma che l’unità della Chiesa si realizza con il concorso attivo di tutti i credenti ognuno con il suo dono di grazia per far crescere il corpo di Cristo nella carità.
Il Vangelo di Marco, si apre con il messaggio solenne indirizzato agli apostoli: esso ha al centro la loro missione, una missione universale di annuncio del vangelo, cioè della persona e della parola del Cristo.
L’Ascensione è una festa d’addio che però non conosce le lacrime e la malinconia. Una partenza che si risolve in una presenza più intensa e in una vicinanza più efficace. Gesù scompare agli occhi dei suoi conoscenti e amici, ma nello stesso tempo si fa riconoscere e amare da una folla immensa di ogni lingua, popolo, razza e nazione, facendosi sentire vivo e operante attraverso la parola e le mani dei suoi discepoli, e della Sua Chiesa, Suo corpo mistico.
L’Ascensione di Gesù segna l’inizio della missione della Chiesa, che non sarà mai sola ma sempre accompagnata dal suo Signore, e lo Spirito Santo che ci ha donato ci sostiene nel cammino verso l’incontro finale con Lui.
Oggi ricorre la 58^ giornata delle comunicazioni sociali ed è anche la festa di tutte le mamme.

Dagli Atti degli Apostoli
Nel primo racconto, o Teòfilo, ho trattato di tutto quello che Gesù fece e insegnò dagli inizi fino al giorno in cui fu assunto in cielo, dopo aver dato disposizioni agli apostoli che si era scelti per mezzo dello Spirito Santo.
Egli si mostrò a essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, durante quaranta giorni, apparendo loro e parlando delle cose riguardanti il regno di Dio. Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere l’adempimento della promessa del Padre, «quella - disse - che voi avete udito da me: Giovanni battezzò con acqua, voi invece, tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo».
Quelli dunque che erano con lui gli domandavano: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?». Ma egli rispose: «Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra».
Detto questo, mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi. Essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, quand’ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo».
At 1,1-11

In questo brano viene riportato il prologo degli Atti degli Apostoli e Luca lo inizia dedicando il suo libro a Teofilo,(la cui identità non è nota), lo stesso a cui aveva dedicato il suo Vangelo. Luca ricorda che nel suo primo racconto aveva già trattato di tutto quello “che Gesù fece e insegnò dagli inizi fino al giorno in cui fu assunto in cielo, dopo aver dato disposizioni agli apostoli che si era scelti per mezzo dello Spirito Santo”. Il gruppo dei Dodici, che dopo il tradimento di Giuda è ridotto a undici, viene così presentato fin dall’inizio come la cerchia degli intimi di Gesù, chiamati esplicitamente con l’appellativo di “apostoli”.
Dopo aver accennato all’ascensione di Gesù, Luca ci riporta al periodo precedente, affermando che Gesù è apparso agli apostoli per quaranta giorni.
Anche qui il numero 40 è un numero simbolico, che spesso è usato per indicare il tempo di preparazione a una particolare rivelazione divina (Mosè trascorre 40 giorni sul Sinai prima di ricevere le tavole dell’alleanza (Es 24,18), il popolo peregrina 40 anni nel deserto prima di giungere alla terra promessa (Nm 14,33), Elia cammina 40 giorni nel deserto verso il monte di Dio (1Re 19,8); nel giudaismo Esdra resta quaranta giorni con Dio quando gli sono consegnati i libri sacri (4Esd 14,23-45) e Baruc istruisce il popolo per quaranta giorni prima della sua assunzione in cielo (2Bar 76,1-4). Anche Gesù aveva trascorso 40 giorni nel deserto, digiunando, prima di iniziare la sua vita pubblica (Lc 4,1-2). Un tempo analogo è necessario agli apostoli per essere adeguatamente istruiti “con molte prove” circa il regno di Dio.
L’annunzio del regno di Dio era stato il programma di Gesù durante la Sua vita terrena ora Egli lo affida agli apostoli e Luca si limita a riferire che egli ordinò loro di non lasciare Gerusalemme, ma di attendere che si adempisse la promessa del Padre che essi avevano inteso da lui: “Giovanni battezzò con acqua, voi invece, tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo”. Il battesimo mediante lo Spirito santo viene inteso qui non come il rito cristiano che si sostituisce a quello del Battista, ma come il dono dello Spirito fatto alla nascente comunità cristiana nel giorno di Pentecoste. Come Gesù, all’inizio della Sua attività pubblica, ha ricevuto lo Spirito Santo in occasione del battesimo di Giovanni, così anche la Chiesa, all’inizio del suo cammino nel mondo, deve essere contrassegnata dalla presenza dello Spirito.
La domanda dei discepoli a Gesù: “Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele” dimostra che essi pensavano che fosse ormai imminente il momento in cui i regni di questo mondo sarebbero stati distrutti e di conseguenza instaurata la sovranità di Dio mediante il popolo di Israele, come aveva profetizzato il profeta Daniele (7,27), ma Gesù risponde: “Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra”.
Anche per Gesù solo il Padre conosce i tempi in cui si attua il Suo progetto: ciò significa che l’instaurazione del regno non coincide con la fine del mondo perchè in realtà il regno è già stato inaugurato da Gesù, ma dovrà passare ancora un lungo periodo di tempo prima della Sua venuta piena e definitiva.
Questo nuovo periodo, che inizierà appunto con la venuta dello Spirito Santo, sarà contrassegnato dalla testimonianza degli apostoli che si estenderà da Gerusalemme alla Giudea, alla Samarìa, fino agli estremi confini della terra.
Per Luca, Gerusalemme è il centro della salvezza, mentre gli estremi confini della terra sono il mondo dei pagani e in particolare Roma che, come capitale dell’impero romano, rappresenta, rispetto a Gerusalemme, l’estremo opposto del mondo.
In questo versetto, che delinea il progressivo espandersi del cristianesimo, Luca indica anche il piano della sua opera: egli intende narrare lo sviluppo dell’annunzio evangelico a Gerusalemme poi in Giudea e Samaria e infine, per mezzo di Paolo, in Anatolia e in Grecia.
Nel racconto dell’ascensione Luca si ispira anche a quanto scrive il profeta Daniele, che descrive l’apparizione, sulle nubi del cielo, di uno simile a un figlio di uomo, il quale si presenta davanti al trono di Dio e riceve potere, gloria e regno (Dn 7,13-14). Di questa scena nel racconto degli Atti rimane il particolare della nuvola, simbolo della manifestazione misteriosa di Dio, che sottrae Gesù dallo sguardo degli apostoli.
Come “figlio dell’uomo” Egli si presenta a Dio per ricevere il regno che si è acquistato con la Sua morte. Ma, contrariamente alle aspettative giudaiche, non è ancora venuto il momento della conclusione finale, infatti gli angeli annunziano che Egli dovrà ritornare un giorno “nello stesso modo” in cui i discepoli l’hanno visto andare in cielo. Sarà quello il momento della fine, nel frattempo gli apostoli non devono rimanere a guardare in cielo, come facevano coloro che ricevevano visioni apocalittiche (Dn 10,8), ma devono andare a svolgere la missione che è stata loro affidata, e da loro a tutta la Sua Chiesa, il Suo corpo mistico.
E proprio nell’impegno che noi oggi, Sua Chiesa, abbiamo di testimoniarlo, si sperimenta la Sua presenza, si scopre che Gesù non solo è venuto e verrà, ma che viene, oggi, nell’oggi di ognuno di noi, e lo colma di sé, della Sua gioia. La nostra testimonianza diviene allora indicazione di una presenza esperimentata, amata, e per questa ragione, comunicata.

Salmo 46 Ascende il Signore tra canti di gioia
Popoli tutti, battete le mani!
Acclamate Dio con grida di gioia,
perché terribile è il Signore, l’Altissimo,
grande re su tutta la terra.

Ascende Dio tra le acclamazioni,
il Signore al suono di tromba.
Cantate inni a Dio, cantate inni,
cantate inni al nostro re, cantate inni.

Perché Dio è re di tutta la terra,
cantate inni con arte.
Dio regna sulle genti,
Dio siede sul suo trono santo.

Il salmo è un inno festoso a Dio re dell’universo. Il salmo invita tutti i popoli ad applaudire il Signore. Dopo il momento terribile delle vittorie filistee e dei popoli della terra di Canaan, ecco la vittoria per Israele. La terra promessa sta per essere totalmente conquistata e Gerusalemme è stata sottratta ai Gebusei. Un corteo festante porta l’arca dentro la Città di Davide: “Ascende Dio tra le acclamazioni”.
La conquista della terra promessa, la presa di Gerusalemme sono solo una tappa di un disegno più ampio di Dio che riguarda tutti i popoli.
Israele ha visto come Dio ha posto ai suoi piedi le nazioni, e dunque nessuna nazione può resistergli.
Egli è “re di tutta la terra”. Il popolo di Abramo è come un germe chiamato ad attirare a sé i popoli. Il salmista vede profeticamente già attuato questo: “I capi dei popoli si sono raccolti come popolo del Dio di Abramo”. Questo avverrà per mezzo del futuro Messia, che produrrà la nuova ed eterna alleanza. Il segno della sua vittoria sarà la risurrezione, la sua salita al cielo - “ascende Dio tra le acclamazioni” -, il suo stare alla destra del Padre (Cf. Ps 110,1).
Commento tratto da «Perfetta Letizia»

Dalla lettera di S.Paolo apostolo agli Efesini
Fratelli, io, prigioniero a motivo del Signore, vi esorto: comportatevi in maniera degna della chiamata che avete ricevuto, con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità, sopportandovi a vicenda nell’amore, avendo a cuore di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace.
Un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti.
ciascuno di noi, tuttavia, è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo. Per questo è detto: «Asceso in alto, ha portato con sé prigionieri, ha distribuito doni agli uomini».
Ma cosa significa che ascese, se non che prima era disceso quaggiù sulla terra? Colui che discese è lo stesso che anche ascese al di sopra di tutti i cieli, per essere pienezza di tutte le cose.
Ed egli ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri, per preparare i fratelli a compiere il ministero, allo scopo di edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo.
Ef 4,1-13

La Lettera agli Efesini è una delle lettere che la tradizione cristiana attribuisce a S.Paolo, che l'avrebbe scritta durante la sua prigionia a Roma intorno all'anno 62. Gli studiosi moderni però sono divisi su questa attribuzione e la maggioranza ritiene più probabile che la lettera sia stata composta da un altro autore appartenente alla scuola paolina,forse basandosi sulla lettera ai Colossesi, ma in questo caso la datazione della composizione può oscillare, tra l'anno 80 e il 100. La lettera agli Efesini si può dire che è la” lettera della Chiesa” del suo mistero e vita, tanto che anche il Concilio Vaticano II se ne è ampiamente ispirato
Con questo brano ha inizio la seconda parte della lettera quella dedicata all'esortazione.
Paolo inizia prima qualificandosi “prigioniero a motivo del Signore,” e poi continua con le raccomandazioni: “vi esorto: comportatevi in maniera degna della chiamata che avete ricevuto”
Paolo chiede agli Efesini (ed anche a noi oggi) di comportarsi in modo degno della loro nuova dignità. Essi fanno parte di un nuovo corpo, di una nuova realtà che vive di pace e riconciliazione.
“con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità, sopportandovi a vicenda nell’amore”
Nella comunità cristiana essi devono nutrire la vita comune con alcune virtù fondamentali: l'umiltà, la dolcezza, la grandezza d'animo, che hanno il loro culmine nell'amore fraterno, che si esprime nel perdono e nella solidarietà verso gli altri.
“avendo a cuore di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace”.
Questa seconda esortazione è un elemento fondamentale all'interno della comunità: l'impegno a mantenere l'unità, a vivere la pace.
“Un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti.”
Questi versetti sono una dichiarazione o professione di fede che forse si ripeteva nelle prime assemblee liturgiche. L'accento è posto sull'unità della comunità che si fonda su altre unità: quelle del corpo e dello Spirito che lo mantiene unito, quella della speranza, cioè del futuro a cui tutti tendono, fondata sull'unica chiamata che ha interessato tutti. Questa unità si costruisce soprattutto attorno all'unico Signore, a cui si aderisce con una sola fede e a cui si accede grazie all'unico battesimo e all'unico Dio e Padre, da cui è partito il progetto di salvezza e che continua ad operare in tutti il Suo piano di amore.
“A ciascuno di noi, tuttavia, è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo”
Qui Paolo parla ora della costruzione della Chiesa grazie alla varietà dei doni e alla partecipazione di ognuno alla vitalità dell'unico corpo. In questo versetto è sottolineata l'origine unica e generosa del dono fatto a ognuno.
“Per questo è detto: «Asceso in alto, ha portato con sé prigionieri, ha distribuito doni agli uomini». Ma cosa significa che ascese, se non che prima era disceso quaggiù sulla terra? Colui che discese è lo stesso che anche ascese al di sopra di tutti i cieli, per essere pienezza di tutte le cose.”
L'affermazione di fede viene confermata con una citazione del Salmo 68,19. La fonte di tutti i doni della Chiesa è il Cristo glorioso, intronizzato al di sopra di tutti i cieli.
“Ed egli ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri”,
Si precisano ora il ruolo e lo scopo dei doni che si concretizzano nei vari ministeri. Gli apostoli e i profeti sono coloro che hanno avuto un ruolo nella nascita della Chiesa come comunità fondata sull'accoglienza del Vangelo. Si tratta del gruppo tradizionale degli inviati, ai quali appartiene Paolo, e dei predicatori ispirati (i profeti). Sulla stessa linea si pongono gli evangelisti come missionari e coloro che hanno il ruolo di guida pastorale della chiesa locale: i pastori e maestri.
“per preparare i fratelli a compiere il ministero, allo scopo di edificare il corpo di Cristo”
All'interno della Chiesa locale ci sarebbero dunque due gruppi: il gregge di Dio e i maestri che lo guidano nella costruzione del corpo di Cristo.
“finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo.”
Solo se i cristiani sono membri di una Chiesa matura, strettamente uniti dalla fede e da una conoscenza piena d’amore, potranno resistere con fermezza in mezzo a un mondo che trascina verso l’errore; solo allora saranno uomini consolidati, “fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo” e non esseri deboli, instabili, in balia di ogni nuova corrente di pensiero.

Dal Vangelo secondo Marco
In quel tempo, [Gesù apparve agli Undici] e disse loro: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato. Questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno demòni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno; imporranno le mani ai malati e questi guariranno».
Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio.
Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano.
Mc 16, 15-20

Questo brano, l’ultimo del vangelo di Marco, è un’appendice aggiunta in seguito, per cui l’autore certamente non è Marco. Il suo vangelo infatti termina bruscamente al cap. 16, con la scoperta del sepolcro vuoto di Gesù da parte delle donne, le quali pur avendo incontrato un angelo che le informava della risurrezione di Gesù, fuggono terrorizzate (16,1-8).
Nella comunità cristiana primitiva questa carenza avrà certamente destato un certo imbarazzo per cui negli anni seguenti venne aggiunta quest’ultima parte, in cui c’è un resoconto degli eventi che sono seguiti alla risurrezione di Gesù. Questo brano è stato chiamato “finale canonica”, in quanto la chiesa ha dichiarato che esso è ispirato e quindi è parte integrale delle Scritture, per cui anche se non è dell’evangelista Marco, resta comunque indubbiamente frutto dell’esperienza della comunità cristiana.
Secondo l’autore di questo brano, Gesù dopo essere apparso a singoli individui, si presenta agli Undici e conferisce loro il mandato missionario. ”Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura…”.
L’evento ha luogo proprio nel momento in cui essi si trovano a mensa, come è scritto nel versetto precedente non riportato dalla liturgia. Questo particolare, citato anche da Luca , ricollega l’apparizione di Gesù con la celebrazione della cena, durante la quale i primi cristiani facevano essi pure l’esperienza del Risorto.
Il messaggio di Gesù agli Undici riguarda anzitutto la missione universale ed inizia in modo simile a quello riportato da Matteo (28,19) ma mentre Matteo riferisce che Gesù comandò loro di “ammaestrare tutte le nazioni”, l’autore di questo brano invece i discepoli “devono andare in tutto il mondo e proclamare il Vangelo a ogni creatura”..
Si evidenziano qui punti importanti di Marco, riguardanti la predicazione di Gesù (1,14) e la missione universale a loro affidata (13,10; 14,9): come Gesù ha predicato il vangelo del Regno in Galilea, così i discepoli devono ora annunziarlo in tutto il mondo, a tutte le creature...
Questa espressione è più ampia di quella utilizzata da Matteo, perché in essa i discepoli sono inviati non solo ai pagani, ma a tutta l’umanità.
In questo brano si afferma altresì “Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato”.
La fede e il battesimo sono quindi condizioni indispensabili per la salvezza! Queste condizioni però riguardano chiaramente solo coloro a cui è giunta la predicazione, e non coloro che per qualsiasi ragione non hanno potuto ascoltarla, mentre la fede richiesta ha per oggetto il vangelo (Mc 1,14-15).
È importante che nella seconda metà della frase, la condanna riguarda non chi non si fa battezzare, ma solo chi non crede: resta così aperta una possibilità di salvezza anche per coloro che per un motivo valido non sono stati battezzati, pur avendo ricevuto la predicazione del vangelo e avendo creduto in esso.
Dopo il mandato missionario, l’autore elenca i segni che accompagneranno coloro che credono nel nome di Gesù: ”scacceranno demòni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno; imporranno le mani ai malati e questi guariranno”.
In questa frase viene ripreso Mc 6,13, con l’aggiunta di alcuni compiti che si richiamano a episodi degli Atti: il parlare nuove lingue, che si riferisce al miracolo di Pentecoste (At 2,1-11) e il prendere in mano i serpenti, allusione questa sicuramente all’episodio di Paolo, morso da una vipera e rimasto miracolosamente illeso (At 28,3-6). Come per Gesù, anche per i discepoli l’intervento a favore dei sofferenti, siano essi indemoniati o malati, è il segno di una salvezza che, partendo dall’intimo della persona, coinvolge anche tutti gli aspetti della sua vita fisica.
L’autore termina il suo racconto descrivendo in breve la conclusione della vicenda di Gesù e il seguito che essa avrà nella vita dei suoi discepoli: “Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio”.
Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano”
L’accenno all’ascensione lo troviamo anche in Luca (24,51) e negli Atti (1,2.9), con l’aggiunta però che Gesù è andato a sedersi alla destra di Dio (chiaro riferimento al Sal 110,1). Con l’ascensione Gesù completa il Suo cammino terreno ed Egli, a riprova dell’efficacia della Sua opera, viene fatto partecipe della regalità stessa di Dio, attuando così le promesse messianiche.
Per concludere possiamo dire che l’ascensione di Gesù è stata una partenza che non ha provocato lacrime, ma gioia perchè in realtà si è risolta in una presenza più intensa e in una vicinanza più efficace.
Come persona Gesù è scomparso agli occhi dei Suoi conoscenti e amici, ma che si fa riconoscere e amare da una folla immensa di ogni lingua, popolo, razza e nazione, facendosi sentire vivo e operante attraverso la parola e le mani dei Suoi discepoli e della Sua Chiesa.

 

*****

 

“Oggi, in Italia e in altri Paesi, si celebra la solennità dell’Ascensione del Signore. La pagina evangelica (Mc 16,15-20) – la conclusione del Vangelo di Marco – ci presenta l’ultimo incontro del Risorto con i discepoli prima di salire alla destra del Padre. Di solito, lo sappiamo, le scene di addio sono tristi, procurano a chi resta un sentimento di smarrimento, di abbandono; invece tutto ciò ai discepoli non accade. Nonostante il distacco dal Signore, essi non si mostrano sconsolati, anzi, sono gioiosi e pronti a partire missionari nel mondo.
Perché i discepoli non sono tristi? Perché anche noi dobbiamo gioire al vedere Gesù che ascende al cielo?
L’ascensione completa la missione di Gesù in mezzo a noi. Infatti, se è per noi che Gesù è disceso dal cielo, è sempre per noi che vi ascende. Dopo essere disceso nella nostra umanità e averla redenta - Dio, il Figlio di Dio, scende e si fa uomo prende la nostra umanità e la redime - ora ascende al cielo portando con sé la nostra carne.
È il primo uomo che entra nel cielo, perché Gesù è uomo, vero uomo, è Dio, vero Dio; la nostra carne è in cielo e questo ci dà gioia. Alla destra del Padre siede ormai un corpo umano, per la prima volta, il corpo di Gesù, e in questo mistero ognuno di noi contempla la propria destinazione futura. Non si tratta affatto di un abbandono, Gesù rimane per sempre con i discepoli, con noi. Rimane nella preghiera, perché Lui, come uomo, prega il Padre, e come Dio, uomo e Dio, Gli fa vedere le piaghe, le piaghe con le quali ci ha redenti. La preghiera di Gesù è lì, con la nostra carne: è uno di noi, Dio uomo, e prega per noi. E questo ci deve dare una sicurezza, anzi una gioia, una grande gioia!
E il secondo motivo di gioia è la promessa di Gesù. Lui ci ha detto: “Vi invierò lo Spirito Santo”. E lì, con lo Spirito Santo, si fa quel comandamento che Lui dà proprio nel congedo: “Andate nel mondo, annunziate il Vangelo”. E sarà la forza dello Spirito Santo che ci porta là nel mondo, a portare il Vangelo. È lo Spirito Santo di quel giorno, che Gesù ha promesso, e poi nove giorni dopo verrà nella festa di Pentecoste. Proprio è lo Spirito Santo che ha reso possibile che tutti noi siamo oggi così. Una gioia grande! Gesù se n’è andato in cielo: il primo uomo davanti al Padre. Se n’è andato con le piaghe, che sono state il prezzo della nostra salvezza, e prega per noi. E poi ci invia lo Spirito Santo, ci promette lo Spirito Santo, per andare a evangelizzare. Per questo la gioia di oggi, per questo la gioia di questo giorno dell’Ascensione.
Fratelli e sorelle, in questa festa dell’Ascensione, mentre contempliamo il Cielo, dove Cristo è asceso e siede alla destra del Padre, chiediamo a Maria, Regina del Cielo, di aiutarci a essere nel mondo testimoni coraggiosi del Risorto nelle situazioni concrete della vita.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 16 maggio 2021

Pagina 8 di 161

Pro Memoria

L'umanità è una grande e  immensa famiglia ... Troviamo la dimostrazione di ciò da quello che ci sentiamo nei nostri cuori a Natale.
(Papa Giovanni XXIII)

Parrocchia Nostra Signora de La Salette
Piazza Madonna de La Salette 1 - 00152 ROMA
tel. e fax 06-58.20.94.23
e-mail: email
Settore Ovest - Prefettura XXX - Quartiere Gianicolense - 12º Municipio
Titolo presbiterale: Card. Polycarp PENGO
Affidata a: Missionari di Nostra Signora di «La Salette» (M.S.)
 

Utilizziamo i cookie per essere sicuri che tu possa avere la migliore esperienza sul nostro sito. Se continui ad utilizzare questo sito noi assumiamo che tu ne sia felice! Accetta i cookie per chiudere avviso. Per saperne di più riguardo ai cookie utilizzati e a come cancellarli, guarda il regolamento Politica sulla Privacy.

Accetto i cookie da questo sito