Dove siamo:
Vedi sulla carta
S.Messe (settimana)
9:00  18:30

KRZYZ

Elena Tasso

Elena Tasso

Domenica, 11 Novembre 2018 16:30

FESTA DEI CRESIMATI 2018

Giovedì 8 novembre dalle 19.00 si è svolta la festa dei cresimati, organizzata dai ragazzi che ormai da 3 anni fanno parte del Gruppo Giovani della nostra parrocchia.

Domenica, 11 Novembre 2018 09:44

Cresime 2018

2

 

 Sante Cresime Ottobre 2018


345
 
6789
 
101112

Le letture liturgiche di questa domenica vedono protagoniste due vedove che nell’antico oriente avevano una situazione drammatica, perchè con la perdita del marito non avevano più chi assicurava loro una tutela giuridica e spesso si riducevano a mendicare in balìa della prepotenza altrui.
Nella prima lettura, tratta dal libro dei Re, Dio mette sul cammino del profeta Elia a Sarèpta una vedova, che a malapena riesce a provvedere a sé e al figlio. Mosso dalla sua fede incrollabile, Elia non teme di chiedere alla vedova ciò che le rimane per il suo sostentamento e, questa donna straniera, a differenza del popolo di Dio, che si era affidato a déi stranieri, si fida del Signore e rischia tutto sulla parola del profeta.
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera agli Ebrei, l’autore afferma che Cristo a differenza degli antichi sacerdoti, che immolavano per il sacrificio più volte degli animali, ha offerto in sacrificio se stesso una volta per sempre. Grazie al Suo sacrificio il peccato è perdonato e la riconciliazione è realizzata.
Nel Vangelo di Marco, Gesù osserva il sublime gesto della povera vedova che versa due monetine. Avrebbe potuto offrirne anche una sola, e invece versandone due aveva rinunziato a tutto ciò che possedeva. E’ a questo punto che Gesù estrae questa donna dall’anonimato innalzandola al di sopra di tutti i “benefattori anonimi” del tempio.
La vedova di questi due racconti biblici è una figura emblematica, è il segno del vero credente che si affida in totalità a Dio. E’ il simbolo della Chiesa povera, tanto cara a Papa Francesco, ed è la rappresentazione dell’autentico amore e della donazione di se stessi.

Dal primo libro dei Re
In quei giorni, il profeta Elia si alzò e andò a Sarèpta. Arrivato alla porta della città, ecco una vedova che raccoglieva legna. La chiamò e le disse: «Prendimi un po' d'acqua in un vaso, perché io possa bere».
Mentre quella andava a prenderla, le gridò: «Per favore, prendimi anche un pezzo di pane». Quella rispose: «Per la vita del Signore, tuo Dio, non ho nulla di cotto, ma solo un pugno di farina nella giara e un po' d'olio nell'orcio; ora raccolgo due pezzi di legna, dopo andrò a prepararla per me e per mio figlio: la mangeremo e poi moriremo».
Elia le disse: «Non temere; va' a fare come hai detto. Prima però prepara una piccola focaccia per me e portamela; quindi ne preparerai per te e per tuo figlio, poiché così dice il Signore, Dio d'Israele: "La farina della giara non si esaurirà e l'orcio dell'olio non diminuirà fino al giorno in cui il Signore manderà la pioggia sulla faccia della terra”.
Quella andò e fece come aveva detto Elia; poi mangiarono lei, lui e la casa di lei per diversi giorni. La farina della giara non venne meno e l'orcio dell'olio non diminuì, secondo la parola che il Signore aveva pronunciato per mezzo di Elia.
1Re 17,10-16

Il primo libro dei re, come il secondo, è un testo contenuto nella Bibbia ebraica (Tanakh, dove sono contati come un testo unico) e in quella cristiana. Sono stati scritti entrambi in ebraico e secondo molti esperti, la loro redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte, in particolare della cosiddetta fonte deuteronomista del VII secolo a.C., integrata da tradizioni successive.
Il primo libro è composto da 22 capitoli descriventi la morte di Davide, Salomone, la scissione del Regno di Israele dal Regno di Giuda, il ministero del Profeta Elia (nel nord) e i vari re di Israele e Giuda, eventi datati attorno al 970-850 a.C..
In questo brano, incontriamo il grande profeta Elia, che svolse la propria missione sotto Acab (874-853 a.C.) re di Israele. Elia prima di rifugiarsi a Sarèpta, aveva profetizzato al re Acab, che spinto dalla moglie Gezabele, aveva organizzato in Israele il culto di Baal, dio siro-fenicio della fertilità, un lungo periodo di siccità.. Sotto l’’incubo della persecuzione della regina Gezabele, sua implacabile nemica, durante questa terribile carestia, Elia sconfina in Fenica, nella città di Sarepta, l’attuale Sarafand in Libano.
L’incontro che Elia farà in questa città con una vedova ridotta all’estremo, sarà ricordato anche da Gesù nella sinagoga di Nazareth. C’è da tenere presente che la situazione delle vedove dell’antico Oriente era particolarmente drammatica: con la perdita del marito non avevano più chi assicurava loro protezione e sostentamento e spesso si riducevano a mendicare, in balia della prepotenza altrui.
Il brano inizia riferendo che Elia “arrivato alla porta della città, vede una vedova che raccoglieva legna”. Egli le chiese di riempire una brocca d'acqua perché aveva sete e di portargliela. Poi “mentre quella andava a prenderla, le gridò: «Per favore, prendimi anche un pezzo di pane». La donna rispose che non aveva nulla di cotto, ma solo un pugno di farina nella giara e un goccio d'olio nell'orcio, e soggiunse “ora raccolgo due pezzi di legna, dopo andrò a prepararla per me e per mio figlio: la mangeremo e poi moriremo”. Vediamo che questa donna non ha che un pugno di farina e qualche goccia d’olio, eppure è pronta a sacrificare tutto per il profeta, che l’aveva rassicurata dicendo: «Non temere; va' a fare come hai detto…. poiché così dice il Signore, Dio d'Israele: "La farina della giara non si esaurirà e l'orcio dell'olio non diminuirà …”.
La donna fa ciò che Elia aveva ordinato ”poi mangiarono lei, lui e la casa di lei per diversi giorni
Il racconto termina riportando che: “La farina della giara non venne meno e l'orcio dell'olio non diminuì, secondo la parola che il Signore aveva pronunciato per mezzo di Elia” .
Mosso dalla sua fede incrollabile, Elia non teme di chiedere alla vedova ciò che le rimaneva per il suo sostentamento e, questa donna straniera, a differenza del popolo di Dio che si era affidato a déi stranieri, si fida del Signore e rischia tutto sulla parola del profeta.

Salmo 145 - Loda il Signore, anima mia
Il Signore rimane fedele per sempre
rende giustizia agli oppressi,
dà il pane agli affamati.
Il Signore libera i prigionieri.

Il Signore ridona la vista ai ciechi,
il Signore rialza chi è caduto,
il Signore ama i giusti,
il Signore protegge i forestieri.

Egli sostiene l'orfano e la vedova,
ma sconvolge le vie dei malvagi.
Il Signore regna per sempre,
il tuo Dio, o Sion, di generazione in generazione.

Il salmo è stato composto nel tardo postesilio come rivela la sua lingua aramaicizzante. Esso fa pensare a un tempo di pace, di normalità, quale si ebbe verso la fine dell'epoca persiana quando Giuda divenne uno stato teocratico autonomo con propria moneta fino alla persecuzione di Antioco IV Epifane (2Mac 4,1s).
Il salmista al proposito personale e di testimonianza di lodare il Signore per tutta la vita, fa seguire un'ammonizione basilare: “Non confidate nei potenti, in un uomo che non può salvare”. I potenti, che amano circondarsi di un alone di gloria, non sono dei semidei, sono uomini che come tutti moriranno: “Esala lo spirito e ritorna alla terra: in quel giorno svaniscono tutti i suoi disegni”. Il salmista tuttavia non fa accenno ai guai, alle rovine a cui si espone chi confida nell'uomo, ma, in positivo, dice che è beato, “chi ha per aiuto il Dio di Giacobbe”, cioè il Dio dei padri, il Dio delle promesse e dell'alleanza, riconoscendolo l'unico Dio, onnipotente creatore: “che ha fatto il cielo e la terra, il mare e quanto contiene".
Egli è fedele per sempre”, mai manca alla sua parola, e il suo governo è giustizia e bontà: “Rende giustizia agli oppressi, dà il pane agli affamati”.
Poi il salmista con ritmo incalzante presenta a tutti cinque motivi di confidenza in Dio.
Libera i prigionieri”; intendendo ciò in senso largo: deportati, carcerati ingiustamente, irretiti in trame di calunnia.
“Ridona la vista ai ciechi”, dove il cieco è colui che ha smarrito la via della verità (Dt 28,29; Gb 12,25; Is 29,18; 35,5).
Rialza chi è caduto”, cioè chi è caduto nel peccato.
Ama i giusti”, cioè li guida nel giusto cammino e protegge nei loro passi.
Protegge i forestieri, egli sostiene l'orfano e la vedova”, cioè tre categorie di persone deboli, con scarsi punti di riferimento.
Poi una severa osservazione: “Ma sconvolge le vie dei malvagi”.
Dio è re, “regna per sempre”. Nessuno lo può contrastare, limitare il suo potere sovrano, nessuno può sperare di vincerlo; e il suo regnare è segnato dalla giustizia, dalla bontà e dalla misericordia.
Il tuo Dio, o Sion, di generazione in generazione”; Dio che ha fatto alleanza con Sion. Ma l'alleanza è diventata nuova in Cristo; Sion ha rifiutato la nuova ed eterna alleanza, ma Cristo non rinuncia al popolo di Sion, ora tronco morto dell'unico popolo di Dio, il cui tronco vivo è la Chiesa, ma un giorno il tronco morto diventerà vivo, accogliendo Cristo e facendo parte della Chiesa (Rm 11,25).
Commento di Padre Paolo Berti

Dalla lettera agli Ebrei
Cristo non è entrato in un santuario fatto da mani d'uomo, figura di quello vero, ma nel cielo stesso, per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore. E non deve offrire se stesso più volte, come il sommo sacerdote che entra nel santuario ogni anno con sangue altrui: in questo caso egli, fin dalla fondazione del mondo, avrebbe dovuto soffrire molte volte.
Invece ora, una volta sola, nella pienezza dei tempi, egli è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso. E come per gli uomini è stabilito che muoiano una sola volta, dopo di che viene il giudizio, così Cristo, dopo essersi offerto una sola volta per togliere il peccato di molti, apparirà una seconda volta, senza alcuna relazione con il peccato, a coloro che l'aspettano per la loro salvezza.
Eb 9,24-28

Questo brano è tratto dalla parte centrale della Lettera agli Ebrei, in cui si affronta il tema del sacerdozio e del sacrificio di Cristo, in particolare descrive l’efficacia del suo sacerdozio in quanto esso si configura come un ingresso nel santuario celeste.
L’autore inizia affermando: “Cristo non è entrato in un santuario fatto da mani d'uomo, figura di quello vero, ma nel cielo stesso, per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore.
Cristo sommo sacerdote, non è entrato nel tempio fatto dagli uomini, ma in quello vero, cioè al cospetto di Dio. Il tempio di Gerusalemme era solo una figura della corte celeste. Gesù è comparso davanti al Dio dell'universo per intercedere a nostro favore. Dal giorno dell‘ascensione Egli è davanti al trono di Dio, nel Suo corpo glorioso e parla di noi al Padre.
E non deve offrire se stesso più volte, come il sommo sacerdote che entra nel santuario ogni anno con sangue altrui: “la Sua offerta ha valore perenne, non deve perciò essere ripetuta ogni anno come invece dovevano fare i sacerdoti a Gerusalemme. Inoltre Gesù non ha presentato l'offerta di animali per il sacrificio, ma Lui stesso è stato immolato e offerto, come vero agnello pasquale.
in questo caso egli, fin dalla fondazione del mondo, avrebbe dovuto soffrire molte volte. Invece ora, una volta sola, nella pienezza dei tempi, egli è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso”.
Qui viene chiarito meglio l’aspetto definitivo del sacrificio di Cristo. Egli non deve offrire più volte se stesso perché il Suo sacrificio non ha semplicemente impetrato il perdono dei peccati, bensì ha annullato del tutto il peccato.
E come per gli uomini è stabilito che muoiano una sola volta, dopo di che viene il giudizio
Anche per gli uomini vi è un evento definitivo e irreversibile, quello della morte. Dopo la morte avviene il giudizio, la valutazione di quanto di bene una persona ha fatto durante la sua vita terrena.
così Cristo, dopo essersi offerto una sola volta per togliere il peccato di molti, apparirà una seconda volta, senza alcuna relazione con il peccato, a coloro che l'aspettano per la loro salvezza.
Gesù tornerà una seconda venuta nel mondo. Egli che si è offerto una sola volta per annullare il peccato, tornerà una seconda volta nella gloria; uscirà di nuovo dal santuario celeste, quando verrà a noi, non per morire, ma per salvare coloro che l’aspettano per essere ammessi nel Suo Regno.

Dal vangelo secondo Marco
In quel tempo, Gesù [nel tempio] diceva alla folla nel suo insegnamento: «Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti. Divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere. Essi riceveranno una condanna più severa».
Seduto di fronte al tesoro, osservava come la folla vi gettava monete. Tanti ricchi ne gettavano molte. Ma, venuta una vedova povera, vi gettò due monetine, che fanno un soldo. Allora, chiamati a sé i suoi discepoli, disse loro: «In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere».
Mc 12, 38-44

L’evangelista Marco continua a farci il resoconto dell’attività di Gesù dopo il suo ingresso a Gerusalemme e le varie controversie avute con i rappresentanti di diversi gruppi che componevano il giudaismo del suo tempo. Questo brano si apre con una ammonizione rivolta da Gesù alla folla:
Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti. Divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere. Essi riceveranno una condanna più severa”.
Gesù accusa gli scribi di vanità e di ostentazione, che si rivelano nel loro modo di vestire e nel ricercare il saluto ossequioso della gente e i primi posti nella sinagoga. Gli scribi erano incaricati di leggere e interpretare la Legge di Mosè, venivano chiamati infatti anche dottori della legge, e diversi di loro facevano parte del Sinedrio, cioè l'organo amministrativo più importante del popolo di Gerusalemme, che aveva ancora una grande autorità, nonostante la dominazione romana.
Il loro comportamento dimostra come si servivano del loro ruolo per avere riconoscimenti e privilegi. A questi atteggiamenti si aggiunge anche lo sfruttamento nei confronti delle vedove, che rappresentavano la categoria più debole e più esposta della società giudaica: essi si approfittavano della loro posizione sociale e religiosa per impadronirsi (divorare) le loro case, che rappresentavano l’unica garanzia di una vita dignitosa. E quasi a nascondere o giustificare i soprusi commessi, essi si dedicavano a lunghe preghiere, strumentalizzando quindi la religione per fini immorali. E questa è stata anche l’accusa principale che i profeti avevano loro rivolta (per es.v. Am 2,6-8).
Agli scribi che si comportavano in questo modo, viene minacciato un castigo più severo di quello previsto a quanti, pur commettendo gli stessi misfatti, non si facevano scudo della religione.
Poi l’evangelista continua riferendo che Gesù “ Seduto di fronte al tesoro, osservava come la folla vi gettava monete. Tanti ricchi ne gettavano molte. Ma, venuta una vedova povera, vi gettò due monetine, che fanno un soldo
Questa scena si svolge nel recinto del tempio (atrio delle donne) in cui vi erano 13 cassette con apertura a forma di tromba per raccogliere offerte volontarie e imposte per la gestione del tempio. Gesù è seduto e segue i gesti degli offerenti. C’era un rituale preciso per compiere queste offerte: il donatore consegnava il suo dono al sacerdote incaricato. Costui contava l'ammontare dell'importo e la validità del denaro utilizzato e lo proclamava ad alta voce e questo dava adito a gesti di grande ostentazione
La povera vedova nell’Antico e Nuovo Testamento è il simbolo della completa mancanza di mezzi, poiché ella stessa ha diritto ad essere aiutata, ed in questo caso il suo dono, anche se è poca cosa, è sorprendente. Le due monetine sembrano testimoniare la totalità del dono, non ha tenuto per sé nemmeno una moneta!
Il fatto poi che Marco debba dire che due monetine fanno un soldo, significa che i suoi contemporanei non conoscevano più il valore della moneta di quel tempio.
Il particolare inoltre che la vedova getti due monetine può far pensare che avrebbe potuto trattenerne una, invece le dona entrambe, dona tutto ciò che aveva! Allora Gesù, chiamati a sé i discepoli, fa questo commento: “In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere”.
Per Gesù la vedova ha dato più di tutti gli altri, non certo come quantità assoluta, ma perché, mentre costoro hanno dato solo parte del loro superfluo, essa ha dato tutto quanto aveva, cioè si è privata di quanto le era necessario per la sua sopravvivenza. Gesù vuole così affermare che ognuno è gradito a Dio non per quanto egli può offrirgli in denaro, meriti, osservanze o gesti rituali, ma per il dono totale di sé, con il quale partecipa fino in fondo al suo progetto salvifico.
La vedova, rappresentante delle vedove che gli scribi avevano depredato, diventa così modello di gratuità e di dono, fino a divenire l'esempio del vero discepolo, della vera persona religiosa, il perfetto contrario degli scribi.
Gesù, nel fare il suo elogio, critica anche coloro che per finta virtù religiosa davano le offerte al tempio, la loro infatti era solo ostentazione e non una condivisione dei propri beni. Il dono della vedova al contrario è stato il sacrificio nascosto in cui una persona lascia tutte le sue sicurezze per abbandonarsi completamente alla misericordia di Dio, (come la vedova di Sarèpta che aiutò Elia).
Il comportamento di queste due donne, dell’antico e nuovo Testamento, diventano così esempio della vera fede.

 

******

“Il brano del Vangelo di questa domenica si compone di due parti: una in cui si descrive come non devono essere i seguaci di Cristo; l’altra in cui viene proposto un ideale esemplare di cristiano.
Cominciamo dalla prima: cosa non dobbiamo fare. Nella prima parte Gesù addebita agli scribi, maestri della legge, tre difetti che si manifestano nel loro stile di vita: superbia, avidità e ipocrisia. A loro – dice Gesù - piace «ricevere saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti» . Ma sotto apparenze così solenni si nascondono falsità e ingiustizia. Mentre si pavoneggiano in pubblico, usano la loro autorità per “divorare le case delle vedove”, che erano considerate, insieme agli orfani e agli stranieri, le persone più indifese e meno protette. Infine, gli scribi «pregano a lungo per farsi vedere». Anche oggi esiste il rischio di assumere questi atteggiamenti. Ad esempio, quando si separa la preghiera dalla giustizia, perché non si può rendere culto a Dio e causare danno ai poveri. O quando si dice di amare Dio, e invece si antepone a Lui la propria vanagloria, il proprio tornaconto.
E in questa linea si colloca la seconda parte del Vangelo di oggi. La scena è ambientata nel tempio di Gerusalemme, precisamente nel luogo dove la gente gettava le monete come offerta. Ci sono molti ricchi che versano tante monete, e c’è una povera donna, vedova, che mette appena due spiccioli, due monetine. Gesù osserva attentamente quella donna e richiama l’attenzione dei discepoli sul contrasto netto della scena. I ricchi hanno dato, con grande ostentazione, ciò che per loro era superfluo, mentre la vedova, con discrezione e umiltà, ha dato «tutto quanto aveva per vivere»; per questo – dice Gesù – lei ha dato più di tutti. A motivo della sua estrema povertà, avrebbe potuto offrire una sola moneta per il tempio e tenere l’altra per sé. Ma lei non vuole fare a metà con Dio: si priva di tutto. Nella sua povertà ha compreso che, avendo Dio, ha tutto; si sente amata totalmente da Lui e a sua volta Lo ama totalmente. Che bell’esempio quella vecchietta!
Gesù, oggi, dice anche a noi che il metro di giudizio non è la quantità, ma la pienezza. C’è una differenza fra quantità e pienezza. Tu puoi avere tanti soldi, ma essere vuoto: non c’è pienezza nel tuo cuore. Pensate, in questa settimana, alla differenza che c’è fra quantità e pienezza. Non è questione di portafoglio, ma di cuore. C’è differenza fra portafoglio e cuore… Ci sono malattie cardiache, che fanno abbassare il cuore al portafoglio … E questo non va bene! Amare Dio “con tutto il cuore” significa fidarsi di Lui, della sua provvidenza, e servirlo nei fratelli più poveri senza attenderci nulla in cambio.
Mi permetto di raccontarvi un aneddoto, che è successo nella mia diocesi precedente. Erano a tavola una mamma con i tre figli; il papà era al lavoro; stavano mangiando cotolette alla milanese… In quel momento bussano alla porta e uno dei figli – piccoli, 5, 6 anni, 7 anni il più grande - viene e dice: “Mamma, c’è un mendicante che chiede da mangiare”. E la mamma, una buona cristiana, domando loro: “Cosa facciamo?” – “Diamogli, mamma…” – “Va bene”. Prende la forchetta e il coltello e toglie metà ad ognuna delle cotolette. “Ah no, mamma, no! Così no! Prendi dal frigo” – “No! facciamo tre panini così!”. E i figli hanno imparato che la vera carità si dà, si fa non da quello che ci avanza, ma da quello ci è necessario. Sono sicuro che quel pomeriggio hanno avuto un po’ di fame… Ma così si fa!
Di fronte ai bisogni del prossimo, siamo chiamati a privarci – come questi bambini, della metà delle cotolette – di qualcosa di indispensabile, non solo del superfluo; siamo chiamati a dare il tempo necessario, non solo quello che ci avanza; siamo chiamati a dare subito e senza riserve qualche nostro talento, non dopo averlo utilizzato per i nostri scopi personali o di gruppo.
Chiediamo al Signore di ammetterci alla scuola di questa povera vedova, che Gesù, tra lo sconcerto dei discepoli, fa salire in cattedra e presenta come maestra di Vangelo vivo. “
Papa Francesco Parte dell’Angelus dell’8 novembre 2015

Le letture liturgiche di questa domenica ci fanno meditare sul più grande comandamento, quello dell’amore di Dio che è completato dal secondo comandamento “Amerai il tuo prossimo come te stesso (Lv 19,1). L’amore verso Dio si completa con l’amore verso il prossimo, questi due comandamenti si sono sempre illuminati a vicenda.
Nella prima lettura, tratta dal libro del Deuteronomio, troviamo il celebre passo detto “Shema”, che è la preghiera più cara agli ebrei “Ascolta Israele… tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore…” Un amore che coinvolge “cuore, mente, forza” cioè tutte le dimensioni dell’essere umano nella sua interiorità e nella sua azione.
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera agli Ebrei, l’autore afferma che Gesù è l’unico e perfetto sacerdote della nuova alleanza ed ha tutte le qualità per esserlo: egli infatti è morto e risorto e vive per sempre in cielo al cospetto di Dio e intercede a nostro favore presso il Padre.
Nel Vangelo di Marco, leggiamo che Gesù allo scriba che gli chiedeva quale fosse il primo comandamento risponde sottolineando l’importanza fondamentale dell’amore verso Dio e verso il prossimo. Per Gesù queste due dimensioni dell’amore sono inestricabili, si incrociano e si vivificano reciprocamente costituendo l’essere cristiano autentico. Se aderiamo a Cristo con tutto il nostro essere, potremo anche noi ascoltare da Gesù le stesse parole che egli ripeté allo scriba: “non sei lontano dal regno di Dio”.

Dal libro del Deuteronomio
Mosè parlò al popolo dicendo:
«Temi il Signore, tuo Dio, osservando per tutti i giorni della tua vita, tu, il tuo figlio e il figlio del tuo figlio, tutte le sue leggi e tutti i suoi comandi che io ti do e così si prolunghino i tuoi giorni.
Ascolta, o Israele, e bada di metterli in pratica, perché tu sia felice e diventiate molto numerosi nella terra dove scorrono latte e miele, come il Signore, Dio dei tuoi padri, ti ha detto.
Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze. Questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore».
Dt 6, 2-6

Il Deuteronomio è il quinto libro della Torah ebraica e della Bibbia cristiana. È stato scritto in ebraico intorno al VI-V secolo a.C. in Giudea, secondo l'ipotesi condivisa da molti studiosi. È composto da 34 capitoli descriventi la storia degli Ebrei durante il loro soggiorno nel deserto del Sinai (circa 1200 a.C.) e contiene varie leggi religiose e sociali.
Dopo la Prima Legge, data da Dio sul Sinai, il Deuteronomio (Deuteros nomos) si presenta come la "Seconda Legge” la nuova Legge che Mosè consegna al popolo poco prima di morire. Questi nuovi precetti sono orientati a regolare la vita stabile, sedentaria, che di lì a poco il popolo d'Israele avrebbe iniziato all'arrivo alla Terra Promessa. Ciononostante, queste leggi sono stilate con grande affetto, animando il compimento della Legge con motivi teologici.
Il Deuteronomio ci consente di comprendere che cos’è il popolo di Dio, di cogliere quanto l’Alleanza che unisce a Dio, comporta insieme di ricchezza e di esigenza: essa è un dono gratuito e appello pressante che bisogna vivere nelle realtà concrete.
Il Deuteronomio richiama continuamente il credente a quelli che sono gli atteggiamenti fondamentali: una fede che si fa sempre più profonda, un amore di Dio che esclude ogni compromesso, un servizio di Dio prestato con gioia, e una accettazione reale ed fiduciosa delle realtà terrestri.
Il brano liturgico comincia con un invito pressante rivolto da Mosè al popolo di Israele:
“Temi il Signore, tuo Dio, osservando per tutti i giorni della tua vita,...” questi versetti sono l’introduzione al celebre passo detto “Shemà”, che è la preghiera molto cara agli ebrei. Al tempo di Gesù ogni ebreo lo doveva recitare al mattino e alla sera, mentre il testo scritto veniva portato nella teca di cuoio delle “filatterie” che si legavano alla fronte e al braccio durante l’orazione: “Ascolta, Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è Uno”. Questa frase, contiene il Tetragramma biblico יה*ו*ה, non pronunciabile, e quindi viene letta Shema' Ysrael, Ado-nai Eloheinu, Ado-nai echad, e viene pronunciata coprendosi gli occhi.
“Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze”.
C’è un adesione gioiosa di obbedienza figliare, di ascolto alla richiesta fondamentale di Dio, quella dell’amore. Un amore che coinvolge “cuore, mente, forza” cioè tutte le dimensioni dell’essere umano nella sua interiorità e nella sua azione. Questo è l’unico comandamento dato da Dio, che esige una risposta di amore al Suo amore. Tutti gli altri comandamenti derivano da questo e sono soltanto una precisazione per dire come concretamente si può in ogni circostanza amare Dio.

Salmo 17 - Ti amo, Signore, mia forza.
Ti amo, Signore, mia forza,
Signore, mia roccia,
mia fortezza, mio liberatore.

Mio Dio, mia rupe, in cui mi rifugio;
mio scudo, mia potente salvezza e mio baluardo.
Invoco il Signore, degno di lode,
e sarò salvato dai miei nemici.

Viva il Signore e benedetta la mia roccia,
sia esaltato il Dio della mia salvezza.
Egli concede al suo re grandi vittorie,
si mostra fedele al suo consacrato.

La tradizione più autentica (2Sam 22,1) riferisce che questo salmo venne scritto da Davide quando si trovò liberato da molte peripezie, specialmente quelle causategli da Saul. Il salmo nel Breviario viene diviso in due parti per ragioni di lunghezza.
L’orante celebra la liberazione da situazioni drammatiche con immagini efficaci: “Mi circondavano flutti di morte, mi travolgevano torrenti infernali; già mi avvolgevano i lacci degli inferi, già mi stringevano agguati mortali”. La liberazione da tante insidie gli ha comunicato una grande fede nell’aiuto di Dio, e per questo ha grande certezza di vittoria anche per il futuro: “Invoco il Signore, degno di lode, e sarò salvato dai miei nemici”.
L’orante presenta la descrizione dell’intervento di Dio usando le immagini di uno sconvolgimento cosmico: il cielo, la terra, il mare, il fuoco, la grandine, entrano in gioco ad esprimere l’ardente e terrorifica ira di Dio contro i suoi nemici, gli empi, i quali, infatti, non hanno solo cercato di colpire Israele, ma innanzitutto lui, il Re d’Israele, il Signore dell’universo. Gli empi sono coloro che hanno varcato quella misura di peccato, che genera l’ira assoluta di Dio, che pur manda il sole sui buoni e sui cattivi.
Si ha un crescendo nell’imponente descrizione dell’intervento di Dio. L’inizio dell’intervento di Dio è un terremoto: “La terra tremò e si scosse; vacillarono le fondamenta dei monti”: è il primo segno dello sfogo dell’ira di Dio sui suoi nemici. Dio viene presentato come una fornace di fuoco in cielo: “Dalle sue narici saliva fumo, dalla sua bocca un fuoco divorante, da lui sprizzavano carboni ardenti”. Il cielo viene abbassato con una nuvolaglia nera e Dio scende in combattimento cavalcando un cherubino, che vola in mezzo alle nubi nere e basse. Il guerriero squarcia al suo passaggio le nubi che riversano grandine in un immane bombardamento della terra e carboni di fuoco (i fulmini) che la incendiano. Infine il mare si riversa sulla terra in un immane diluvio che spazza via quanto è rimasto dei nemici di Dio: “Allora apparve il fondo del mare, si scoprirono le fondamenta del mondo”. Il popolo di Dio invece rimane indenne, come nel passaggio nel mar Rosso, poiché il Signore lo sottrae alla furia delle acque: “Stese la mano dall’alto e mi prese, mi sollevò dalle grandi acque”.
L’orante che ha visto evolvere una situazione nella quale era impossibile che ne uscisse vivo in situazione di vittoria, ritornando al suo esordio orante celebra la bontà di Dio, la giustizia di Dio; e divenuto capo forte di un popolo compatto, si propone di non temere mai delle armate dei nemici né delle loro fortezze: “Con te mi getterò nella mischia, con il mio Dio scavalcherò le mura”.
Davide continua le sue lodi a Dio e presenta, non più in termini apocalittici, le imprese che ha potuto compiere.
Davide, grazie a Dio che lo ha guidato e sostenuto, ha visto rendersi concrete le prospettive della missione regale affidatagli; ma il disegno di Dio non si esaurisce con lui.
Davide è certo di Dio. Certo della sua fedeltà. La sua discendenza rimarrà.
Il suo trono sarà di uno che verrà dalla sua stirpe, ma che sarà superiore a lui, come presentò lui stesso nel salmo 109,1; 110: “Oracolo del Signore al mio signore” (Cf. Mt 22,4). Sarà il futuro Re, il Messia (Cf. 1Sam 2,10), che inaugurerà un regno che sarà eterno (2Sam 7,12) e che abbraccerà tutte le genti (Ps 71,8; 72). Così tutta la missione di Davide e le grazie date a Davide sono in funzione del Messia e provengono dal futuro Messia.
Commento di P.Paolo Berti

Dalla lettera agli Ebrei
Fratelli, [nella prima alleanza] in gran numero sono diventati sacerdoti, perché la morte impediva loro di durare a lungo. Cristo invece, poiché resta per sempre, possiede un sacerdozio che non tramonta. Perciò può salvare perfettamente quelli che per mezzo di lui si avvicinano a Dio: egli infatti è sempre vivo per intercedere a loro favore.
Questo era il sommo sacerdote che ci occorreva: santo, innocente, senza macchia, separato dai peccatori ed elevato sopra i cieli. Egli non ha bisogno, come i sommi sacerdoti, di offrire sacrifici ogni giorno, prima per i propri peccati e poi per quelli del popolo: lo ha fatto una volta per tutte, offrendo se stesso.
La Legge infatti costituisce sommi sacerdoti uomini soggetti a debolezza; ma la parola del giuramento, posteriore alla Legge, costituisce sacerdote il Figlio, reso perfetto per sempre.
Eb 7,23-28

La Lettera agli Ebrei può essere divisa in due parti, la prima parte (fino al cap.10) è di contenuto puramente dogmatico, mentre la seconda è di carattere prevalentemente pratico-moralistico.
In questo brano, tratto dalla prima parte della lettera, che è incentrata sulla figura di Gesù Cristo, re dell’universo, anche in relazione ad altri personaggi biblici dell'A.T, l’autore. dopo aver trattato nei versetti precedenti “L’abrogazione della legge antica e “L’immutabilità del sacerdozio del Cristo” affermando che : “ciò non avvenne senza giuramento. Quelli infatti diventavano sacerdoti senza giuramento; costui al contrario con un giuramento di colui che gli ha detto:Il Signore ha giurato e non si pentirà: tu sei sacerdote per sempre. Per questo, Gesù è diventato garante di un’alleanza migliore” (7,20-23). in questo brano continua dicendo:
“ in gran numero sono diventati sacerdoti, perché la morte impediva loro di durare a lungo. Cristo invece, poiché resta per sempre, possiede un sacerdozio che non tramonta. Perciò può salvare perfettamente quelli che per mezzo di lui si avvicinano a Dio: egli infatti è sempre vivo per intercedere a loro favore.”
L’istituzione del sacerdozio di Aronne non fu sigillato da un giuramento e perciò non aveva il sigillo di eterna esistenza, cioè di non essere sottoposto ad abrogazione. Il giuramento si ha per le cose di più alta importanza affinché restino stabili e invariabili. Aronne e i suoi successori terminavano il loro sacerdozio con la loro morte, Cristo invece “resta per sempre ”. Egli, sommo ed eterno sacerdote, intercede a favore di coloro che si avvicinano al Padre per mezzo di Lui.
“Questo era il sommo sacerdote che ci occorreva: santo, innocente, senza macchia, separato dai peccatori ed elevato sopra i cieli”. Per avere accesso al Padre, nel perdono dei peccati e nella liberazione dalla colpa originale per mezzo del Battesimo, occorreva un sommo sacerdote perfetto, separato dai peccatori ed elevato sopra i cieli, quale Re dell'universo, e nessuno più di Cristo poteva essere una vittima, santa, innocente e senza pacchia.
“Egli non ha bisogno, come i sommi sacerdoti, di offrire sacrifici ogni giorno, prima per i propri peccati e poi per quelli del popolo: lo ha fatto una volta per tutte, offrendo se stesso.”
I sacrifici sono tutto l'insieme dei sacrifici prescritti dalla Legge. Il sacrificio sull'altare della croce, ha un valore infinito, per cui non è necessario che venga ripetuto perchè ha infinitamente soddisfatto la giustizia del Padre. Essendo Cristo sommo sacerdote eterno esercita questo suo sacerdozio mediante i ministri dell'altare che agiscono in persona Cristi. Il sacrificio Eucaristico è lo stesso della croce, diverso ne è solo il modo.
Nota: Il Concilio di Trento si è espresso al proposito con grande chiarezza “In questo divino sacrificio, che si compie nella Messa, è contenuto e immolato in modo incruento lo stesso Cristo, che si offerse una sola volta in modo cruento sull'altare della croce. Si tratta, infatti, di una sola e identica vittima e lo stesso Gesù la offre ora per il ministero dei sacerdoti, egli che un giorno offrì se stesso sulla croce: diverso è solo il modo di offrirsi”. (Sessione 22, cap. 2):

Dal vangelo secondo Marco
In quel tempo, si avvicinò a Gesù uno degli scribi e gli domandò: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?».
Gesù rispose: «Il primo è: “Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza”. Il secondo è questo: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Non c’è altro comandamento più grande di questi».
Lo scriba gli disse: «Hai detto bene, Maestro, e secondo verità, che Egli è unico e non vi è altri all’infuori di lui; amarlo con tutto il cuore, con tutta l’intelligenza e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici».
Vedendo che egli aveva risposto saggiamente, Gesù gli disse: «Non sei lontano dal regno di Dio». E nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo.
Mc 12,28b-34

Dopo l’arrivo di Gesù a Gerusalemme, l’evangelista Marco ci riporta l’attività di Gesù di quel periodo e le varie controversie avute con i rappresentanti di diversi gruppi che componevano il giudaismo del suo tempo.
Il brano inizia riportando l’intervento di uno scriba che “gli domandò: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?” Nei versetti precedenti Gesù era stato interrogato dai sadducei circa la risurrezione dei morti e lo scriba sicuramente fu soddisfatto dalla risposta che Gesù aveva dato perchè si era dissociato nettamente dalla posizione dei sadducei adottando quella dei farisei che credevano nella risurrezione dei morti. La domanda dello scriba fa pensare ad una preoccupazione diffusa tra i dottori che, pur dando uguale importanza a tutti i precetti della legge, cercavano una formula che ne fosse l’origine, il fondamento e persino la sintesi. Alla domanda dello scriba Gesù dà una risposta chiara e precisa: “Il primo è: “Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza”. Il secondo è questo: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Non c’è altro comandamento più grande di questi».
Lo scriba chiedeva di un comandamento, e Gesù ne cita due! Il primo è il comandamento contenuto nel Deuteronomio (6,4) in cui c’è un testo, recitato da ogni pio giudeo nella preghiera quotidiana, che esalta l’unicità di DIO, come salvatore del suo popolo, e l’obbligo di amarlo, e di praticare i suoi comandamenti non per opportunismo o interesse, bensì con un impegno che scaturisce dal profondo del cuore.
Poi Gesù cita quanto è scritto nel Levitico (Lv 19,18) dove si prescrive l’amore del prossimo.
Al “cuore-mente-forza”, attraversati dall’amore di Dio corrisponde ora il tutto “te stesso” dell’amore per il prossimo. Per Gesù queste due dimensioni dell’amore si incrociano e si vivificano reciprocamente costituendo l’essere cristiano autentico.
La risposta di Gesù provoca nel suo interlocutore un’approvazione entusiasta: “Hai detto bene, Maestro, e secondo verità, che Egli è unico e non vi è altri all’infuori di lui; amarlo con tutto il cuore, con tutta l’intelligenza e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici».” Con queste parole, egli dimostra una profonda percezione del messaggio di Gesù, il quale, “Vedendo che egli aveva risposto saggiamente, gli disse: Non sei lontano dal regno di Dio».
Questo scriba, dunque, inizialmente lontano dalla prospettiva di Gesù, accogliendo con gioia questo doppio impegno “non è più lontano dal regno di Dio”, perchè è diventato membro della comunità dell’amore.
L’evangelista conclude che “nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo”, infatti con questa controversia terminano le domande poste a Gesù dai rappresentanti del giudaismo.
Per concludere si può dire che lo scriba si trasforma nell’emblema di tutti coloro che, anche nel giudaismo, sceglieranno di aderire alla Legge, non col freddo rigore dell’osservanza o col timore del giudizio, ma con la totalità dell’amore, una via certamente più esigente di quella della semplice e fredda osservanza giudaica, ma ben più ampia ed esaltante

 

**************************

“Il Vangelo di questa domenica ci ripropone l’insegnamento di Gesù sul più grande comandamento: il comandamento dell’amore, che è duplice: amare Dio e amare il prossimo. I Santi, che abbiamo da poco celebrato tutti insieme in un’unica festa solenne, sono proprio coloro che, confidando nella grazia di Dio, cercano di vivere secondo questa legge fondamentale. In effetti, il comandamento dell’amore lo può mettere in pratica pienamente chi vive in una relazione profonda con Dio, proprio come il bambino diventa capace di amare a partire da una buona relazione con la madre e il padre. San Giovanni d’Avila, che ho da poco proclamato Dottore della Chiesa, così scrive all’inizio del suo Trattato dell’amore di Dio: «La causa - dice - che maggiormente spinge il nostro cuore all’amore di Dio è considerare profondamente l’amore che Egli ha avuto per noi… Questo, più dei benefici, spinge il cuore ad amare; perché colui che rende ad un altro un beneficio, gli dà qualcosa che possiede; ma colui che ama, dà se stesso con tutto ciò che ha, senza che gli resti altro da dare» (n. 1). Prima di essere un comando - l’amore non è un comando - è un dono, una realtà che Dio ci fa conoscere e sperimentare, così che, come un seme, possa germogliare anche dentro di noi e svilupparsi nella nostra vita.
Se l’amore di Dio ha messo radici profonde in una persona, questa è in grado di amare anche chi non lo merita, come appunto fa Dio verso di noi. Il padre e la madre non amano i figli solo quando lo meritano: li amano sempre, anche se naturalmente fanno loro capire quando sbagliano. Da Dio noi impariamo a volere sempre e solo il bene e mai il male. Impariamo a guardare l’altro non solamente con i nostri occhi, ma con lo sguardo di Dio, che è lo sguardo di Gesù Cristo. Uno sguardo che parte dal cuore e non si ferma alla superficie, va al di là delle apparenze e riesce a cogliere le attese profonde dell’altro: attese di essere ascoltato, di un’attenzione gratuita; in una parola: di amore. Ma si verifica anche il percorso inverso: che aprendomi all’altro così com’è, andandogli incontro, rendendomi disponibile, io mi apro anche a conoscere Dio, a sentire che Egli c’è ed è buono. Amore di Dio e amore del prossimo sono inseparabili e stanno in rapporto reciproco. Gesù non ha inventato né l’uno né l’altro, ma ha rivelato che essi sono, in fondo, un unico comandamento, e lo ha fatto non solo con la parola, ma soprattutto con la sua testimonianza: la Persona stessa di Gesù e tutto il suo mistero incarnano l’unità dell’amore di Dio e del prossimo, come i due bracci della Croce, verticale e orizzontale. Nell’Eucaristia Egli ci dona questo duplice amore, donandoci Se stesso, perché, nutriti di questo Pane, ci amiamo gli uni gli altri come Lui ci ha amato.
Cari amici, per intercessione della Vergine Maria, preghiamo affinché ogni cristiano sappia mostrare la sua fede nell’unico vero Dio con una limpida testimonianza di amore verso il prossimo.”
Papa Benedetto XVI Parte dell’Angelus del 4 novembre 2012

1 (*) Nota. Secondo Hillel (vissuto verso il 25 a.C.) tutta la legge si riassume nella “regola d’oro”, che prescrive di “non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te” (Shab 31a). Hillel conclude il suo detto affermando: “Questa è tutta la Torah; il resto ne è l’interpretazione. Va’ e impara!”. Secondo lui i precetti della legge, pur essendo diverse applicazioni di uno stesso principio, restano singolarmente validi, in quanto rappresentano la manifestazione irrevocabile della volontà di Dio.
Aqiba (morto nel 135 d.C.) invece assegna questo ruolo al precetto “Amerai il prossimo tuo come te stesso” (Sifra Lv 19,18); si ricordi che nel Targum la regola d’oro è citata come commento di questo precetto (cfr. TgPsJ Lv 19,18).
Al tempo di Gesù l’amore del prossimo era tenuto in grande considerazione dai membri dei movimenti giudaici, e in modo speciale dagli esseni (cfr. manoscritti di Qumran, Giubilei e Testamenti dei XII Pariarchi).

Le commemorazioni dei santi martiri, comuni a diverse Chiese, cominciarono ad essere celebrate nel IV secolo, ma la commemorazione di tutti i Santi la si deve a Papa Gregorio III (731-741) che scelse il 1^ novembre come data dell'anniversario della consacrazione di una cappella a San Pietro alle reliquie "dei santi apostoli e di tutti i santi…”. Venne poi decretata festa di precetto da parte del re franco Luigi il Pio nell'835 e il decreto fu emesso su richiesta di papa Gregorio IV con il consenso di tutti i vescovi.
La commemorazione dei fedeli defunti al 2 novembre ebbe origine nel sec. X nel monastero benedettino di Cluny. Papa Benedetto XV, al tempo della prima guerra mondiale, giunse a concedere a ogni sacerdote la facoltà di celebrare «tre messe» in questo giorno.
Le letture proposte dalla liturgia di questi due giorni ci aiuteranno a dare una risposta alla domanda: chi sono i santi? Non sono solo coloro che hanno raggiunto la gloria degli altari, ma sono anche coloro che hanno interpretato ed interpretano nel mondo il bisogno di Dio, che accettano e fanno fruttificare la grazia del Signore, che collaborano al compimento del progetto divino della riconsacrazione del mondo nell’amore. La santità è certamente anche un dono di Dio e, nello stesso tempo, il risultato di un impegno morale, svolto anche nell’ombra, che solo Dio vede. La santità non è quindi solo il raccolto finale di una vita spesa nel bene, la santità è il segno di una quotidiana partecipazione ai progetti di Dio.

Solennità di tutti i Santi – 1 Novembre 2017

Dal libro dell’Apocalisse di S.Giovanni Apostolo
Io, Giovanni, vidi salire dall’oriente un altro angelo, con il sigillo del Dio vivente. E gridò a gran voce ai quattro angeli, ai quali era stato concesso di devastare la terra e il mare: «Non devastate la terra né il mare né le piante, finché non avremo impresso il sigillo sulla fronte dei servi del nostro Dio».
E udii il numero di coloro che furono segnati con il sigillo: centoquarantaquattromila segnati, provenienti da ogni tribù dei figli d’Israele.
Dopo queste cose vidi: ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani. E gridavano a gran voce:
«La salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono, e all’Agnello».
E tutti gli angeli stavano attorno al trono e agli anziani e ai quattro esseri viventi, e si inchinarono con la faccia a terra davanti al trono e adorarono Dio dicendo: «Amen! Lode, gloria, sapienza, azione di grazie, onore, potenza e forza al nostro Dio nei secoli dei secoli. Amen».
Uno degli anziani allora si rivolse a me e disse: «Questi, che sono vestiti di bianco, chi sono e da dove vengono?». Gli risposi: «Signore mio, tu lo sai». E lui: «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello».
Ap 7,2-4.9-14

L'Apocalisse di Giovanni, è l'ultimo libro del Nuovo Testamento, si compone di 22 capitoli, ed è uno dei testi più controversi e difficili da interpretare. Appartiene al gruppo di scritti neotestamentari noto come "letteratura giovannea“, in quanto redatta, intorno all’anno 95, verso la fine dell'impero di Domiziano, dai discepoli dell’apostolo che si sono ispirati al suo insegnamento.
I libri che hanno di più influenzato l'Apocalisse sono i libri dei Profeti, principalmente Daniele, Ezechiele, Isaia, Zaccaria e poi anche il Libro dei Salmi.
L'autore presenta sé stesso come Giovanni, esiliato a Patmos, isola dell‘Egeo, a circa 70 km da Efeso, a causa della parola di Dio. Secondo alcuni studiosi, la stesura definitiva del libro, anche se iniziata durante l'esilio dell’autore, sarebbe avvenuta ad Efeso.
Questo brano costituisce l’intermezzo della sezione che va sotto il nome “i sette sigilli”. Essi vengono aperti dall’Agnello immolato, cioè da Gesù che si presenta così, per mezzo della sua passione, come il rivelatore del disegno salvifico di Dio.
In questo contesto, la visione ha lo scopo di indicare come i “segnati con il sigillo” centoquarantaquattromila (*), provenienti da ogni tribù dei figli dell’Israele ideale, cioè della Chiesa, sono benedetti e protetti da Dio e condotti ad una felicità senza dolore.
Quando dice una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua è per sottolineare l’universalità di questa salvezza, e per ottenerla alla domanda “chi sono i vestiti di bianco e da dove vengono” , l’anziano risponde Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello». “La tribolazione” oltre ad indicare la persecuzione, indica anche le prove quotidiane che i credenti debbono affrontare.
(*) è un numero simbolico che è il risultato di 12x12x1000, ossia 12 tribù di Israele X 12 apostoli (tutta la cristianità) X i 1000 anni, un tempo simbolico della storia umana = il risultato di quelli che saranno i salvati, ossia un’infinità incalcolabile .

Salmo 23/24 - Ecco la generazione che cerca il tuo volto, Signore.
Del Signore è la terra e quanto contiene:
il mondo, con i suoi abitanti.
È lui che l’ha fondato sui mari
e sui fiumi l’ha stabilito.
Chi potrà salire il monte del Signore?
Chi potrà stare nel suo luogo santo?
Chi ha mani innocenti e cuore puro,
chi non si rivolge agli idoli.
Egli otterrà benedizione dal Signore,
giustizia da Dio sua salvezza.
Ecco la generazione che lo cerca,
che cerca il tuo volto, Dio di Giacobbe.

Il salmo presenta il momento in cui Israele ritorna dell’esilio. Ora è consapevole, dopo la distruzione di Gerusalemme e del tempio, che per salire al tempio e per abitare alla sua ombra bisogna essere puri di cuore; il tempio non salva nessuno se non c’è la fedeltà alla legge.
Il Signore è di maestà infinita, e sua “è la terra e quanto contiene: il mondo, con i suoi abitanti”.
Dalla considerazione della grandezza e potenza di Dio parte l’esame delle qualità di chi andrà ad abitare all’ombra del tempio del Signore.
Il tempio è stato distrutto e un coro dice alle porte di ristabilire se stesse. Esse sono state distrutte, ma sono pure “eterne” (traduzione letterale), e perciò saranno rifatte.
Dalle porte del tempio, comprese quelle dell’atrio degli olocausti, entrerà il re della gloria a prendere dimora con la sua gloria nel tempio, nel santo dei santi.
E’ il Signore potente in battaglia, che vince i suoi nemici. “Il Signore degli eserciti” è il Signore delle schiere dei valorosi nella fede.
Il “sensus plenior" del salmo è per salire il monte santo, cioè giungere alla mensa Eucaristica, salire in un cammino d’iniziazione, alla partecipazione piena all’altare, e dimorare nella fede e nell’amore nella casa del Signore richiede rettitudine di vita. Occorre cercare colui che già si è fatto trovare; cercarlo per più conoscerlo e amarlo, in un tendere all’infinito a lui.
E i cieli sono aperti. Le porte del cielo ostruitesi per il peccato dell’uomo ora si sono riaperte. I cori angeli hanno proclamato: “Alzate, o porte, la vostra fronte, alzatevi soglie antiche, ed entri il re della gloria…”. Entri il “Signore valoroso in battaglia”, quella che ha condotto contro le tenebre lanciategli da Satana e i dolori della croce. “E’ il Signore degli eserciti il re della gloria”, il Signore delle schiere apostoliche della Chiesa, che porta la luce del vangelo ovunque.
Commento di P.Paolo Berti

Dalla prima lettera di S.Giovanni Apostolo
Carissimi, vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui.
Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è.
Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro.
1Gv 3,1-3

La Prima lettera di Giovanni è una lettera tradizionalmente attribuita a Giovanni apostolo ed evangelista ed inclusa tra i libri del Nuovo Testamento (la quarta delle cosiddette “lettere cattoliche”).
La lettera nella sua redazione finale dovrebbe essere stata scritta verso la fine del I secolo, probabilmente ad Efeso.
I destinatari della lettera sono pagani delle comunità dell‘Asia Minore che si sono convertiti al Cristianesimo. Lo scopo che Giovanni si prefigge è quello di richiamare le comunità cristiane all’amore fraterno e di metterle in guardia verso i falsi maestri gnostici ed eretici, che negavano l’incarnazione di Gesù Cristo.
La comunione con Dio e con Suo Figlio, che si realizza con la verità, l'obbedienza, la purezza, la fede e l'amore, è al centro della dottrina della prima lettera.
In questo brano Giovanni considera il cristiano nella sua realtà concreta di individuo che è in comunione con il Padre e il Figlio e ne indica il motivo nel fatto che egli è, ora, realmente figlio di Dio e oggetto dell’amore del Padre. Questa nostra realtà che non può essere capita da coloro che non conoscono Dio, apre alla speranza della rivelazione totale di ciò che siamo, speranza che assimila sempre di più il cristiano al Signore Gesù.

Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo:
«Beati i poveri in spirito,
perché di essi è il regno dei cieli.
Beati quelli che sono nel pianto,
perché saranno consolati.
Beati i miti,
perché avranno in eredità la terra.
Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia,
perché saranno saziati.
Beati i misericordiosi,
perché troveranno misericordia.
Beati i puri di cuore
perché vedranno Dio.
Beati gli operatori di pace
perché saranno chiamati figli di Dio.
Beati i perseguitati per la giustizia,
perché di essi è il regno dei cieli.
Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia.
Rallegratevi ed esultate perché grande è la vostra ricompensa nei cieli.
Mt 5,1-12

L’evangelista Matteo riunisce in un primo grande discorso gli insegnamenti di Gesù, presentando così un catechismo di iniziazione cristiana, opposto all’ideale religioso giudaico. C’era la legge, cioè l’insieme delle esigenze morali, religiose, culturali, personali e collettive che valeva per tutto il popolo di Dio e tutto questo Mosè l’aveva ricevuto sul Sinai. D’ora in poi c’è la nuova legge che Gesù dà sulla montagna come su un nuovo Sinai. Non toglie nulla alla legge di Mosè, ma la completa andando alla radice dei comportamenti umani. Gesù afferma che beati sono gli uomini e le donne poveri di spirito, beati i misericordiosi, gli afflitti, i miti, gli affamati di giustizia, i puri di cuore, i perseguitati a causa della giustizia ed anche coloro che sono insultati e perseguitati a causa del Suo nome.
Parole come queste non le aveva dette mai nessuno e i discepoli certo non le avevano mai udite sino a quel momento. E anche noi che le ascoltiamo oggi paiono davvero molto lontane, si ha come l’impressione di vedere il mondo alla rovescia, quasi agli antipodi di ciò che pensiamo, diciamo e facciamo.
Le beatitudini però non sono delle cose da fare, ma frutti di una scelta di vita che non è sforzo solo nostro, ma conseguenza dell’opera dello Spirito in noi. Solo lo Spirito ci può rendere miti, pacifici, puri di cuore, misericordiosi … Il nostro sforzo deve consistere nell’accogliere l’azione dello Spirito Santo in noi, di obbedire in tutto a Dio. Quanto riusciremo ad accogliere e seguire lo Spirito che elargisce i Suoi doni (fortezza, scienza, sapienza, intelletto, consiglio, pietà, timor di Dio) tanto saremo capaci di vivere le beatitudini. Capiremo così che le beatitudini sono la vita stessa di Gesù, Lui le ha vissute tutte. Per questo, il nostro aderire ad esse ci inserisce nella vita di Cristo, ci unisce più che mai a Lui. Il premio delle beatitudini è Dio stesso: è Lui la beatitudine vera, la felicità che non avrà mai fine.

 

*********

“La solennità di Tutti i Santi è la “nostra” festa: non perché noi siamo bravi, ma perché la santità di Dio ha toccato la nostra vita. I santi non sono modellini perfetti, ma persone attraversate da Dio. Possiamo paragonarli alle vetrate delle chiese, che fanno entrare la luce in diverse tonalità di colore. I santi sono nostri fratelli e sorelle che hanno accolto la luce di Dio nel loro cuore e l’hanno trasmessa al mondo, ciascuno secondo la propria “tonalità”. Ma tutti sono stati trasparenti, hanno lottato per togliere le macchie e le oscurità del peccato, così da far passare la luce gentile di Dio. Questo è lo scopo della vita: far passare la luce di Dio, e anche lo scopo della nostra vita.
Infatti, oggi nel Vangelo Gesù si rivolge ai suoi, a tutti noi, dicendoci «Beati» . È la parola con cui inizia la sua predicazione, che è “vangelo”, buona notizia perché è la strada della felicità. Chi sta con Gesù è beato, è felice. La felicità non sta nell’avere qualcosa o nel diventare qualcuno, no, la felicità vera è stare col Signore e vivere per amore. Voi credete questo? La felicità vera non sta nell’avere qualcosa o nel diventare qualcuno; la felicità vera è stare con il Signore e vivere per amore. Credete questo? Dobbiamo andare avanti, per credere a questo. Allora, gli ingredienti per la vita felice si chiamano beatitudini: sono beati i semplici, gli umili che fanno posto a Dio, che sanno piangere per gli altri e per i propri sbagli, restano miti, lottano per la giustizia, sono misericordiosi verso tutti, custodiscono la purezza del cuore, operano sempre per la pace e rimangono nella gioia, non odiano e, anche quando soffrono, rispondono al male con il bene.
Ecco le beatitudini. Non richiedono gesti eclatanti, non sono per superuomini, ma per chi vive le prove e le fatiche di ogni giorno, per noi. Così sono i santi: respirano come tutti l’aria inquinata dal male che c’è nel mondo, ma nel cammino non perdono mai di vista il tracciato di Gesù, quello indicato nelle beatitudini, che sono come la mappa della vita cristiana. Oggi è la festa di quelli che hanno raggiunto la meta indicata da questa mappa: non solo i santi del calendario, ma tanti fratelli e sorelle “della porta accanto”, che magari abbiamo incontrato e conosciuto. Oggi è una festa di famiglia, di tante persone semplici e nascoste che in realtà aiutano Dio a mandare avanti il mondo. E ce ne sono tanti, oggi! Ce ne sono tanti. Grazie a questi fratelli e sorelle sconosciuti che aiutano Dio a portare avanti il mondo, che vivono tra di noi; salutiamoli tutti con un bell’applauso!
Anzitutto – dice la prima beatitudine – sono «poveri in spirito» . Che cosa significa? Che non vivono per il successo, il potere e il denaro; sanno che chi accumula tesori per sé non arricchisce davanti a Dio (cfr Lc 12,21). Credono invece che il Signore è il tesoro della vita, e l’amore al prossimo l’unica vera fonte di guadagno. A volte siamo scontenti per qualcosa che ci manca o preoccupati se non siamo considerati come vorremmo; ricordiamoci che non sta qui la nostra beatitudine, ma nel Signore e nell’amore: solo con Lui, solo amando si vive da beati.
Vorrei infine citare un’altra beatitudine, che non si trova nel Vangelo, ma alla fine della Bibbia e parla del termine della vita: «Beati i morti che muoiono nel Signore» (Ap 14,13). Domani saremo chiamati ad accompagnare con la preghiera i nostri defunti, perché godano per sempre del Signore. Ricordiamo con gratitudine i nostri cari e preghiamo per loro.
La Madre di Dio, Regina dei Santi e Porta del Cielo, interceda per il nostro cammino di santità e per i nostri cari che ci hanno preceduto e sono già partiti per la Patria celeste.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 1 novembre 2017


Commemorazione di tutti i fedeli defunti 2 novembre 2018


Dal libro di Giobbe
Rispondendo Giobbe prese a dire:
«Oh, se le mie parole si scrivessero,
se si fissassero in un libro,
fossero impresse con stilo di ferro e con piombo,
per sempre s’incidessero sulla roccia!
Io so che il mio redentore è vivo
e che, ultimo, si ergerà sulla polvere!
Dopo che questa mia pelle sarà strappata via,
senza la mia carne, vedrò Dio.
Io lo vedrò, io stesso,
i miei occhi lo contempleranno e non un altro».
Gb 19,1.23-27

Il Libro di Giobbe, composto da 42 capitoli, è stato scritto in ebraico dopo l’esilio probabilmente nel 5^ secolo a.C.. A quell’epoca il tempio era stato ricostruito (520-515 a.C. v.Esd 5-6) e le mura di Gerusalemme restaurate (445 a.C. V. Ne 2-4). Raggruppata e organizzata intorno ai loro capi la piccola comunità giudaica riprende vita. Le difficoltà però non mancano e si vedono riapparire le ingiustizie e le violenze di un tempo. I poveri, che rappresentano sovente la parte più religiosa del popolo, subiscono prepotenze ed angherie.
I profeti intervengono per rispondere agli infiniti interrogativi che il problema del male porta all’umanità che si chiede “Dov’è il Dio della giustizia?” (Ml 2,17) . Ed è questa la questione che solleva il libro di Giobbe: Perché il male?. Ci troviamo in questo libro di fronte ad una ricerca drammatica sul senso dell'esistenza, sull'amore di Dio, e sulla fedeltà verso di Lui.
L’autore, rimasto anonimo, ambienta il suo racconto in un paese favoloso, anche per quel tempo, dell'Antico Medio Oriente. Il protagonista, Giobbe, è un uomo profondamente religioso, ma anche turbato dalla sua fede perché non riesce più a coordinare le idee che aveva di un Dio giusto e buono con i fatti che gli capitano: prima era un uomo ricco e felice, e poi improvvisamente colpito dalla sventura, perde i figli, i beni, la salute, e non è neanche confortato dalla moglie, che lo scaccia anche da casa.
Nonostante le 4 disgrazie (è da notare il numero 4 che è il numero della terra), Giobbe reagisce, sa di essere innocente, non ha rinnegato mai i decreti di Dio, perciò si rivolge a Lui con una sola preghiera: “Ricordati… “ termine usato nelle preghiere di Israele per ricordare a Dio l’alleanza e quindi la fedeltà.
Il libro di Giobbe è anche un grande canto dell’uomo con tutte le sue lacerazioni, le sue ansie e le sue speranze. Giobbe è uno di quei grandi miti sui quali di continuo l’uomo va ridisegnando la mappa delle proprie interrogazioni per verificare i contorni della propria fede.
In questo brano, Giobbe è colpito sul vivo dalle parole ingiuriose di uno dei suoi amici (Bildad), ma non viene convinto dalle sue spiegazioni. Egli è sempre cosciente di essere oppresso ingiustamente. Perseguitato da Dio, condannato dagli uomini, egli sente però che Dio è dalla sua parte ed è sicuro che prima della sua morte o anche dopo la morte, l’Eterno si alzerà in giudizio al suo fianco come difensore e vendicatore e proclamerà davanti a tutti la sua innocenza.

Nota: nei versetti 25-27 il testo ebraico non era molto chiaro, la Vulgàta, traduzione in latino della Bibbia dall'antica versione greca ed ebraica, realizzata all'inizio del IV secolo da S.Girolamo, vi ha interpretato un atto di fede di Giobbe nella risurrezione.

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani
Fratelli, la speranza non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato.
Infatti, quando eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi. Ora, a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi.
A maggior ragione ora, giustificati nel suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di lui. Se infatti, quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più, ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita. Non solo, ma ci gloriamo pure in Dio, per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo, grazie al quale ora abbiamo ricevuto la riconciliazione.
Rm 5,5-11

San Paolo scrisse la lettera ai Romani da Corinto probabilmente tra gli anni 58-59. La comunità dei cristiani di Roma era già ben formata e coordinata, ma lui ancora non la conosceva. Forse il primo annuncio fu portato a Roma da quei “Giudei di Roma”, presenti a Gerusalemme nel giorno della Pentecoste e che accolsero il messaggio di Pietro e il Battesimo da lui amministrato, diventando cristiani. Nacque subito la necessità di avere a Roma dei presbiteri e questi non poterono che essere nominati a Gerusalemme.
La Lettera ai Romani, che è uno dei testi più alti e più impegnativi degli scritti di Paolo, ed è anche la più lunga e più importante come contenuto teologico, è composta da 16 capitoli: i primi 11 contengono insegnamenti sull'importanza della fede in Gesù per la salvezza, contrapposta alla vanità delle opere della Legge; il seguito è composto da esortazioni morali. Paolo, in particolare, fornisce indicazioni di comportamento per i cristiani all'interno e all'esterno della loro comunità.
In questo brano, tratto dal capitolo 5, Paolo dopo aver sostenuto che di fronte alle dolorose tribolazioni della vita il credente è sorretto oltre che dalla fede, anche dalla speranza e dall’amore, ora parlando della speranza afferma: “la speranza non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato”
La speranza non può deludere perché non si limita a provocare l’attesa delle realtà future, ma ne dà un’esperienza anticipata mediante l’amore che lo Spirito santo riversa nei cuori. Poi Paolo ricorda l’opera compiuta da Cristo per i credenti: “Infatti, quando eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi”. Cristo dunque è morto per persone che non meritavano nulla, erano infatti “peccatori”. Con questo termine egli indica qui non i fratelli ancora legati all’osservanza delle norme rituali giudaiche (V. Rm 14,2), ma coloro che sono sotto il dominio del peccato. Essi erano non solo deboli, ma anche “empi”, ma proprio per essi Cristo morì nel tempo stabilito.
L’Apostolo commenta quanto ha appena affermato mettendo in luce il carattere straordinario della morte di Cristo: “Ora, a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi”.
A volte può capitare che un uomo sia disposto a morire per una persona giusta: ci sono casi, infatti, in cui la dedizione verso una persona amata (figlio, coniuge o amico) spinge fino al sacrificio della vita. Ma Cristo ha fatto una cosa che, umanamente parlando, è inconcepibile: egli è morto per noi proprio mentre eravamo ancora indegni e peccatori. E in questo gesto supremo si è manifestato l’amore di Dio per tutti noi.
Infine Paolo fa questa riflessione: “A maggior ragione ora, giustificati nel suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di lui”. Se Dio è giunto al punto di dimostrare mediante Cristo un amore così grande per noi quando eravamo ancora peccatori, a maggior ragione ora che siamo giustificati ci salverà per mezzo di Cristo dall’ira finale.
L’apostolo ripete poi lo stesso ragionamento introducendo il concetto di riconciliazione: “Se infatti, quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più, ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita”. Egli sottolinea dunque che Dio, riconciliandosi con noi mediante la morte di Cristo quando eravamo ancora nemici, non potrà non condurci alla salvezza finale ora che siamo stati riconciliati.
La riconciliazione rappresenta il primo passo verso la salvezza, che viene indicata con un verbo al futuro (saremo salvati): con esso l’apostolo vuole sottolineare che la salvezza definitiva, che consiste nell’incontro personale con Dio, è una realtà escatologica, ma al tempo stesso imminente, perché gli ultimi tempi sono già iniziati (V.Rm 13,11). Mentre la riconciliazione ha avuto luogo “per mezzo della morte del Figlio suo”, la salvezza finale si attuerà “mediante la sua vita”: la morte di Cristo ha messo dunque in moto un processo che Egli stesso, ormai vivo in forza della Sua risurrezione, porterà un giorno a compimento facendo sì che i credenti diventino partecipi della Sua nuova vita.
Infine Paolo conclude: Non solo, ma ci gloriamo pure in Dio, per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo, grazie al quale ora abbiamo ricevuto la riconciliazione. In forza della riconciliazione così ottenuta, il credente può ora definitivamente “gloriarsi” in Dio.
E' decisamente una prospettiva al di là di ogni nostra possibile aspettativa, una condizione davvero felice per la quale non potevamo vantare alcun merito. Infatti il nostro gloriarci è per mezzo di Gesù Cristo che ci ha meritato questa pace con Dio, la riconciliazione, l'entrata in una vita davvero piena e libera.

Dal vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, Gesù disse alla folla:
«Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me: colui che viene a me, io non lo caccerò fuori, perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato.
E questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno.
Questa infatti è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno».
Gv 6,37-40

Questo brano tratto dal 6^ Capitolo del Vangelo di Giovanni, si colloca subito dopo il discorso di Gesù sul pane di vita. Precedentemente Gesù dopo aver moltiplicato i pani si era ritirato sulla montagna e poi aveva attraversato il lago. Ma la gente che lo voleva fare re lo seguì sull'altra sponda e allora egli tiene il famoso discorso sul pane di vita disceso dal cielo. Egli assicura di essere il vero pane, chi viene a lui non avrà più fame e chi crede in lui non avrà più sete.. Poi Gesù ritorna dai suoi discepoli, che nel frattempo erano risaliti in barca per tornare a Cafarnao, camminando sulle acqua del lago e ai loro timori risponde: “Sono io, non temete”. Quando poi alla folla, che per ritrovarlo attraversò il lago con le barche, Gesù dice: “voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati”. E poi Gesù introduce il discorso sul pane di vita. ..
“Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me: colui che viene a me, io non lo caccerò fuori,”
Coloro che seguono Gesù sono come dei doni che il Padre fa al Figlio. Egli li accoglie, non li getta fuori. Il verbo "gettare fuori" è quello utilizzato spesso da Matteo per indicare coloro che sono esclusi dal regno di Dio e dal banchetto delle nozze di suo Figlio (V. Mt 22,13).
“perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato”.
Già Isaia (55,10-11) affermava che la parola di Dio è simile a un messaggero che ritorna solo dopo aver compiuto la sua missione. Così anche Gesù è disceso dal cielo per fare la volontà del Padre,
E questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno.
Gesù dunque è venuto nel mondo per fare la volontà del Padre, e la volontà del Padre è che tutti siano salvi e risorgano dalla morte nell’ultimo giorno per la vita eterna. Esiste una fame di vita eterna, una fame di Dio! E c’è una pane di Dio, un cibo di vita eterna per colui che crede in Cristo!

 

******

 

“Ieri abbiamo celebrato la Solennità di tutti i Santi, e oggi la liturgia ci invita a commemorare i fedeli defunti. Queste due ricorrenze sono intimamente legate fra di loro, così come la gioia e le lacrime trovano in Gesù Cristo una sintesi che è fondamento della nostra fede e della nostra speranza. Da una parte, infatti, la Chiesa, pellegrina nella storia, si rallegra per l’intercessione dei Santi e dei Beati che la sostengono nella missione di annunciare il Vangelo; dall’altra, essa, come Gesù, condivide il pianto di chi soffre il distacco dalle persone care, e come Lui e grazie a Lui fa risuonare il ringraziamento al Padre che ci ha liberato dal dominio del peccato e della morte.
Tra ieri e oggi tanti fanno una visita al cimitero, che, come dice questa stessa parola, è il “luogo del riposo”, in attesa del risveglio finale. È bello pensare che sarà Gesù stesso a risvegliarci. Gesù stesso ha rivelato che la morte del corpo è come un sonno dal quale Lui ci risveglia. Con questa fede sostiamo – anche spiritualmente – presso le tombe dei nostri cari, di quanti ci hanno voluto bene e ci hanno fatto del bene. Ma oggi siamo chiamati a ricordare tutti, anche quelli che nessuno ricorda. Ricordiamo le vittime delle guerre e delle violenze; tanti “piccoli” del mondo schiacciati dalla fame e della miseria; ricordiamo gli anonimi che riposano nell’ossario comune. Ricordiamo i fratelli e le sorelle uccisi perché cristiani; e quanti hanno sacrificato la vita per servire gli altri. Affidiamo al Signore specialmente quanti ci hanno lasciato nel corso di quest’ultimo anno.
La tradizione della Chiesa ha sempre esortato a pregare per i defunti, in particolare offrendo per essi la Celebrazione eucaristica: essa è il miglior aiuto spirituale che noi possiamo dare alle loro anime, particolarmente a quelle più abbandonate. Il fondamento della preghiera di suffragio si trova nella comunione del Corpo Mistico. Come ribadisce il Concilio Vaticano II, «la Chiesa pellegrinante sulla terra, ben consapevole di questa comunione di tutto il Corpo Mistico di Gesù Cristo, fino dai primi tempi della religione cristiana ha coltivato con grande pietà la memoria dei defunti» (Lumen gentium,50)
Il ricordo dei defunti, la cura dei sepolcri e i suffragi sono testimonianza di fiduciosa speranza, radicata nella certezza che la morte non è l’ultima parola sulla sorte umana, poiché l’uomo è destinato ad una vita senza limiti, che ha la sua radice e il suo compimento in Dio. A Dio rivolgiamo questa preghiera: «Dio di infinita misericordia, affidiamo alla tua immensa bontà quanti hanno lasciato questo mondo per l’eternità, dove tu attendi l'intera umanità, redenta dal sangue prezioso di Cristo, tuo Figlio, morto in riscatto per i nostri peccati. Non guardare, Signore, alle tante povertà, miserie e debolezze umane, quando ci presenteremo davanti al tuo tribunale, per essere giudicati per la felicità o la condanna. Volgi su di noi il tuo sguardo pietoso, che nasce dalla tenerezza del tuo cuore, e aiutaci a camminare sulla strada di una completa purificazione. Nessuno dei tuoi figli vada perduto nel fuoco eterno dell’inferno, dove non ci può essere più pentimento. Ti affidiamo Signore le anime dei nostri cari, delle persone che sono morte senza il conforto sacramentale, o non hanno avuto modo di pentirsi nemmeno al temine della loro vita. Nessun abbia da temere di incontrare Te, dopo il pellegrinaggio terreno, nella speranza di essere accolto nelle braccia della tua infinita misericordia. Sorella morte corporale ci trovi vigilanti nella preghiera e carichi di ogni bene fatto nel corso della nostra breve o lunga esistenza. Signore, niente ci allontani da Te su questa terra, ma tutto e tutti ci sostengano nell'ardente desiderio di riposare serenamente ed eternamente in Te. Amen» (P. Antonio Rungi, passionista, Preghiera dei defunti).
Con questa fede nel destino supremo dell’uomo, ci rivolgiamo ora alla Madonna, che ha patito sotto la Croce il dramma della morte di Cristo ed ha partecipato poi alla gioia della sua risurrezione. Ci aiuti Lei, Porta del cielo, a comprendere sempre più il valore della preghiera di suffragio per i defunti. Loro ci sono vicini! Ci sostenga nel quotidiano pellegrinaggio sulla terra e ci aiuti a non perdere mai di vista la meta ultima della vita che è il Paradiso. E noi con questa speranza che non delude mai, andiamo avanti!”
Papa Francesco Parte dell’Angelus 2 Novembre 2014

Pagina 138 di 161

Pro Memoria

L'umanità è una grande e  immensa famiglia ... Troviamo la dimostrazione di ciò da quello che ci sentiamo nei nostri cuori a Natale.
(Papa Giovanni XXIII)

Parrocchia Nostra Signora de La Salette
Piazza Madonna de La Salette 1 - 00152 ROMA
tel. e fax 06-58.20.94.23
e-mail: email
Settore Ovest - Prefettura XXX - Quartiere Gianicolense - 12º Municipio
Titolo presbiterale: Card. Polycarp PENGO
Affidata a: Missionari di Nostra Signora di «La Salette» (M.S.)
 

Utilizziamo i cookie per essere sicuri che tu possa avere la migliore esperienza sul nostro sito. Se continui ad utilizzare questo sito noi assumiamo che tu ne sia felice! Accetta i cookie per chiudere avviso. Per saperne di più riguardo ai cookie utilizzati e a come cancellarli, guarda il regolamento Politica sulla Privacy.

Accetto i cookie da questo sito