Le letture liturgiche di questa domenica hanno come tema la fede, che spesso è messa a dura prova quando ci sembra che Dio sia assente o resti silenzioso proprio nei momenti in cui abbiamo più bisogno.
Nella prima lettura, il profeta Abacuc si lamenta con Dio perchè sembra tardare a soccorrere il suo popolo. Il Signore gli risponde che si perde solo chi vuole perdersi, mentre “il giusto vivrà per la sua fede”.
Nella seconda lettura, l’apostolo Paolo nella sua seconda lettera a Timoteo, chiede al suo discepolo, e anche a noi oggi, di essere coraggiosi nel rendere testimonianza a Cristo e di conservare il bene prezioso della fede, afferma inoltre che Dio, attraverso la grazia della fede: non ci ha dato uno spirito di timidezza, ma di forza, di carità e di prudenza.
Nel Vangelo di Luca, agli apostoli che gli chiedevano di aumentare la propria fede Gesù risponde: Se aveste fede quanto un granello di sènape, potreste …” La fede è dunque, un’energia che non si misura in base alla quantità, ma in base all’autenticità e all’intensità; la fede fruttifica anche se è un seme microscopico, si radica nella mente e nel cuore e nutre l’intelligenza, generando lo spirito di servizio e la dedizione gratuita a Dio e al prossimo.
Dal libro del profeta Abacuc
Fino a quando, Signore, implorerò aiuto e non ascolti,
a te alzerò il grido: “Violenza!” e non salvi?
Perché mi fai vedere l'iniquità
e resti spettatore dell'oppressione?
Ho davanti a me rapina e violenza
e ci sono liti e si muovono contese.
Il Signore rispose e mi disse:
“Scrivi la visione e incidila bene sulle tavolette
perché la si legga speditamente.
È una visione che attesta un termine,
parla di una scadenza e non mentisce;
se indùgia, attendila, perché certo verrà e non tarderà”.
Ecco, soccombe colui che non ha l'animo retto,
mentre il giusto vivrà per la sua fede.
Ab 1,2-3; 2,2-4
Abacùc è l'ottavo dei 12 profeti minori; di lui si hanno poche notizie, se non che visse al tempo del profeta Geremia (605-589 a.C). Come Geremia profetizzò durante il regno del re Ioakim, ricordato per la sua tirannia e incapacità di una chiara linea politica, infatti strinse alleanze sia con il faraone d’Egitto sia con i Babilonesi nemici degli Egiziani. I Babilonesi, durante il suo regno, assediarono Gerusalemme e, in seguito, la distrussero e lui fu deportato a Babilonia dove morì nel 597.
Il libro di Abacuc è composto di tre capitoli e si divide in due parti.
Il brano liturgico inizia con una domanda che prende dal 1^ capitolo e la risposta dal secondo. La prima domanda contiene un rimprovero nei confronti di Dio: “Fino a quando, Signore, implorerò aiuto e non ascolti, a te alzerò il grido: “Violenza!” e non salvi? “ Angosciato davanti al trionfo dell’empietà e dell’ingiustizia, il profeta si rivolge a Dio invocando il suo aiuto. Siccome Dio sembra indifferente di fronte alla triste situazione in cui il popolo si trova, il profeta gli espone le miserie di cui soffre. Egli parla a nome di tutto il popolo e dei giusti oppressi, di cui si fa portavoce. L’espressione “fino a quando”, dettata dall’impotenza, denota la supplica e nello stesso tempo il rimprovero (V Sal 13,2-3; Ger 12,4). Viene messo in questione l’atteggiamento di Dio nei confronti del male: come può Dio tollerare che capitino certe cose?
Il profeta continua la sua domanda con tono ancora più forte: Perché mi fai vedere l'iniquità
e resti spettatore dell'oppressione? Ho davanti a me rapina e violenza e ci sono liti e si muovono contese”. Dio viene provocatoriamente ritenuto colpevole di quello che sta accadendo. Egli permette che il profeta assista impotente all’espandersi del male e dell’oppressione. Abacuc si lamenta di dover vedere intorno a sé soltanto rapina e violenza, liti e contese. Ciò che egli descrive è una situazione di profonda degenerazione sociale, in cui dominano i prepotenti, i quali litigano fra loro e impongono agli altri il loro volere. La domanda che gli sale alla bocca esprime un dubbio amaro circa il governo del mondo da parte di Dio. L’impressione che egli ha è che Dio si sia lasciato sfuggire di mano il controllo di questo mondo.
La riposta riportata dalla liturgia è quella che fa seguito alla seconda domanda, simile alla prima, con la quale il profeta accusa Dio di comportarsi con gli uomini come fa il pescatore che prende all’amo i pesci del mare e fa di essi il suo cibo (V.1,12-17). Ad essa Dio risponde, non prima però di avere sottolineato l’importanza di ciò che sta per dire: Scrivi la visione e incidila bene sulle tavolette perché la si legga speditamente. È una visione che attesta un termine,parla di una scadenza e non mentisce; se indùgia, attendila,perché certo verrà e non tarderà”.
L’uso di scrivere una visione su una tavoletta di legno, pietra o bronzo (V. Is 8,1; 30,8; Ger 30,2; Ez 37,16) ha lo scopo di far conoscere con precisione a un gran numero di persone il contenuto del messaggio. Esso serve anche a dare la possibilità un giorno, quando l’oracolo si sarà verificato, di riconoscere che l’evento era stato annunziato in precedenza. La parola di Dio, comunicata in una visione, possiede una potenza tale per cui il fatto di essere scritta aumenta l’efficacia. In questo caso il messaggio contiene l’indicazione di un termine, cioè di una scadenza. La sciagura non durerà all'infinito, ma è destinata a terminare. Al credente non resta altro che aspettare con fiducia che la predizione si attui.
Dopo questa lunga premessa, viene riportato il messaggio che invece è molto corto: “Ecco, soccombe colui che non ha l'animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede”.
L’oracolo divino è redatto in forma concisa: ci sono due espressioni parallele di cui la prima riguarda l’empio e la seconda il giusto. Il primo viene designato in modo negativo come ”colui che non ha l’animo retto”. E questo si riferisce non tanto agli invasori caldei, quanto ai giudei che, pur conoscendo le prescrizioni divine, non le mettono in pratica, peccando così di orgoglio e di presunzione. A costoro si preannunzia l’insuccesso e la rovina (V.: Sal 1,4-5; 35,5). Per coloro che, nel mezzo di una sciagura che si è abbattuta su tutto il popolo, si aggrappano a false sicurezze, come potrebbero essere il denaro o l’adorazione degli dèi degli invasori, non c’è speranza. Essi saranno spazzati via dalla disgrazia e non avranno un futuro.
Diverso sarà invece il destino dei giusti. Costoro sono quella parte del popolo che si mantiene fedele a DIO e agli impegni presi con Lui nel contesto dell’alleanza. Essi non si lasciano intimidire dalle violenze degli invasori e rifiutano di venire a patti con loro. Di costoro si dice che “vivranno”. In un contesto in cui si parla di giustizia, la vita che viene loro garantita non è la semplice sopravvivenza, ma la vita piena in comunione con Dio che comporta anche il benessere materiale (V. Dt 30,15-16; Pr 10,27-28\; 11,19). Solo loro vedranno la fine della calamità e potranno ritornare a una vita tranquilla e senza eccessive tribolazioni.
Abacuc vuole capire l’agire di Dio, ma non vi riesce. Dopo le sue proteste, tace e attende e da vera persona di fede accetta di soffrire. Abacuc testimonia che la persona di fede è quella che resta fedele a Dio proprio nelle situazioni che umanamente sembrano insopportabili e incomprensibili.
Da profeta capisce che la vera giustizia è nelle mani di Dio e lascia a Dio la gloria di intervenire quando lo crede opportuno. Lui è “come sentinella”, aspetta ma nell’attesa continua a lodare Dio. Non si accontenta di risposte superficiali, accetta piuttosto di rimanere senza risposte e, anche se non vede segni di cambiamento, sceglie di continuare a confidare solo nel Signore. Questa è fede autentica!
Salmo 94 Ascoltate oggi la voce del Signore.
Venite, cantiamo al Signore,
acclamiamo alla roccia della nostra salvezza.
Accostiamoci a lui per rendergli grazie,
a lui acclamiamo con canti di gioia.
Entrate, prostrati, adoriamo,
in ginocchio davanti al Signore che ci ha fatti.
E’ lui il nostro Dio, e noi il popolo del suo pascolo,
il gregge che egli conduce.
Se ascoltaste oggi la sua voce:
“Non indurite il cuore, come a Merìba,
come nel giorno di Massa nel deserto,
dove mi tentarono i vostri padri:
mi misero alla prova,pur avendo visto le mie opere”.
Il salmo è un invito alla preghiera durante una visita al tempio, probabilmente durante la festa delle capanne, che celebrava il cammino nel deserto (Cf. Dt 31,11), visto che il salmo ricorda l'episodio di Massa e Meriba.
Dio è presentato come “roccia della nostra salvezza”, indicando la roccia la sicurezza data da Dio di fronte ai nemici.
Egli è “grande re sopra tutti gli dei”; sono gli dei concepiti dai pagani, dietro i quali striscia l'azione dei demoni
Egli è colui che ha in suo potere ogni cosa: “Nella sua mano sono gli abissi della terra, sono sue le vette dei monti...”.
Il gruppo orante è invitato ad accostarsi a Dio, cioè ad entrare nell'atrio del tempio. Successivamente il gruppo è invitato a prostrarsi davanti al Signore. Segue l'invito ad ascoltare la voce del Signore. Nel silenzio dell'adorazione davanti al tempio Dio muove il cuore (“la sua voce”) indirizzandolo al bene, all'obbedienza dei comandamenti, al cambiamento della vita.
“Non indurite il cuore”; il cuore indurito non ascolta la voce del Signore e segue i suoi pensieri, ma si troverà a vagare nei deserti di un'esistenza senza Dio, senza alcun riposo.
Commento tratto da “Cantico dei Cantici” di P.Paolo Berti
Dalla seconda lettera di S.Paolo aspostolo a Timoteo
Figlio mio, ti ricordo di ravvivare il dono di Dio che è in te mediante l'imposizione delle mie mani. Dio infatti non ci ha dato uno spirito di timidezza, ma di forza, di carità e di prudenza.
Non vergognarti dunque di dare testimonianza al Signore nostro, né di me, che sono in carcere per lui; ma, con la forza di Dio, soffri con me per il Vangelo.
Prendi come modello i sani insegnamenti che hai udito da me con la fede e l’amore, che sono in Cristo Gesù. Custodisci mediante lo Spirito Santo che abita in noi, il bene prezioso che ti è stato affidato.
2 Tm 1:6-8.13-14
Questa seconda lettera a Timoteo si distingue dalla prima soprattutto perchè testimonia una tenera relazione di paternità spirituale di Paolo con il discepolo Timoteo. L’Apostolo la scrive quando è di nuovo prigioniero a Roma nel 67: le condizioni della prigionia sono dure, ben differenti da quelle della prima volta, quando predicava liberamente, in domicilio coatto (At 28,16).Paolo si sente solo, nessuno lo ha difeso in tribunale: i suoi giorni sono contati e si prepara al sacrificio supremo. Lo preoccupa ciò che accade nelle comunità: tutte le idee nuove e strane trovano sostenitori che raccolgono successi a discapito del Vangelo, dell’unità e della missione.
Il brano si apre con lì esortazione spirituale a Timoteo: ti ricordo di ravvivare il dono di Dio che è in te mediante l'imposizione delle mie mani. Timoteo deve perciò costantemente ravvivare il “dono” che ha ricevuto da Dio mediante l'imposizione delle mani fatta personalmente da parte di Paolo. Questo carisma è legato alla testimonianza coraggiosa che si fonda sullo Spirito:“Dio infatti non ci ha dato uno spirito di timidezza, ma di forza, di carità e di prudenza”.
Le tre qualità connesse con il dono dello Spirito sono quelle che deve avere ogni credente, del quale Timoteo è il modello: forza, amore e saggezza. Esse sono contrapposte alla “timidezza”, che consiste nella paura e nella pigrizia. Poi l’apostolo invita alla testimonianza: Non vergognarti dunque di dare testimonianza al Signore nostro, né di me, che sono in carcere per lui; ma, con la forza di Dio, soffri con me per il Vangelo. La testimonianza riguarda l'annuncio coraggioso del vangelo e la perseveranza nelle prove. I versi omessi dalla liturgia, danno la motivazione teologica di questa testimonianza. In essi si sottolinea l’iniziativa gratuita e efficace di Dio per la salvezza, la realizzazione della salvezza in Gesù Cristo e infine la sua attuazione storica per mezzo dell'annuncio del vangelo, di cui Paolo è stato incaricato. Il brano termina con un’esortazione: Prendi come modello i sani insegnamenti che hai udito da me con la fede e l’amore, che sono in Cristo Gesù. Custodisci mediante lo Spirito Santo che abita in noi, il bene prezioso che ti è stato affidato. Timoteo ha avuto in consegna da Paolo il patrimonio della fede genuina, nonché l’esperienza dell’amore, di cui egli è stato maestro. Ora egli deve custodire il bene prezioso, assieme al quale ha ricevuto la garanzia di conservarlo e trasmetterlo integro, cioè l’opera dello Spirito santo che rimane come energia interiore nei credenti.
L’invito alla fedeltà e alla perseveranza cristiana contenuto in questo brano anche se è diretto soprattutto ai responsabili ecclesiastici, dei quali Timoteo è il rappresentante ideale, il tono generale delle espressioni è indirizzato però a tutti i credenti. Paolo esortando il discepolo Timoteo incoraggia tutti i discepoli di ogni tempo e di ogni luogo alla fedeltà, alla perseveranza nelle prove, e a restare fedeli al Vangelo.
Dal vangelo secondo Luca
In quel tempo, gli apostoli dissero al Signore: “Accresci in noi la fede!”. Il Signore rispose: “Se aveste fede quanto un granello di sènape, potreste dire a questo gelso: “Sradicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe.
Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà quando rientra dal campo: Vieni subito e mettiti a tavola? Non gli dirà piuttosto: Prepara da mangiare, stringiti le vesti ai fianchi e servimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”.
Lc 17, 5-10
Siamo ancora nella parte dedicata al viaggio di Gesù verso Gerusalemme e dopo la parabola del ricco epulone e del povero Lazzaro, Luca riporta alcuni detti di Gesù. I primi due, omessi dal brano liturgico, riguardano rispettivamente lo scandalo e la correzione fraterna. Il testo liturgico riporta invece il terzo detto, che è un’istruzione riguardante la fede e la successiva parabola del servo che torna dalla campagna.
Il brano inizia riportando la richiesta degli apostoli che dicono a Gesù: "Aumenta la nostra fede“. Gesù però non risponde dicendo cosa devono fare, ma dà loro un criterio descrittivo per vedere quanta fede hanno: "Se aveste fede quanto un granello di sènape, potreste dire a questo gelso: “Sradicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe”. Un granello di senape è microscopico, quasi invisibile, ma una volta seminato cresce moltissimo, e nell'arco di un anno quel piccolo seme può divenire un albero. Il gelso, invece, è un albero secolare che può vivere anche 600 anni, ha radici profonde, che si abbarbicano nella terra. E' un albero, simbolo di stabilità, molto difficile da sradicare, ed è per questo che Gesù dice: "Se aveste un po' di fede vera, nulla vi sarebbe impossibile. Nessun ostacolo potrebbe fermare il vostro cammino".
Al discorso sulla fede fa seguito una parabola conosciuta solo da Luca:” Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà quando rientra dal campo: Vieni subito e mettiti a tavola? Non gli dirà piuttosto: Prepara da mangiare, stringiti le vesti ai fianchi e servimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? Questo breve racconto riflette la situazione sociale al tempo di Gesù, quando i possidenti ebrei potevano avere dei servi, questi erano a loro completa disposizione, non solo per il lavoro nei campi, ma anche per ogni altra prestazione.
L’aspetto su cui il racconto intende far leva viene espresso mediante la domanda: il padrone è forse tenuto ad essere grato al servo perché ha fatto tutto quello che gli era stato comandato?
La parabola intende dunque mettere in risalto, non il comportamento del padrone, ma quello del servo, il quale, qualunque servizio faccia, non ha diritto, proprio per il suo stato sociale, ad una ricompensa. Questa potrà essergli data, se il padrone lo vorrà, come puro dono gratuito, e non come pagamento. Questa parabola si contrappone alla mentalità di tipo farisaico secondo cui la felicità eterna dipende dai meriti che ciascuno riesce a farsi in questa vita.
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Il brano del Vangelo comincia così: «In quel tempo gli apostoli dissero al Signore: “Accresci in noi la fede!”» Mi pare che tutti noi possiamo fare nostra questa invocazione. Anche noi come gli Apostoli diciamo al Signore Gesù: “Accresci in noi la fede!”. Sì, Signore, la nostra fede è piccola, la nostra fede è debole, fragile, ma te la offriamo così com’è, perché Tu la faccia crescere. …
E il Signore che cosa ci risponde? Risponde: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sradicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe» Il seme della senape è piccolissimo, però Gesù dice che basta avere una fede così, piccola, ma vera, sincera, per fare cose umanamente impossibili, impensabili. Ed è vero! Tutti conosciamo persone semplici, umili, ma con una fede fortissima, che davvero spostano le montagne! Pensiamo, per esempio, a certe mamme e papà che affrontano situazioni molto pesanti; o a certi malati, anche gravissimi, che trasmettono serenità a chi li va a trovare. Queste persone, proprio per la loro fede, non si vantano di ciò che fanno, anzi, come chiede Gesù nel Vangelo, dicono: «Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare». Quanta gente tra noi ha questa fede forte, umile, e che fa tanto bene!
In questo mese di ottobre, che è dedicato in particolare alle missioni, pensiamo a tanti missionari, uomini e donne, che per portare il Vangelo hanno superato ostacoli di ogni tipo, hanno dato veramente la vita; come dice san Paolo a Timoteo: «Non vergognarti di dare testimonianza al Signore nostro, né di me, che sono in carcere per lui; ma, con la forza di Dio, soffri con me per il Vangelo» . Questo però riguarda tutti: ognuno di noi, nella propria vita di ogni giorno, può dare testimonianza a Cristo, con la forza di Dio, la forza della fede. La fede piccolissima che noi abbiamo, ma che è forte! Con questa forza dare testimonianza di Gesù Cristo, essere cristiani con la vita, con la nostra testimonianza!
E come attingiamo questa forza? La attingiamo da Dio nella preghiera. La preghiera è il respiro della fede: in un rapporto di fiducia, in un rapporto di amore, non può mancare il dialogo, e la preghiera è il dialogo dell’anima con Dio. ….
La fede è anzitutto un dono che noi abbiamo ricevuto. Ma per portare frutti, la grazia di Dio richiede sempre la nostra apertura a Lui, la nostra risposta libera e concreta. Cristo viene a portarci la misericordia di Dio che salva. A noi è chiesto di affidarci a Lui, di corrispondere al dono del suo amore con una vita buona, fatta di azioni animate dalla fede e dall’amore.
Papa Francesco
Parte dell’Angelus del 6 ottobre 2013