La prima domenica dopo Pasqua, prima di chiamarsi della Divina Misericordia, era chiamata "domenica in albis". Questo nome era dovuto perchè ai primi tempi della Chiesa il battesimo era amministrato durante la notte di Pasqua, ed i battezzandi indossavano una tunica bianca che portavano poi per tutta la settimana successiva, fino alla prima domenica dopo Pasqua, detta perciò "domenica in cui si depongono le vesti bianche" ("in albis depositis"). Questa domenica dal 2000 è stata proclamata Festa della Divina Misericordia per volontà del Papa Giovanni Paolo II, come testimonia la sua seconda Enciclica “Dives in Misericordia”, scritta nel 1980.
La liturgia pasquale si distende per l’arco intero di sette settimane con altrettante domeniche pasquali che sono prevalentemente costruite su alcuni ritratti della Chiesa del Cristo Risorto, con le sue gioie, le sue attese, la sua fede, ma anche con le sue prime ansie.
Nella liturgia di oggi, nella prima lettura tratta dal Libro degli Apostoli, Luca ci presenta la planimetria della Gerusalemme cristiana, la Chiesa-madre che nel cenacolo ha la sua prima cattedrale che si erge su quattro pilastri: l’insegnamento degli apostoli; la frazione del pane, cioè l’ eucaristia; le preghiere; e la koimonia, cioè l’amore fraterno .
Nella seconda lettura, tratta dalla prima lettera di Pietro, troviamo un antico inno battesimale in cui si benedice Dio per l’opera di salvezza operata tramite il Cristo, la quale è per il credente rigenerazione e apertura nella speranza, verso una salvezza totale.
Il Vangelo di Giovanni riporta l’incontro di Gesù risorto con gli apostoli e il suo saluto: Pace a Voi ! L’episodio di Tommaso, con i suoi umanissimi dubbi, è particolarmente utile per tutti coloro che procedono a tentoni in una valle oscura alla ricerca di Dio. Tommaso alla fine è stato in grado di proclamare la sua fede con una purezza straordinaria, forse la più alta del quarto Vangelo: “Mio Signore e mio Dio!”
Dagli Atti degli Apostoli
Quelli che erano stati battezzati erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere. Un senso di timore era in tutti, e prodigi e segni avvenivano per opera degli apostoli.
Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno. Ogni giorno erano perseveranti insieme nel tempio e, spezzando il pane nelle case, prendevano cibo con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo il favore di tutto il popolo. Intanto il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati.
At 2,42-47
L’evangelista Luca nell’intento di riportare nel libro degli Atti degli Apostoli la diffusione e la crescita della Chiesa, mette in questo primo sommario, una descrizione della comunità primitiva che trova il suo modello e la sua ispirazione nella più piccola comunità cristiana che sia mai esistita.
Fa anzitutto una presentazione generale della comunità: “erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere”. Ciò che qualifica la comunità è il fatto che tutti i suoi membri sono “perseveranti”, cioè animati da una dedizione personale e vissuta, che si manifesta nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli, nell’unione fraterna, nello spezzare il pane e nelle preghiere. Dopo aver presentato in sintesi la vita della comunità, Luca fa un accenno a quelle che erano le reazioni da parte degli estranei . “Un senso di timore era in tutti, e prodigi e segni avvenivano per opera degli apostoli”. Questi perciò avevano nei confronti dei membri della comunità un senso di “timore” determinato dai “prodigi e segni” compiuti dagli apostoli.
Luca ritorna poi al tema della vita interna della comunità: “Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno”. Queste due espressioni riflettono, come le altre usate da Luca in questo contesto, il tema greco dell’amicizia, ma usando il termine “credenti” fa rilevare che il vincolo che unisce i discepoli di Gesù non è un’amicizia umana, ma la fede nel comune Maestro. Essa parte dal cuore e si esprime nella messa in comune di affetti, esperienze, aspirazioni, in altre parole, di quello che rappresenta il senso della propria vita, così come ciascuno lo ha scoperto alla luce della fede comune.
L’unità tra i credenti arriva fino al punto che quanti possiedono dei beni li vendono e ne mettono il ricavato a disposizione degli altri, in proporzione del loro bisogno. Questa scelta di vita sarà ulteriormente sottolineata in seguito (4,32.34-35), subito dopo verrà presentato l’esempio positivo di Barnaba, che vende il suo campo e depone il ricavato ai piedi degli apostoli (4,36-37), e quello negativo di Anania e Saffira, i quali sono condannati non perché hanno consegnato solo parte del ricavato dalla vendita di una loro proprietà, ma perché hanno mentito agli apostoli (5,1-11). Proprio questi due esempi, nella loro diversità, mostrano che la scelta di vendere i propri beni e di metterne in comune il ricavato era lasciata alla discrezione di ognuno.
Ritornando al tema della preghiera, Luca sottolinea che “Ogni giorno erano perseveranti insieme nel tempio e, spezzando il pane nelle case, prendevano cibo con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo il favore di tutto il popolo”.
Nell’ambiente giudaico questa espressione indica il gesto rituale con cui si apriva il pasto in comune: il padre di famiglia o il capogruppo prendeva tra le mani la focaccia, rendeva grazie a Dio e la spezzava distribuendola poi ai commensali. Qui l’espressione indica il pasto fraterno con cui i cristiani ricordavano l’ultima cena di Gesù in cui Egli aveva interpretato profeticamente la Sua morte e aveva annunciato la speranza della piena comunione con loro nel regno di Dio . Il pasto comune dei cristiani dunque avveniva in un clima di letizia e di semplicità di cuore.
Il termine “letizia” è caro a Luca e indica la gioia festosa che accompagna l’esperienza o la speranza della salvezza messianica (Lc 1,14.44). Anche la “semplicità di cuore” è anch’essa un’espressione religiosa per definire la dedizione sincera e integra a Dio senza secondi fini.
Il comportamento dei primi discepoli era caratterizzato da una intensa lode a Dio e dal favore di tutto il popolo. Certamente una comunità unita, solidale, pronta a condividere anche i beni materiali, non può non suscitare attenzione e simpatia da parte di coloro che vengono a contatto con essa.
Luca conclude questo primo sommario con una espressione che userà più volte “il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati”.
Da questo versetto risulta che di per sé Luca non concepisce la comunità come uno strumento di salvezza, ma come la raccolta di coloro che sono salvati mediante un intervento diretto del Signore: ciò implica che la salvezza è opera esclusiva del Signore e ha un raggio d’azione che va ben oltre la comunità dei presenti.
Salmo 117- Rendete grazie al Signore perché è buono: il suo amore è per sempre.
Rendete grazie al Signore
perché è buono:il suo amore è per sempre.
Dica Israele: «Il suo amore è per sempre».
Dica la casa di Aronne:
«Il suo amore è per sempre».
Dicano quelli che temono il Signore:
«Il suo amore è per sempre».
La pietra scartata dai costruttori
è divenuta la pietra d’angolo.
Questo è stato fatto dal Signore:una meraviglia ai nostri occhi.
Questo è il giorno che ha fatto il Signore:
rallegriamoci in esso ed esultiamo!
L'origine storica di questo salmo è legata ad una imponente liturgia di ringraziamento, in occasione di uno straordinario evento nazionale, generalmente identificato con la grandiosa celebrazione della festa delle Capanne indetta da Neemia nel settimo mese dell'anno 444. Fin dalla strofa introduttiva d'invito alla lode, la voce del solista e dei cori si alternano con le acclamazioni dell'assemblea. L'invito viene rivolto, separatamente, a Israele, "alla casa di Aronne", a "chi teme Dio", e tutti rispondono acclamando: "il suo amore è per sempre".
Sapendo che il salmo era stato prescelto per chiudere la serie dell'Hallel, non è difficile ritrovarvi le analogie con la vicenda pasquale d'Israele che determinarono tale scelta. Ma se riflettiamo che senza ombra di dubbio, questo fu l'"inno" di cui parlano i vangeli, con il quale Gesù, chiuse la celebrazione della cena eucaristica, allora il senso pasquale del salmo si anima in un realismo unico ed insuperabile. …
…Se la Pasqua d'Israele è figura della Pasqua del Cristo, questo salmo è pienamente reale solo sulle labbra di lui, la sua verità profetica diviene verità storica solo a partire dalla sera di quel 14 di Nisan, questo è il salmo di "Cristo nostra Pasqua", il salmo messianico per eccellenza..
Commento tratto da “I Salmi” di Gianfranco Ravasi.
Dalla prima lettera di S.Pietro apostolo
Sia benedetto Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che nella sua grande misericordia ci ha rigenerati, mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti, per una speranza viva, per un’eredità che non si corrompe, non si macchia e non marcisce. Essa è conservata nei cieli per voi, che dalla potenza di Dio siete custoditi mediante la fede, in vista della salvezza che sta per essere rivelata nell’ultimo tempo.
Perciò siete ricolmi di gioia, anche se ora dovete essere, per un po’ di tempo, afflitti da varie prove, affinché la vostra fede, messa alla prova, molto più preziosa dell’oro – destinato a perire e tuttavia purificato con fuoco –, torni a vostra lode, gloria e onore quando Gesù Cristo si manifesterà. Voi lo amate, pur senza averlo visto e ora, senza vederlo, credete in lui. Perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa, mentre raggiungete la mèta della vostra fede: la salvezza delle anime.
1Pt 1,3-9
La Prima lettera di Pietro è uno scritto cristiano della fine del I secolo che si presenta come opera del grande apostolo di cui porta il nome, ma che secondo gli esperti è una raccolta di tradizioni che al massimo potrebbero risalire a Pietro o al suo ambiente. Non è una lettera vera e propria, ma un’omelia a sfondo battesimale, che si apre con l’indirizzo e una benedizione iniziale (1,1-5) a cui fa seguito il corpo della lettera che si divide in tre parti: 1) Identità e responsabilità dei rigenerati (1,6 - 2,10); 2) I cristiani nella società civile (2,11 - 4,11); 3) Presente e futuro della Chiesa (4,12 - 5,11).
Il brano inizia con una benedizione: “Sia benedetto Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che nella sua grande misericordia ci ha rigenerati, mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti, per una speranza viva, per un’eredità che non si corrompe, non si macchia e non marcisce”.
La benedizione è una preghiera diretta a Dio per lodarlo e ringraziarlo di tutti i benefici che ha elargito a Israele, ma viene anche designato come “Padre del Signore nostro Gesù Cristo”. È infatti nel suo rapporto con Gesù che Dio ha manifestato la Sua volontà salvifica in favore dell’umanità, rigenerandola. È la fedeltà di Dio verso il Suo popolo che sta all’origine della Sua decisione di dare ai credenti in Cristo una vita nuova e questa si attua come effetto della resurrezione di Cristo. La sicurezza di ottenere l’eredità oggetto della speranza, si basa sul fatto che essa è conservata nei cieli, cioè è affidata a Dio stesso, e quindi non può essere rubata da nessuno. Non solo, ma i cristiani stessi sono preservati nella loro condizione di eredi dalla potenza di Dio che li assiste sempre, richiedendo come unica condizione la fede in Lui.
Anche la situazione presente dei cristiani è dunque, non meno dell’eredità futura, un dono di Dio, per cui l’apostolo esorta ad essere: “ricolmi di gioia, anche se …, per un po’ di tempo, si può essere afflitti da varie prove, affinché la vostra fede, messa alla prova, …, torni a vostra lode, gloria e onore quando Gesù Cristo si manifesterà. Voi lo amate, pur senza averlo visto e ora, senza vederlo, credete in lui.”
La fede autentica si rivelerà dalle difficoltà che si superano, che derivano dal confronto che i cristiani devono sostenere continuamente con le persone e l’ambiente che li circondano. Queste prove, (che sono particolarmente pesanti anche per i cristiani d’oggi) hanno lo scopo non solo di aumentare la fede, ma anche di metterla in luce. A questo punto, c’è l’esortazione:”esultate di gioia indicibile e gloriosa, mentre raggiungete la mèta della vostra fede: la salvezza delle anime”.
La gioia che i cristiani devono avere a motivo del loro rapporto con Dio e con Cristo, non si può esprimere umanamente, perché è una gioia già pervasa di gloria, cioè manifesta la realtà divina che è già presente in loro. Anche se umanamente inesprimibile, questa gioia ha la sua ragione di essere e che consiste nel fatto che essi stanno per giungere al traguardo della loro fede, cioè la salvezza delle loro anime.
Dal vangelo secondo Giovanni
La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».
Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo».
Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!». Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.
Gv 20, 19-31
L’Evangelista Giovanni in questo brano ci racconta che i discepoli dopo la morte di Gesù, vivono nella paura e si sono chiusi nel cenacolo, ma Gesù entra nella casa a porte chiuse, perché il corpo del Risorto non ha più nessuno ostacolo, e rivolge loro il saluto messianico: "Pace a voi!“ Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco per far vedere le ferite dei chiodi e del colpo di lancia. (Giovanni è l'unico evangelista che riporta questo episodio e parla anche del colpo di lancia che ha trafitto il fianco di Cristo sulla croce).
Dopo aver dato loro per la seconda volta il saluto della pace, il Risorto affida ai discepoli la missione di essere suoi messaggeri, e con il dono dello Spirito, che li consacra alla missione, i discepoli ricevono anche il potere di rimettere i peccati.
Giovanni, dopo aver descritto il primo incontro di Gesù con i suoi la sera di Pasqua, precisa che Tommaso, quando venne Gesù, era assente e, da uomo molto pratico e razionale, non crede a quanto i compagni gli riferiscono, anzi dice che vuol vedere con i suoi occhi e toccare con le sue mani; non solo ma precisa che vuole persino mettere il dito al posto dei chiodi e la mano nella ferita del costato. Queste condizioni che Tommaso pone nel credere denotano una forte sofferenza interiore, una sofferenza di non poter ancora credere, che è comunque una forma di fede incompleta, ma sincera!
Nella seconda apparizione ai discepoli nel cenacolo, otto giorni dopo, Gesù, dopo aver salutato gli amici col dono della pace, si rivolge all'apostolo incredulo esortandolo a toccare le sue ferite per credere, e in questo invito il Signore prende quasi alla lettera le parole di Tommaso.
A questo invito Tommaso come folgorato esclama : «Mio Signore e mio Dio!» Nessun altro apostolo si era ancora spinto a dirgli: “Mio Dio”, non solo, ma l’aggettivo "mio" davanti a Signore e Dio denota anche un accento d'amore e di appartenenza. Gesù allora conclude: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!».
Tommaso è dunque entrato nel gruppo di coloro che, avendo visto, hanno creduto. Le parole di Gesù non rappresentano certo una critica nei confronti di coloro che appartengono a questa categoria, ma piuttosto esprimono un grande apprezzamento per tutti quelli che, pur non avendo avuto un’esperienza diretta di Gesù, hanno creduto sulla parola dei testimoni oculari.
Noi non possiamo fare a meno di riconoscere che con la sua incredulità Tommaso ci è stato più utile di tutti gli altri apostoli che hanno creduto subito. Così facendo, egli ha in un certo senso costretto Gesù a darci una prova tangibile sulla veridicità della sua resurrezione.
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Don Fabio Rosini ci dà qualche notizia in più su San Tommaso
Lo incontriamo tra gli Apostoli, senza nulla sapere della sua storia precedente. Il suo nome, in aramaico, significa “gemello”. Ci sono ignoti luogo di nascita e mestiere. Il Vangelo di Giovanni, al capitolo 11, ci fa sentire subito la sua voce, non proprio entusiasta. Gesù ha lasciato la Giudea, diventata pericolosa: ma all’improvviso decide di ritornarci, andando a Betania, dove è morto il suo amico Lazzaro. I discepoli trovano che è rischioso, ma Gesù ha deciso: si va. E qui si fa sentire la voce di Tommaso, obbediente e pessimistica: "Andiamo anche noi a morire con lui". E’ sicuro che la cosa finirà male; tuttavia non abbandona Gesù: preferisce condividere la sua disgrazia, anche brontolando.
Facciamo torto a Tommaso ricordando solo il suo momento famoso di incredulità dopo la risurrezione. Lui è ben altro che un seguace tiepido. Ma credere non gli è facile, e non vuol fingere che lo sia. Dice le sue difficoltà, si mostra com’è, ci somiglia, ci aiuta. Eccolo all’ultima Cena (Giovanni 14), stavolta come interrogante un po’ disorientato. Gesù sta per andare al Getsemani e dice che va a preparare per tutti un posto nella casa del Padre, soggiungendo: "E del luogo dove io vado voi conoscete la via". Obietta subito Tommaso, candido e confuso: "Signore, non sappiamo dove vai, e come possiamo conoscere la via?". Scolaro un po’ duro di testa, ma sempre schietto, quando non capisce una cosa lo dice. E Gesù riassume per lui tutto l’insegnamento: "Io sono la via, la verità e la vita". Ora arriviamo alla sua uscita più clamorosa, che gli resterà appiccicata per sempre, e troppo severamente. Giovanni, capitolo 20: Gesù è risorto; è apparso ai discepoli, tra i quali non c’era Tommaso. E lui, sentendo parlare di risurrezione “solo da loro”, esige di toccare con mano. E’ a loro che parla, non a Gesù. E Gesù viene, otto giorni dopo, lo invita a “controllare”... Ed ecco che Tommaso, il pignolo, vola fulmineo ed entusiasta alla conclusione, chiamando Gesù: “Mio Signore e mio Dio!”, come nessuno finora aveva mai fatto. E quasi gli suggerisce quella promessa per tutti, in tutti i tempi: "Beati quelli che, pur non avendo visto, crederanno".
Tommaso è ancora citato da Giovanni al capitolo 21 durante l’apparizione di Gesù al lago di Tiberiade. Gli Atti (capitolo 1) lo nominano dopo l’Ascensione. Poi più nulla: ignoriamo quando e dove sia morto. Alcuni testi attribuiti a lui (anche un “Vangelo”) non sono ritenuti attendibili. A metà del VI secolo, il mercante egiziano Cosma Indicopleuste scrive di aver trovato nell’India meridionale gruppi inaspettati di cristiani; e di aver saputo che il Vangelo fu portato ai loro avi da Tommaso apostolo. Sono i “Tommaso-cristiani”, comunità sempre vive nel XX secolo, ma di differenti appartenenze: al cattolicesimo, a Chiese protestanti e a riti cristiano-orientali.