La liturgia di questa domenica è impregnata dall’immagine poetica della vita campestre, ma anche drammatica della parabola della vigna e dei suoi vignaioli assassini.
Nella prima lettura tratta dal Libro del profeta Isaia, il Profeta afferma che, se la vigna, che simboleggia Israele oggetto delle cure premurose di Dio, diventa sterile o non produce più buoni frutti, il padrone può abbandonarla per sempre alla sua rovina.
Nella seconda lettura, nella sua lettera ai Filippesi, Paolo, dopo averli esortati a pregare con insistenza il Signore per ogni loro necessità, li incoraggia con parole molto belle e significative a verificare l’autenticità della loro fede: appartenere a Cristo, non significa allontanarsi dall’impegno di attuare, insieme a tanti altri fratelli, i valori e le realtà più comuni della vita e della convivenza umana, ma semplicemente di realizzarli ispirandosi agli insegnamenti e all’esempio di Gesù, e dello stesso Apostolo.
Nel Vangelo di Matteo, Gesù propone la parabola dei “vignaioli omicidi”, che richiama l’allegoria della vigna. Il racconto presenta un dramma: Gesù sente incombere su di sè la morte, sa che dopo pochi giorni verrà arrestato, processato, condannato, ucciso, e con il simbolismo della vigna parla di Israele che per le sue infedeltà vedrà sorgere altri popoli, “che daranno frutto a suo tempo”. Tuttavia Israele rimane e rimarrà sempre il popolo eletto, amato da Dio “perchè i doni di Dio sono irrevocabili”.
Dal libro del profeta Isaia
Voglio cantare per il mio diletto il mio cantico d’amore per la sua vigna.
Il mio diletto possedeva una vigna sopra un fertile colle.
Egli l’aveva dissodata e sgombrata dai sassi
e vi aveva piantato viti pregiate;
in mezzo vi aveva costruito una torre
e scavato anche un tino.
Egli aspettò che producesse uva;
essa produsse, invece, acini acerbi.
E ora, abitanti di Gerusalemme e uomini di Giuda,
siate voi giudici fra me e la mia vigna.
Che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna che io non abbia fatto?
Perché, mentre attendevo che producesse uva,
essa ha prodotto acini acerbi?
Ora voglio farvi conoscere ciò che sto per fare alla mia vigna:
toglierò la sua siepe e si trasformerà in pascolo;
demolirò il suo muro di cinta e verrà calpestata.
La renderò un deserto, non sarà potata né vangata
e vi cresceranno rovi e pruni;
alle nubi comanderò di non mandarvi la pioggia.
Ebbene, la vigna del Signore degli eserciti è la casa d’Israele;
gli abitanti di Giuda sono la sua piantagione preferita.
Egli si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue,
attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi.
Is 5,1-7
Il profeta Isaia (Primo Isaia autore dei capitoli 1-39) iniziò la sua opera pubblica verso la fine del regno di Ozia, re di Giuda, attorno al 740 a.C, quando l'intera regione siro-palestinese era minacciata dall'espansionismo assiro. Isaia fu anche uno degli ispiratori della grande riforma religiosa avviata dal buon re Ezechia (715-687 a.C) che mise al bando le usanze idolatre e animiste che gli ebrei avevano adottato imitando i popoli vicini. Isaia si è sempre scagliato contro i sacrifici umani (prevalentemente di bambini o ragazzi), i simboli sessuali, gli idoli di ogni forma e materiale. Altro bersaglio della riforma, e delle invettive di Isaia, furono le forme cultuali puramente esteriori, ridotte quasi a pratiche magiche.
Questo brano si apre con un prologo nel quale il profeta dice anzitutto di voler cantare, a nome del suo diletto, l'amore che questi ha per la sua vigna. Egli si presenta dunque come l'amico dello sposo, al quale spettava, in occasione di feste nuziali, esprimere con un cantico, l'amore dello sposo per la sposa, la quale nell'AT veniva spesso simboleggiata nella vigna.
Egli poi prosegue raccontando un evento: l'amico possedeva una vigna sopra un fertile colle...e dopo averlo vangato e sgombrato dai sassi, vi piantò viti pregiate, quindi vi costruì una torre per custodirlo e un tino per fare il vino; al termine si aspettava che la vigna producesse uva prelibata, e invece essa ha prodotto uva selvatica. A questo punto lo sposo, che aveva parlato tramite il suo amico, prende voce e afferma di voler intentare un processo alla sua vigna-sposa e chiama gli abitanti di Gerusalemme e di Giuda come testimoni-giudici e fa la sua requisitoria: Che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna che io non abbia fatto? …
Lo sposo deluso e amareggiato è dunque deciso a colpire la sposa infedele: il cantico d'amore si è così tramutato in una minaccia.
Il cantico della vigna è chiaramente un’allegoria, nella quale vengono raffigurati il dono fatto da Dio a Israele, l'infedeltà del popolo e il castigo che lo attende. Non si tratta però ancora di una condanna definitiva e irrevocabile, ma di un avvertimento il cui scopo è quello di richiamare il popolo alla conversione. L’allegoria della vigna rappresenta una delle espressioni più alte dell’amore di Dio per Israele. In essa Dio si presenta come un amante, che è spinto verso l’amata da una forte passione e da un desiderio ardente, per cui l’alleanza perde l’aspetto di un contratto giuridico e diventa l’espressione di un vero rapporto d’amore profondo.
La vicenda di Israele è simbolo dei rapporti di Dio con tutta l’umanità. Dio ama tutti i popoli e a tutti si rivela, chiamandoli ad essere strumento di una giustizia universale. Se per Israele si parla di un rapporto speciale con Dio, ciò significa che questo popolo si è sentito chiamato a fare in prima persona l’esperienza di una fedeltà piena al progetto di Dio che servisse come segno per l’umanità.
Israele è diventato così un simbolo, che mantiene tutto il suo valore anche quando il popolo è infedele a quei valori che ha messo alla base dell’alleanza. Il suo fallimento in questo campo, diventa così un forte richiamo a una ricerca, che tutti devono compiere e che non sarà mai conclusa su questa terra.
Salmo 79 La vigna del Signore è la casa d’Israele.
Hai sradicato una vite dall’Egitto,
hai scacciato le genti e l’hai trapiantata.
Ha esteso i suoi tralci fino al mare,
arrivavano al fiume i suoi germogli.
Perché hai aperto brecce nella sua cinta
e ne fa vendemmia ogni passante?
La devasta il cinghiale del bosco
e vi pascolano le bestie della campagna.
Dio degli eserciti, ritorna!
Guarda dal cielo e vedi e visita questa vigna,
proteggi quello che la tua destra ha piantato,
il figlio dell’uomo che per te hai reso forte.
Da te mai più ci allontaneremo,
facci rivivere e noi invocheremo il tuo nome.
Signore, Dio degli eserciti, fa’ che ritorniamo,
fa’ splendere il tuo volto e noi saremo salvi.
Il salmo venne scritto quando ancora l’arca non era distrutta, il che avvenne con la distruzione di Gerusalemme. Probabilmente è stato scritto dopo la presa di Samaria da parte dell’Assiro Sargon (721), e dopo che Gerusalemme, assediata dall’Assiro Sennacherib dopo la devastazione della Giudea, rimase indenne (701). Questo evento fece risaltare la potenza di Dio nel suo tempio di Gerusalemme, e rese sensibile la Samaria verso Gerusalemme, cosa che permetterà l’azione riformista di Giosia (640-609) anche in territorio Samaritano.
Il salmista è un pio Israelita delle tribù del nord (Samaria) che desidera che le tribù di Efraim, Beniamino e Manasse siano benedette da Dio, la cui gloria sta sui cherubini dell’arca, posta nel tempio di Gerusalemme; desidera la fine dello scisma samaritano: “Seduto sui cherubini, risplendi davanti a Efraim, Beniamino e Manasse. Risveglia la tua potenza e vieni a salvarci”.
A Dio, che guida Giuseppe “come un gregge”, il salmista chiede di manifestare nuovamente quella potenza che esercitò quando fece uscire “Giuseppe” dall’Egitto; intendendo per Giuseppe tutto Israele, finito in Egitto proprio a partire da lui (Gn 37,38).
Egli attraverso la bella immagine della vigna rievoca la storia di Israele: “Hai sradicato un vite dall’Egitto…”. Questa vite curata da lui ha esteso i suoi rami fino al Mediterraneo e fino al Libano: “La sua ombra copriva le montagne e i suoi rami i cedri più alti. Ha esteso i suoi tralci fino al mare, arrivavano al fiume i suoi germogli”. “Il fiume”, è l’Eufrate. Esso era lontano dalla Terra Promessa, ma indica fin dove giungeva l’influenza di Israele.
Il salmista è stordito di fronte alle sventure che si sono abbattute su Israele: “Signore, Dio degli eserciti, fino a quando fremerai di sdegno contro le preghiere del tuo popolo?”; “Perché hai aperto brecce nella sua città e ne fa vendemmia ogni passante ?”, ma non desiste dalla preghiera e invoca Dio, “Dio degli eserciti”, perché forte in battaglia per difendere i suo popolo: “Dio degli eserciti, ritorna! Guarda dal cielo e vedi e visita questa vigna, proteggi quello che la tua destra ha piantato, il figlio dell'uomo che per te hai reso forte”.
Il salmista riconosce la dinastia di Davide e ha la speranza che il re di Gerusalemme saprà risollevare le sorti di Israele, costui al presente era Ezechia (716-687): “Sia la tua mano sull’uomo della tua destra, sul figlio dell’uomo che per te hai reso forte”, ma nel futuro sarà il Cristo. Quell’uomo reso forte è ora ogni pontefice, ogni vescovo, ogni sacerdote, ogni diacono, ogni fedele, che tutti sono uno, nell’uno che è la Chiesa, corpo mistico di Cristo, e che si adoperano per portare nel mondo la vera pace, cioè Cristo.
Commento di P.Paolo Berti
Dalla lettera di S.Paolo apostolo ai Filippesi
Fratelli, non angustiatevi per nulla, ma in ogni circostanza fate presenti a Dio le vostre richieste con preghiere, suppliche e ringraziamenti. E la pace di Dio, che supera ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e le vostre menti in Cristo Gesù.
In conclusione, fratelli, quello che è vero, quello che è nobile, quello che è giusto, quello che è puro, quello che è amabile, quello che è onorato, ciò che è virtù e ciò che merita lode, questo sia oggetto dei vostri pensieri. Le cose che avete imparato, ricevuto, ascoltato e veduto in me, mettetele in pratica. E il Dio della pace sarà con voi!
Fl 4,6-9
Paolo continuando la sua lettera ai Filippesi in questo brano fa due esortazioni:
La prima riguarda il rapporto con Dio: “non angustiatevi per nulla, ma in ogni circostanza fate presenti a Dio le vostre richieste con preghiere, suppliche e ringraziamenti”.
Il vero credente non deve preoccuparsi, anche quando incombono le difficoltà della vita quotidiana e le tribolazioni derivanti dalle persecuzioni: in qualsiasi situazione Paolo propone come sostegno e conforto la preghiera, che consiste in un dialogo continuo con Dio e si manifesta con suppliche e ringraziamenti.
Nei momenti difficili della vita, il credente non deve soltanto chiedere ciò di cui crede di aver bisogno, ma anche riconoscere ciò che Dio gli ha già dato e continua a dargli.
Supplica e ringraziamento, per esempio, sono due elementi costitutivi e indissolubili della preghiera dei salmi. Questo tipo di preghiera ha un effetto infallibile: “E la pace di Dio, che supera ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e le vostre menti in Cristo Gesù.
La pace è un dono di Dio, nel quale sono racchiusi tutti i beni da Lui promessi e condensati nella persona di Cristo. Essa va al di là di quanto la ragione può capire e proporre e abbraccia non solo i cuori, ma anche i pensieri di chi crede e vive per Lui.
La seconda esortazione riguarda invece più direttamente la vita quotidiana: “In conclusione, fratelli, quello che è vero, quello che è nobile, quello che è giusto, quello che è puro, quello che è amabile, quello che è onorato, ciò che è virtù e ciò che merita lode, questo sia oggetto dei vostri pensieri.
L’apostolo qui raccomanda un ideale di condotta che si ispira ad elenchi di virtù raccomandate anche nell’ambiente della filosofia popolare, i cui valori erano già stati assorbiti dal giudaismo ellenistico.
In sintesi i credenti devono perseguire come ideale di vita quello che già la tradizione sapienziale biblica e il pensiero filosofico greco avevano sviluppato e proposto.
Paolo conclude dicendo: “Le cose che avete imparato, ricevuto, ascoltato e veduto in me, mettetele in pratica. E il Dio della pace sarà con voi!”. Non si limita così a proporre delle virtù astratte, ma indica se stesso come esempio. I filippesi devono compiere ciò che hanno imparato e ricevuto, ascoltato e veduto da lui. In altre parole l’imitazione non deve essere esterna e superficiale, ma deve partire da un insieme di requisiti ricevuti e fatti propri. In conclusione ritorna così il tema della pace, che è sempre dono di Dio, ma è anche la caratteristica di quel Dio che abiterà nei cuori di coloro che sapranno ascoltare la Sua voce.
Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: «Ascoltate un’altra parabola: c’era un uomo, che possedeva un terreno e vi piantò una vigna. La circondò con una siepe, vi scavò una buca per il torchio e costruì una torre. La diede in affitto a dei contadini e se ne andò lontano.
Quando arrivò il tempo di raccogliere i frutti, mandò i suoi servi dai contadini a ritirare il raccolto. Ma i contadini presero i servi e uno lo bastonarono, un altro lo uccisero, un altro lo lapidarono. Mandò di nuovo altri servi, più numerosi dei primi, ma li trattarono allo stesso modo. Da ultimo mandò loro il proprio figlio dicendo: “Avranno rispetto per mio figlio!”. Ma i contadini, visto il figlio, dissero tra loro: “Costui è l’erede. Su, uccidiamolo e avremo noi la sua eredità!”. Lo presero, lo cacciarono fuori dalla vigna e lo uccisero. Quando verrà dunque il padrone della vigna, che cosa farà a quei contadini?». Gli risposero: «Quei malvagi, li farà morire miseramente e darà in affitto la vigna ad altri contadini, che gli consegneranno i frutti a suo tempo».
E Gesù disse loro: «Non avete mai letto nelle Scritture:
“La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la pietra d’angolo; questo è stato fatto dal Signore ed è una meraviglia ai nostri occhi”? Perciò io vi dico: a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti».
Mt 21, 33-43
Il brano che la liturgia ci propone, ci riporta nella stessa atmosfera di domenica scorsa. Gesù continua a parlare in parabole ed ora descrive l’iniziativa di un proprietario terriero: “Ascoltate un’altra parabola: c’era un uomo, che possedeva un terreno e vi piantò una vigna. La circondò con una siepe, vi scavò una buca per il torchio e costruì una torre. La diede in affitto a dei contadini e se ne andò lontano.
Il tema della vigna si collega a quello di Israele in quanto popolo eletto (Is 27,2-5) e in modo particolare si fa riferimento a Isaia 5, che troviamo nella prima lettura, in cui c’è l’allegoria della vigna
Il fatto riportato nel racconto non è inverosimile nella situazione della Palestina all'epoca di Gesù: allora era facile infatti che ricchi proprietari terrieri affittassero i loro podere ad agricoltori locali e andassero a vivere in altri luoghi.
Al momento del raccolto, il padrone della vigna esige dai vignaioli la parte dei frutti che gli spetta, per cui “mandò i suoi servi dai contadini a ritirare il raccolto. Ma i contadini presero i servi e uno lo bastonarono, un altro lo uccisero, un altro lo lapidarono. Mandò di nuovo altri servi, più numerosi dei primi, ma li trattarono allo stesso modo”. Dopo aver constatato l’insuccesso dei servi, il padrone decide di fare un ultimo tentativo: Da ultimo mandò loro il proprio figlio dicendo: “Avranno rispetto per mio figlio!”. Ma i contadini, visto il figlio, dissero tra loro: “Costui è l’erede. Su, uccidiamolo e avremo noi la sua eredità!”. Lo presero, lo cacciarono fuori dalla vigna e lo uccisero.
La parabola termina con un commento fatto dagli ascoltatori interpellati direttamente da Gesù: “Quando verrà dunque il padrone della vigna, che cosa farà a quei contadini?». Gli risposero: «Quei malvagi, li farà morire miseramente e darà in affitto la vigna ad altri contadini, che gli consegneranno i frutti a suo tempo”. Matteo riporta l’interpretazione della parabola che Gesù stesso avrebbe dato mediante la citazione di un salmo:E Gesù disse loro: «Non avete mai letto nelle Scritture: “La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la pietra d’angolo; questo è stato fatto dal Signore ed è una meraviglia ai nostri occhi”?
Matteo dopo la citazione del salmo aggiunge un nuovo detto esplicativo di Gesù: “Perciò io vi dico: a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti”.
La parabola dei vignaioli Gesù l’ha narrata alla fine del suo ministero. Anche se sente incombere su di sé la morte, non smette di invitare i suoi ascoltatori a comprendere l'importanza dell'ora che stavano vivendo, facendo balenare il castigo a cui sarebbero andati incontro se non avessero accolto il regno di Dio che egli annunziava.
Matteo nel riportare questo racconto teneva certamente presente la tensione che allora correva tra la Chiesa appena nata e Israele, il popolo a cui apparteneva Cristo e i primi cristiani. Infatti la finale della parabola è chiara: il padrone darà la vigna ad altri contadini, che gli consegneranno i frutti a suo tempo …. a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti».
Il rifiuto di Israele, però, viene interpretato come un segno universale e non razziale: esso rappresenta ogni peccato e ogni incredulità, come l’accoglienza del nuovo popolo che fa fruttificare la vigna non è che la continuazione dell’Israele fedele che accolse la voce dei profeti e credette.
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Il contesto immediato della parabola dei vignaioli omicidi riguarda il rapporto tra Dio e il popolo d'Israele. È ad esso che storicamente Dio ha inviato dapprima i profeti e poi il suo stesso Figlio. Ma come tutte le parabole di Gesù, essa è una "storia aperta". Nella vicenda Dio-Israele viene tracciata la storia del rapporto tra Dio e l'umanità intera.
Gesù riprende e continua il lamento di Dio in Isaia della prima lettura. È lì che si deve cercare la chiave di lettura e il tono della parabola. Perché Dio ha "piantato la vigna" e quali sono "i frutti" che si aspetta e che a suo tempo viene a cercare? Qui la parabola si distacca dalla realtà. I vignaioli umani non piantano certo una vigna e non vi spendono le loro cure per amore della vigna, ma per il loro beneficio. Non così Dio. Egli crea l'uomo, entra in alleanza con lui, non per suo interesse, ma per il vantaggio dell'uomo, per puro amore. I frutti che si aspetta dall'uomo sono l'amore per lui e la giustizia verso gli oppressi: tutte cose che servono al bene dell'uomo, non di Dio.
Questa parabola di Gesù è terribilmente attuale applicata alla nostra Europa e in genere al mondo cristiano. Anche in questo caso bisogna dire che Gesù è stato "cacciato fuori della vigna", estromesso da una cultura che si proclama post-cristiana, o addirittura anti-cristiana. Le parole dei vignaioli risuonano, se non nelle parole almeno nei fatti, nella nostra società secolarizzata: "Uccidiamo l'erede e sarà nostra l'eredità!".
Non si vuole più sentire parlare di radici cristiane dell'Europa, di patrimonio cristiano. L'uomo secolarizzato vuole essere lui l'erede, il padrone. Sartre mette in bocca a un suo personaggio queste terribili dichiarazioni: "Non c'è più nulla in cielo, né Bene, né Male, né persona alcuna che possa darmi degli ordini. [...] Sono un uomo, e ogni uomo deve inventare il proprio cammino".
Quella che ho indicato è una applicazione per così dire "a banda larga" della parabola. Ma quasi sempre le parabole di Cristo hanno anche una applicazione a banda stretta, o a livello individuale: si applicano a ogni singola persona, non solo all'umanità o alla cristianità in genere. Siamo invitati a chiederci: che sorte ho riservato io a Cristo nella mia vita? Come corrispondo all'incomprensibile amore di Dio per me? Non l'ho per caso anch'io cacciato fuori delle mura della mia casa, della mia vita...cioè dimenticato, ignorato.
Ricordo che un giorno ascoltavo questa parabola durante una Messa, mentre ero abbastanza distratto. Arrivato al punto in cui si sente il padrone della vigna dire tra sé: "Avranno rispetto di mio Figlio", ebbi un soprassalto. Capii che quelle parole erano rivolte personalmente a me, in quel momento. Adesso il Padre celeste stava per mandare a me il Figlio nel sacramento del suo corpo e del suo sangue; ero compreso della grandezza del momento? Ero pronto ad accoglierlo con rispetto, come il Padre si aspettava? Quelle parole mi richiamarono bruscamente dai miei pensieri...
Aleggia nella parabola dei vignaioli omicidi un senso di rammarico, di delusione. Non si direbbe davvero una storia a lieto fine! Ma a leggerla in profondità, essa parla solo dell'amore incredibile di Dio per il suo popolo e per ogni sua creatura. Un amore che alla fine, anche attraverso le alterne vicende di smarrimenti e di ritorni, sarà sempre vittorioso e avrà l'ultima parola.
I rifiuti di Dio non sono mai definitivi, sono abbandoni pedagogici. Anche il rifiuto d'Israele che risuona velatamente nelle parole di Cristo: "Sarà tolto a voi il regno di Dio e sarà dato a un popolo che lo farà fruttificare", appartiene a questo genere, come è quello descritto da Isaia nella prima lettura. Abbiamo visto, del resto, che questo pericolo incombe anche sulla cristianità, o almeno su vaste parti di essa.
Scrive S. Paolo nella lettera ai Romani: "Dio avrebbe forse ripudiato il suo popolo? Impossibile! Anch'io infatti sono Israelita, della discendenza di Abramo, della tribù di Beniamino...Dio non ha ripudiato il suo popolo, che egli ha scelto fin da principio....Forse inciamparono per cadere per sempre? Certamente no. Ma a causa della loro caduta la salvezza è giunta ai pagani, per suscitare la loro gelosia. Se infatti il loro rifiuto ha segnato la riconciliazione del mondo, quale potrà mai essere la loro riammissione, se non una risurrezione dai morti?" (Rom 11, 1 ss.).
Nella settimana appena trascorsa, il 29 Settembre, i fratelli hanno celebrato la loro festa forse più sentita il Capodanno, detto presso di loro Rosh Ha-shanà. Vorrei cogliere questa occasione per far giungere ad essi il mio augurio di pace e di prosperità. Con l'Apostolo Paolo grido anch'io: "Sia pace su tutto l'Israele di Dio".
commento di padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap. – predicatore della Casa Pontificia .