La liturgia di questa domenica ci invita ad esaminare quale sia la nostra autenticità di cristiani e accogliere con fede gli ammonimenti che Gesù rivolge alla nostra coscienza, per assumere un comportamento conforme ad essi.
Nella prima lettura, tratta dal libro del profeta Malachia, Dio per bocca del suo profeta, rimprovera con severità i sacerdoti del tempio che si sono allontanati dalla vita del Signore e sono di scandalo per i fedeli del loro tempo. Il profeta li invita ad essere uniti nel bene guardando all’unico Dio.
Nella seconda lettura, Paolo ai cristiani di Tessalonica, racconta la premura che ha avuto nei loro riguardi e riconosce che loro hanno compreso che la parola che lui aveva annunciata, non poteva essere umana, ma parola di Dio
Nel Vangelo di Matteo, troviamo Gesù che rimprovera aspramente le guide spirituali d’Israele. La scena si svolge nell’atmosfera del processo silenzioso, ma palpabile che i capi religiosi di Gerusalemme stanno intendando a Gesù, prima di trascinarlo realmente davanti alla magistratura ordinaria. Il Signore Gesù, denunciando questo comportamento ipocrita vuole invitarci a vigilare su questo aspetto: se gli altri cercano la fama, il successo, l’applauso, il consenso, non così deve essere per chi vuole davvero seguirlo.
Dal libro del profeta Malachia
Io sono un re grande – dice il Signore degli eserciti – e il mio nome è terribile fra le nazioni.
Ora a voi questo monito, o sacerdoti. Se non mi ascolterete e non vi prenderete a cuore di dare gloria al mio nome, dice il Signore degli eserciti, manderò su di voi la maledizione e cambierò in maledizione le vostre benedizioni.
Voi vi siete allontanati dalla retta via
e siete stati d’inciampo a molti
con il vostro insegnamento;
avete distrutto l’alleanza di Levi,
dice il Signore degli eserciti.
Perciò anche io vi ho reso spregevoli
e abietti davanti a tutto il popolo,
perché non avete osservato le mie disposizioni
e avete usato parzialità riguardo alla legge.
Non abbiamo forse tutti noi un solo padre? Forse non ci ha creati un unico Dio? Perché dunque agire con perfidia l’uno contro l’altro, profanando l’alleanza dei nostri padri?
Ml 1,14b-2:2b,8-10
Malachia (il cui nome significa “mio messaggero” ) è l’ultimo dei profeti minori dell’A.T., che gli ebrei chiamano per questo “Sigillo dei profeti”. Si sa poco della sua vita, era della tribù di Zabulon e nacque a Sofa; visse certamente dopo l’esilio babilonese (538 a.C.), durante la dominazione persiana, tuttavia non si può determinare con certezza se le sue profezie siano anteriori, contemporanee o posteriori al periodo di quando svolgevano la loro opera i due riformatori Esdra. (sommo sacerdote ebreo, codificatore del giudaismo, V-IV secolo a.C.) e Neemia, governatore della Giudea. Costoro infatti denunziano gli stessi abusi contro cui egli ha combattuto. Ciò si ricava senza difficoltà dal semplice elenco dei temi affrontati da Malachia nei suoi oracoli, i quali sono stati raccolti senza un ordine specifico. Nella requisitoria contro il malcostume egli è intransigente e condanna i matrimoni misti, difende la indissolubilità del matrimonio, ecc. Il libro, che porta il suo nome, termina con una visione escatologica (cioè quello che seguirà alla vita terrena e alla fine del mondo), annunciante la venuta del messaggero di Dio, che farà una cernita dei buoni nel suo popolo; in questa profezia si può prefigurare la venuta di Giovanni Battista. I Padri sono concordi nel vedere in Malachia il preannunzio profetico del sacrificio della Messa, con Gerusalemme che perde il titolo di “luogo dove bisogna adorare”, e Gesù che istituisce il rito eucaristico per tutta l’umanità.
Nei versetti precedenti il brano liturgico, dopo aver segnalato le colpe commesse dai sacerdoti, il Signore continua a proclamare: “Io sono un re grande …. e il mio nome è terribile fra le nazioni”.
Il titolo di “re” è stato attribuito al Signore durante l’esodo: infatti Israele sarà tra tutti i popoli la sua “proprietà” particolare (Es 19,5), cioè un popolo che, a differenza di tutti gli altri, sarà governato direttamente dal Signore. La regalità diventa così una prerogativa che riguarda la natura stessa di Dio, ma che sulla terra si manifesterà pienamente solo alla fine dei tempi (V.Dn 2,36-45; 7,27). Su questa linea Malachia immagina il Signore come il “grande re”, il cui potere, a immagine degli imperi dell’antichità, si estende su tutta la terra: perciò il suo nome è “terribile” (ossia temuto) fra le nazioni, in quanto suscita un misto di sentimenti che vanno dalla paura alla venerazione.
In questa veste di sovrano universale, il Signore si rivolge anzitutto ai sacerdoti:
“Ora a voi questo monito, o sacerdoti. Se non mi ascolterete e non vi prenderete a cuore di dare gloria al mio nome, dice il Signore degli eserciti, manderò su di voi la maledizione e cambierò in maledizione le vostre benedizioni”.
Siccome questo re supremo risiede nel tempio di Gerusalemme, i suoi ministri sono anzitutto i sacerdoti che vi operano. Dopo le accuse circostanziate sollevate contro di loro, viene ora un monito, cioè un duro richiamo ai loro doveri, ai quali sono collegate severe sanzioni in caso di trasgressione.
Ai sacerdoti erano promesse particolari benedizioni (Es 32,29; cfr. Es 29; Lv 8-9), che comportavano privilegi speciali, come prelevare parti delle vittime, ottenere abitazioni e ricevere terre da coltivare. Se essi però non ascoltano, cioè non obbediscono al loro Dio e non danno gloria al suo nome, non solo saranno privati delle benedizioni a loro assegnate, ma queste si trasformeranno in maledizioni: in breve perderanno i loro privilegi, e in più saranno disprezzati ed oppressi.
Nei successivi vv. 2b-7 (omessi dalla liturgia), il profeta mostra come tali maledizioni si siano già attuate, e porta come motivo il fatto che i sacerdoti hanno tradito l’alleanza che il Signore aveva concluso con Levi, loro progenitore (Dt 33,8-11): in base ad essa le labbra del sacerdote, in quanto “messaggero” del Signore, avrebbero dovuto custodire la “conoscenza” e dalla sua bocca si sarebbe aspettata l’”istruzione”. Al sacerdote compete dunque l’insegnamento dei comandamenti di Dio, frutto di una profonda esperienza personale (conoscenza) di Dio stesso. In mancanza di ciò il sacerdote perde la sua ragione di essere e la sua posizione sociale.
Dopo aver indicato ciò che Dio si aspettava dai sacerdoti, il profeta prosegue nella sua accusa:
“Voi vi siete allontanati dalla retta via e siete stati d’inciampo a molti con il vostro insegnamento; avete distrutto l’alleanza di Levi, dice il Signore degli eserciti. Perciò anche io vi ho reso spregevoli e abietti davanti a tutto il popolo, perché non avete osservato le mie disposizioni e avete usato parzialità riguardo alla legge”.
La colpa dei sacerdoti consiste nell’essersi allontanati dalla retta via, e di conseguenza nell’aver allontanato molti dall’incontro con il Signore a motivo del loro cattivo esempio e dei loro consigli sbagliati. Essi hanno rotto l’alleanza di Levi, cioè sono venuti meno ai loro doveri , alle condizioni del servizio che spettava loro in quanto discendenti di Levi.
Nel versetto conclusivo del testo liturgico si coglie uno spiraglio di speranza:
“Non abbiamo forse tutti noi un solo padre? Forse non ci ha creati un unico Dio? Perché dunque agire con perfidia l’uno contro l’altro, profanando l’alleanza dei nostri padri?
Parlando di un unico padre di tutti, si può rilevare che Malachia non allude né ad Adamo, capostipite di tutto il genere umano, e fondatore di Israele, ma a Dio, in quanto creatore e padre di tutti gli uomini, per cui c’è un’esortazione ad essere uniti nel bene avendo tutti uno stesso Dio e uno stesso Padre.
Salmo 130 - Custodiscimi, Signore, nella pace.
Signore, non si inorgoglisce il mio cuore
e non si leva con superbia il mio sguardo;
non vado in cerca di cose grandi
superiori alle mie forze
Io sono tranquillo e sereno
come bimbo svezzato in braccio a sua madre,
come un bimbo svezzato è in me l’anima mia.
Speri Israele nel Signore,
ora e per sempre.
Questo salmo presenta un orante che di fronte agli onori e alle ricchezze che può avere non si inorgoglisce, non si fa trascinare da esse innalzandosi imperioso sugli altri.
Non è ambizioso, ma umile tiene conto delle sue capacità.
Egli è “quieto e sereno”, e “come un bimbo svezzato in braccio alla madre” dopo la poppata, è contento e certo di essere amato e protetto da Dio.
Il salmo poi presenta l'invito a tutto Israele a sperare ”ora e per sempre” in Dio.
Il salmo non presenta indizi per una collocazione storica, del resto i salmi, benché abbiano un tessuto esistenziale storico, sono parola di Dio e perciò hanno un valore pubblico e perenne; così il loro tessuto esistenziale ha come profondo riferimento Cristo e l'incontro con Cristo, centro di tutto il disegno di Dio.
Commento di Padre Paolo Berti
Dalla prima lettera di S.Paolo apostolo ai Tessalonicesi
Fratelli, siamo stati amorevoli in mezzo a voi, come una madre nutre e ha cura dei propri figli. Così, affezionati a voi, avremmo desiderato darvi non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari.
Voi ricordate infatti, fratelli, la nostra fatica e il nostro travaglio: lavorando notte e giorno per non essere di peso ad alcuno, vi abbiamo annunziato il vangelo di Dio.
Proprio per questo anche noi ringraziamo Dio continuamente perché, avendo ricevuto da noi la parola divina della predicazione, l’avete accolta non quale parola di uomini, ma, come è veramente, quale parola di Dio, che opera in voi che credete.
1Ts 2:7b-9.13
Paolo continuando la sua lettera ai tessalonicesi ricorda anzitutto la situazione dolorosa da cui era appena uscito venendo da Filippi e insiste sulla rettitudine del suo comportamento verso di loro.
All’inizio del brano liturgico, mette poi in luce quali sono stati i suoi sentimenti durante la permanenza a Tessalonica: siamo stati amorevoli in mezzo a voi, come una madre nutre e ha cura dei propri figli. Così, affezionati a voi, avremmo desiderato darvi non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari.
Per esprimere il rapporto che egli con i suoi compagni hanno stabilito verso i tessalonicesi, Paolo usa come primo termine “amorevoli” per unirlo al paragone “come una madre nutre e ha cura dei propri figli”, mentre il secondo termine “affezionati” esprime una specie di trasporto che per Paolo è stato così grande da renderlo disponibile a dare per i tessalonicesi non solo il vangelo, ma anche la sua stessa vita. Con questa frase non intendeva certamente una morte cruenta a seguito di una persecuzione, ma piuttosto la sua piena dedizione, per coloro che erano diventati a lui così cari.
In relazione con la sua disponibilità verso i tessalonicesi, Paolo richiama una caratteristica specifica della sua evangelizzazione:
Voi ricordate infatti, fratelli, la nostra fatica e il nostro travaglio: lavorando notte e giorno per non essere di peso ad alcuno, vi abbiamo annunziato il vangelo di Dio.
Paolo ha annunziato loro il vangelo e contemporaneamente ha svolto un’attività lavorativa.
Sappiamo che la sua professione era quella di tessitore di tende (At 18,3) ed anche a Tessalonica ha lavorato intensamente “notte e giorno” per non essere di peso ai nuovi convertiti (V. 2Cor 11,9). Egli lo faceva come sua scelta personale per non recare impedimento all’annunzio del vangelo (V. 1Cor 9,12), ma a volte però ha potuto interrompere la sua attività lavorativa avendo ricevuto aiuti finanziari da altre comunità fondate in precedenza (Cfr. At 18,5; 2Cor 11,8; Fil 4,14-16). Il suo scopo era quello di distinguersi dai filosofi popolari, che si facevano pagare per le loro prestazioni; del resto, provvedendo a se stesso e non pesando finanziariamente su coloro a cui predicava il vangelo, evitava il rischio di allontanarli ed era più libero nei suoi spostamenti. Inoltre egli voleva dare il buon esempio e far sì che i nuovi convertiti imparassero a vivere con il proprio lavoro (V. 1Ts 4,11).
Nei versetti successivi, omessi dalla liturgia, Paolo insiste nuovamente sul carattere irreprensibile del suo comportamento a Tessalonica, ispirandosi questa volta non più all’immagine della madre, ma a quella del padre che esorta e incoraggia i suoi figli.
Il testo liturgico termina con la frase iniziale del brano successivo in cui Paolo elabora nuovi aspetti del suo ringraziamento: Proprio per questo anche noi ringraziamo Dio continuamente perché, avendo ricevuto da noi la parola divina della predicazione, l’avete accolta non quale parola di uomini, ma, come è veramente, quale parola di Dio, che opera in voi che credete. In questa frase, nella quale riprende quanto detto precedentemente, Paolo ringrazia Dio perché i tessalonicesi hanno ricevuto “la parola divina della predicazione, cioè la parola di Dio predicata da lui e dai suoi compagni, per quello che era veramente. In altre parole i tessalonicesi non si sono fermati al carisma di coloro che annunziavano loro il vangelo, ma hanno saputo risalire a Colui che ne è l’autore, Dio stesso.
Ciò che si è potuto creare a Tessalonica è visto dunque da Paolo come opera di Dio, il quale ha toccato il cuore dei suoi ascoltatori, mentre lui, Paolo, ha svolto semplicemente il ruolo di intermediario
Il vangelo non è una parola umana, ma un messaggio che viene da Dio. Paolo ne è ben consapevole e si sforza in tutti i modi di ricordare ai tessalonicesi che essi non hanno aderito a lui, come persona, ma a Dio.
Paolo però, dobbiamo riconoscerlo, è stato capace di stabilire un rapporto intenso di amore con i tessalonicesi, ha saputo amarli come un padre e una madre, fino al punto di essere disposto a dare la vita per loro. Da queste parole dell’apostolo risulta chiaramente che l’evangelizzazione non consiste in una presentazione anche perfetta di nozioni religiose o di direttive morali, ma in un rapporto talmente intenso da scuotere le persone e da porle in un ambito di vita totalmente nuovo e dinamico.
Prima che alla mente, il messaggio evangelico si rivolge al cuore delle persone, provocando reazioni e prese di posizione alle quali solo con la ragione non sarebbero mai arrivate.
Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù si rivolse alla folla e ai suoi discepoli dicendo:
«Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Quanto vi dicono, fatelo e osservatelo, ma non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno. Legano infatti pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito.
Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini: allargano i loro filattèri e allungano le frange; amano i posti d’onore nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe, e i saluti nelle piazze, come anche sentirsi chiamare “rabbì” dalla gente.
Ma voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate nessuno “padre” sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo. E non fatevi chiamare “maestri”, perché uno solo è il vostro Maestro, il Cristo. Il più grande tra voi, sia vostro servo; chi invece si innalzerà, sarà abbassato e chi si abbasserà sarà innalzato».
Mt 23, 1-12
. Il brano del Vangelo di Matteo di oggi vede aumentare la tensione che si era creata tra Gesù e i capi del popolo. E’ l’ultimo discorso pubblico di Gesù in cui rivolge una denuncia nei confronti dei responsabili della comunità giudaica, ossia gli scribi e farisei.
Il brano inizia con una introduzione: “Gesù si rivolse alla folla e ai suoi discepoli dicendo:”
I diretti interessati, gli scribi e i farisei, non figurano come interlocutori. Come nel discorso della montagna, Gesù parla alle folle, che però restano sullo sfondo, ma più direttamente si riferisce ai discepoli. Si tratta quindi di un discorso destinato alla comunità. Gesù esordisce con queste parole: “Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Quanto vi dicono, fatelo e osservatelo, ma non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno”. Il termine “cattedra di Mosè”, in un periodo successivo a quello dell’evangelista, stava ad indicare un seggio distinto e decorato nelle sinagoghe, posto di fronte agli altri seggi sui quali potevano sedere soltanto coloro che avevano conseguito il titolo ufficiale di rabbi. Al tempo di Matteo l’espressione aveva forse solo un significato metaforico: i maestri appartenenti al gruppo dei farisei, l’unico gruppo sopravvissuto alla rovina di Gerusalemme, si erano arrogati il ruolo stesso di Mosè, il grande legislatore del popolo ebraico. Gesù sembra qui convalidare la loro pretesa in quanto dice di fare ciò che essi prescrivono. Il comportamento degli scribi e dei farisei viene così descritto: “Legano infatti pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito”. Gli scribi si erano assunti il compito di interpretare la legge, composta in un tempo più antico, caratterizzato da situazioni economiche e sociali diverse, in modo da renderla praticabile ai loro contemporanei.
Le loro interpretazioni erano considerate come “legge orale”, il cui valore era identico a quello della “legge scritta”. Con lo scopo di interpretare la legge, l’avevano però appesantita con minuziose prescrizioni, che avevano lo scopo di garantirne l’esatta osservanza. Così facendo essi però “legavano” sulle spalle della gente, cioè dichiarano obbligatori, “pesanti fardelli” cioè incombenze difficili da praticare, che essi, con la loro conoscenza, sapevano facilmente evitare.
Oltre a imporre agli altri pesanti fardelli, gli scribi e i farisei si comportano con orgoglio e arroganza: “Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini: allargano i loro filattèri e allungano le frange; amano i posti d’onore nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe, e i saluti nelle piazze, come anche sentirsi chiamare “rabbì” dalla gente”. Così facendo essi vanno contro la volontà di Dio, che chiede alle persone religiose di operare per Lui, e non per se stesse, e per questo comanda di tenere nascoste le loro opere buone (V. Mt 6,1-18). I filatteri sono piccoli astucci contenenti delle citazioni bibliche che durante la preghiera vengono applicati con strisce di cuoio sulla fronte e sul braccio sinistro: in tal modo viene presa alla lettera l’espressione metaforica di Deuteronomio (6,8). Le frange sono quattro fiocchi appesi agli angoli del mantello (Dt 22,12), muniti di un cordoncino di porpora color viola, che ha lo scopo di richiamare alla mente “tutti i comandi del Signore per metterli in pratica” (Nm 15,39).
Gesù certamente non condanna queste pie usanze, ma l’ostentazione dei farisei, che per fingersi molto religiosi ampliavano in modo esorbitante le dimensioni di quegli oggetti sacri. Inoltre, per darsi importanza, essi ricercavano i posti d’onore nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe, i saluti ossequienti sulle piazze e l’appellativo di “rabbi”.
Il comportamento degli scribi e dei farisei è stato descritto così dettagliatamente proprio per ricavarne un’istruzione diretta ai cristiani: Ma voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate nessuno “padre” sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo. E non fatevi chiamare “maestri”, perché uno solo è il vostro Maestro,il Cristo.
In contrasto con le pretese dei farisei Gesù proibisce ai discepoli di farsi chiamare non solo con il titolo di “rabbi”, ma anche con quelli analoghi di “padre” e di “maestro”.
I motivi riportati sono rispettivamente questi: i discepoli di Gesù sono tutti fratelli e il loro vero “Maestro” è uno solo, Dio. Analogamente essi hanno un solo Padre, quello dei cieli; e infine l’unica guida spirituale è il Cristo. Sullo sfondo di questa direttiva si intravede la profezia di Geremia della Nuova Alleanza (31,31-34), in forza della quale negli ultimi tempi Dio avrebbe scritto la Sua legge nel cuore del popolo, divenendo così l’unico Maestro interiore di ciascuno.
Al termine del brano vengono riportate due massime che ricorrono anche in altri contesti: ”Il più grande tra voi, sia vostro servo; chi invece si innalzerà,sarà abbassato e chi si abbasserà sarà innalzato”.
La prima massima Matteo l’aveva citata ancora (20,26-27) e contiene un forte richiamo ad abbandonare situazioni di privilegio per mettersi umilmente al servizio dei fratelli, esattamente come ha fatto Gesù nei confronti dell’umanità. La seconda appare cinque volte nell’AT (Ez 21,31; Pr 29,23; Gb 22,29; Is 3,17) e preannunzia che nel giudizio escatologico vi sarà un radicale rovesciamento delle situazioni in cui si trovano le persone, alla luce di quanto è affermato nelle beatitudini (Mt 5,3-10).
Ciò che Gesù rimprovera agli scribi e ai farisei è la loro pratica, che non corrispondeva a quanto insegnavano. Se Matteo mette sulla bocca di Gesù una critica così forte nei loro confronti, il motivo non è il desiderio di correggerli, ma piuttosto quello di aiutare la comunità cristiana dal non cadere nello stesso errore..
Leggendo queste frasi forti di Gesù, dobbiamo riconoscere soprattutto la storia bimellenaria di noi cristiani, religiosi e laici, che così spesso ci siamo proclamati discepoli di Gesù per fare poi esattamente ciò che Gesù stesso rimprovera ai farisei, e che è precisamente il contrario di ciò che Egli esige. Ogni volta che ci siamo eretti a giudici e a maestri, che abbiamo ostentato i segni del prestigio e del potere, che ci siamo fatti servire anziché servire gli altri, il nostro tradimento di Gesù è stato completo.
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Nella liturgia di questa domenica, l’apostolo Paolo ci invita ad accostare il Vangelo «non come parola di uomini, ma come è veramente, quale Parola di Dio» (1 Ts 2,13). In questo modo possiamo accogliere con fede gli ammonimenti che Gesù rivolge alla nostra coscienza, per assumere un comportamento conforme ad essi. Nel brano odierno, Egli rimprovera gli scribi e i farisei, che avevano nella comunità un ruolo di maestri, perché la loro condotta era apertamente in contrasto con l’insegnamento che proponevano agli altri con rigore. Gesù sottolinea che costoro «dicono e non fanno» (Mt 23,3); anzi, «legano fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito» (Mt 23,4). La buona dottrina va accolta, ma rischia di essere smentita da una condotta incoerente. Per questo Gesù dice: «Praticate e osservate tutto ciò che vi dicono, ma non agite secondo le loro opere» (Mt 23,3). L’atteggiamento di Gesù è esattamente l’opposto: Egli pratica per primo il comandamento dell’amore, che insegna a tutti, e può dire che esso è un peso leggero e soave proprio perché ci aiuta a portarlo insieme con Lui (cfr Mt 11,29-30).
Pensando ai maestri che opprimono la libertà altrui in nome della propria autorità, San Bonaventura indica chi è l’autentico Maestro, affermando: «Nessuno può insegnare e nemmeno operare, né raggiungere le verità conoscibili senza che sia presente il Figlio di Dio» (Sermo I de Tempore, Dom. XXII post Pentecosten, Opera omnia, IX, Quaracchi, 1901, 442). «Gesù siede sulla “cattedra” come il Mosè più grande, che estende l’Alleanza a tutti i popoli» (Gesù di Nazaret, Milano 2007, 89). È Lui il nostro vero e unico Maestro! Siamo, pertanto, chiamati a seguire il Figlio di Dio, il Verbo incarnato, che esprime la verità del suo insegnamento attraverso la fedeltà alla volontà del Padre, attraverso il dono di se stesso. Scrive il beato Antonio Rosmini: «Il primo maestro forma tutti gli altri maestri, come pure forma gli stessi discepoli, perché [sia gli uni che gli altri] esistono soltanto in virtù di quel primo tacito, ma potentissimo magistero» (Idea della Sapienza, 82, in: Introduzione alla filosofia, vol. II, Roma 1934, 143). Gesù condanna fermamente anche la vanagloria e osserva che operare «per essere ammirati dalla gente» (Mt 23,5) pone in balia dell’approvazione umana, insidiando i valori che fondano l’autenticità della persona.
Cari amici, il Signore Gesù si è presentato al mondo come servo, spogliando totalmente se stesso e abbassandosi fino a dare sulla croce la più eloquente lezione di umiltà e di amore. Dal suo esempio scaturisce la proposta di vita: «Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo» (Mt 23,11). Invochiamo l’intercessione di Maria Santissima e preghiamo, in particolare, per quanti nella comunità cristiana sono chiamati al ministero dell’insegnamento, affinché possano sempre testimoniare con le opere le verità che trasmettono con la parola.
Papa Benedetto XVI
Angelus del 30 ottobre 2011