In questa domenica, in cui la liturgia ritorna al tempo ordinario, troviamo letture che ci fanno pensare alla lotta drammatica tra il bene e il male. Tutta intera la storia umana è infatti pervasa da una lotta tremenda contro le potenze delle tenebre; lotta cominciata fin dall'origine del mondo, che durerà, come dice il Signore (vv Mt 24,13; 13,24-30 e 36-43), fino all’ultimo giorno.
Nella prima lettura, tratta dal libro della Genesi, vediamo come tra Adamo ed Eva c’è sconcerto e contrasto portato dal peccato; non solo tra loro e Dio, ma anche tra loro come coppia, perchè si accusanao a vicenda. Ma Dio, anche se li punisce, non li abbandona, promettendo la redenzione.
Nella seconda lettura, tratta dalla seconda lettera di S.Paolo ai Corinzi, l’Apostolo proclama la grande svolta inaugurata dalla resurrezione di Gesù. Ormai il cristiano è una creatura nuova, radicalmente trasformata rispetto al suo passato di peccatore.
Nel Vangelo di Marco, dopo un piccolo sommario e l’elezione dei dodici, l’evangelista ci racconta come Gesù viene contestato nell’esercizio del suo potere. Gli scribi lo accusano persino di essere un indemoniato! Con la venuta di Gesù il potere del demonio sta per finire anche se in questa battaglia, l’uomo deve combattere senza sosta per poter restare unito al bene. In questo racconto, quando lo avvertono che sua madre e i suoi fratelli erano arrivati, Gesù reagisce in un modo sorprendente dichiarando che: “chi fa la volontà di Dio, costui per me è fratello, sorella e madre”.
La nuova famiglia di Gesù non nasce quindi da legami di sangue, ma è parentela nella fede. Si creano perciò due gruppi: da una parte coloro che non comprendono Gesù e dall’altra quelli che si stringono attorno a Lui per essere famiglia di Dio.
Dal Libro della Genesi
Dopo che Adamo ebbe mangiato dell’albero, il Signore Dio lo chiamò e gli disse: «Dove sei?». Rispose: «Ho udito la tua voce nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto». Riprese: «Chi ti ha fatto sapere che sei nudo? Hai forse mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?». Rispose l’uomo: «La donna che tu mi hai posto accanto mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato». Il Signore Dio disse alla donna: «Che hai fatto?». Rispose la donna: «Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato».
Allora il Signore Dio disse al serpente:
«Poiché hai fatto questo, maledetto tu fra tutto il bestiame
e fra tutti gli animali selvatici!
Sul tuo ventre camminerai e polvere mangerai
per tutti i giorni della tua vita.
Io porrò inimicizia fra te e la donna,
fra la tua stirpe e la sua stirpe:
questa ti schiaccerà la testa
e tu le insidierai il calcagno».
Gen 3,9-15
Il Libro della Genesi (che significa: "nascita", "creazione", "origine"), è il primo libro della Torah ebraica e della Bibbia cristiana. E’ stato scritto in ebraico, e secondo molti studiosi, la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata intorno al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte. Nei primi 11 dei suoi 50 capitoli, descrive la cosiddetta "preistoria biblica" (creazione, peccato originale, diluvio universale), e nei rimanenti la storia dei patriarchi Abramo, Isacco, Giacobbe-Israele e di Giuseppe, le cui vite si collocano nel vicino oriente (soprattutto in Palestina) del II millennio a.C. (la datazione dei patriarchi, tradizionale ma ipotetica, è attorno al 1800-1700).
Il libro della Genesi è suddiviso in due grandi sezioni. La prima, corrispondente ai capitoli 1-11, comprende il racconto della creazione e la storia del genere umano. La seconda sezione, dal capitolo 12 al capitolo 50, narra la storia del popolo eletto, mediante i racconti sui patriarchi.
Questo brano tratto dal Capitolo 3 descrive la convinzione d’Israele che la condizione umana (quale appariva allora) fosse una partecipazione alla punizione meritata dalla prima trasgressione.
La scena inizia subito dopo che Adamo ebbe mangiato dell’albero, quando Dio scende nel giardino e l'uomo e la donna si nascondono per non farsi vedere. La venuta di Dio evidenzia l'intimità, ormai distrutta, che univa Dio ai nostri progenitori! Dio chiama l'uomo come se non sapesse cosa fosse successo e gli chiede persino «Dove sei?». L'uomo risponde di aver avuto paura e di essersi nascosto perché era nudo.
Più che la paura del castigo, ciò che lo trattiene dal presentarsi a Dio è sicuramente il timore reverenziale, lo stesso che in Israele impediva di esporre il proprio corpo in un luogo sacro (v. Es 20,26).
Dio allora gli chiede: “Chi ti ha fatto sapere che sei nudo? Hai forse mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?”. L'uomo però non si assume la responsabilità di ciò che ha fatto e risponde: “La donna che tu mi hai posto accanto mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato”, quasi per evidenziare che il vero colpevole è Dio stesso, che gliel'ha data come compagna.
Il peccato, invece di provocare solidarietà fra coloro che lo commettono, li pone inevitabilmente l'uno contro l'altro. Anche la donna non assume la sua responsabilità quando risponde: “Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato” gettando la colpa sul serpente.
Dio emettendo la sentenza comincia col condannare il serpente, anche se non era stato neppure interrogato. Questi viene maledetto da Dio con una sentenza irrevocabile: “Sul tuo ventre camminerai e polvere mangerai per tutti i giorni della tua vita”.
Poi Dio continua affermando: “Io porrò inimicizia fra te e la donna, fra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno”.
Leggendo questo brano nel contesto di tutta la Bibbia, che narra la storia della salvezza, il testo diventa un annunzio di speranza per l'umanità peccatrice. Il racconto della caduta termina con alcuni dettagli non riportati nel brano liturgico. La donna è chiamata Eva (vita), poiché è destinata a diventare la madre di tutti i viventi: nonostante il peccato continua dunque la vita, che è il più grande dono di Dio! L'uomo e la donna sono poi rivestiti da Dio con tuniche di pelle, e ciò vuol significare che l’amore di Dio per loro non è venuto meno. Infine, perché l'uomo non abbia accesso all'albero della vita, Dio lo scaccia dal giardino e lo manda a coltivare la terra “perché lavorasse il suolo da dove era stato tratto” (3,23)
I cherubini posti a custodia del giardino e dell'albero della vita sono figure mitologiche reminiscenza delle figure babilonesi, mentre la fiamma della spada folgorante rappresenta il fulmine (vv. 22-24). L'allontanamento dal giardino si ispira al tema della rottura dell'alleanza, che comportava per Israele l'abbandono della terra donatagli da Dio (Vv. Dt 11,17; 28,15-68).
L’autore con questo racconto ha voluto dirci qualcosa riguarda l’uomo di tutti i tempi e di tutte le culture, e cioè ha voluto spiegare la sua situazione di sofferenza e di morte. A tale scopo egli ha immaginato che all’inizio della storia l’uomo si trovasse in una situazione ideale, dalla quale è decaduto a causa di un suo peccato. Così facendo egli vuol far vedere che la presenza del male, in tutti i suoi aspetti, non deriva da Dio, ma dall’uomo stesso, il quale si è precluso quella felicità che Dio gli aveva concesso all’inizio. Questo modo di raccontare, tendente a scagionare Dio, ha uno scopo ben preciso: mostrare come Dio, non essendo responsabile del male presente in questo mondo, continua a offrire all’uomo la possibilità di superare i suoi limiti e di raggiungere una condizione di vita adeguata alla sua dignità.
I profeti annunzieranno una salvezza piena che si attuerà in un futuro imprecisato (vv. Is 11,6-9) e quello che per l’autore della Genesi era un paradiso perduto, per i profeti diventa un paradiso che Dio donerà un giorno al Suo popolo e a tutta l’umanità: agli esseri umani non resta che prepararsi a questo evento finale.
Mediante questi due modi simbolici di esprimersi gli autori biblici vogliono semplicemente far comprendere che l’uomo è chiamato alla felicità, ma la raggiunge solo se saprà distaccarsi da tutta una serie di pesanti condizionamenti, che provengono dal suo intimo e dalla società in cui vive.
Il suo rapporto con Dio ha quindi significato e deve essere vissuto in questa prospettiva: il “paradiso terrestre” è sempre disponibile a tutta l’umanità, pur in mezzo a tante difficoltà e sofferenze, a patto però che sia fedele a quei principi di amore e di giustizia che Dio ha scritto nel cuore di ogni uomo.
Salmo 129 - Il Signore è bontà e misericordia.
Dal profondo a te grido, o Signore;
Signore, ascolta la mia voce.
Siano i tuoi orecchi attenti
alla voce della mia supplica.
Se consideri le colpe, Signore,
Signore, chi ti può resistere?
Ma con te è il perdono:
così avremo il tuo timore.
Io spero, Signore.
Spera l’anima mia,
attendo la sua parola.
L’anima mia è rivolta al Signore
più che le sentinelle all’aurora.
Israele attenda il Signore,
perché con il Signore è la misericordia
e grande è con lui la redenzione.
Egli redimerà Israele
da tutte le sue colpe.
La composizione di questo salmo penitenziale, detto De profundis e usatissimo come il Miserere, con probabilità è avvenuta durante la devastante campagna di Sennacherib (701 a.C) nella Palestina e l'assedio di Gerusalemme (2Re 18,13; 19,35; 2Cr 32,1.10 Cf. Is 30,8s; Is 36,1; 37,33-36).
L'angoscia, la tribolazione, conducono l'orante a invocare il Signore con insistenza, dal profondo del cuore. Egli, povero peccatore, di ascoltare la sua preghiera. Egli invoca la misericordia di Dio, che va oltre il peccato dell'uomo per salvarlo. Senza la misericordia di Dio l'uomo sarebbe perduto davanti alla giustizia di Dio: “Signore, chi ti può resistere? Ma con te è il perdono”.
Il perdono dei peccati manifesta l'amore di Dio e riconciliando l'uomo a sé lo porta ad avere amore per lui, e quindi a temerlo, cioè a non misconoscerne più la sovranità e la giustizia.
La speranza dell'orante nel perdono di Dio e quindi sul suo soccorso è grande, ed è fondata sulla sua alleanza: “Spera l'anima mia, attendo la sua parola”.
L'attesa del salmista è ben più forte di quella delle sentinelle notturne sulle mura della città, che aspettano l'aurora per andare al riposo.
Il salmista invita tutto Israele, peccatore di molte contaminazione con gli idoli, ad attendere il soccorso del Signore fondandosi sulla verità “perché con il Signore è la misericordia e grande è con lui la redenzione. Egli redimerà Israele da tutte le sue colpe”.
Il perdono dei peccati avverrà per l'espiazione di Cristo e non sarà solo per Israele, ma per tutti gli uomini.
La Chiesa - indefettibile - è sempre bisognosa di purificazione, di perdono, perché se come Ente essa è perfetta e santa, come insieme di uomini è santa e peccatrice.
Commento di Padre Paolo Berti
Dalla seconda lettera di S.Paolo Apostolo ai Corinzi
Fratelli, animati tuttavia da quello stesso spirito di fede di cui sta scritto: Ho creduto, perciò ho parlato, anche noi crediamo e perciò parliamo, convinti che colui che ha risuscitato il Signore Gesù, risusciterà anche noi con Gesù e ci porrà accanto a lui insieme con voi.
Tutto infatti è per voi, perché la grazia, accresciuta a opera di molti, faccia abbondare l’inno di ringraziamento, per la gloria di Dio.
Per questo non ci scoraggiamo, ma, se anche il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore invece si rinnova di giorno in giorno. Infatti il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria: noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili, perché le cose visibili sono di un momento, quelle invisibili invece sono eterne
Sappiamo infatti che, quando sarà distrutta la nostra dimora terrena, che è come una tenda, riceveremo da Dio un’abitazione, una dimora non costruita da mani d’uomo, eterna, nei cieli.
2Cor 4,13-5,1
Paolo scrisse la seconda lettera al Corinzi, spinto dai gravi avvenimenti che avevano scosso la comunità di Corinto. Nell’anno 56 Paolo è a Efeso (At 19) e viene a sapere che alcuni contestatori giudeo-cristiani stanno sollevando la comunità contro di lui. Vi fa una breve visita, ma è ricevuto freddamente, stanco e forse implicato troppo personalmente nel conflitto, non riesce ad aggiustare nulla, anzi la sua visita accresce piuttosto il disordine, si ripromette allora di ritornare in seguito.
Meno ricca della prima in insegnamenti dottrinali, la seconda lettera ai Corinzi ha il grande merito di introdurci nella vita interiore dell’Apostolo, in cui traspare il suo carattere appassionato. E’ una lettera ardente che può essere considerata come il suo diario intimo, le sue “confessioni”.
Nei primi 6 capitoli Paolo ripercorre la sua vocazione di predicatore del Vangelo e della situazione che si era creata con la comunità di Corinto. I contorni veri di questo malinteso non sono chiari, ma questo diventa per Paolo un motivo per ricordare le motivazioni del suo impegno a favore del Vangelo.
In questo brano Paolo, dopo aver prima parlato della grandezza del ministero apostolico come ministro dello Spirito e della giustizia, e approfondito il motivo per cui gli apostoli hanno accettato gioiosamente il paradosso della loro vita: l’assimilazione a Cristo che salva mediante la morte, egli riconosce che tutto ciò ha senso solo se si parte dalla fede.
Inizia affermando: “animati tuttavia da quello stesso spirito di fede di cui sta scritto: Ho creduto, perciò ho parlato, anche noi crediamo e perciò parliamo”, ogni parola in Paolo è dettata dalla fede, senza la quale per lui non ci sono Parole che possono aiutare l’uomo, senza fede c’è solo una parola umana, ma questa non salva l’uomo.
“convinti che colui che ha risuscitato il Signore Gesù, risusciterà anche noi con Gesù e ci porrà accanto a lui insieme con voi”. Paolo poggia la sua fede su colui che ha risuscitato il Signore Gesù e che risusciterà anche noi per portarci accanto a Gesù nella gloria del cielo. Da questa fede egli attinge le parole da portare nel mondo, così per questa fede e in questa fede egli vive.
“Tutto infatti è per voi, perché la grazia, accresciuta a opera di molti, faccia abbondare l’inno di ringraziamento, per la gloria di Dio.” Tutto è per i discepoli di Gesù, tutto avviene in loro favore, tutto si compie perché loro possono crescere ed abbondare nella verità della salvezza, tutto si verifica perché si manifesti in modo inconfondibile l’amore di Gesù per loro.
“”Per questo non ci scoraggiamo, ma, se anche il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore invece si rinnova di giorno in giorno” . Sapendosi Paolo strumento della grazia di Dio, conoscendo i frutti che una grazia accolta produce in un cuore, non si perde d’animo, non si scoraggia, non si abbatte, non lascia mai il suo ministero di missionario e di araldo di Gesù Cristo. Guai se il missionario di Dio si dovesse scoraggiare anche per un solo istante, la grazia di Dio non si riverserebbe più sull’umanità.
“Infatti il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria:”
Paolo vive ogni momento in funzione dell’eternità, del Paradiso, della gloria che il Signore gli darà dopo aver portato a termine la sua corsa. La sua vita è stata tutta una persecuzione, una tribolazione, un martirio, ma tutto questo dolore egli però lo valuta secondo una prospettiva eterna. Da un lato c’è la gloria eterna, che mai finirà, che sarà pienezza di vita e di benedizione, dall’altro c’è una sofferenza che bisogna vivere per entrare nel regno dei cieli. La sofferenza non è eterna, non dura per sempre, non è poi così insopportabile e così dura se la si confronta con la pienezza di gioia e di durata dell’eternità.
“noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili, perché le cose visibili sono di un momento, quelle invisibili invece sono eterne”.
Le cose visibili si fissano con l’occhio umano, quelle invisibili invece con l’occhio dello Spirito Santo che abita e dimora dentro di noi. Quelle visibili sono ingannevoli, passeggere, senza valore, quelle invisibili sono vere, eterne, dal valore incalcolabile.
“Sappiamo infatti che, quando sarà distrutta la nostra dimora terrena, che è come una tenda, riceveremo da Dio un’abitazione, una dimora non costruita da mani d’uomo, eterna, nei cieli.”
Il pensiero di Paolo è veramente fisso nel cielo, come se lui già fosse risorto insieme a Cristo. E parla come uno che ha esperienza di queste cose. Egli ha visto il Signore risorto, lo ha visto nel Suo corpo di luce e dallo splendore che emanava egli è stato anche accecato fisicamente. Come lui stesso racconterà, non solo ha visto Cristo Gesù nella Sua gloria sulla via di Damasco, da Dio è stato anche rapito in Paradiso e con occhi non di carne, ma di spirito questa volta, ha visto e contemplato le meraviglie del cielo che nessuna lingua umana è capace di poterle descrivere.
Paolo afferma che ciò che ci attende è inimmaginabile, nessuna mente umana è in grado di concepirlo. Ci sono però delle verità che la fede ci insegna e che Dio stesso ci ha fatto conoscere, anche con concetti umani e con fatti storici.
Da questa rivelazione sappiamo cosa avverrà e per questo dobbiamo prepararci: il nostro corpo verrà disfatto perchè con la morte sarà ridotto in polvere. Questo è il suo disfacimento, scritto in Genesi “polvere tu sei e in polvere tornerai!” (3,19b). Il corpo è considerato in questo versetto come la nostra abitazione terrena. L’anima che è la parte spirituale dell’uomo è stata posta nel corpo e il corpo è la sua abitazione. L’anima non può stare in eterno senza la sua dimora, perchè essa è stata fatta per abitare in una dimora e questa dimora è il suo corpo. Quando l’anima muore, va nel cielo, se è stata santa e giusta su questa terra, se ha vissuto nella sua dimora terrena secondo la legge del Signore. Nel cielo attende che il Signore gli faccia un’altra dimora, una dimora eterna, una dimora che non è una nuova creazione, altrimenti la morte avrebbe vinto in eterno l’uomo, ma sarà invece una dimora risorta, chiamata a nuova vita.
Sarà la prima dimora, il primo corpo, ma trasformato dalla potenza creatrice del Signore. Dio chiamerà il nostro corpo dalla polvere del suolo e lo consegnerà all’anima, questa lo indosserà nuovamente, ma in una maniera del tutto nuova, perchè indosserà un corpo spirituale, incorruttibile, immortale, glorioso. Indosserà un corpo tutto simile al corpo glorioso di Cristo Gesù!
Questa è la verità della fede ed è verità rivelata, verità che nessuna mente umana avrebbe mai potuto immaginare solamente, anche se il desiderio di immortalità è insito nel cuore di ogni uomo di ogni tempo, di ogni luogo, di ogni religione.
Dal vangelo secondo Marco
In quel tempo, Gesù venne con i suoi discepoli in una casa e si radunò una folla, tanto che non potevano neppure prendere cibo.. Allora i suoi, sentito questo, uscirono per andare a prenderlo; dicevano infatti: «È fuori di sé».
Gli scribi, che erano scesi da Gerusalemme, dicevano: «Costui è posseduto da Beelzebùl e scaccia i demòni per mezzo del capo dei demòni». Ma egli li chiamò e con parabole diceva loro: «Come può Satana scacciare Satana? Se un regno è diviso in se stesso, quel regno non potrà restare in piedi; se una casa è divisa in se stessa, quella casa non potrà restare in piedi. Anche Satana, se si ribella contro se stesso ed è diviso, non può restare in piedi, ma è finito. Nessuno può entrare nella casa di un uomo forte e rapire i suoi beni, se prima non lo lega. Soltanto allora potrà saccheggiargli la casa. In verità io vi dico: tutto sarà perdonato ai figli degli uomini, i peccati e anche tutte le bestemmie che diranno; ma chi avrà bestemmiato contro lo Spirito Santo non sarà perdonato in eterno: è reo di colpa eterna». Poiché dicevano: «È posseduto da uno spirito impuro».
Giunsero sua madre e i suoi fratelli e, stando fuori, mandarono a chiamarlo. Attorno a lui era seduta una folla, e gli dissero: «Ecco, tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle stanno fuori e ti cercano». Ma egli rispose loro: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?». Girando lo sguardo su quelli che erano seduti attorno a lui, disse: «Ecco mia madre e i miei fratelli! Perché chi fa la volontà di Dio, costui per me è fratello, sorella e madre».
Mc 3,20-35
Nei versetti precedenti questo brano, tratto dal capitolo 3, Marco aveva riportato l’intensa attività di Gesù: guarigione di un uomo dalla mano inaridita, le folle che lo seguivano e la guarigione di alcuni indemoniati, e infine l’elezione dei dodici discepoli che Gesù aveva scelto affinché “stessero con lui“. In questo brano che si può suddividere in di tre scene, si percepisce sin dall’inizio una certa tensione e violenza.
Nella prima scena vediamo che attorno a Gesù si riunisce tanta gente da non permettere nemmeno a Lui e ai Suoi discepoli di fermarsi per mangiare. Ormai il successo che Gesù riscuote è tale da essere senza precedenti. Inoltre emerge che la dedizione verso la folla trascende anche quelli che sono i propri bisogni di uomo, come il mangiare. Gesù sente in modo impellente la necessità di insegnare, di indicare alla gente la via per il Padre.
La notizia di quanto accade, giunge ai Suoi parenti che “uscirono per andare a prenderlo; dicevano infatti: «È fuori di sé»”. La loro reazione è quella della cecità e del perbenismo. Questi parenti appaiono gretti e timorosi davanti all’azione libera e provocatoria di Gesù e scelgono il sistema più sbrigativo per soffocare lo scandalo: dichiarare l’infermità mentale del congiunto. Possiamo pensare che questo loro comportamento deve essere stato certamente motivo di molta sofferenza sia per Gesù che per Sua madre.
Nella seconda scena Marco riporta che “Gli scribi, che erano scesi da Gerusalemme, dicevano: «Costui è posseduto da Beelzebùl e scaccia i demòni per mezzo del capo dei demòni»”.
In Marco queste citazioni geografiche hanno un significato preciso. Se la Galilea è il luogo dell’attività di Gesù e quello che in qualche modo accoglie la Sua predicazione, Gerusalemme è il luogo del rifiuto e della condanna a morte.
Gli scribi qui rappresentano il rifiuto totale di Gesù che per loro è un indemoniato. E Gesù, dopo aver evidenziato l’assurdità anche logica di tale definizione attraverso le mini-parabole del regno e della casa divisi e dell’”uomo forte” , denuncia con forza questo peccato imperdonabile come “bestemmia contro lo Spirito Santo”. Esso è il rifiuto ostinato di riconoscere i segni e l’azione di Dio nei segni del Suo santo Spirito!
Nella terza scena Marco racconta come fu l’incontro dei parenti con Gesù. Loro giunsero alla casa dove stava e probabilmente erano venuti da Nazareth. Da lì, fino a Cafarnao, sono circa 40 km e Sua madre era insieme a loro. Non potevano entrare in casa, perché c’era gente perfino davanti alla porta. Per questo gli mandano a dire: “Ecco, tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle stanno fuori e ti cercano”.
La reazione di Gesù è molto decisa: Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?».
Lui stesso risponde indicando la moltitudine che stava attorno: “Ecco mia madre e i miei fratelli! Perché chi fa la volontà di Dio, costui per me è fratello, sorella e madre”.
C’è da tener presente, sempre per una migliore comprensione, che nell’antico Israele, la famiglia-clan, costituiva la base della convivenza sociale. Era il modo concreto che la gente di quell’epoca aveva di incarnare l’amore di Dio nell’amore verso il prossimo. Difendere il clan, la comunità era lo stesso che difendere l’Alleanza.
In Galilea, al tempo di Gesù, a causa del sistema romano, impiantato nei lunghi anni di governo di Erode (37 aC a 4 aC) e di suo figlio Erode Antipa (4 aC a 39 dC), era meno sentito per cui il concetto di clan-comunità si era indebolito. Le imposte da pagare sia al governo che al tempio, l’indebitamento crescente, la mentalità individualista dell’ideologia ellenista, le frequenti minacce di repressione violenta da parte dei romani, l’obbligo di accogliere i soldati e dare loro ospitalità, i problemi sempre maggiori di sopravvivenza, tutto questo portava le famiglie a rinchiudersi in se stesse e nelle proprie necessità. Non si praticava più l’ospitalità, la condivisione, la comunione attorno al tavolo, l’accoglienza agli esclusi. L’osservanza delle norme di purezza era il fattore che causava l’emarginazione di molte persone: donne, bambini, samaritani, stranieri, gente posseduta dal demonio, pubblicani, malati, mutilati, paralitici. Invece di promuovere l’accoglienza e la comunione, queste norme favorivano la separazione e l’esclusione.
Ebbene, affinché il regno di Dio potesse manifestarsi di nuovo nella convivenza comunitaria della gente, le persone dovevano superare i limiti stretti della piccola famiglia ed aprirsi di nuovo alla grande famiglia, alla comunità.
Gesù ci da l’esempio. Quando i Suoi parenti giungono a Cafarnao e cercano di impossessarsi di Lui e di portarlo di nuovo a casa, Egli, invece di rinchiudersi nella Sua piccola famiglia, estende i suoi confini.
Il criterio per capire il messaggio di Gesù è fare la volontà del Padre, e la volontà del Padre è partecipare alla salvezza che Lui offre a tutti gli uomini. Questo concetto lo ritroviamo ancora nel Vangelo di Giovanni: quando Gesù ribadisce: “questa è la volontà di colui che mi ha mandato, che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma lo risusciti nell’ultimo giorno”.
Gv 6,39.
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“Non fu facile per Maria veder suo figlio partire da casa per andarsene sulle vie del mondo, per affrontare innumerevoli ostilità e difficoltà. Ma sapeva che Gesù apparteneva a Dio, e che doveva compiere la missione affidatagli dal Padre suo.
E sapeva bene anche che quel dolore che provava nel suo cuore di madre faceva parte del “sì” che lei stessa, molti anni prima, aveva detto all’angelo del Signore. Quel “sì”, pronunciato umilmente nel giorno dell’annunciazione, doveva venir poi confermato, tutti i giorni che Gesù visse lontano da lei, lontano da casa.
Questo accade anche per ogni vocazione cristiana: ogni “sì” offerto al Signore può comportare sofferenze, persecuzioni, incomprensioni da parte degli stessi familiari. L’unica cosa importante, però, è stare con Cristo, fare la volontà del Padre, compiere quella missione cui siamo stati chiamati da Dio. Se viviamo in un continuo “sì” a Dio, se in tutto quel che facciamo cerchiamo di essere come il Figlio, obbedienti per amore, allora entreremo a pieno titolo nella famiglia di Gesù. Saremo per Lui come Maria: docili e perfetti collaboratori del piano di salvezza per tutta l’umanità.
Chiediamoci allora oggi se già facciamo parte “della famiglia di Gesù”, se amiamo al punto di dare senza limiti, senza inganni, senza riserve: “la misura dell’amore è amare senza misura” (sant’Agostino).”
Papa Francesco 19 luglio 2016