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Lug 6, 2018

XIV Domenica tempo ordinario - Anno B - "La missione del Profeta" - 8 luglio 2018

Le letture liturgiche di questa domenica hanno come filo conduttore del rifiuto della parola di Dio.
Nella prima lettura, tratta dal libro del profeta Ezechiele, vediamo che Dio affida al profeta la missione di andare dagli Israeliti, definiti popolo di ribelli, pur sapendo che non sarà ascoltato. Il fine per cui Dio lo manda è uno solo far sapere che in mezzo a loro c’è un profeta e Dio, che è fedele, non li ha abbandonati.
Nella seconda lettura, scrivendo ai cristiani di Corinto, Paolo contro i suoi calunniatori, rivendica con forza la sua dignità d apostolo. L’autenticità del suo ministero è confermata dalle persecuzione e dalla “spina nella carne” permessa da Dio per rendere fecondo il suo servizio al Vangelo, e afferma che proprio quando è debole, è allora che è forte.
Nel Vangelo, Marco ci racconta che gli abitanti di Nazareth rifiutano di riconoscere in Gesù Cristo il Messia atteso: l’incredulità, l’indifferenza, l’ostilità di fronte alla Parola, la presa di posizione nei suoi confronti appartengono quanto mai al mistero della libertà umana. Gesù suggella tutto questo con l’espressione «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua».

Dal libro del profeta Ezechièle
In quei giorni, uno spirito entrò in me, mi fece alzare in piedi e io ascoltai colui che mi parlava. Mi disse:
«Figlio dell’uomo, io ti mando ai figli d’Israele, a una razza di ribelli, che si sono rivoltati contro di me. Essi e i loro padri si sono sollevati contro di me fino ad oggi.
Quelli ai quali ti mando sono figli testardi e dal cuore indurito. Tu dirai loro: “Dice il Signore Dio”. Ascoltino o non ascoltino – dal momento che sono una genìa di ribelli –, sapranno almeno che un profeta si trova in mezzo a loro».
Ez 2,2-5

Ezechiele era di stirpe sacerdotale e fu fra i primi deportati dopo il primo assedio di Gerusalemme conclusosi nel 596 a.C. Il suo ministero ha due fasi ben distinte, prima dell'esilio e durante l'esilio.
Inizia il suo ministero nel 593 a.C., quinto anno dell'esilio del re Ioiachin, e prosegue certamente fino al 571 a.C. anno della presa di Tiro da parte di Nabucodonosor, (avvenimento esplicitamente citato in 29,18).
Il ministero di Ezechiele è segnato da un unico drammatico avvenimento, lasciando il resto degli eventi storici al ruolo di contorno: la profanazione e la distruzione del Tempio nel corso del secondo e definitivo assedio di Gerusalemme ad opera di Nabucodonosor, nel 586 a.C.. Tale avvenimento segna la fine del regno di Giuda e uno spartiacque fra due epoche per la storia degli ebrei.
Il suo libro è diviso in due da questo evento: la prima parte contiene quasi esclusivamente oracoli che minacciano l'inevitabile punizione delle gravi colpe di Giuda, mentre la seconda parte, accaduto l'irreparabile, lascia filtrare bagliori di speranza in un futuro riscatto non troppo lontano, concludendosi con la visione della nuova Gerusalemme e del suo nuovo Tempio.
Rispetto agli altri due grandi profeti scrittori, Isaia e Geremia, Ezechiele introduce alcuni elementi nuovi, accanto agli oracoli, fra cui la “visione” ed il “mimo”.
La visione è uno dei mezzi con cui DIO comunica con il profeta, che di solito esce sconvolto dall'esperienza, senza però mai abbandonare la sua missione. Come in un sogno o un delirio, Ezechiele vede l'aspetto visibile della gloria del Signore. È da notare come questi elementi non vengano mai legati fra loro a dare un'immagine antropomorfa di Dio, che rimane ineffabile come il Suo nome.
Il mimo è invece un mezzo che DIO stesso suggerisce al profeta per trasmettere il proprio messaggio ai suoi compagni di esilio: di volta in volta, Ezechiele mette in scena complesse rappresentazioni che però, per quanto comprese dai suoi compagni, vengono di regola ignorate o prese con sufficienza, quando non con disprezzo e scherno. Ezechiele, comunque, non si perde d'animo e porta avanti la missione affidatagli.
Ezechiele fu certamente un profeta di un rinnovamento profondo che fa presentire l’annuncio del Mistero di Gesù, specialmente come lo vede S.Giovanni. Si comprende come il IV Vangelo e l’Apocalisse utilizzino abbondantemente le immagini e le formule di Ezechiele.
Il brano che abbiamo, tratto dalla seconda relazione della chiamata profetica di Ezechiele, con l’espressione “Figlio dell’uomo” cara al profeta, viene svelato già il destino sconcertante del chiamato. Infatti intorno a lui si stringerà solo un popolo ostinato e peccatore, una vera e propria razza di ribelli, desiderosa solo di segni comodi e di parole inoffensive e neutre. Eppure anche se “Ascoltino o non ascoltino” – non potranno far tacere o ignorare la voce scomoda del profeta. La parola infatti che il profeta comunica non è sua, ma quella di Dio stesso: Tu dirai loro: “Dice il Signore Dio…” La fermezza nell’ostilità e nell’isolamento sarà, infatti, la caratteristica di questo profeta, “pastore degli esuli” a Babilonia, lontano dalla sua terra in mezzo a connazionali ottusi e incattiviti dalla schiavitù. Egli sa che la sua predicazione non sarà accettata, ma lui nonostante tutto deve parlare ugualmente affinché sappiano che Dio non li ha abbandonati. Egli è un Dio fedele per questo è sempre presente!

Salmo 122 I nostri occhi sono rivolti al Signore.
A te alzo i miei occhi,
a te che siedi nei cieli.
Ecco, come gli occhi dei servi
alla mano dei loro padroni.

Come gli occhi di una schiava
alla mano della sua padrona,
così i nostri occhi al Signore nostro Dio,
finché abbia pietà di noi.

Pietà di noi, Signore, pietà di noi,
siamo già troppo sazi di disprezzo,
troppo sazi noi siamo dello scherno dei gaudenti,
del disprezzo dei superbi.

Il salmo riflette una situazione di dolore e di smarrimento alla quale l'orante reagisce con una grande fiducia in Dio.
Molto probabilmente si tratta di eventi dell'epoca Maccabaica. Quando venne ucciso Giuda Maccabeo i rinnegati di Israele, quelli passati ai costumi ellenistici, ripresero forza con Bacchide, che perseguitò coloro che si erano uniti nella fedeltà all'alleanza (1Mac 9,22-26). Stessa situazione si ebbe dopo la morte del successore di Giuda Maccabeo, Gionata (1Mac 12,52).
In quel tempo mancavano profeti e i fedeli in attesa di una guida che li conducesse alla vittoria guardavano a Dio per sapere come muoversi, come reagire.
Commento di P. Paolo Berti

Dalla seconda lettera di S.Paolo apostolo ai Corinzi
Fratelli, affinché io non monti in superbia, è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia.
A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza».
Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte.”
Cor 12,7-10

Paolo continuando la sua seconda lettera al Corinzi, dopo aver percorso nei primi capitoli la sua vocazione di predicatore del Vangelo e della situazione che si era creata con la comunità di Corinto, ed aver esortati gli abitanti di Corinto alla generosità, si vede costretto anche a fare, nei versetti precedenti questo brano, il proprio elogio e parla del suo rapimento al terzo cielo. – “Conosco un uomo in Cristo che, quattordici anni fa - se con il corpo o fuori del corpo non lo so, lo sa Dio - fu rapito fino al terzo cielo” (12,2…) Paolo qui offre una testimonianza straordinaria. Il suo spirito fu elevato alla più alta contemplazione dei misteri divini, che nessuna parola umana può descrivere. Fu rapito al terzo cielo, cioè nel più alto dei cieli, fu tirato come fuori di sé, fino a perdere ogni sentimento della propria vita corporea, tanto il suo spirito era stato investito in questa esperienza. Questo avvenne intorno all’anno 42, a cinque anni quindi dalla conversione. Paolo era allora in Siria o in Cilicia, e mancavano ancora alcuni anni all’inizio delle sue grandi missioni.
Il brano liturgico, che è uno dei più discussi a causa di certe particolari espressioni, inizia riportando una situazione molto tormentata: “affinché io non monti in superbia, è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia
Non si sa molto bene cosa fosse questa spina nella carne, probabilmente una malattia – dalla quale Cristo non ha voluto guarirlo e che moltiplica le difficoltà della sua vita apostolica. Altri esperti pensano non tanto ad una malattia quanto che l’inviato di satana potrebbe essere un oppositore dell’apostolato di Paolo, inviato appunto da satana: quindi, qualcuno che gli sta creando problemi nell’apostolato.
Paolo non esita a presentarsi come uomo, soggetto agli attacchi di Satana nella carne. E' salito al terzo cielo, ha avuto rivelazioni luminosissime, avrebbe desiderato rimanere in quello stato di estasi, ma ecco che gli attacchi del nemico gli ricordano che è ancora in cammino e che ha una carne contro la quale combattere con volontà decisa e preghiera incessante affinché il Signore lo allontani da questo nemico. “Ma il Signore gli risponde: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza»”, cioè “ti deve bastare la mia forza, che agisce in te. Sono io che opero in te perché sei in comunione con me, ed essere in comunione con me è un mio dono d’amore”.
Il Signore perciò gli fa capire che la spina nella carne (questa afflizione) è parte di quella debolezza che rientra nel disegno mirabile di salvezza e permette alla potenza di Dio di manifestarsi pienamente.
Paolo così può affermare: “perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte.

Dal Vangelo secondo Marco
In quel tempo, Gesù venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono.
Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga. E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?». Ed era per loro motivo di scandalo.
Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua». E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità.
Gesù percorreva i villaggi d’intorno, insegnando.
Mc 6, 1-6

L’evangelista Marco ci narra in questo brano la visita di Gesù nella Sua patria che riprende il tema della mancanza di fede del popolo ebraico.
Appena arrivato di sabato a Nazareth con i suoi discepoli, Gesù si reca subito alla sinagoga per poter insegnare. Anche se non si conosce il contenuto del suo discorso si può immaginare che cerca di educare i Suoi concittadini prima di compiere miracoli e guarigioni. Marco ci riferisce subito la reazione dei numerosi uditori che stupiti commentano: “Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?
Gli abitanti di Nazareth credono di conoscere Gesù meglio di chiunque altro perchè lo hanno visto crescere ed esercitare il suo mestiere. Incontrano ogni giorno sua madre e i membri della sua famiglia di cui conoscono nomi, vita e miracoli. Di fronte a Gesù si sentono turbati, imbarazzati, persino irritati. Rifiutano di lasciar mettere in discussione il loro piccolo mondo e la valutazione che si erano fatta sulla sua persona. Non sanno aprirsi al Gesù reale, perché restano caparbiamente attaccati al ritratto che si erano fatto di lui.
Questo episodio naturalmente va al di là del rifiuto di un piccolo paese della Galilea, prefigura infatti il rifiuto dell'intero Israele (Gv 1,11). Che un profeta poi sia rifiutato dal suo popolo non è una novità, se perfino un proverbio, nato da una lunga esperienza che ha accompagnato tutta la storia d'Israele, lo afferma, e trova la sua più clamorosa dimostrazione nella storia del Figlio di Dio e che continuerà a ripetersi continuamente nella storia umana.
Marco riporta con un tono di tristezza il commento di Gesù quando dichiara: “Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua”.
E conclude che Gesù “lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità.
Da questo particolare vediamo che Gesù si rende disponibile anche per quei pochi malati, guarendoli. Il Signore guarda sempre l’umile e l’oppresso anche se fa parte di una comunità che non lo accetta: Lui guarda nei cuori e non giudica per sentito dire.

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In che cosa consiste l’incredulità dei nazaretani?
Di solito si dice che è difficile credere in Gesù per coloro che non lo hanno visto, né sentito o accostato, diversamente da come è accaduto ai suoi contemporanei e concittadini: Questi lo hanno ben osservato e sono vissuti con lui. Il loro disappunto non deriva dunque dal non aver sperimentato concretamente la sua presenza e la sua azione.
Si tratta di un’incredulità più profondamente marcata, che sgorga dall’interno dell’animo, nascosta in quell’angolo interiore dove l’uomo ritrova il senso radicale di sé e di Dio. Là dove si depositano le aspirazioni, i risentimenti, le passioni più sincere. E’ l’incredulità di colui che non vuol decifrare, capire, meditare, approfondire le realtà divine che si rivelano attraverso la semplicità e la naturalezza che si fa immanente e si inserisce nell’esistenza quotidiana. Un Dio che si fa vicino e accanto all’uomo esiste in quell’uomo, Gesù di Nazareth, il figlio di Maria.

Commento tratto da: Marco I-Interrogativi e sorprese su Gesù” di Renzo Lavatori e Luciano Sole

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