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Ott 18, 2018

XXIX Domenica tempo ordinario - Anno B - "Salvati dalla sua morte" - 21 ottobre 2018

Le letture liturgiche di questa domenica sono unite dal filo rosso del sangue della sofferenza e possono guidarci per una più profonda riflessione. Oggi celebriamo la 92ma Giornata Missionaria mondiale che ha per tema “Giovani per il Vangelo”. E’ un invito a uscire dal nostro egoismo e avere un cuore grande per andare incontro alle persone che non conoscono ancora Cristo.
Nella prima lettura, tratta dal Libro del Profeta Isaia, troviamo un frammento tratto dal quarto carme del Servo del Signore, un testo celebre soprattutto nella rilettura messianica cristiana. In quei pochi versetti viene spiegato il senso profondo delle sofferenze del Servo del Signore, che da innocente prende su di sé i peccati degli altri e diventa “salvezza” per molti.
Nella seconda lettura, l’autore della lettera agli Ebrei, afferma che l’offerta che Cristo ha fatto di sé per la nostra salvezza ce lo ha reso solidale. A Lui l’umanità peccatrice si rivolge con fiducia, sicura di incontrare il Signore che salva.
Nel Vangelo di Marco, Gesù ha appena annunciato per la terza volta la Sua passione e morte, ma i discepoli sono ben lontani dal capire, anzi discutono tra loro, preoccupati di assicurarsi i primi posti nel futuro regno messianico. Alla proposta di ricerca dei primi posti, Gesù oppone la proposta di un messianismo d’immolazione e di servizio. Il servizio è uno dei comandi di Gesù più sentiti e più fortemente raccomandati, (papa Francesco ce lo ricorda continuamente e ne dà l’esempio) e rimane uno dei criteri sui quali i cristiani misurano maggiormente la qualità della loro vocazione.

Dal libro del profeta Isaia
Al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori.
Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione,
vedrà una discendenza, vivrà a lungo,
si compirà per mezzo suo la volontà del Signore.
Dopo il suo intimo tormento
vedrà la luce
e si sazierà della sua conoscenza;
il giusto mio servo giustificherà molti,
egli si addosserà le loro iniquità.
Is 53,10-11

Questo brano fa parte del Libro della Consolazione di Israele (capitoli 40-55) attribuiti ad un autore, rimasto anonimo, a cui è stato dato il nome di “Secondo Isaia” o “Deutero Isaia”. Probabilmente era un lontano discepolo del primo Isaia che visse a Babilonia insieme agli esiliati che, dalla sue profezie prendono speranza. Il corpo del libro contiene una serie di oracoli che possono dividersi in due parti, quelle composte prima della conquista di Babilonia da parte di Ciro (Is 41,12-48,22) e quelle che invece sono state composte dopo questo evento (Is 49,1-54,17). Nel libro del Deuteroisaia emerge con insistenza la figura e l’opera di un personaggio misterioso, chiamato “Servo di JHWH”, di cui trattano quattro composizioni poetiche a cui è stato dato l’appellativo di ”Carmi del Servo di JHWH” (42,1-7; 49,1-6; 50,4-9; 52,13-53,12). Mentre il primo carme si trova all’inizio della prima parte, gli altri li troviamo nella seconda parte della raccolta. Mentre nei primi due carmi si tratta rispettivamente della chiamata del Servo e dell’insuccesso che lo attende, nel terzo (Is 50,4-9) si descrive la persecuzione che ha subito. I versetti sono alquanto simili ai salmi di lamentazione individuale, in cui un giusto perseguitato si lamenta delle sue sofferenze e si abbandona alla protezione divina.
Questo breve brano che è un frammento del quarto carme che descrive la vicenda del Servo del Signore, è un testo celebre soprattutto nella rilettura messianica cristiana. E’ stato descritto all’inizio l’immagine di un virgulto cresciuto (Is. 53,2), come una radice in terra arida, come un uomo isolato. Il suo stesso esistere è apparso un miracolo, un dono divino, unica presenza viva all’interno del mondo morto e desolato del peccato umano. E’ impressionante la descrizione del suo volto sfigurato, che suscita imbarazzo e disprezzo perchè si interpreta il suo tormento come castigo divino! Ma la morte non è il termine definitivo verso cui scorre questa vita di dolore innocente, con la sua morte non è stata detta l’ultima parola, perchè:
Al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori. Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore.” Il Signore ha voluto che il Servo passasse attraverso la sofferenza, ma ha stabilito che, ”avendo offerto se stesso in espiazione”, viva a lungo e abbia una grande discendenza.
Negli ultimi due versetti è il Signore che parla per confermare il successo del Servo: “Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza; il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà le loro iniquità.
Questa morte, questo intimo tormento, fa fiorire il mistero di fecondità che quel virgulto conteneva, Questo servo giustificherà molti, salvandoli con il suo dolore espiatorio fino a contemplare Dio stesso nella gloria con tutti coloro che ha portato alla salvezza. La sua vita e la sua morte dunque sono state un sacrificio liberatore per noi tutti, il suo essere “servo” ha generato la nostra giustificazione e riconciliazione con Dio.

SALMO 32 - Donaci, Signore, il tuo amore: in te speriamo.

Retta è la parola del Signore
e fedele ogni sua opera.
Egli ama la giustizia e il diritto;
dell’amore del Signore è piena la terra.

Ecco, l’occhio del Signore è su chi lo teme,
su chi spera nel suo amore,
per liberarlo dalla morte
e nutrirlo in tempo di fame.

L’anima nostra attende il Signore:
egli è nostro aiuto e nostro scudo.
Su di noi sia il tuo amore, Signore,
come da te noi speriamo.

Il salmo comincia con un’esortazione alla gioia. Infatti la tentazione della tristezza è sottile, porta l’anima a stancarsi nel perseverare nel bene e, alla fine, a rivolgersi al male come fonte sicura di consolazioni. La tristezza non s’accompagna con la lode, ma con la lamentosità, e dunque bisogna mantenersi nella gioia per lodare il Signore, e del resto lodare il Signore mantiene nella gioia, quella vera, che non è euforia, ma realtà dell’amore.
Il salmista esorta ad allontanarsi dalla tristezza accompagnando la lode con la cetra, con l’arpa a dieci corde. La lode sia canto. Canto che nasce dall’amore, dal cuore, da un cuore puro. Non canto di bella voce, ma canto di bel cuore. “Cantate un canto nuovo”, esorta il salmista; il che vuol dire che il canto sia nuovo nell’amore. Si potranno usare le stesse parole, ma il canto sarà sempre nuovo se avrà la novità dell’amore. Non c’è atto d’amore che non possa dirsi nuovo se fatto con tutto il cuore.
Con arte”, bisogna suonare, nell’esultanza e non nell’esaltazione.
Il salmista dice il perché della lode a Dio; perché “retta è la parola del Signore”, cioè non mente, costruisce, guida, dà luce, dà pace e gioia. E ogni opera sua è segnata dalla fedeltà all’alleanza che egli ha stabilito col suo popolo.
Egli ama il diritto e la giustizia, cioè la pace tra gli uomini, la comunione della carità, il rispetto dei diritti dell’uomo.
Egli ha creato le cose come dono all’uomo, per cui ogni cosa ha una ragione d’amore: “dell'amore del Signore è piena la terra”. La creazione procede dal suo volere, dalla sua Parola. Tutte le cose sono state create con un semplice palpito del suo volere. Le stelle, che nella volta celeste si muovono (moto relativo al nostro punto di vista) come schiere. Le acque del mare sono ferme come dentro un otre: esse non possono dilagare sulla terra. Nelle cavità profonde della terra ha confinato parimenti le acque abissali, che sfociano in superficie nelle sorgenti. Esse sono chiuse (“chiude in riserve gli abissi”), e non diromperanno sulla terra unendosi a quelle dei mari e del cielo per sommergere la terra (Cf. Gn 1,6-10; 7,11).
Il salmista proclama il suo amore a Dio a tutta la terra, invitando tutti gli uomini a temere Dio, cioè a temere di offenderlo perché egli è infinitamente amabile. Gli abitanti del mondo tremino davanti a lui, perché misericordioso, ma è anche giusto giudice e non lascia impunito chi si ribella a lui. Egli è l’Onnipotente perché: “parlò e tutto fu creato, comandò e tutto fu compiuto”.
I popoli, le nazioni, che vogliono costruirsi senza di lui non avranno che sconfitta. I loro progetti sono vani, non avranno successo. Al contrario il disegno salvifico ed elevante del Signore rimane per sempre. Nessuno lo può arrestare. Esso procede dal suo cuore, cioè dal suo amore - “i progetti del suo cuore” - e rimane per sempre, per tutte le generazioni.
Il salmista poi celebra Israele; il nuovo Israele, quello che ha come capo Cristo, e del quale Israele un giorno farà parte (Rm 11,15). Nessuno sfugge allo sguardo del Signore: “guarda dal cielo: egli vede tutti gli uomini”. E lui sa ben vedere il cuore dell’uomo poiché lui l’ha creato, e sa “comprendere tutte le sue opere”, perché sa vedere il merito o il demerito sulla base dell’adesione all’orientamento al bene del cuore, e alla grazia che egli dona.
La sua grazia è la forza dell’uomo nelle situazioni di difficoltà. L’uomo non deve credere di salvarsi dalle catastrofi sociali perché possiede cavalli, ma deve rivolgersi a Dio, che può “liberarlo dalla morte e nutrirlo in tempo di fame”.
Il salmista, unito ai giusti, esprime una dolce professione di fede in Dio, una dolce speranza in lui: “L’anima nostra attende il Signore: egli è nostro aiuto e nostro scudo”; conclude poi con un’ardente invocazione: “Su di noi sia il tuo amore, Signore, come da te noi speriamo”.
Commento di P.Paolo Berti

Dalla lettera agli Ebrei
Fratelli, poiché abbiamo un sommo sacerdote grande, che è passato attraverso i cieli, Gesù il Figlio di Dio, manteniamo ferma la professione della fede. Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato. Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno.
Eb 4,14-16

Questo breve brano, tratto dalla Lettera agli Ebrei, sviluppa un tema già iniziato al cap.2 “Gesù sacerdote misericordioso”. Nell’Antico Testamento, la condizione necessaria per essere sacerdoti era l’appartenenza alla tribù di Levi, una delle dodici tribù d’Israele, dalla quale provenivano Mosè ed Aronne. I sacerdoti erano coloro che interpretavano la volontà di Dio lanciando urim e tummin, che erano due pietre, che custodivano nel pettorale, e rappresentavano uno l’innocenza e l’altro la colpa; oltre al resto, insegnavano la Legge e si dedicavano al servizio del tempio. Quella dei sacerdoti era un’organizzazione gerarchica ed ereditaria, all’interno della quale solo il sommo sacerdote, rappresentante della linea primogenita, poteva entrare una volta l’anno, durante il giorno dell’espiazione (Yom kippur), nel luogo più santo del tempio, sancta sanctorum, dove si credeva che vi fosse la presenza di Dio. Nel Nuovo Testamento, invece, ogni sacerdozio particolare viene abolito con l’avvento di Gesù Cristo, che è il grande sommo sacerdote. Con Gesù ci troviamo di fronte ad un nuovo modello di sommo sacerdote, un modello, sin dall’inizio inusuale, dato che Gesù apparteneva alla tribù di Giuda e non a quella di Levi, dalla quale provenivano gli altri sacerdoti.
Il brano inizia con una forte esortazione: “poiché abbiamo un sommo sacerdote grande, che è passato attraverso i cieli, Gesù il Figlio di Dio, manteniamo ferma la professione della fede.
Sebbene il sacerdozio di Cristo sia stato consumato sulla croce esso continua a esercitarsi ancora oggi nei “cieli”, dove Egli è penetrato con la sua morte cruenta e ormai siede alla destra di Dio.
All’esortazione iniziale fa seguito una frase esemplificativa sul sacerdozio di Cristo: “Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato”. La grandezza del sacerdozio di Cristo non esclude, anzi esige che egli sia solidale con la famiglia umana, che rappresenta davanti a Dio: egli infatti è “uomo” in mezzo agli uomini e perciò è capace di comprendere fino in fondo i loro limiti e i loro peccati. Precedentemente l’autore aveva detto che Gesù, “proprio per essere stato messo alla prova ed avere sofferto personalmente, è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova.”(2,18).
La solidarietà di Gesù con l’umanità ha però un limite: egli è simile in tutto alla condizione umana “escluso il peccato”.
Si afferma così la perfetta santità di Cristo, che esclude ogni sua partecipazione alla comune situazione di peccato. In realtà questa prerogativa non diminuisce la sua solidarietà con gli uomini, anzi rappresenta la condizione indispensabile perché Egli possa effettivamente andare loro incontro e salvarli. Un peccatore infatti ha bisogno prima di tutto di essere lui stesso salvato: solo chi è santo può salvare gli altri!
L’autore conclude con una nuova esortazione: ”Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno”.
L’invito iniziale a mantenere salda la professione di fede viene qui ripreso, dopo lo sviluppo riguardante la compassione di Gesù, sotto forma di richiamo ad accostarsi con piena fiducia al “trono della grazia”, cioè alla presenza del Dio misericordioso.
Dopo che Cristo “è passato attraverso i cieli”, Dio non deve essere più ricercato in un santuario terreno, ma proprio là dove Egli si trova, cioè nel Suo santuario celeste. In forza della mediazione di Cristo i credenti devono ormai sentirsi sicuri che Dio non negherà loro la salvezza e l’aiuto necessario tutte le volte che ne avranno bisogno.
Gesù dunque è il grande sommo sacerdote che soffre insieme a noi per le nostre debolezze, i nostri peccati, Egli è il nuovo grande sommo sacerdote che non se ne sta rinchiuso nel luogo santissimo “sancta sanctorum”, ma che è in mezzo a noi, che patisce con noi la fame, la sete, l’emarginazione; un Gesù che possiamo scorgere nel volto sofferente di ogni creatura.

Dal vangelo secondo Marco
In quel tempo, si avvicinarono a Gesù Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedèo, dicendogli: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo». Egli disse loro: «Che cosa volete che io faccia per voi?». Gli risposero: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra».
Gesù disse loro: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?». Gli risposero: «Lo possiamo». E Gesù disse loro: «Il calice che io bevo, anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati. Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato».
Gli altri dieci, avendo sentito, cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni. Allora Gesù li chiamò a sé e disse loro: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».
Mc 10,35-45

Questo brano del vangelo di Marco, che è l’unico che fa seguito al terzo annunzio della passione, morte e risurrezione di Gesù, affronta il tema dei primi posti nel regno di Dio. Il racconto inizia riportando che i fratelli Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo, due discepoli della prima ora, si fanno avanti e chiedono a Gesù: “Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo». Egli disse loro: «Che cosa volete che io faccia per voi?». Gli risposero: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra»”.
Ciò che essi chiedono a Gesù è una posizione alquanto di privilegio rispetto agli altri discepoli. Essi lo chiedono non subito, ma al momento della gloria di Gesù, cioè quando egli, in quanto Messia, avrà sconfitto i suoi nemici e instaurato il regno di Dio. La pretesa dei due discepoli si comprende nel contesto storico di Gesù: essi condividevano ancora l’attesa di un Messia glorioso e potente, che avrebbe instaurato il regno di Dio vincendo i suoi nemici e distribuendo i posti di comando ai suoi seguaci più fedeli. Probabilmente la richiesta dei due discepoli è sembrata sconveniente a Matteo, che l’ha attribuita non ai due interessati, ma alla loro madre (v. Mt 20,20), mentre Luca evita persino di citare questo episodio.
Gesù risponde loro: “Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato”. Il calice simboleggia il destino di sofferenza che lo attende, mentre il battesimo significa l’immersione in una prova molto dolorosa. In altre parole Gesù chiede ai due discepoli se sono disposti a condividere la sua passione e la sua morte da lui appena preannunziate. Essi rispondono affermativamente, dimostrando così che, nonostante le loro ambizioni, sono legati al Maestro da una profonda amicizia, da renderli disponibili a condividere le sofferenze che, essi pensano, siano connesse con la lotta, forse anche militare, per attuare il regno di Dio.
Gesù non rifiuta la disponibilità dei due discepoli, ma è chiaro e tassativo sulle loro pretese: “Il calice che io bevo, anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati. Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato”.
Certo, essi parteciperanno fino in fondo alla sua esperienza di dolore e di morte, ma quanto ai primi posti, essi dipendono da Dio, che li darà a chi vuole. In altre parole i suoi discepoli non devono avere preoccupazioni per i primi posti o di onori speciali, ma limitarsi ad essere solidali con lui fino alla fine. Se dunque il discepolo partecipa veramente all’esperienza del suo Maestro, lo aspettano non certo trionfi e primi posti, ma sofferenza e morte. Alla fine però potrà partecipare alla sua gloria, non per merito suo, bensì per un dono gratuito da parte di Dio.
Gli altri discepoli, avendo sentito la richiesta di Giacomo e Giovanni protestano contro di loro. Rendendosi conto di queste proteste, Gesù chiama a sé i suoi discepoli e dice loro: “Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti”.
Con queste parole Gesù non si riferisce più al momento della gloria, cioè della venuta finale del regno di Dio, ma descrive l’esercizio dell’autorità nel gruppo dei discepoli e di riflesso nella comunità cristiana, mettendolo in contrasto con quanto avviene in questo mondo. I governanti delle nazioni, o almeno coloro che sono considerati come tali, “le dominano”, e i loro capi “le opprimono”, infatti anche nella società attuale coloro che detengono il potere lo usano per lo più a proprio vantaggio, sfruttando e utilizzando gli altri per i propri scopi egoistici. Tra i discepoli (o chi si professa cristiano) invece ciò non deve accadere, ma al contrario chi vuol diventare grande o essere il primo, deve farsi “servitore” o perfino “schiavo di tutti”.
I discepoli devono prendere perciò come modello lo stesso Gesù perchè: “Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti”.
Gesù attribuendosi l’appellativo di Figlio dell’uomo non pensa certamente alla figura gloriosa preannunziata dal profeta Daniele (Dn 7), ma si riferisce a se stesso in quanto partecipe dei limiti propri di ogni uomo, con il quale egli stabilisce un legame di profonda solidarietà. Questa si manifesta nel fatto che egli è venuto non “per farsi servire “, ma per “servire” e per dare la sua vita, cioè tutto se stesso, “in riscatto per molti”.
Per concludere si può dire che tutte le volte che il “discepolo”, sul quale incombe un incarico o una responsabilità, si trasforma in un capo orgoglioso ed egoista, egli distrugge la Chiesa di Dio, riducendola ad un’organizzazione sociopolitica. Cristo, invece, è in mezzo agli uomini come un servo, pronto a compiere quel gesto che nell’antico Israele non poteva essere imposto neppure ad uno schiavo, il lavare i piedi ad un’altra persona: “Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi." (Gv 13,14-15)


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“Le Letture bibliche ci presentano oggi il tema del servizio e ci chiamano a seguire Gesù nella via dell’umiltà e della croce.
Il profeta Isaia delinea la figura del Servo di Jahwé e la sua missione di salvezza. Si tratta di un personaggio che non vanta genealogie illustri, è disprezzato, evitato da tutti, esperto nel soffrire. Uno a cui non attribuiscono imprese grandiose, né celebri discorsi, ma che porta a compimento il piano di Dio attraverso una presenza umile e silenziosa e attraverso il proprio patire. La sua missione, infatti, si realizza mediante la sofferenza, che gli permette di comprendere i sofferenti, di portare il fardello delle colpe altrui e di espiarle. L’emarginazione e la sofferenza del Servo del Signore, protratte fino alla morte, si rivelano feconde, al punto tale da riscattare e salvare le moltitudini.
Gesù è il Servo del Signore: la sua vita e la sua morte, interamente nella forma del servizio (cfr Fil 2,7), sono state causa della nostra salvezza e della riconciliazione dell’umanità con Dio. Il kerigma, cuore del Vangelo, attesta che nella sua morte e risurrezione si sono adempiute le profezie del Servo del Signore. Il racconto di san Marco descrive la scena di Gesù alle prese con i discepoli Giacomo e Giovanni, i quali – supportati dalla madre – volevano sedere alla sua destra e alla sua sinistra nel regno di Dio, rivendicando posti d’onore, secondo una loro visione gerarchica del regno stesso. La prospettiva in cui si muovono risulta ancora inquinata da sogni di realizzazione terrena. Gesù allora dà un primo “scossone” a quelle convinzioni dei discepoli chiamando il suo cammino su questa terra: «Il calice che io bevo, anche voi lo berrete … ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra, non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato.
Con l’immagine del calice, Egli assicura ai due la possibilità di essere associati fino in fondo al suo destino di sofferenza, senza tuttavia garantire i posti d’onore ambiti. La sua risposta è un invito a seguirlo sulla via dell’amore e del servizio, respingendo la tentazione mondana di voler primeggiare e comandare sugli altri.
Di fronte a gente che briga per ottenere il potere e il successo, per farsi vedere, di fronte a gente che vuole siano riconosciuti i propri meriti, i propri lavori, i discepoli sono chiamati a fare il contrario. Pertanto li ammonisce: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore». Con queste parole indica il servizio quale stile dell’autorità nella comunità cristiana. Chi serve gli altri ed è realmente senza prestigio esercita la vera autorità nella Chiesa. Gesù ci invita a cambiare mentalità e a passare dalla bramosia del potere alla gioia di scomparire e servire; a sradicare l’istinto del dominio sugli altri ed esercitare la virtù dell’umiltà.
E dopo aver presentato un modello da non imitare, offre sé stesso quale ideale a cui riferirsi. Nell’atteggiamento del Maestro la comunità troverà la motivazione della nuova prospettiva di vita: «Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».
Nella tradizione biblica il Figlio dell’uomo è colui che riceve da Dio «potere, gloria e regno» (Dn 7,14). Gesù riempie di nuovo senso questa immagine e precisa che Egli ha il potere in quanto servo, la gloria in quanto capace di abbassamento, l’autorità regale in quanto disponibile al totale dono della vita. È infatti con la sua passione e morte che Egli conquista l’ultimo posto, raggiunge il massimo di grandezza nel servizio, e ne fa dono alla sua Chiesa.
C’è incompatibilità tra un modo di concepire il potere secondo criteri mondani e l’umile servizio che dovrebbe caratterizzare l’autorità secondo l’insegnamento e l’esempio di Gesù. Incompatibilità tra ambizioni, arrivismi e sequela di Cristo; incompatibilità tra onori, successo, fama, trionfi terreni e la logica di Cristo crocifisso. C’è invece compatibilità tra Gesù “esperto nel patire” e la nostra sofferenza. Ce lo ricorda la Lettera agli Ebrei, che presenta Cristo come il sommo sacerdote che condivide in tutto la nostra condizione umana, eccetto il peccato: «Non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato». Gesù esercita essenzialmente un sacerdozio di misericordia e di compassione. Egli ha fatto l’esperienza diretta delle nostre difficoltà, conosce dall’interno la nostra condizione umana; il non aver sperimentato il peccato non gli impedisce di capire i peccatori. La sua gloria non è quella dell’ambizione o della sete di dominio, ma è la gloria di amare gli uomini, assumere e condividere la loro debolezza e offrire loro la grazia che risana, accompagnarli con tenerezza infinita, accompagnarli nel loro tribolato cammino.
Ognuno di noi, in quanto battezzato, partecipa per parte propria al sacerdozio di Cristo; i fedeli laici al sacerdozio comune, i sacerdoti al sacerdozio ministeriale. Pertanto, tutti possiamo ricevere la carità che promana dal suo Cuore aperto, sia per noi stessi sia per gli altri: diventando “canali” del suo amore, della sua compassione, specialmente verso quanti sono nel dolore, nell’angoscia, nello scoraggiamento e nella solitudine.”
Papa Francesco Parte dell’Omelia di Papa Francesco del 18 ottobre 2015

1 Nota: Il termine “sacrificio di riparazione” nell’originale ebraico indica sacrificio offerto per togliere un peccato con cui erano stati lesi i diritti di una persona (V. Lv 5,14-19): la morte del Servo viene dunque compresa come un gesto sacrificale, il cui scopo è quello di eliminare i peccati del popolo. Si deve tener presente che nei sacrifici la vittima non era punita al posto del peccatore, ma veniva immolata perché il suo sangue servisse come strumento di riconciliazione con Dio (V. Lv 17,11). La lunga vita promessa al Servo dopo la sua morte indica il successo del suo sacrificio e la rinascita del popolo. Per mezzo suo infatti si compie la volontà di Dio, cioè la conversione del popolo e il suo ritorno nella terra promessa.

2 Il termine “riscatto” indica il prezzo con cui veniva liberato uno schiavo: nel linguaggio biblico indica invece l’azione con cui Dio acquista per sé il suo popolo liberandolo dall’Egitto, dove era tenuto come schiavo, senza però dover pagare alcun prezzo. Il termine «molti», usato più volte in Is 53, indica non alcuni a preferenza di altri, ma la moltitudine in senso inclusivo, quindi «tutti».
Il servizio di Gesù consiste dunque nel riaggregare e nel liberare non solo il popolo di Israele, ma tutta l’umanità, impegnandosi per essa fino alla morte.

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