La liturgia di questa terza domenica di Avvento, più di tutte le altre, è all’insegna della gioia e ci invita perciò alla letizia, alla gioia di saper vicina la nascita del Salvatore che recherà a tutti una grande speranza.
Nella prima lettura, il profeta Isaia vede nel futuro un inviato di Dio sul quale riposa lo Spirito del Signore per inaugurare un tempo di grazia e portare il lieto annuncio ai miseri. Nella Sinagoga di Nazareth, Gesù proclamerà cinque secoli dopo il compimento di questa profezia.
Nella seconda lettura, nella sua lettera ai Tessalonicesi l’apostolo Paolo li incoraggia a essere lieti e propone un vero e proprio codice di comportamento per tutta l’esistenza quotidiana: gioia, preghiera incessante, riconoscenza, impegno missionario, sapiente ricerca dei veri valori, purezza, e santità
Nel Vangelo di Giovanni, la sublime figura di Giovanni Battista ci ricorda di essere sempre vigili e pronti a superare la tentazione “originale”, sempre in agguato davanti alla nostra porta: metterci al posto di Dio. Egli, il più grande tra i nati di donna, presenta se stesso come continuatore della missione di Isaia e annuncia solennemente: In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete, colui che viene dopo di me: a lui io non sono degno di slegare il laccio del sandalo».
La missione di Giovanni dovrebbe essere quella di ogni discepolo: proclamare al mondo il Signore e la Sua azione perchè è Cristo che deve crescere ed è l’annunciatore che deve diminuire, lasciando il Signore al centro della scena.
Dal libro del profeta Isaia
Lo spirito del Signore Dio è su di me,
perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione;
mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai miseri,
a fasciare le piaghe dei cuori spezzati,
a proclamare la libertà degli schiavi,
la scarcerazione dei prigionieri,
a promulgare l’anno di grazia del Signore. …
Io gioisco pienamente nel Signore,
la mia anima esulta nel mio Dio,
perché mi ha rivestito delle vesti della salvezza,
mi ha avvolto con il mantello della giustizia,
come uno sposo si mette il diadema
e come una sposa si adorna di gioielli.
Poiché, come la terra produce i suoi germogli
e come un giardino fa germogliare i suoi semi,
così il Signore Dio farà germogliare la giustizia
e la lode davanti a tutte le genti.
Is 61,1-2a, 10-11
Questo capitolo è tratto dalla terza parte del libro del Profeta Isaia,(Terzo Isaia o Trito Isaia – titolo dato ad un personaggio non identificato ritenuto discepolo spirituale del secondo Isaia).
E’ stato scritto verso la fine dell’esilio di Babilonia (537-520 a.C.) e contiene una raccolta di oracoli che si differenziano non solo da quelli della prima, ma anche da quelli della seconda parte del libro.
Il brano inizia con la descrizione dell’intervento divino: “Lo spirito del Signore Dio è su di me, perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione”.È stato quindi lo Spirito a compiere sul profeta il rito dell’unzione che per i re veniva fatto dal sommo sacerdote. Di conseguenza colui che si esprime con queste parole, si presenta non solo come una figura profetica, ma anche come un autorevole capo religioso che prefigura il futuro Messia di Israele.
Dopo aver dichiarato pubblicamente l’intervento dello Spirito, il profeta descrive il compito che gli è stato affidato: “mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri”.
Il profeta dovrà rivolgersi anche ai rimpatriati, tra i quali si verificano ancora situazioni simili a quelle da loro patite in esilio. Inoltre egli deve “fasciare le piaghe dei cuori spezzati”, cioè ridare coraggio a persone deluse e depresse; infine il suo compito consiste nel “proclamare la libertà degli schiavi e la scarcerazione dei prigionieri”.
(Si erano manifestati in quel periodo fatti molto gravi tra i rimpatriati, alcuni infatti si erano indebitati fino al punto di vendersi come schiavi ai loro connazionali (Ne 5,1-13; Is 58,10). Tra di loro l’inviato di Dio dovrà eliminare le ingiustizie e le eccessive differenze sociali ed economiche , per fare di essi una comunità degna del suo Dio).
Infine il profeta indica come suo compito quello di “promulgare l’anno di misericordia del Signore” . Con queste parole si intende proclamare un giubileo straordinario. Quando il popolo ebraico era nella sua terra, ogni cinquant’anni celebrava la solennità del giubileo. Per questa occasione un araldo suonava il corno (in ebraico “jobel” che era un corno d'ariete, e questo termine ha dato origine alla parola giubileo) e annunziava che in quell’anno tutti gli schiavi dovevano essere liberati e i debiti condonati, la pace proclamata.
Il profeta si sente come quell’araldo e il giubileo che sta per inaugurarsi è destinato all’Israele dell’esilio babilonese. Il suo è un messaggio di speranza per i malati, è una promessa di liberazione per gli schiavi e i prigionieri è un appello alla consolazione per i poveri e per gli emarginati.
Il brano alla fine riprende l’inno conclusivo di ringraziamento a DIO:
“Io gioisco pienamente nel Signore, la mia anima esulta nel mio Dio, perché mi ha rivestito delle vesti della salvezza, mi ha avvolto con il mantello della giustizia, come uno sposo si mette il diadema e come una sposa si adorna di gioielli”.
Il motivo di tanta gioia consiste nel fatto che la comunità ha fatto l’esperienza della salvezza, che si identifica essenzialmente con la giustizia, che è preziosa come il diadema dello sposo o i gioielli della sposa durante la cerimonia nuziale. La Vergine Maria ha fatto sue nel Magnificat le parole:”la mia anima esulta nel mio Dio”!
Infine il motivo della gioia viene così approfondito: “Poiché, come la terra produce i suoi germogli e come un giardino fa germogliare i suoi semi, così il Signore Dio farà germogliare la giustizia e la lode davanti a tutte le genti”.
Il popolo viene immaginato come una terra in cui Dio fa germogliare non prodotti agricoli, ma la giustizia e la lode che si manifestano davanti a tutti i popoli.
L’alleanza perenne che Dio instaura con il Suo popolo consiste dunque in un rapporto sponsale, che comporta nel popolo un profondo rinnovamento interiore. Gli altri popoli assistono e sono anche loro, almeno in parte, coinvolti nella nuova situazione che si prospetta per Israele.
Impressiona come cinque secoli dopo, in una modesta sinagoga del villaggio di Nazareth, un’altra voce si leverà e ripeterà queste stesse parole citandole proprio dal rotolo di Isaia.
Gesù a quelle righe piene di speranza aggiungerò un commento folgorante fatto di una frase decisiva e scandalosa per gli uditori di quel sabato: “Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi”Lc 4,21
Dalla prima lettera di S.Paolo apostolo ai Tessalonicesi
Fratelli, siate sempre lieti, pregate ininterrottamente, in ogni cosa rendete grazie: questa infatti è volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi. Non spegnete lo Spirito, non disprezzate le profezie. Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono. Astenetevi da ogni specie di male.
Il Dio della pace vi santifichi interamente, e tutta la vostra persona, spirito, anima e corpo, si conservi irreprensibile per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo. Degno di fede è colui che vi chiama: egli farà tutto questo!
1Ts 5,16-24
La 1^ Lettera ai Tessalonicesi è probabilmente la più antica tra le lettere di S.Paolo e fu scritta dall’Apostolo all’inizio degli anni cinquanta. Paolo era stato a Tessalonica nel suo secondo viaggio (circa 20 anni dopo la morte di Gesù) e come spesso gli accadeva, era dovuto fuggire e pertanto aveva passato nella città poco tempo per svolgere una missione completa e approfondita (negli Atti 17,1-9 è riportato ciò che avvenne a Tessalonica). Paolo dunque è preoccupato della comunità che ha dovuto lasciare in fretta e manda Timoteo a constatare di persona come stavano le cose e le notizie positive che gli sono giunte lo rallegrano. Con questo stato d’animo scrive la sua lettera
Il brano che la liturgia ci presenta fa parte delle esortazioni che l’apostolo fa e che concludono le direttive su temi specifici. Dopo aver raccomandato ai tessalonicesi di avere rispetto per i responsabili della comunità, di correggere gli indisciplinati e incoraggiare i deboli, di non rendere male per bene, Paolo dopo li invita alla gioia e li esorta a far sì che questa gioia, che deve andare di pari passo con la preghiera, non venga mai meno, neppure in futuro.
Poi l’apostolo pone la sua attenzione sulle manifestazioni carismatiche della Chiesa e con tono deciso dichiara: “Non spegnete lo Spirito, non disprezzate i doni della profezia”.
Dal suo modo di esprimersi sembra che Paolo non si limiti a mettere in guardia circa un pericolo possibile, ma esorti a interrompere un comportamento deviante già in atto. È probabile che nella comunità di Tessalonica si fosse già verificata una repressione nei confronti dello slancio profetico suscitato dallo Spirito. L’apostolo, sapendo che in questo campo si possono commettere errori o restare confusi, esorta: “Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono. Astenetevi da ogni specie di male”. Non ci dovrà essere perciò nessuna preclusione, ma neppure una indiscriminata accettazione di ciò che viene proposto, bensì una saggia verifica per fare ciò che è bene e astenersi da ogni male.
Infine Paolo pronunzia una preghiera di supplica e si rivolge al Dio della pace perché porti a compimento nei destinatari la sua opera santificatrice: “Il Dio della pace vi santifichi interamente, e tutta la vostra persona, spirito, anima e corpo, si conservi irreprensibile per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo. Degno di fede è colui che vi chiama: egli farà tutto questo!”
La fiducia dei credenti non deve perciò avere la presuntuosa sicurezza di chi confida nelle proprie risorse, ma si deve basare unicamente sulla affidabilità del Padre.
Il tempo di Avvento ci mette quindi a confronto con l'azione di Dio che vuole "santificarci", e ci invita a corrispondere, a lasciarci trasformare, e soprattutto a non estrometterlo dalla nostra esistenza.
Dal vangelo secondo Giovanni
Venne un uomo mandato da Dio:
il suo nome era Giovanni.
Egli venne come testimone
per dare testimonianza alla luce,
perché tutti credessero per mezzo di lui.
Non era lui la luce,
ma doveva dare testimonianza alla luce.
Questa è la testimonianza di Giovanni, quando i Giudei gli inviarono da Gerusalemme sacerdoti e levìti a interrogarlo: «Tu, chi sei?». Egli confessò e non negò. Confessò: «Io non sono il Cristo». Allora gli chiesero: «Chi sei, dunque? Sei tu Elia?». «Non lo sono», disse. «Sei tu il profeta?». «No», rispose. Gli dissero allora: «Chi sei? Perché possiamo dare una risposta a coloro che ci hanno mandato. Che cosa dici di te stesso?». Rispose:
«Io sono voce di uno che grida nel deserto:
Rendete diritta la via del Signore,
come disse il profeta Isaìa».
Quelli che erano stati inviati venivano dai farisei. Essi lo interrogarono e gli dissero: «Perché dunque tu battezzi, se non sei il Cristo, né Elia, né il profeta?». Giovanni rispose loro: «Io battezzo nell’acqua. In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete, colui che viene dopo di me: a lui io non sono degno di slegare il laccio del sandalo». Questo avvenne in Betània, al di là del Giordano, dove Giovanni stava battezzando.
Gv 1, 6-8,19-28
Il Vangelo di Giovanni, ossia il quarto Vangelo, fu scritto in greco, ed è alquanto differente dai tre Vangeli sinottici che riportano racconti, miracoli, parole di Gesù fino a darcene un aspetto familiare che tutti conosciamo. Si presenta come il frutto della testimonianza del "discepolo che Gesù amava”, ma oggi molti studiosi fanno spesso riferimento ad una scuola giovannea nella quale sarebbe maturata la redazione del vangelo tra il 60 ed il 100 e delle lettere attribuite all'apostolo.
E’ composto da 21 capitoli e come gli altri vangeli narra il ministero di Gesù. Anche se è notevolmente diverso dagli altri tre vangeli sinottici, sembra presupporre la conoscenza almeno del Vangelo di Marco, di cui riproduce talvolta espressioni particolari. Mentre i Vangeli sinottici sono più orientati sulla predicazione del Regno di Dio da parte di Gesù, il quarto vangelo approfondisce la questione dell'identità del Cristo, inserendo ampie parentesi teologiche.
Origene, scrittore di Alessandria d’Egitto del III secolo, uno dei primi e migliori commentatori di S.Giovanni, definisce così il lettore ideale di questo vangelo: “Nessuno può comprendere il senso del vangelo di Giovanni se non si è chinato sul petto di Gesù e non ha ricevuto da Gesù, Maria come madre”.
Il brano che la liturgia propone, presenta con i primi versetti del prologo, la figura di Giovanni: “Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce”. Giovanni è dunque il testimone che deve introdurre non solo Israele, ma tutta l’umanità alla fede al Dio dell’alleanza che si manifesta nel Suo “Verbo incarnato”. .
Poi c’è una serie di domande che i sacerdoti, mandati dai farisei, fanno a Giovanni il Battista. “«Tu, chi sei?». …Sei tu Elia. «Sei tu il profeta?». «…Che cosa dici di te stesso?». Perchè battezzi?".
Gli interlocutori vorrebbero subito definire e giudicare questo strano profeta che si agita e grida nel deserto al di là del Giordano; e sono dunque infastiditi dalle ripetute negazioni che il Battista oppone alle loro domande. Giovanni rifiuta così di identificarsi con una delle due figure, l’una messianica e l’altra profetica, la cui comparsa era attesa come immediata preparazione alla venuta finale di Dio.
I membri della delegazione non sono soddisfatti delle parole evasive di Giovanni e gli ripropongono la domanda, chiedendogli questa volta una risposta soddisfacente da riferire a coloro che li avevano inviati. ma egli risponde loro semplicemente applicando a sé il detto di Isaia (40,3) “Io sono voce di uno che grida nel deserto: Rendete diritta la via del Signore,”
Secondo l’evangelista il Battista riconosce a se stesso la funzione dell’araldo, analoga a quella degli ignoti messaggeri che nel Deuteroisaia dovevano annunziare a Gerusalemme la fine dell’esilio e il ritorno degli esuli. Egli esclude così di essere uno dei mediatori escatologici attesi dai giudei, anzi nega qualsiasi importanza alla sua persona: ciò che conta è esclusivamente la sua missione.
Non soddisfatti, gli inviati di Gerusalemme pongono un’ultima domanda: “Perché dunque tu battezzi, se non sei il Cristo, né Elia, né il profeta?”.
In risposta Giovanni afferma: “Io battezzo nell’acqua. In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete, colui che viene dopo di me: a lui io non sono degno di slegare il laccio del sandalo”.
Affermando che la sua autorità deriva da un altro che si trova ormai in mezzo a loro, sebbene essi non lo conoscano, egli lo presenta come uno che viene “dopo” di lui, ma nonostante venga dopo di lui, è più importante di lui. Per indicare ciò, egli usa la stessa metafora a lui attribuita dai sinottici: egli non è neppure degno di svolgere nei suoi confronti il ruolo dello schiavo, al quale competeva il compito di slacciare i sandali del suo padrone.
Il brano mette in luce, con le parole stesse del Battista, già anticipate nel prologo, il ruolo che innegabilmente il Battista ha svolto nel preparare la venuta di Gesù.
Egli resta per tutti i tempi il testimone perfetto, modello di tutti coloro che, credendo in Gesù, lo presentano come l’unico capace di dare un senso pieno alla vita e alla storia umana.
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“Nelle scorse domeniche la liturgia ha sottolineato che cosa significhi porsi in atteggiamento di vigilanza e che cosa comporti concretamente preparare la strada del Signore. In questa terza domenica di Avvento, detta “domenica della gioia”, la liturgia ci invita a cogliere lo spirito con cui avviene tutto questo, cioè, appunto, la gioia. San Paolo ci invita a preparare la venuta del Signore assumendo tre atteggiamenti. Sentite bene: tre atteggiamenti. Primo, la gioia costante; secondo, la preghiera perseverante; terzo, il continuo rendimento di grazie. Gioia costante, preghiera perseverante e continuo rendimento di grazie.
Il primo atteggiamento, gioia costante: «Siate sempre lieti» , dice San Paolo. Vale a dire rimanere sempre nella gioia, anche quando le cose non vanno secondo i nostri desideri; ma c’è quella gioia profonda, che è la pace: anche quella è gioia, è dentro. E la pace è una gioia “a livello del suolo”, ma è una gioia. Le angosce, le difficoltà e le sofferenze attraversano la vita di ciascuno, tutti noi le conosciamo; e tante volte la realtà che ci circonda sembra essere inospitale e arida, simile al deserto nel quale risuonava la voce di Giovanni Battista, come ricorda il Vangelo di oggi .
Ma proprio le parole del Battista rivelano che la nostra gioia poggia su una certezza, che questo deserto è abitato: «In mezzo a voi – dice – sta uno che voi non conoscete». Si tratta di Gesù, l’inviato del Padre che viene, come sottolinea Isaia, «a portare il lieto annuncio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, a promulgare l’anno di grazia del Signore» (61,1-2). Queste parole, che Gesù farà sue nel discorso della sinagoga di Nazareth, chiariscono che la sua missione nel mondo consiste nella liberazione dal peccato e dalle schiavitù personali e sociali che esso produce. Egli è venuto sulla terra per ridare agli uomini la dignità e la libertà dei figli di Dio, che solo Lui può comunicare, e a dare la gioia per questo.
La gioia che caratterizza l’attesa del Messia si basa sulla preghiera perseverante: questo è il secondo atteggiamento. San Paolo dice: «Pregate ininterrottamente». Per mezzo della preghiera possiamo entrare in una relazione stabile con Dio, che è la fonte della vera gioia. La gioia del cristiano non si compra, non si può comprare; viene dalla fede e dall’incontro con Gesù Cristo, ragione della nostra felicità. E quanto più siamo radicati in Cristo, quanto più siamo vicini a Gesù, tanto più ritroviamo la serenità interiore, pur in mezzo alle contraddizioni quotidiane. Per questo il cristiano, avendo incontrato Gesù, non può essere un profeta di sventura, ma un testimone e un araldo di gioia. Una gioia da condividere con gli altri; una gioia contagiosa che rende meno faticoso il cammino della vita.
Il terzo atteggiamento indicato da Paolo è il continuo rendimento di grazie, cioè l’amore riconoscente nei confronti di Dio. Egli infatti è molto generoso con noi, e noi siamo invitati a riconoscere sempre i suoi benefici, il suo amore misericordioso, la sua pazienza e bontà, vivendo così in un incessante ringraziamento.
Gioia, preghiera e gratitudine sono tre atteggiamenti che ci preparano a vivere il Natale in modo autentico. Gioia, preghiera e gratitudine. Diciamo tutti insieme: gioia, preghiera e gratitudine [la gente in Piazza ripete] Un’altra volta! [ripetono]. In questo ultimo tratto del tempo di Avvento, ci affidiamo alla materna intercessione della Vergine Maria. Lei è “causa della nostra gioia”, non solo perché ha generato Gesù, ma perché ci rimanda continuamente a Lui.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 17 dicembre 2017