Ogni domenica, la liturgia ci propone determinate letture, che se anche non hanno un filo conduttore tra loro, ci aiutano sempre a conoscere meglio il Signore Gesù. Sono come un mosaico che formano un dipinto, un’opera d’arte che trova il suo compimento solo alla fine.
Nella prima lettura, tratta dal libro del Deuteronomio, il Signore, per bocca di Mosè, promette al popolo di suscitare tra di loro in continuità, un profeta, cioè un uomo non compromesso con centri di potere politico e religioso, che possa essere un porta-parola di Dio. Sulla base di questo testo i Giudei hanno atteso il Messia come un nuovo Mosè.
Nella seconda lettura, nella sua lettera ai corinzi, l’apostolo Paolo continua ad indicare i motivi che gli fanno ritenere la verginità superiore al matrimonio. L’apostolo non pensa certo che il celibato possa eliminare del tutto le preoccupazioni legate alla vita in questo mondo, ma sembra convinto che possa attenuarle, affinché il credente sia unicamente preoccupato per le cose del Signore. Secondo Paolo chi ha rinunziato al matrimonio ha trovato la sua unità profonda nell’appartenere totalmente a Cristo, chi invece è sposato deve tendere anche lui alle realtà ultime del regno, ma servendosi di un mezzo, il proprio coniuge, che facilmente, per la debolezza umana, tende a separarlo da Cristo e a porsi come fine autonomo della sua vita.
L’evangelista Marco, nel brano del suo Vangelo, ci racconta che la gente osserva che Gesù insegna con autorità e che la sua dottrina è nuova, confrontata con quella degli scribi. Quando poi Gesù libera l’uomo posseduto dallo spirito impuro sono presi da timore e si chiedono chi sia mai costui che persino agli spiriti impuri e gli obbediscono!».
Dal libro del Deuteronomio
Mosè parlò al popolo dicendo: «Il Signore, tuo Dio, susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me. A lui darete ascolto. Avrai così quanto hai chiesto al Signore, tuo Dio, sull’Oreb, il giorno dell’assemblea, dicendo: “Che io non oda più la voce del Signore, mio Dio, e non veda più questo grande fuoco, perché non muoia”. Il Signore mi rispose: “Quello che hanno detto, va bene. Io susciterò loro un profeta in mezzo ai loro fratelli e gli porrò in bocca le mie parole ed egli dirà loro quanto io gli comanderò. Se qualcuno non ascolterà le parole che egli dirà in mio nome, io gliene domanderò conto. Ma il profeta che avrà la presunzione di dire in mio nome una cosa che io non gli ho comandato di dire, o che parlerà in nome di altri dèi, quel profeta dovrà morire”».
Dt 18,15-20
Il Deuteronomio è il quinto e ultimo libro del Pentateuco e ha la funzione di concludere la storia delle origini di Israele, e di fornire una sintesi delle tradizioni di fede contenute nella Torah. È stato scritto in ebraico e, secondo l'ipotesi condivisa da molti studiosi, la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte
È’ composto da 34 capitoli descriventi la storia degli Ebrei durante il loro soggiorno nel deserto del Sinai (circa 1200 a.C.) e contiene varie leggi religiose e sociali (nella Torah, o “Legge mosaica”, sono enumerati anche un insieme di 613 mitzvòt, o precetti). Dopo la Prima Legge, data da Dio sul Sinai, il Deuteronomio (Deuteros nomos) si presenta come la "Seconda Legge", la nuova Legge che Mosè consegna al popolo poco prima di morire e invita a tradurre l'amore per Dio nella vita sociale e familiare, non limitandosi dunque allo stretto compimento della Legge.
E’ uno dei libri più intensi di tutto l’Antico Testamento, e presenta una lettura teologica della storia del popolo eletto: Mosè, prima di morire, ricorda a Israele gli avvenimenti passati, mostrando come essi facciano parte di una economia salvifica che ha come punti centrali la promessa ai Padri, l’elezione d’Israele fra tutti i popoli della terra e l’alleanza sinaitica. Questa consapevolezza di appartenere a Dio, privilegio unico ed esclusivo, fa nascere nel popolo l’esigenza di una risposta decisa e libera a favore di Dio e della Sua legge.
In questo brano, dopo aver messo in guardia il popolo contro coloro che praticano la divinazione e la magia, Mosè indica come alternativa il ruolo dei profeti, presentandoli come i più immediati continuatori della sua opera e indica i criteri da adottare per provare la loro autenticità
Mosè esordisce con una promessa: “Il Signore tuo Dio susciterà per te, in mezzo a te, fra i tuoi fratelli, un profeta pari a me; a lui darete ascolto”, vale a dire i profeti suscitati da Dio saranno “simili a Mosè”, cioè avranno le sue stesse prerogative: ciò significa che i veri continuatori dell’opera di Mosè non saranno i re o i sacerdoti, ma uomini scelti di volta in volta da DIO e dotati di un carisma particolare.
L’origine divina del ruolo del profeta fa sì che il popolo sia tenuto ad ascoltare le loro parole per cui obbedire al profeta significa infatti obbedire a Dio.
Alla promessa iniziale Mosè aggiunge una motivazione: “Avrai così quanto hai chiesto al Signore, tuo Dio, sull’Oreb, il giorno dell’assemblea, dicendo: “Che io non oda più la voce del Signore, mio Dio, e non veda più questo grande fuoco, perché non muoia”.
Quanto descritto si riferisce al racconto della teofania avvenuta ai piedi del Sinai, quando il popolo, spaventato dai lampi e dai tuoni mediante i quali Dio si faceva sentire e dettava personalmente il decalogo, aveva chiesto a Mosè “Parla tu a noi e noi ascolteremo, ma non ci parli Dio, altrimenti moriremo!”.(Es 20,19). Tutto questo Mosè l’aveva fatto durante la sua vita e i profeti faranno dopo la sua morte.
Mosè riprende poi la promessa appena fatta mettendola direttamente sulla bocca di Dio, il quale dice di aver concesso quanto gli israeliti gli avevano chiesto durante la teofania e conferma quanto Mosè ha detto e continua precisando: “Io susciterò loro un profeta in mezzo ai loro fratelli e gli porrò in bocca le mie parole ed egli dirà loro quanto io gli comanderò.”
L’immagine è suggestiva: il profeta dovrà parlare, ma le parole che dirà non saranno sue, ma di DIO che parlerà attraverso di lui., per cui le parole umane del profeta saranno a tutti gli effetti parole di Dio. Questo intervento speciale del Signore in favore del profetismo ha importanti conseguenze, sia per il popolo che per lo stesso profeta.
Anzitutto per il popolo: “Se qualcuno non ascolterà le parole che egli dirà in mio nome, io gliene domanderò conto”.
Poi per il profeta: “Ma il profeta che avrà la presunzione di dire in mio nome una cosa che io non gli ho comandato di dire, o che parlerà in nome di altri dèi, quel profeta dovrà morire”.
Non viene richiesta un’obbedienza cieca, ma piuttosto una capacità di discernimento, il cui criterio principale è che il profeta parli a nome di DIO, e non degli idoli.
Il profeta è dunque un uomo che parla in nome di Dio e che agisce solo sotto la Suo azione, ma è anche uno che scopre la parola di Dio attraverso un cammino di riflessione umana alla luce della fede sugli eventi di cui è testimone.
Ciò appare chiaro dal fatto che, secondo il Deuteronomio, anche il profeta può sbagliare: se ciò dovesse accadere, egli dovrà rendere conto del proprio errore; ma anche il popolo, se si lascerà condurre per strade errate, sarà responsabile del proprio comportamento. Questa affermazione dunque rende responsabile anche il popolo che dovrà così essere dotato di un carisma profetico.
La stessa ispirazione che agisce nel profeta dunque deve illuminare chi lo ascolta affinché sappia discernere nelle sue parole la parola di Dio.
Salmo 95 (94) Ascoltate oggi la voce del Signore.
Venite, cantiamo al Signore,
acclamiamo la roccia della nostra salvezza.
Accostiamoci a lui per rendergli grazie,
a lui acclamiamo con canti di gioia.
Entrate: prostràti, adoriamo,
in ginocchio davanti al Signore che ci ha fatti.
È lui il nostro Dio e noi il popolo del suo pascolo,
il gregge che egli conduce.
Se ascoltaste oggi la sua voce!
«Non indurite il cuore come a Merìba,
come nel giorno di Massa nel deserto,
dove mi tentarono i vostri padri:
mi misero alla prova pur avendo visto le mie opere».
Il salmo è un invito alla preghiera durante una visita al tempio, probabilmente durante la festa delle capanne, che celebrava il cammino nel deserto (Cf. Dt 31,11), visto che il salmo ricorda l'episodio di Massa e Meriba.
Dio è presentato come “roccia della nostra salvezza”, indicando la roccia la sicurezza data da Dio di fronte ai nemici.
Egli è “grande re sopra tutti gli dei”; sono gli dei concepiti dai pagani, dietro i quali striscia l'azione dei demoni
Egli è colui che ha in suo potere ogni cosa: “Nella sua mano sono gli abissi della terra, sono sue le vette dei monti...”.
Il gruppo orante è invitato ad accostarsi a Dio, cioè ad entrare nell'atrio del tempio. Successivamente il gruppo è invitato a prostrarsi davanti al Signore. Segue l'invito ad ascoltare la voce del Signore. Nel silenzio dell'adorazione davanti al tempio Dio muove il cuore (“la sua voce”) indirizzandolo al bene, all'obbedienza dei comandamenti, al cambiamento della vita.
“Non indurite il cuore”; il cuore indurito non ascolta la voce del Signore e segue i suoi pensieri, ma si troverà a vagare nei deserti di un'esistenza senza Dio, senza alcun riposo.
Commento di P.Paolo Berti
Dalla prima lettera di San Paolo apostolo ai Corinzi
Fratelli, io vorrei che foste senza preoccupazioni: chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore, come possa piacere al Signore; chi è sposato invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere alla moglie, e si trova diviso!
Così la donna non sposata, come la vergine, si preoccupa delle cose del Signore, per essere santa nel corpo e nello spirito; la donna sposata invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere al marito.
Questo lo dico per il vostro bene: non per gettarvi un laccio, ma perché vi comportiate degnamente e restiate fedeli al Signore, senza deviazioni.
1Cor 7,32-35
Paolo scrivendo ai Corinzi, continua a rispondere ai loro quesiti, riguardante la vita sessuale nel matrimonio e nel celibato. In questo brano in particolare esordisce così:
“io vorrei che foste senza preoccupazioni: chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore, come possa piacere al Signore;”
Chi ha abbracciato la fede cristiana deve impegnarsi a comprendere cosa è bene e cosa è male, cosa porta al Signore e ciò che invece ci distoglie da Lui e dal Suo amore. Secondo Paolo chi non è sposato ha maggiori possibilità di dedicarsi alle cose del Signore. E’ evidente che la spiritualità di Paolo riguardo il matrimonio è alquanto preconcetta.
“chi è sposato invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere alla moglie, e si trova diviso! “
Paolo sente gli effetti della mentalità dualista della sua epoca, che contrappone il mondo presente e il mondo di Dio. Dobbiamo ricordare che nel matrimonio i due coniugi assumono dei doveri l'uno verso l'altro e che quindi è una scelta che va presa in modo serio e vissuta fino in fondo. Non si rinuncia al Signore, se si sceglie il matrimonio, anzi si può comprendere ancora di più come Dio è il compendio di ogni amore.
“Così la donna non sposata, come la vergine, si preoccupa delle cose del Signore, per essere santa nel corpo e nello spirito; la donna sposata invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere al marito.”
Paolo ripete il concetto indirizzandolo al femminile. Egli presenta il coniuge come un immaginabile concorrente di Dio in amore. Se è vero che l’impegno per il coniuge e per la famiglia può ostacolare il completo interesse per Dio e per i fratelli, non si può non ammettere che anche il celibato comporta il rischio di uno spiritualismo che non è il linea con le esigenze reali delle persone. Il matrimonio infatti impone un continuo e diretto confronto con l’altro (il coniuge, i figli e la società), al quale il celibe può facilmente sottrarsi.
“Questo lo dico per il vostro bene: non per gettarvi un laccio, ma perché vi comportiate degnamente e restiate fedeli al Signore, senza deviazioni”.
Paolo si rende conto che sostenendo la superiorità del celibato potrebbe urtare la sensibilità di quanti vivono la vita matrimoniale, ma di fatto tutte le realtà di questo mondo, se vissute con troppa apprensione o troppo materialismo possono distoglierci dal servire bene il Signore.
La nostra umana sensibilità ci porta oggi a ritenere che entrambe le scelte (sia quella della castità, come quella matrimoniale) sono vocazioni di vita, che se vissute nel bene, nulla tolgono al regno di Dio, per cui sono sempre efficaci per seguire Gesù. Ciascuno ha il suo proprio dono, come afferma sempre Paolo (1 Cor 7,7) e in quanto reciproco dono, ciascuno, per la sua parte, collabora alla crescita del corpo di Cristo che è la Chiesa.
Dal Vangelo secondo Marco
In quel tempo, Gesù, entrato di sabato nella sinagoga, [a Cafàrnao,] insegnava. Ed erano stupiti del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi. Ed ecco, nella loro sinagoga vi era un uomo posseduto da uno spirito impuro e cominciò a gridare, dicendo: «Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!». E Gesù gli ordinò severamente: «Taci! Esci da lui!». E lo spirito impuro, straziandolo e gridando forte, uscì da lui.
Tutti furono presi da timore, tanto che si chiedevano a vicenda: «Che è mai questo? Un insegnamento nuovo, dato con autorità. Comanda persino agli spiriti impuri e gli obbediscono!». La sua fama si diffuse subito dovunque, in tutta la regione della Galilea.
Mc 1,21-28
L’evangelista Marco dopo aver raccontato la chiamata dei quatto pescatori, riporta una serie di brani ambientati a Cafarnao, località che Gesù ha scelto come centro della Sua attività in Galilea. Gli eventi narrati sono distribuiti nell’arco di una giornata-tipo, che Gesù viveva.
Il brano liturgico propone il primo episodio di questa piccola serie, la liberazione di un indemoniato.
L’evangelista presenta Gesù che insegna in un giorno di sabato nella sinagoga di Cafarnao e sottolinea che i presenti “erano stupiti del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi”,quando insegnavano nelle sinagoghe.
Dopo questa introduzione sull’insegnamento di Gesù, l’evangelista racconta il fatto dell’indemoniato che è presentato come un uomo posseduto da uno “spirito impuro”. Impressiona subito il fatto che questo spirito impuro stia in un luogo di culto come una sinagoga, e ci stia tranquillo, senza essere scoperto, fino all’arrivo di Gesù, e solo al Suo arrivo gli si rivolge chiedendogli, con tono ostile : “Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!”. L’espressione “che vuoi da noi” oltre ad indicare che non aveva nulla in comune con Gesù, il demonio lo accusa di essere venuto a mettere in pericolo il suo potere, e usando la prima persona plurale, dimostra di rappresentare un numero molto vasto di forze opposte a Dio, ma soprattutto mostra anche di conoscere la vera identità di Gesù.
L’appellativo “santo di Dio” che gli attribuisce, mette in luce il particolare rapporto che Egli ha con Dio: il demonio dunque considera Gesù come colui che, in quanto rappresentante di Dio, possiede un potere opposto al suo. Gesù allora sgrida duramente il demonio e gli “ordinò severamente: «Taci! Esci da lui!»”.
E’ questa la prima volta in cui l’evangelista introduce, per iniziativa dello stesso Gesù, il velo del segreto messianico. E lo spirito impuro, straziandolo e gridando forte, uscì da lui.”
Lo “spirito impuro” non può far altro che obbedire, pur provocando urla e contorsioni nel povero posseduto. In tal modo Gesù dimostra di avere un potere superiore a quello dei demoni.
Al termine del racconto viene ripreso il tema iniziale: la gente è meravigliata, rendendosi conto che egli propone una dottrina nuova e la insegna con autorità. La dottrina nuova insegnata da Gesù consiste naturalmente nell’annunzio dell’imminente venuta del regno di Dio e con la liberazione dell’indemoniato la sua autorità viene qualificata non solo più in rapporto al suo modo di insegnare, ma anche perchè “comanda persino agli spiriti impuri e gli obbediscono”. Il gesto da lui compiuto fa sì che la sua fama si diffonda in tutta la regione della Galilea.
L’evangelista sottolinea così per la prima volta che Gesù comincia ad essere conosciuto anche al di fuori della sua regione, cioè in zone abitate quasi esclusivamente da pagani. Si parlerà in seguito di folle venute appunto dalle regioni confinanti con la Galilea, di pagani che si mescolano ai giudei.
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“Il Vangelo di questa domenica fa parte della più ampia narrazione indicata come la “giornata di Cafarnao”. Al centro dell’odierno racconto sta l’evento dell’esorcismo, attraverso il quale Gesù è presentato come profeta potente in parole e in opere.
Egli entra nella sinagoga di Cafarnao di sabato e si mette a insegnare; le persone rimangono stupite delle sue parole, perché non sono parole ordinarie, non assomigliano a quanto loro ascoltano di solito. Gli scribi, infatti, insegnano ma senza avere una propria autorevolezza. E Gesù insegna con autorità. Gesù, invece, insegna come uno che ha autorità, rivelandosi così come l’Inviato di Dio, e non come un semplice uomo che deve fondare il proprio insegnamento solo sulle tradizioni precedenti. Gesù ha una piena autorevolezza. La sua dottrina è nuova e il Vangelo dice che la gente commentava: «Un insegnamento nuovo, dato con autorità» .
Al tempo stesso, Gesù si rivela potente anche nelle opere. Nella sinagoga di Cafarnao c’è un uomo posseduto da uno spirito immondo, che si manifesta gridando queste parole: «Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!» . Il diavolo dice la verità: Gesù è venuto per rovinare il diavolo, per rovinare il demonio, per vincerlo. Questo spirito immondo conosce la potenza di Gesù e ne proclama anche la santità. Gesù lo sgrida, dicendogli: «Taci! Esci da lui» . Queste poche parole di Gesù bastano per ottenere la vittoria su Satana, il quale esce da quell’uomo «straziandolo e gridando forte», dice il Vangelo.
Questo fatto impressiona molto i presenti; tutti sono presi da timore e si chiedono: «Ma, chi è mai questo? […] Comanda persino agli spiriti impuri e gli obbediscono!» La potenza di Gesù conferma l’autorevolezza del suo insegnamento. Egli non pronuncia solo parole, ma agisce. Così manifesta il progetto di Dio con le parole e con la potenza delle opere. Nel Vangelo, infatti, vediamo che Gesù, nella sua missione terrena, rivela l’amore di Dio sia con la predicazione sia con innumerevoli gesti di attenzione e soccorso ai malati, ai bisognosi, ai bambini, ai peccatori.
Gesù è il nostro Maestro, potente in parole e opere. Gesù ci comunica tutta la luce che illumina le strade, a volte buie, della nostra esistenza; ci comunica anche la forza necessaria per superare le difficoltà, le prove, le tentazioni.
Pensiamo a quale grande grazia è per noi aver conosciuto questo Dio così potente e così buono! Un maestro e un amico, che ci indica la strada e si prende cura di noi, specialmente quando siamo nel bisogno.
La Vergine Maria, donna dell’ascolto, ci aiuti a fare silenzio attorno e dentro di noi, per ascoltare, nel frastuono dei messaggi del mondo, la parola più autorevole che ci sia: quella del suo Figlio Gesù, che annuncia il senso della nostra esistenza e ci libera da ogni schiavitù, anche da quella del Maligno.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 28 gennaio 2018