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Feb 26, 2021

II Domenica di Quaresima - Anno B - "La Trasfigurazione di Gesù" - 28 febbraio 2021

La liturgia di questa seconda domenica di quaresima, hanno come sfondo spaziale un monte e si aprono entrambe ad una rivelazione.
Nella prima lettura, tratta dal Libro della Genesi, abbiamo il monte Moria – che la tradizione identificherà simbolicamente col colle del Tempio di Gerusalemme – a raccogliere una drammatica e gloriosa rivelazione di Dio destinata ad Abramo, nostro padre nella fede, come lo definirà S.Paolo . La narrazione è la storia di un credente che scopre anche attraverso la strada impervia del silenzio di Dio, la promessa di una salvezza piena. Infatti quel terribile e silenzioso viaggio di tre giorni affrontato da Abramo verso la vetta della prova possiamo scorgere l’esempio di ogni itinerario di fede.
Nella seconda lettura, Paolo, nella sua lettera ai Romani, fa un vibrante inno all’amore di Dio, che si manifesta nel dono del Figlio. L’antica figura di Isacco è diventata realtà in Cristo: “Dio non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi”..
Nel Vangelo di Marco troviamo il racconto della Trasfigurazione di Gesù, che avviene su di un monte, il cui nome non è citato nei Vangeli, anche se la tradizione cristiana lo identificherà col monte Tabor, in Galilea.
La Trasfigurazione è l’anticipazione della gloria del risorto. Solo chi cammina con Cristo sulla via della croce, può giungere con Lui alla gloria luminosa della resurrezione.

Dal libro della Genesi
In quei giorni, Dio mise alla prova Abramo e gli disse: «Abramo!». Rispose: «Eccomi!». Riprese: «Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, va’ nel territorio di Mòria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò».
Così arrivarono al luogo che Dio gli aveva indicato; qui Abramo costruì l’altare, collocò la legna. Poi Abramo stese la mano e prese il coltello per immolare suo figlio. Ma l’angelo del Signore lo chiamò dal cielo e gli disse: «Abramo, Abramo!». Rispose: «Eccomi!». L’angelo disse: «Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli niente! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unigenito». Allora Abramo alzò gli occhi e vide un ariete, impigliato con le corna in un cespuglio. Abramo andò a prendere l’ariete e lo offrì in olocausto invece del figlio.
L’angelo del Signore chiamò dal cielo Abramo per la seconda volta e disse: «Giuro per me stesso, oracolo del Signore: perché tu hai fatto questo e non hai risparmiato tuo figlio, il tuo unigenito, io ti colmerò di benedizioni e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare; la tua discendenza si impadronirà delle città dei nemici. Si diranno benedette nella tua discendenza tutte le nazioni della terra, perché tu hai obbedito alla mia voce».
Gen 22,1-2,9a,10-13,15-18

Questo celeberrimo racconto rappresenta il punto culminante della vicenda di Abramo, che occupa tutta la prima sezione della seconda parte della Genesi.
Sappiamo che dopo varie vicende, fra slanci di fede e umilianti sconfitte, Abramo ha ottenuto finalmente Isacco, il figlio della promessa. Ma proprio ora avviene un terribile colpo di scena: Dio domanda ad Abramo di offrirglielo in sacrificio.
Il brano inizia riportando che “Dio mise alla prova Abramo…” Ciò che sta per chiedergli è talmente terribile da preparare chi legge al fatto che Dio non lo vuole veramente, ma intende semplicemente saggiare fino in fondo e in modo definitivo il cuore di Abramo, quanto sia forte la sua fede in Lui.
Dio pronunzia due volte il nome del patriarca: “Abramo, Abramo!” per indicare il momento solenne, decisivo dal quale dipende il futuro di Abramo e del popolo che nascerà da lui.
Con quell’“Eccomi!” Abramo si dichiara pronto per ascoltare ciò che Dio gli dice: “Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, va’ nel territorio di Mòria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò”.
La richiesta è veramente terribile, difficile da credere che Dio che è Amore voglia un sacrificio umano di un figlio ”unigenito”, che un padre ha tanto atteso e che ora ama immensamente, più di ogni altra cosa . È importante anche la designazione del luogo in cui dovrà attuarsi il sacrificio, si tratta infatti del monte Moria, che in un altro testo (v. 2Cr 3,1) è indicato come il luogo in cui sorgerà il tempio di Gerusalemme.
Nel testo non vengono descritti i sentimenti contrastanti di Abramo e nei versetti non presenti nel brano liturgico, viene riportato che “Abramo si alzò di buon mattino, sellò l’asino, prese con sé due servi e il figlio Isacco, spaccò la legna per l’olocausto e si mise in viaggio verso il luogo che Dio gli aveva indicato”, e alla domanda che Isacco, giunti sul monte Moria fece al padre: “Ecco qui il fuoco e la legna, ma dov’è l’agnello per l’olocausto?” “Abramo rispose “ Dio stesso provvederà l’agnello per l’olocausto, figlio mio!”.
Questi versetti sono importanti perchè evidenziano l’obbedienza cieca e silenziosa di Abramo, ma soprattutto la sua fede incrollabile per il suo Dio.
Molti esperti giustamente si sono chiesti: come può Abramo aver pensato che Dio gli potesse chiedere questo suo figlio tanto atteso, il figlio della promessa? E come Abramo ha potuto distinguere la vera voce di Dio?
La deduzione a cui sono giunti ci permette di fare un passo in più per comprendere il mistero di Dio: Abramo osservando i suoi contemporanei si sarà accorto che essi amavano a tal punto i loro dèi da sacrificare i loro primogeniti. Gli sembrò allora che l’amore di Dio potesse esigere da lui il sacrificio di Isacco, il figlio della promessa, tanto atteso e amato.
Ma è qui che Dio interviene e per fermarlo invia il suo angelo per dirgli: “Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli niente! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unigenito”. Dio non vuole la morte dell’uomo, ma la vita!
Abramo, che aveva già sacrificato Isacco nel proprio cuore, lo poté considerare così come un salvato da morte, come un risuscitato, perciò i Padri della Chiesa hanno visto nel sacrificio di Isacco, la prefigurazione del sacrificio di Cristo.
Al termina del racconto Dio rinnova ad Abramo con un solenne giuramento le promesse che gli aveva fatto precedentemente, motivandole nuovamente col fatto che egli “non ha risparmiato” il suo unico figlio “io ti colmerò di benedizioni e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare. la tua discendenza si impadronirà delle città dei nemici. Si diranno benedette nella tua discendenza tutte le nazioni della terra, perché tu hai obbedito alla mia voce”

Nota: E’ da tenere presente che l’idea ebraica di Dio ai tempi di Abramo, fosse una monolatria, ossia l’adorazione di un unico Dio, ma senza escludere che gli altri popoli avessero i loro dèi, infatti non si trova prima del Deuteronomio un vero e proprio monoteismo, ovvero un Dio unico e universale. Dopo l’esilio i pochi reduci del popolo d’Israele, non solo continuano a fidarsi del loro Dio, il che è contro l’apparente logica umana, ma addirittura arrivano ad affermare che il loro è l’unico Dio! Non ce ne sono altri. Lui è il Creatore dell’universo, tutto è uscito dalla Sua opera!

Salmo 115 Camminerò alla presenza del Signore nella terra dei viventi.
Ho creduto anche quando dicevo:
«Sono troppo infelice».
Agli occhi del Signore
è preziosa la morte dei suoi fedeli.

Ti prego, Signore, perché sono tuo servo;
io sono tuo servo, figlio della tua schiava:
tu hai spezzato le mie catene.
A te offrirò un sacrificio di ringraziamento
e invocherò il nome del Signore.

Adempirò i miei voti al Signore
davanti a tutto il suo popolo,
negli atri della casa del Signore,
in mezzo a te, Gerusalemme.

Il salmista ha provato momenti di sgomento di fronte agli inganni degli uomini. Si era trovato imprigionato, ma poi ha visto la libertà: “hai spezzato le mie catene”. Come risposta di il salmista offrirà “un sacrificio di ringraziamento".
Una parte delle vittime sacrificate spettava all'offerente, che la consumava in un convito coi famigliari, gli amici, i poveri (Cf. Ps 21,27). Durante il convito l'offerente prendeva una coppa di vino presentandola al Signore e poi ne beveva lui e tutti gli altri: “Alzerò il calice della salvezza”.
Il salmista dice che “Agli occhi del Signore è preziosa la morte dei suoi fedeli”, intendendo affermare che l'ora della morte dei fedeli a Dio non è ad arbitrio degli uomini. Lui decide il dove, il come e il quando, e questo per il bene del fedele.
Il salmista offrirà "un sacrificio di ringraziamento" davanti a tutto il popolo, e con piena ortodossia nel tempio del Signore, a Gerusalemme, testimoniando così pubblicamente la sua fede nel Signore.
L'esistenza del tempio porta a pensare ad un personaggio perseguitato per la sua fedeltà a Dio da un qualche re di Gerusalemme rivolto agli dei pagani; come fu il caso di Geremia.
“Il calice della salvezza”, nel sensus plenior è quello eucaristico.
Commento di P.Paolo Berti

Dalla lettera di S.Paolo apostolo ai Romani
Fratelli, se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui? Chi muoverà accuse contro coloro che Dio ha scelto?
Dio è colui che giustifica!
Chi condannerà? Cristo è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi!
Rm 8,31b-34

San Paolo scrisse la lettera ai Romani da Corinto probabilmente tra gli anni 58-59. La comunità dei cristiani di Roma era già ben formata e coordinata, ma lui ancora non la conosceva. Forse il primo annuncio fu portato a Roma da quei “Giudei di Roma”, presenti a Gerusalemme nel giorno della Pentecoste e che accolsero il messaggio di Pietro e il Battesimo da lui amministrato, diventando cristiani. Nacque subito la necessità di avere a Roma dei presbiteri e questi non poterono che essere nominati a Gerusalemme.
La Lettera ai Romani, che è uno dei testi più alti e più impegnativi degli scritti di Paolo, ed è anche la più lunga e più importante come contenuto teologico, è composta da 16 capitoli: i primi 11 contengono insegnamenti sull'importanza della fede in Gesù per la salvezza, contrapposta alla vanità delle opere della Legge; il seguito è composto da esortazioni morali. Paolo, in particolare, fornisce indicazioni di comportamento per i cristiani all'interno e all'esterno della loro comunità
Nel capitolo 8, da dove è tratto questo brano, Paolo riprende in chiave positiva il tema della giustificazione, mostrando come, una volta eliminata la minaccia di una legge che si impone dall’esterno all’uomo peccatore, la salvezza portata da Cristo si manifesta come una vita nuova animata e guidata dallo Spirito.
Nel brano che abbiamo, Paolo mette in risalto come nulla possa ormai pregiudicare il cammino di liberazione del credente e introduce due prime domande che riguardano il problema in generale:”se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?” In forza della scelta speciale che ha fatto in loro favore, Dio è ormai dalla parte dei credenti. Nulla quindi potrà essere contro di loro. Poi prosegue: Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui? Chi muoverà accuse contro coloro che Dio ha scelto? Dio è colui che giustifica!
Se Dio è giunto fino al punto di non risparmiare il proprio Figlio, anzi di “consegnarlo” per tutti loro, egli non potrà non donare loro ogni cosa insieme con Lui.
Infine pone la stessa domanda, dandone la risposta, riguardo a Cristo: Chi condannerà? Cristo è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi!
Certo non sarà Cristo Gesù a condannare coloro per i quali è morto ed è risorto, e ora sta alla destra di Dio dove intercede per loro. Se hanno dalla loro parte sia Dio che Suo Figlio Gesù, i credenti non hanno nulla da temere: nessuno, se non loro stessi, potrà privarli di quei beni che Gesù ha acquistato loro con la Sua morte e risurrezione.

Dal Vangelo secondo Marco
In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli. Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù. Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati. Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce:
«Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!».
E improvvisamente,guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro.
Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti. Ed essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti
Mc 9,2-10

L’episodio della Trasfigurazione anche nel Vangelo di Marco, come negli altri vangeli sinottici, è inserito nella fase cruciale del ministero pubblico di Gesù, cioè tra la confessione di Pietro, la rivelazione del Messia sofferente, e l’inizio dell’ultimo pellegrinaggio verso Gerusalemme.
Il brano inizia riportando che “Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli”. Marco non dice quale fosse l’alto monte su cui si è verificato l’evento. Questo monte stato identificato dalla tradizione cristiana con il Tabor, un tozzo colle di 582 metri che incombe sulla fertile valle di Izreel in Galilea, in senso simbolico richiama spiritualmente il Sinai su cui il luogo in cui Dio si rivela al Suo popolo.
Possiamo ora considerare l’evento della trasfigurazione, strettamente legata alla passione del Signore e di conseguenza un anticipo della gloria della Sua risurrezione.
“Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche”
L’effetto di questa trasfigurazione viene indicato mediante il candore straordinario delle sue vesti . Marco non poteva trovare altre definizioni perchè lo splendore di quelle vesti, avevano una luminosità, un candore tipica degli esseri celesti, che appartengono al mondo divino, che nessuna parola umana può descrivere. Accanto a Gesù, in atto di conversare con Lui, appaiono Elia e Mosè. Tutta la tradizione dell’AT è raccolta in queste due figure: Mosè che parlava faccia a faccia con Dio e ne ha contemplato la gloria, ed Elia, il profeta che ha sperimentato la voce del silenzio, il mistero insondabile e che Dio ha preso con sé in cielo.
La scena provoca la surreale reazione di Pietro,il quale, rivolgendosi a Gesù, gli dice: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia».
Si manifesta ancora una volta l’incomprensione dei discepoli. Pietro percepisce che quanto vede ha a che fare con la rivelazione di Dio, tuttavia interviene interrompendo n qualche modo la visione stessa. Di fronte alla manifestazione gloriosa di Gesù rimane solo il silenzio adorante, ma questo è ancora troppo per i discepoli e sullo stupore meravigliato prevale la paura di fronte a ciò che sovrasta l’uomo.
L’evangelista non spiega che cosa intendesse effettivamente Pietro, ma sottolinea che i tre erano talmente spaventati da non sapere che cosa dire. La loro confusione mentale era anche probabilmente l’effetto del sacro terrore che accompagna di solito la manifestazione del divino.
La richiesta di Pietro è in linea con l’episodio di Cesarea di Filippo, quando egli, di fronte all’annunzio della imminente morte e risurrezione di Gesù, aveva duramente protestato (Mc 8,32-33): in ambedue i casi egli si dimostra interessato alla gloria del Cristo, piuttosto che alla Sua sofferenza e morte.
Dopo l’intervento di Pietro una nube copre con la sua ombra Gesù, Elia e Mosè e da essa esce una voce che dice: “Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!”. La presenza della nube, segno classico della presenza di Dio, rievoca l‘apparizione del Figlio dell‘uomo (Dn 7,13) e la proclamazione di Gesù come “Figlio mio, l’amato” ricorda la scena del battesimo al Giordano. ... Al Giordano però non ci sono testimoni e la voce è solo per Gesù , ora invece essa è rivolta ai discepoli. Proprio Gesù è il Figlio, e perché è il diletto, paradossalmente, è colui che sarà destinato alla morte. L’appello è di ascoltarlo!
Improvvisamente, dopo aver ascoltato la voce, i tre discepoli si guardano intorno e non vedono più nessuno se non Gesù. Questo brusco ritorno alla realtà quotidiana sottolinea il carattere singolare della visione: Gesù resta quello che era, ma i discepoli hanno compreso qualcosa di Lui che va al di là della percezione esterna e sensoriale.
Mentre scendono dalla montagna Gesù ordina ai tre di non raccontare a nessuno l’accaduto prima che avvenga la risurrezione del Figlio dell’uomo .
L’evangelista evidenzia che “essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti”. Questa incomprensione dei discepoli spiega la ragione perchè essi si troveranno del tutto smarriti e impreparati di fronte all‘evento della risurrezione.
Tra i tanti spunti che si possono trarre da questo racconto colpisce la domanda ingenua di Pietro: “Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne …” L’apostolo vorrebbe subito essere nella pace e nella gloria della Pasqua, cancellando la quaresima della vita col suo cammino oscuro e con la morte.
Pietro qui ci rappresenta tutti quando vogliamo che non ci sia anche per noi la via della croce, quando sogniamo una scorciatoia facile che ci porti subito dal monte della trasfigurazione, cioè dai momenti di luce e di pace, alla Gerusalemme celeste della Pasqua definitiva.
Come Abramo, invece, dobbiamo percorrere la valle oscura delle prove; come Gesù dobbiamo discendere nella pianura quotidiana della Galilea, pronti a salire verso il picco più alto della prova, il Monte Moria o il Calvario, dove però si aprirà anche la luce della promessa e della Pasqua.

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“Il Vangelo di oggi, seconda domenica di Quaresima, ci invita a contemplare la trasfigurazione di Gesù.
Questo episodio va collegato a quanto era accaduto sei giorni prima, quando Gesù aveva svelato ai suoi discepoli che a Gerusalemme avrebbe dovuto «soffrire molto ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere» (Mc 8,31). Questo annuncio aveva messo in crisi Pietro e tutto il gruppo dei discepoli, che respingevano l’idea che Gesù venisse rifiutato dai capi del popolo e poi ucciso. Loro infatti attendevano un Messia potente, forte, dominatore, invece Gesù si presenta come umile, come mite, servo di Dio, servo degli uomini, che dovrà donare la sua vita in sacrificio, passando attraverso la via della persecuzione, della sofferenza e della morte.
Ma come poter seguire un Maestro e Messia la cui vicenda terrena si sarebbe conclusa in quel modo? Così pensavano loro. E la risposta arriva proprio dalla trasfigurazione.
Che cos’è la trasfigurazione di Gesù? E’ un’apparizione pasquale anticipata.
Gesù prese con sé i tre discepoli Pietro, Giacomo e Giovanni e «li condusse su un alto monte» e là, per un momento, mostra loro la sua gloria, gloria di Figlio di Dio. Questo evento della trasfigurazione permette così ai discepoli di affrontare la passione di Gesù in modo positivo, senza essere travolti. Lo hanno visto come sarà dopo la passione, glorioso. E così Gesù li prepara alla prova.
La trasfigurazione aiuta i discepoli, e anche noi, a capire che la passione di Cristo è un mistero di sofferenza, ma è soprattutto un dono di amore, di amore infinito da parte di Gesù. L’evento di Gesù che si trasfigura sul monte ci fa comprendere meglio anche la sua risurrezione.
Per capire il mistero della croce è necessario sapere in anticipo che Colui che soffre e che è glorificato non è solamente un uomo, ma è il Figlio di Dio, che con il suo amore fedele fino alla morte ci ha salvati. Il Padre rinnova così la sua dichiarazione messianica sul Figlio, già fatta sulle rive del Giordano dopo il battesimo, ed esorta: «Ascoltatelo!».
I discepoli sono chiamati a seguire il Maestro con fiducia, con speranza, nonostante la sua morte; la divinità di Gesù deve manifestarsi proprio sulla croce, proprio nel suo morire «in quel modo», tanto che l’evangelista Marco pone sulla bocca del centurione la professione di fede: «Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!» (15,39).
Ci rivolgiamo ora in preghiera alla Vergine Maria, la creatura umana trasfigurata interiormente dalla grazia di Cristo.
Ci affidiamo fiduciosi al suo materno aiuto per proseguire con fede e generosità il cammino della Quaresima.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 25 febbraio 2018

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