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Mar 20, 2021

V Domenica di Quaresima - Anno B - "La nuova alleanza con il Signore" - 21 Marzo 2021

Le letture liturgiche di questa V domenica di Quaresima ci invitano a meditare per arrivare a conoscere sempre di più il Signore, il mistero della Sua passione e morte per arrivare a contemplarlo nella Sua gloriosa resurrezione.
Nella prima lettura il profeta Geremia annuncia l’alleanza nuova, che Dio vuole fare con il suo popolo imprimendo la Sua legge nel cuore degli uomini e perdonando i loro peccati. L’osservanza di questa nuova alleanza dipenderà dalla qualità del rapporto di amore che ci sarà tra Dio ed ogni singola persona. Si tratterà quindi di una relazione di amore personale, che implica la fedeltà ed il desiderio profondo e sincero di piacere a Dio e di cercare sempre la Sua volontà.
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera agli Ebrei, il suo straordinario autore afferma che Gesù non offrì a Dio doni e sacrifici per i peccati, ma offrì se stesso in un contesto di preghiera. Egli ha attraversato la sofferenza della morte con fedeltà filiale, perciò Dio lo ha reso perfetto, consacrato sacerdote, fonte di salvezza per tutti i credenti.
Nel Vangelo di Giovanni, viene descritta una scena posteriore all’ingresso di Gesù a Gerusalemme e appartiene a quel clima di segni e di presagi che attraversano le ore dell’avvicinamento di Gesù alla Sua morte. Raramente è dato percepire il divino e l’umano di Gesù in simbiosi così stretta, e il Suo mistero salvifico unito alla Sua sofferenza.

Dal libro del profeta Geremia
Ecco, verranno giorni – oracolo del Signore –, nei quali con la casa d’Israele e con la casa di Giuda concluderò un’alleanza nuova. Non sarà come l’alleanza che ho concluso con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dalla terra d’Egitto, alleanza che essi hanno infranto, benché io fossi loro Signore. Oracolo del Signore.
Questa sarà l’alleanza che concluderò con la casa d’Israele dopo quei giorni – oracolo del Signore– porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo.
Non dovranno più istruirsi l’un l’altro, dicendo: «Conoscete il Signore», perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande – oracolo del Signore –, poiché io perdonerò la loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato.
Ger 31,31-34

Nel libro del profeta Geremia troviamo raccontata in modo autobiografico la sua vita. Sappiamo così che la sua chiamata avvenne intorno al 626 a.C. quando ancora era un ragazzo e desiderava sposarsi con la sua Giuditta, ma Dio stesso glielo proibisce, ed è per questo che è stato l’unico profeta celibe dell’A.T. a differenza di tutti gli altri. Aveva un carattere mite e, all'inizio della sua missione, in cui era giovane inesperto, dovette affrontare il momento più difficile e decisivo della storia della nazione giudaica, quello che conduce all'esilio in Babilonia (587 a.C.). Egli tenta di tutto: scuote il torpore del popolo con una predicazione che chiede una radicale conversione; appoggia la riforma nazionalista e religiosa del re Giosia (622 a.C.); cerca di convincere tutti alla sottomissione al dominio di Babilonia dopo la morte del re (609 a.C). Incompreso, perseguitato, spesso minacciato di morte, Geremia, timido ma amico di Dio, non cessa di lanciare angosciati appelli alla conversione, non esita a mostrare a dito i responsabili che hanno deviato il popolo. Egli se la prende con la falsa coscienza dei benpensanti che si credono nel giusto, solo perchè osservano le pratiche religiose, senza viverle nell’animo. Geremia, profeta del dolore e della misericordia, che preannuncia più di ogni altro la figura di Gesù, rimane per il suo popolo, e per tutti i cristiani, un testimone della speranza. Egli fu anche l’esempio di una incorruttibile fedeltà alla propria vocazione, qualunque siano le difficoltà. La sua intimità con Dio e la religione del cuore, che egli ha vissuto e predicato, fanno di lui il profeta-maestro della vita interiore dell’uomo di ogni tempo.
Questo brano è tratto dal cosiddetto “Libro della consolazione” ed è considerato uno dei vertici spirituali dell’A.T . C’era già una alleanza, quella che sul Sinai Dio consegnò a Mosè e questa alleanza esigeva l’adesione esclusiva al Signore, che si realizzava nel compimento della legge e dei precetti. Per questo la legge era formulata con chiarezza e stilata da una duplice serie di benedizioni e maledizioni, ma l’uomo, nella storia non fu capace di essere fedele a questa legge. Ora Dio ne dona una nuova con particolari caratteristiche: Porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore.
io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo.
Non dovranno più istruirsi l’un l’altro, dicendo: «Conoscete il Signore», perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande io perdonerò la loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato
È un‘alleanza definitiva, promessa di misericordia e perdono. Geremia preannuncia una conoscenza di Dio non più attraverso la mediazione della Legge, ma attraverso l’esperienza interiore per cui la conoscenza di Dio entra nel cuore dell’uomo.
Tutto ciò anche se non esclude l’importanza di seguire le indicazioni di una dottrina, ci ricorda che prima di tutto c’è il nostro rapporto personale con Dio. Questa è la grande alleanza di Dio: entrare nel cuore dell’uomo, nell’interno della sua vita, di tutto il suo essere, affinché l’uomo non possa più rifiutarlo, respingerlo, abbandonarlo, allontanarlo! Gesù stesso rievocherà la promessa di Geremia nella sera dell’ultima cena, quando definirà la coppa pasquale del vino “il calice della nuova alleanza”.
Noi come cristiani possiamo rileggere la promessa di Geremia alla luce della croce di Cristo, di quell’istante fondamentale in cui egli “elevato da terra ha attirato tutti a sé" (Gv12,32)

Salmo 51 (50) Crea in me, o Dio, un cuore puro.

Pietà di me, o Dio, nel tuo amore;
nella tua grande misericordia
cancella la mia iniquità.
Lavami tutto dalla mia colpa,
dal mio peccato rendimi puro.

Crea in me, o Dio, un cuore puro,
rinnova in me uno spirito saldo.
Non scacciarmi dalla tua presenza
e non privarmi del tuo santo spirito.

Rendimi la gioia della tua salvezza,
sostienimi con uno spirito generoso.
Insegnerò ai ribelli le tue vie
e i peccatori a te ritorneranno.

Questo salmo la tradizione lo dice scritto da Davide dopo il suo peccato, e mi pare di dovere aggiungere durante la congiura del figlio Assalonne, dove Davide vide avverarsi la sventura sulla sua casa annunciatagli dal profeta Natan (2Sam 12,10).
Fa un po’ di difficoltà all’attribuzione a Davide del salmo l’ultimo versetto dove l’orante invoca che siano rialzate le mura di Gerusalemme, poiché questo porterebbe al tempo del ritorno dall’esilio. E’ comune, tuttavia, risolvere il caso dicendo che è un’aggiunta messa durante l’esilio per un adattamento del salmo alla situazione di distruzione di Gerusalemme.
Ma considerando che il salmo non poteva essere adatto in tutto alla situazione dell’esilio, poiché sacrifici ed olocausti (“non gradisci il sacrificio; se offro olocausti, non li accetti”) in terra straniera non potevano essere fatti, bisogna pensare che le mura abbattute sono un’immagine drammatica della presa di possesso di Gerusalemme da parte di Assalonne; Gerusalemme era conquistata e come “Città di Davide” veniva a finire.
L’orante si apre a Dio in un invocazione di misericordia. Domanda pietà.
Si sente imbrattato interiormente. Il rimorso lo attanaglia, si sente nella sventura. Non ricorre alla presentazioni di circostanze, di spinte al peccato, lui coscientemente l’ha fatto: “Contro di te, contro te solo ho peccato, quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto”. Tuttavia presenta a Dio la sua debolezza di creatura ferita dall’antica colpa che destò al senso la carne: “Ecco, nella colpa sono io stato nato, nel peccato mi ha concepito mia madre”. Con ciò non intende scusarsi poiché aggiunge che Dio vuole la sincerità nell'intimo, cioè nel cuore, e che anche illumina intimamente il cuore dell’uomo affinché non ceda alle lusinghe del peccato: “Ma tu gradisci la sincerità nel mio intimo, nel segreto del cuore mi insegni la sapienza”.
Ancora l’orante innalza a Dio un grido per essere purificato, per essere liberato dalle sventure che lo colpiscono.
Egli prosegue la sua supplica chiedendo: “Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo”. Il peccato lo ha indebolito, gli sta sempre dinanzi e vorrebbe non averlo commesso.
E’ umile, pienamente umile, e domanda a Dio di non essere respinto dalla sua presenza e privato del dono del suo “santo spirito”; quel “santo spirito” che aveva ricevuto al momento della sua consacrazione a re. Quel “santo spirito” che gli dava forza e sapienza nel governare e nel guidare i sudditi al bene, all’osservanza della legge.
Consapevole della sua debolezza ora domanda umilmente di essere aiutato: “sostieni con me un spirito generoso”.
Ha creato del male ad Israele col suo peccato, ma rimedierà, con l’aiuto di Dio: “Insegnerò ai ribelli le tue vie e i peccatori a te ritorneranno”.
Ma il peccato veramente gli “sta sempre dinanzi”. Egli non solo è stato adultero, ma anche omicida: “Liberami dal sangue, o Dio, Dio mia salvezza”. Salvato dal peccato che l’opprime, egli esalterà la giustizia di Dio, che si attua nella misericordia. Salvato, dal peso del peccato e dalla rottura con Dio egli potrà di nuovo lodare Dio: “La mia bocca proclami la tua lode”.
Ha provato a presentare a Dio sacrifici e olocausti, ma è stato rifiutato. Così ha percependo il rifiuto di Dio è arrivato al massimo del dolore, e questo dolore di contrito lo presenta a Dio: “Uno spirito contrito è sacrificio a Dio”. Egli sa che Dio non disprezza “un cuore contrito e affranto”.
Davide presenta infine Sion, Gerusalemme, che è stata occupata e con ciò è stata messa in difficoltà l’unità di Israele che con tanta fatica aveva saputo costruire.
Riedificate le mura di Gerusalemme, nel senso di ricomposta la forza di Gerusalemme, sede dell’arca e del trono, e attuato un risveglio religioso in Israele, allora i sacrifici e gli olocausti torneranno ad essere graditi a Dio perché fatti nell’osservanza alla legge, nella corrispondenza al dono dell’alleanza.
Commento di P.Paolo Berti

Dalla lettera agli Ebrei
Cristo, nei giorni della sua vita terrena, offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito. Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono.
Eb 5,7-9

L’ autore della Lettera agli Ebrei è rimasto anonimo, anche se nei primi tempi si è pensato a Paolo di Tarzo, ma sia la critica antica che moderna, ha escluso quasi concordemente questa attribuzione.
L’autore è certamente di origine giudaica, perchè conosce perfettamente la Sacra Scrittura, ha una fede integra e profonda, una grande cultura, ma tutte le congetture fatte sul suo nome rimangono congetture, si può solo dedurre che nel cristianesimo primitivo ci furono notevoli personalità oltre agli apostoli, anche se sono rimaste sconosciute.
Quanto ai destinatari – ebrei – è certo che l’autore non si rivolge agli ebrei per invitarli a credere in Cristo, il suo scopo è invece quello di ravviare la fede e il coraggio ai convertiti di antica data, con tutta probabilità di origine giudaica. Infatti per discutere con essi, l’autore cita in continuazione la Scrittura e richiama incessantemente le idee e le realtà più importanti della religione giudaica.
In questo breve brano, l’autore, dopo aver proclamato nei versetti precedenti Gesù Cristo “figlio di Dio e sacerdote in eterno” fa questa riflessione: “Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono” L’obbedienza che Cristo imparò dalla Sua sofferenza consiste nell’adesione radicale al progetto di Dio, che lo ha guidato nelle scelte decisive della Sua vita. La sottomissione alla volontà del Padre viene presentata spesso nel N.T. come un aspetto specifico del comportamento di Gesù (V. Mc 14,36; Gv 4,34; 10,18) e Paolo in modo speciale sottolinea come l’obbedienza di Cristo si sia manifestata nella sofferenza della morte (V. Fil 2,8; Rm 5,19). Ma ciò che la lettera agli Ebrei evidenzia, in piena sintonia con il racconto evangelico della passione, è il fatto che questa obbedienza ha richiesto una fatica notevole per superare la naturale paura della sofferenza e della morte.
L’aspetto più specifico del sacerdozio di Cristo sta quindi nell’accettazione libera, anche se sofferta, della morte, che certo non è stata voluta dal Padre, ma imposta dalle circostanze concrete della storia. L’obbedienza di Cristo ha anche come risultato la salvezza eterna di tutti coloro che “gli obbediscono”. Obbedire significa qui accettare la totalità del messaggio di Cristo, ma soprattutto seguire l’esempio che Egli ha offerto a tutti nel Suo affidarsi all’amore del Padre, anche quando poteva sembrare che il Padre l’avesse abbandonato (V.Mt 27,46).
Per questa ragione, soltanto Gesù è causa di salvezza eterna, vera e definitiva per coloro che credono in Lui. Il mistero di Cristo non lo si può certo avvicinare con pigrizia, torpore e tantomeno indifferenza!

Dal Vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa c’erano anche alcuni Greci. Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, e gli domandarono: «Signore, vogliamo vedere Gesù».
Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù. Gesù rispose loro: «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato. In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà. Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome». Venne allora una voce dal cielo: «L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!».
La folla, che era presente e aveva udito, diceva che era stato un tuono. Altri dicevano: «Un angelo gli ha parlato». Disse Gesù: «Questa voce non è venuta per me, ma per voi. Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me». Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire.
Gv 12,20-33

La scena descritta in questo brano del Vangelo di Giovanni viene dopo l’ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme e appartiene a quel clima di segni e di presagi che attraversano le ore precedenti la Sua passione.
L’evangelista nei versetti precedenti questo brano, aveva annotato un amaro commento dei farisei: “Ecco che il mondo gli è andato dietro!” E a conferma di questo egli ci riporta che in quella occasione alcuni greci avevano espresso il desiderio di vedere Gesù. Non ci dice chi erano: potevano essere anche giudei della diaspora, che parlavano la lingua greca, ma anche dei pagani che avevano aderito alla religione giudaica, senza però arrivare alla circoncisione e tutto ciò che essa comportava.
Essi si rivolsero, forse per il suo nome greco, a Filippo, il quale con Andrea, il cui nome è anch’esso greco, fece presente a Gesù la loro richiesta. Gesù rispose: “È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato”. … poi continuò portando l’esempio del chicco di grano, che se“caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto”, e proseguì poi affermando che “Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna”. Infine a tutti coloro che volevano servirlo, rivolse l’invito a seguirlo, perché siano con lui e vengano onorati dal Padre. Il concetto fondamentale espresso in tutti questi detti è quello di una morte che rivela al mondo la gloria di Dio in quanto coinvolge tutti gli uomini in una vita di comunione piena con Lui.
Anche se la risposta di Gesù non sembra in sintonia con la richiesta dei greci, con essa però l’evangelista vuole affermare che anche i non giudei potranno vedere Gesù, accettando la nuova vita da Lui annunziata, ma solo dopo che Egli, con la Sua glorificazione, avrà portato a termine l’opera che il Padre gli ha affidato.
Infine l’evangelista inserisce un brano in cui viene anticipata la preghiera di Gesù nel Getsemani con la quale Gesù svela il suo turbamento: “Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome”.
A questo punto venne una voce dal cielo: “L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!”.
La voce venne udita dai presenti, alcuni dei quali dissero “che era stato un tuono” mentre “Altri dicevano: «Un angelo gli ha parlato», ma Gesù disse: “Questa voce non è venuta per me, ma per voi. Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me”. E l’evangelista commenta: Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire.
Le parole con cui Gesù annunzia il suo prossimo innalzamento, provocarono un’ultima obiezione da parte della folla, che nei versetti non riportati nel brano, osservò: “Noi abbiamo appreso dalla Legge che il Cristo rimane in eterno; come dunque tu dici che il Figlio dell’uomo deve essere elevato? Chi è questo Figlio dell’uomo?”.
Gesù replicò “Ancora per poco tempo la luce è con voi. Camminate mentre avete la luce, perché non vi sorprendano le tenebre; chi cammina nelle tenebre non sa dove va. Mentre avete la luce credete nella luce, per diventare figli della luce”. Detto ciò si allontanò rendendosi irreperibile.
Gesù non nega dunque l’eternità del Cristo, ma afferma che la sua permanenza in questo mondo è limitata nel tempo e ha come unico scopo quello di illuminare gli uomini portandoli alla fede.
Possiamo rilevare che Gesù nel suo discorso sembra che voglia sciogliere uno dei contrasti più tragici dell’esistenza, quello tra morte e vita. Il seme sprofonda nell’oscurità della terra, nel terreno sembra che l’energia del seme sia votata a spegnersi, infatti il seme marcisce e muore … eppure quando in estate biondeggiano le messi, è svelato il segreto fecondo di quella morte.
Si percepisce come Gesù vede incombere su di sé la morte, tuttavia non la presenta come un qualcosa di irreparabile. Anche se essa è tenebra, dolore, lacerazione, e distacco, per Gesù ha la forza segreta di un parto, racchiude in sé un mistero di fecondità e di risurrezione. E’ in questa luce che Gesù formula, allora, la grande legge della croce:
Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna.
Gesù sente che deve passare attraverso la via oscura della morte di croce per portare l’umanità sulla via luminosa della vita eterna, che è sinonimo di piena e perfetta comunione con Dio.

 

*****

 

" Il Vangelo di oggi racconta un episodio avvenuto negli ultimi giorni della vita di Gesù. La scena si svolge a Gerusalemme, dove Egli si trova per la festa della Pasqua ebraica. Per questa celebrazione rituale sono arrivati anche alcuni greci; si tratta di uomini animati da sentimenti religiosi, attirati dalla fede del popolo ebraico e che, avendo sentito parlare di questo grande profeta, si avvicinano a Filippo, uno dei dodici apostoli, e gli dicono: «Vogliamo vedere Gesù». Giovanni pone in risalto questa frase, centrata sul verbo vedere, che nel vocabolario dell’evangelista significa andare oltre le apparenze per cogliere il mistero di una persona. Il verbo che utilizza Giovanni, “vedere”, è arrivare fino al cuore, arrivare con la vista, con la comprensione fino all’intimo della persona, dentro la persona.
La reazione di Gesù è sorprendente. Egli non risponde con un “sì” o con un “no”, ma dice: «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato». Queste parole, che sembrano a prima vista ignorare la domanda di quei greci, in realtà danno la vera risposta, perché chi vuole conoscere Gesù deve guardare dentro alla croce, dove si rivela la sua gloria. Guardare dentro alla croce. Il Vangelo di oggi ci invita a volgere il nostro sguardo al crocifisso, che non è un oggetto ornamentale o un accessorio di abbigliamento – a volte abusato! – ma è un segno religioso da contemplare e comprendere. Nell’immagine di Gesù crocifisso si svela il mistero della morte del Figlio come supremo atto di amore, fonte di vita e di salvezza per l’umanità di tutti i tempi. Nelle sue piaghe siamo stati guariti.
Posso pensare: “Come guardo io il crocifisso? Come un’opera d’arte, per vedere se è bello o non bello? O guardo dentro, entro nelle piaghe di Gesù fino al suo cuore? Guardo il mistero del Dio annientato fino alla morte, come uno schiavo, come un criminale?”. Non dimenticatevi di questo: guardare il crocifisso, ma guardarlo dentro. C’è questa bella devozione di pregare un Padre Nostro per ognuna delle cinque piaghe: quando preghiamo quel Padre Nostro, cerchiamo di entrare attraverso le piaghe di Gesù dentro, dentro, proprio al suo cuore. E lì impareremo la grande saggezza del mistero di Cristo, la grande saggezza della croce.
E per spiegare il significato della sua morte e risurrezione, Gesù si serve di un’immagine e dice: «Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto». Vuole far capire che la sua vicenda estrema – cioè la croce, morte e risurrezione – è un atto di fecondità – le sue piaghe ci hanno guariti – una fecondità che darà frutto per molti. Così paragona sé stesso al chicco di grano che marcendo nella terra genera nuova vita. Con l’Incarnazione Gesù è venuto sulla terra; ma questo non basta: Egli deve anche morire, per riscattare gli uomini dalla schiavitù del peccato e donare loro una nuova vita riconciliata nell’amore. Ho detto “per riscattare gli uomini”: ma, per riscattare me, te, tutti noi, ognuno di noi, Lui ha pagato quel prezzo. Questo è il mistero di Cristo. Va’ verso le sue piaghe, entra, contempla; vedi Gesù, ma da dentro.
E questo dinamismo del chicco di grano, compiutosi in Gesù, deve realizzarsi anche in noi suoi discepoli: siamo chiamati a fare nostra questa legge pasquale del perdere la vita per riceverla nuova ed eterna. E che cosa significa perdere la vita? Cioè, che cosa significa essere il chicco di grano? Significa pensare di meno a sé stessi, agli interessi personali, e saper “vedere” e andare incontro ai bisogni del nostro prossimo, specialmente degli ultimi. Compiere con gioia opere di carità verso quanti soffrono nel corpo e nello spirito è il modo più autentico di vivere il Vangelo, è il fondamento necessario perché le nostre comunità crescano nella fraternità e nell’accoglienza reciproca. Voglio vedere Gesù, ma vederlo da dentro. Entra nelle sue piaghe e contempla quell’amore del suo cuore per te, per te, per te, per me, per tutti.
La Vergine Maria, che ha tenuto sempre lo sguardo del cuore fisso al suo Figlio, dalla mangiatoia di Betlemme fino alla croce sul Calvario, ci aiuti a incontrarlo e conoscerlo così come Lui vuole, perché possiamo vivere illuminati da Lui, e portare nel mondo frutti di giustizia e di pace.”

Papa Francesco Parte dell’Angelus del 18 marzo

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(Papa Giovanni XXIII)

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