Le letture liturgiche delle domeniche precedenti ci hanno presentato un Gesù dominatore delle malattie e delle potenze demoniache. Oggi il suo potere si allarga fino ad abbracciare gli elementi della natura nella loro raffigurazione più grandiosa e potente: il mare. Il mare esercita su tutti un fascino straordinario: è un segno dell’infinito quando esso si distende davanti agli occhi di chi lo contempla, ma è anche il simbolo del mistero più oscuro quando si scatena in una tempesta o in un maremoto.
Anche la prima lettura, tratta dal discorso divino indirizzato a Giobbe fa riferimento al mare come simbolo del caos e delle potenze oscure di fronte al quale l’uomo ha i suoi limiti: “Fin qui giungerai e non oltre e qui s’infrangerà l’orgoglio delle tue onde”.
Nella seconda lettura, l’apostolo Paolo, nella sua seconda lettera ai Corinzi, afferma che nella sua missione non è mosso da considerazioni umane, ma il suo criterio di valutazione e le sue relazioni sono ispirati dalla fede in Cristo morto e risorto.
Nel Vangelo di Marco, Gesù calma il mare in tempesta. Nel racconto primeggiano due domande: quella di Gesù che chiede ai suoi discepoli: Non avete ancora fede?». e quella dei discepoli che si domandano: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?»La loro domanda si apre sul mistero di Cristo e dimostra che i discepoli non hanno ancora capito chi sia il loro maestro, oppure hanno persino timore di riconoscere che solo Dio poteva operare un tale prodigio.
Dal libro di Giobbe
Il Signore prese a dire a Giobbe in mezzo all’uragano:
«Chi ha chiuso tra due porte il mare,
quando usciva impetuoso dal seno materno,
quando io lo vestivo di nubi
e lo fasciavo di una nuvola oscura,
quando gli ho fissato un limite,
gli ho messo chiavistello e due porte
dicendo: “Fin qui giungerai e non oltre
e qui s’infrangerà l’orgoglio delle tue onde”?».
Gb 38,1-8-11
Il Libro di Giobbe, composto da 42 capitoli, è stato scritto in ebraico e secondo l'ipotesi di molti studiosi, la prima redazione risale all'XI-X secolo a.C., mentre la redazione definitiva, con le aggiunte in prosa, è stata composta in Giudea verso il 575 a.C.. La storia di Giobbe nasce dagli infiniti interrogativi che il problema del male porta all'umanità. Ci troviamo di fronte ad una ricerca drammatica sul senso dell'esistenza, sull'amore di Dio, e sulla fedeltà verso di Lui.
Ambientata in un paese favoloso, anche per quel tempo, dell'Antico Medio Oriente, il protagonista, Giobbe, un fedele di Dio, prima ricco e felice, e poi improvvisamente colpito dalla sventura, perde i figli, i beni, la salute. Sarà poi afflitto da una piaga maligna, sarà cacciato anche di casa dalla moglie, stanca di quest'uomo per la sua fedeltà incrollabile. Qualcuno ha commentato che per rendere peggiore la situazione di Giobbe, Dio gli ha lasciato quel tipo di moglie. Giobbe soffriva non solo per il dolore fisico e per l’incomprensione dei suoi familiari e amici, ma piuttosto perché si sentiva abbandonato da Dio. In questa situazione egli vede l’esistenza umana come un seguito di avvenimenti senza senso, di fronte ai quali l’uomo resta pieno di angoscia, mentre il tempo passa troppo in fretta o troppo lentamente a seconda delle circostanze.. Dalla sua condizione di sofferenza Giobbe aveva sfidato Dio, ed era giunto a maledire il giorno della sua nascita, e aveva posto una critica radicale al piano di Dio, al disegno della creazione..
Questo brano riporta una parte del lungo discorso di Dio a Giobbe con le varie domande «Chi ha chiuso tra due porte il mare,quando usciva impetuoso dal seno materno, quando io lo vestivo di nubi e lo fasciavo di una nuvola oscura,quando gli ho fissato un limite,….
C’è da tener presente che gli antichi Israeliti non amavano il mare e non erano certamente un popolo di navigatori; per loro, un modesto lago come quello di Genesaret era un mare vero e proprio come il Mediterraneo. In questa parte del libro Dio fa capire a Giobbe che i suoi tentativi di comprenderLo e di conoscere il mondo sono destinati a fallire: chi può conoscere perfettamente l’universo se non Colui che l’ha creato? Dio ricorda a Giobbe, che è una creatura e quindi un essere limitato. Gli fa scoprire che la sua vita, e la vita dell’umanità stessa, non sta al centro o al di sopra delle altre creature, ma va accostata come parte di una realtà più grande. Nella creazione c’è un limite per tutto, anche per le insondabili forze del male, persino Dio stesso si pone un limite di fronte alla libertà umana, non può che rispettarla.
La consapevolezza di essere piccolo, di non essere a capo e al centro del mondo, conduce Giobbe a ridimensionarsi, a scoprire di dover mettersi in rapporto con Dio in modo nuovo per lui sorprendente..
A Giobbe si manifesta il volto di Dio che non offre soluzioni alle sue domande e non spiega il perché del suo dolore, ma soffre insieme a lui e gli fa scoprire che Lui, Dio, si pone come suo vicino, e si mette in relazione con lui. Questa presa di coscienza prepara la conclusione pratica: il dolore resta un mistero per l’uomo. Nel Nuovo Testamento la morte di Cristo cercherà di darvi una risposta.
Salmo 106 - Rendete grazie al Signore, il suo amore è per sempre.
Coloro che scendevano in mare sulle navi
e commerciavano sulle grandi acque,
videro le opere del Signore
e le sue meraviglie nel mare profondo.
Egli parlò e scatenò un vento burrascoso,
che fece alzare le onde:
salivano fino al cielo, scendevano negli abissi;
si sentivano venir meno nel pericolo.
Nell’angustia gridarono al Signore,
ed egli li fece uscire dalle loro angosce.
La tempesta fu ridotta al silenzio,
tacquero le onde del mare.
Al vedere la bonaccia essi gioirono,
ed egli li condusse al porto sospirato.
Ringrazino il Signore per il suo amore,
per le sue meraviglie a favore degli uomini.
Il salmo è stato chiaramente scritto nel postesilio, quando i vari gruppi di Israeliti deportati ritornarono in Palestina. Il salmo ci dà notizia che i deportati ritornarono praticamente dai quattro punti cardinali. Ci furono anche prigionieri condotti in Egitto dal faraone Necao (2Cr 36,4) (l'Egitto venne conquistato da Cambise (530-522), figlio di Ciro); essi ritornarono dal mezzogiorno. Altri furono fatti prigionieri dai Babilonesi e posti al loro servizio nella costa mediterranea (Tiro venne conquistata dai Babilonesi nel 574), così giunsero dall'occidente. Altri giunsero attraverso il deserto Siro-Arabico, passando per Damasco, cioè dal settentrione; altri attraverso il deserto Arabico, cioè dall'oriente. …
Il salmo presenta una sintesi della storia di Israele.
Parte dalla grande siccità, intervallata da temporali furibondi, che si ebbe quando i fratelli di Giuseppe andarono a cercare cibo in Egitto. Gli Israeliti prosperarono poi in Egitto, mentre la terra di Canaan riprendeva la sua floridezza: “Poi cambiò il deserto in distese d'acqua e la terra arida in sorgenti d'acqua”. Questa terra venne poi data agli “affamati”, cioè ad Israele che usciva dal deserto Sinaitico. Ci fu la prosperità, ma poi allontanandosi da Dio vennero colpiti da numerose sventure e infine, ridotti a pochi per le decimazioni delle guerre, vennero deportati verso mete a loro ignote: “Li fece vagare nel vuoto, senza strade”.
Ma ritornato in patria, il derelitto (“il povero”) Israele tornò a prosperare: “Moltiplicò le sue famiglie come greggi”.
Il salmo si conclude con l'invito a considerare tutte “queste cose”: “Chi è saggio osservi queste cose e comprenderà l'amore del Signore”.
Noi sappiamo che siamo stati riscattati da Cristo; liberati dal cumulo dei nostri peccati. Abbiamo pure noi sperimentato situazioni difficili a causa delle nostre disubbidienze a Dio, e, ritornati a lui, ne siamo stati liberati.
Altre volte la malattia ci rimane, ma ne veniamo sostenuti.
Altre volte, a causa della testimonianza, i cristiani conoscono la prigionia, ma in questo caso non è disgrazia, punizione, bensì gloria.
Dalla II lettera di S.Paolo Apostolo ai Corinzi
Fratelli, l’amore del Cristo ci possiede; e noi sappiamo bene che uno è morto per tutti, dunque tutti sono morti. Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risorto per loro.
Cosicché non guardiamo più nessuno alla maniera umana; se anche abbiamo conosciuto Cristo alla maniera umana, ora non lo conosciamo più così. Tanto che, se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove.
2Cor 5,14-17
Paolo proseguendo la sua seconda lettera ai Corinzi continua ad approfondire il tema già iniziato ed espone le ragioni che lo spingono ad annunciare il Vangelo. Già ne aveva menzionate due: la profonda persuasione che ha della sua verità (4:14) e il timore che bisogna avere per il Signore (5:11). In questo brano ne presenta un'altra: “l’amore del Cristo ci possiede; e noi sappiamo bene che uno è morto per tutti, dunque tutti sono morti. ”
E’ proprio questo amore che spinge Paolo ad evangelizzare. Proprio lui che prima della sua conversione ha perseguitato Gesù, perseguitando con grande fervore coloro che avevano creduto in Lui. L’incontro con Gesù ha stravolto però la sua vita ed è stato l’amore di Cristo a spingerlo a servirlo in maniera così instancabile. Paolo è giunto a questa conclusione dopo aver valutato attentamente i fatti e i dati a sua disposizione: la sua non è una fede superficiale, è qualcosa di profondo radicato dentro di lui e lo si comprende ancora meglio quanto afferma:
“(Cristo) egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risorto per loro”.
La visione di questa nuova realtà che si è realizzata con la resurrezione di Cristo, impone a Paolo, e con lui a tutti noi oggi, di non considerare più gli altri secondo la carne, cioè come se Cristo non fosse entrato nella loro vita, ma alla luce di quel destino nuovo che Cristo ha realizzato per rendere tutti nuova creatura in Lui. Per questo afferma: “se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove”.
Il credente in Cristo è veramente una creatura nuova, deve perciò lasciare perdere le opere della carne, del mondo in cui viviamo, e guardarle con distacco. Questo non significa che una volta diventati creature nuove, diventiamo all'improvviso perfetti, ma con l'aiuto di Dio e il nostro lasciarci plasmare da Lui, riusciremo a soggiogare il male che ci circonda e che è sempre in agguato..
L'espressione nuova creatura è ripresa dagli ambienti apocalittici, nei quali si diceva che alla fine del mondo ogni persona sarebbe diventata una nuova creatura. Paolo prende il termine e lo adatta al messaggio evangelico. La nuova creatura si realizzerà alla fine dei tempi, ma già da ora chi crede in Cristo è una nuova creatura, perché l'esperienza di liberazione portata da Cristo per il singolo credente è pari allo sconvolgimento della fine dei tempi, è l'irrompere di una nuova epoca.
Dal Vangelo secondo Marco
In quel giorno, venuta la sera, Gesù disse ai suoi discepoli: «Passiamo all’altra riva». E, congedata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca. C’erano anche altre barche con lui.
Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena. Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?».
Si destò, minacciò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!». Il vento cessò e ci fu grande bonaccia. Poi disse loro: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?».
E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?».
Mc 4,35-41
Questo episodio della tempesta che si sviluppa all’improvviso, si colloca nella sequenza dei quattro miracoli che accompagnano le parole dette da Gesù nel discorso in parabole (La tempesta sedata, L’indemoniato geraseno; Guarigione dell’emorroissa e risurrezione della figlia di Giairo). Al centro di ognuno di questi miracoli c’è un lineamento del volto segreto dell’uomo Gesù, i cui contorni sono sempre più misteriosi e sconvolgenti.
In questo brano, Marco ci riporta che Gesù “venuta la sera, disse ai suoi discepoli: «Passiamo all’altra riva». E, congedata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca. C’erano anche altre barche con lui”.
I discepoli, dunque, iniziano la traversata del lago “Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena!.
Teniamo sempre presente che per gli ebrei il mare era il grande nemico, vinto dal Signore quando fece uscire il suo popolo dall’Egitto (cf. Es 14,15-31); era la residenza del Leviatan, il mostro marino (cf. Gb 3,8; Sal 74,14); era il grande abisso che, quando scatenava la sua forza, impauriva i naviganti (cf. Sal 107,23-27)..
È notte, e la paura scuote quei discepoli, che non riescono più a governare la barca. Il naufragio sembra ormai inevitabile, eppure incredibilmente Gesù “se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva”. Allora i discepoli, in preda all’angoscia, al vedere Gesù addormentato decidono di svegliarlo gridandogli «Maestro, non t’importa che siamo perduti?». Finalmente Gesù “si destò, minacciò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!». Il vento cessò e ci fu grande bonaccia.” Poi subito dopo rimprovera i discepoli: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?».
Questo miracolo operato da Gesù ha un gran valore simbolico, perché ognuno di noi nella propria vita conosce ore di tempesta e in certe situazioni, in particolare quando durano a lungo, si ha l’impressione che Dio non veda, non senta le grida e i gemiti di chi si lamenta.. La sofferenza, l’angoscia, la paura ci rendono simili ai discepoli sulla barca della tempesta. Per questo Gesù li deve rimproverare con parole dure. Non solo chiede loro: Perché avete paura “ma aggiunge anche: “Non avete ancora la fede?.
Di fronte a queste parole così severe di Gesù, ma anche di fronte al prodigio che hanno visto con i loro occhi, il discepoli “furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?».
Gesù, nel suo modo di essere e di agire, genera grande curiosità ed anche timore perché solo Dio creatore ha potere sul vento e sul mare, ma qui i discepoli vedono con i propri occhi che il vento e il mare hanno obbedito a quell’uomo che sta nella barca e che poco prima dormiva tranquillo.
Marco ci conduce gradatamente davanti al mistero di Cristo: due grandi sorprese suscitate da due paure: il disappunto per l’uomo che dorme nonostante la tempesta e la meraviglia per il maestro che destato dal loro richiamo comanda ai venti e al mare… eppure si tratta sempre dello stesso Gesù
Quando Marco scriveva il suo vangelo e lo consegnava alla chiesa di Roma, la piccola comunità cristiana nella capitale dell’impero era nella tempesta e regnava in essa una grande paura, tale da impedire a quei cristiani la missione presso i pagani. Così Marco con questo racconto li invita a non temere l’“uscita” missionaria, li invita a conoscere le prove che li attendono come necessarie (Mc 10,30); prove e persecuzioni nelle quali Gesù, il Vivente, non dorme, ma è sempre in mezzo a loro
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Le Parole di Papa Francesco
Nell’Orazione Colletta abbiamo pregato: «Dona al tuo popolo, o Padre, di vivere sempre nella venerazione e nell’amore per il tuo santo nome, poiché tu non privi mai della tua grazia coloro che hai stabilito sulla roccia del tuo amore». E le Letture che abbiamo ascoltato ci mostrano come è questo amore di Dio verso di noi: è un amore fedele, un amore che ricrea tutto, un amore stabile e sicuro.
Il Salmo ci ha invitato a ringraziare il Signore perché «il suo amore è per sempre». Ecco l’amore fedele, la fedeltà: è un amore che non delude, non viene mai meno.
Gesù incarna questo amore, ne è il Testimone. Lui non si stanca mai di volerci bene, di sopportarci, di perdonarci, e così ci accompagna nel cammino della vita, secondo la promessa che fece ai discepoli: «Io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine del mondo» (Mt 28,20). Per amore si è fatto uomo, per amore è morto e risorto, e per amore è sempre al nostro fianco, nei momenti belli e in quelli difficili. Gesù ci ama sempre, sino alla fine, senza limiti e senza misura. E ci ama tutti, al punto che ognuno di noi può dire: “Ha dato la vita per me”. Per me! La fedeltà di Gesù non si arrende nemmeno davanti alla nostra infedeltà. Ce lo ricorda san Paolo: «Se siamo infedeli, lui rimane fedele, perché non può rinnegare sé stesso» (2 Tm 2,13). Gesù rimane fedele, anche quando abbiamo sbagliato, e ci aspetta per perdonarci: Lui è il volto del Padre misericordioso. Ecco l’amore fedele.
Il secondo aspetto: l’amore di Dio ri-crea tutto, cioè fa nuove tutte le cose, come ci ha ricordato la seconda Lettura.
Riconoscere i propri limiti, le proprie debolezze, è la porta che apre al perdono di Gesù, al suo amore che può rinnovarci nel profondo, che può ri-crearci. La salvezza può entrare nel cuore quando noi ci apriamo alla verità e riconosciamo i nostri sbagli, i nostri peccati; allora facciamo esperienza, quella bella esperienza di Colui che è venuto non per i sani, ma per i malati, non per i giusti, ma per peccatori (cfr Mt 9,12-13); sperimentiamo la sua pazienza – ne ha tanta! - la sua tenerezza, la sua volontà di salvare tutti. E quale è il segno? Il segno che siamo diventati “nuovi” e siamo stati trasformati dall’amore di Dio è il sapersi spogliare delle vesti logore e vecchie dei rancori e delle inimicizie per indossare la tunica pulita della mansuetudine, della benevolenza, del servizio agli altri, della pace del cuore, propria dei figli di Dio. Lo spirito del mondo è sempre alla ricerca di novità, ma soltanto la fedeltà di Gesù è capace della vera novità, di farci uomini nuovi, di ri-crearci.
Infine, l’amore di Dio è stabile e sicuro, come gli scogli rocciosi che riparano dalla violenza delle onde. Gesù lo manifesta nel miracolo narrato dal Vangelo, quando placa la tempesta, comandando al vento e al mare. I discepoli hanno paura perché si accorgono di non farcela, ma Egli apre il loro cuore al coraggio della fede. Di fronte all’uomo che grida: “Non ce la faccio più”, il Signore gli va incontro, offre la roccia del suo amore, a cui ognuno può aggrapparsi sicuro di non cadere. Quante volte noi sentiamo di non farcela più! Ma Lui è accanto a noi con la mano tesa e il cuore aperto.
Cari fratelli e sorelle torinesi e piemontesi, i nostri antenati sapevano bene che cosa vuol dire essere “roccia”, cosa vuol dire “solidità”. Ne dà una bella testimonianza un famoso poeta nostro:
«Dritti e sinceri, quel che sono, appaiono: teste quadre, polso fermo e fegato sano, parlano poco ma sanno quel che dicono, anche se camminano adagio, vanno lontano. Gente che non risparmia tempo e sudore – razza nostrana libera e testarda –.Tutto il mondo conosce chi sono e, quando passano… tutto il mondo li guarda».
Possiamo chiederci se oggi siamo saldi su questa roccia che è l’amore di Dio. Come viviamo l’amore fedele di Dio verso di noi. Sempre c’è il rischio di dimenticare quell’amore grande che il Signore ci ha mostrato. Anche noi cristiani corriamo il rischio di lasciarci paralizzare dalle paure del futuro e cercare sicurezze in cose che passano, o in un modello di società chiusa che tende ad escludere più che a includere.
In questa terra sono cresciuti tanti Santi e Beati che hanno accolto l’amore di Dio e lo hanno diffuso nel mondo, santi liberi e testardi. Sulle orme di questi testimoni, anche noi possiamo vivere la gioia del Vangelo praticando la misericordia; possiamo condividere le difficoltà di tanta gente, delle famiglie, specialmente quelle più fragili e segnate dalla crisi economica. Le famiglie hanno bisogno di sentire la carezza materna della Chiesa per andare avanti nella vita coniugale, nell’educazione dei figli, nella cura degli anziani e anche nella trasmissione della fede alle giovani generazioni.
Crediamo che il Signore è fedele? Come viviamo la novità di Dio che tutti i giorni ci trasforma? Come viviamo l’amore saldo del Signore, che si pone come una barriera sicura contro le onde dell’orgoglio e delle false novità? Lo Spirito Santo ci aiuti a essere sempre consapevoli di questo amore “roccioso” che ci rende stabili e forti nelle piccole o grandi sofferenze, ci rende capaci di non chiuderci di fronte alla difficoltà, di affrontare la vita con coraggio e guardare al futuro con speranza. Come allora sul lago di Galilea, anche oggi nel mare della nostra esistenza Gesù è Colui che vince le forze del male e le minacce della disperazione. La pace che Lui ci dona è per tutti; anche per tanti fratelli e sorelle che fuggono da guerre e persecuzioni in cerca di pace e libertà.
Carissimi, ieri avete festeggiato la Beata Vergine Consolata, la Consola’, che “è lì: bassa e massiccia, senza sfarzo: come una buona madre”. Affidiamo alla nostra Madre il cammino ecclesiale e civile di questa terra: Lei ci aiuti a seguire il Signore per essere fedeli, per lasciarci rinnovare tutti i giorni e rimanere saldi nell’amore. Cosi sia.
Parte dell’Omelia che Papa Francesco ha tenuta a Torino domenica 21 giugno 2015