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Elena Tasso

Elena Tasso

Sabato, 16 Febbraio 2019 17:28

Oratorio 2019... Vieni anche tu!

Ecco le nuove iniziative ripartite da qualche domenica nel nostro oratorio!! Vi aspettiamo per iscrivervi alla festa di carnevale e alla gara di torte.
Info alla mail Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. O ogni domenica dalle 11 alle 12.30.

Le letture liturgiche di questa domenica ci portano ad interrogarci su dove si fonda la nostra speranza, proponendoci due modi opposti di impostare la vita: possiamo confidare in noi stessi (e questo lo possiamo vedere nella prima lettura), condannandoci però ad una vita sterile; oppure possiamo riporre la nostra fiducia in Dio per essere come un albero che non smette di produrre frutti.
Nella prima lettura, il Profeta Geremia, ci invita ad avere più confidenza nelle cose divine che in quelle umane. Confidare nel Signore vuol dire ascoltare la Sua parola e farne regola della nostra vita.
Nella seconda lettura, l’apostolo Paolo continuando la sua lettera ai Corinzi, ci dice che la risurrezione di Cristo è la garanzia della risurrezione di tutti gli uomini. e afferma che “se Cristo non è risorto, vana è la nostra fede! ”
Nel Vangelo di Luca troviamo la celebre pagina evangelica delle Beatitudini, che ci parlano di una felicità che è generata dalla nostra relazione con Dio. Il messaggio delle Beatitudini è un appello sintetico e radicale rivolto a coloro che hanno già fatto la prima scelta per Gesù e per il Regno e che ora devono impostare la loro esistenza di creature nuove.

Dal libro del profeta Geremìa
Così dice il Signore:
«Maledetto l’uomo che confida nell’uomo,
e pone nella carne il suo sostegno,
allontanando il suo cuore dal Signore.
Sarà come un tamerisco nella steppa;
non vedrà venire il bene,dimorerà in luoghi aridi nel deserto,
in una terra di salsedine, dove nessuno può vivere.
Benedetto l’uomo che confida nel Signore
e il Signore è la sua fiducia.
È come un albero piantato lungo un corso d’acqua,
verso la corrente stende le radici;
non teme quando viene il caldo,
le sue foglie rimangono verdi,
nell’anno della siccità non si dà pena,
non smette di produrre frutti.
Ger 17,5-8

Nel libro del profeta Geremia troviamo raccontata in modo autobiografico la sua vita. Sappiamo così che la sua chiamata avvenne intorno al 626 a.C. quando ancora era un ragazzo e desiderava sposarsi con la sua Giuditta, ma Dio stesso glielo proibisce, ed è per questo che è stato l’unico profeta celibe dell’A.T a differenza di tutti gli altri. Aveva un carattere mite e, all'inizio della sua missione, in cui era giovane inesperto, dovette affrontare il momento più difficile e decisivo della storia della nazione giudaica, quello che conduce all'esilio in Babilonia (587 a.C.). Egli tenta di tutto: scuote il torpore del popolo con una predicazione che chiede una radicale conversione; appoggia la riforma nazionalista e religiosa del re Giosia (622 a.C.); cerca di convincere tutti alla sottomissione al dominio di Babilonia dopo la morte del re (609 a.C.). Viene però accusato di pessimismo religioso e di disfattismo politico.
Geremia, profeta del dolore e della misericordia, che preannuncia più di ogni altro la figura di Gesù, rimane per il suo popolo, e per tutti i cristiani, un testimone della speranza. Egli è pure l’esempio di una incorruttibile fedeltà alla propria vocazione, qualunque siano le difficoltà.
In questo brano di stile sapienziale, Geremia invita ad avere più confidenza nelle cose divine che in quelle umane ed usa parole alquanto forti che colpiscono: “Maledetto l’uomo che confida nell’uomo, e pone nella carne il suo sostegno,allontanando il suo cuore dal Signore. Sarà come un tamerisco nella steppa; non vedrà venire il bene,dimorerà in luoghi aridi nel deserto,in una terra di salsedine, dove nessuno può vivere.”
Fa un quadro molto eloquente, parla di calura e di siccità, cita il tamarisco , che è un arbusto sterile e di nessun valore che cresce in luoghi aridi e da lui non sboccia nulla di buono.
Poi passa a descrivere il lato positivo dell’uomo che confida nel Signore, che trova eco nel salmo 1
Benedetto l’uomo che confida nel Signore e il Signore è la sua fiducia. È come un albero piantato lungo un corso d’acqua,verso la corrente stende le radici; non teme quando viene il caldo, le sue foglie rimangono verdi,
nell’anno della siccità non si dà pena,non smette di produrre frutti.
Viene descritto l'effetto delle opere compiute con giustizia e con fiducia nel Signore. Per questo la benedizione dell'uomo che confida nel Signore viene opposta alla maledizione di chi si fida solo dell’ uomo e si allontana dalla via del Signore. Sottolinea in particolare il fatto che "confidare nel Signore" significa non solo mettere in pratica i suoi comandamenti, ma anche trovare in Lui la fonte di quell'acqua fresca e permanente che gli permette di "portare frutti" in qualsiasi stagione della vita. La persona che agisce in questo modo, allora, trova nella Legge del Signore anche la fonte di gioia, e non può fare a meno di meditarla, giorno e notte affidandosi pienamente a Colui che veglia sul suo cammino.
Per mettere in pratica noi oggi questo concetto dobbiamo cercare di capire cosa significa vivere, come dice Geremia, riponendo la fiducia nell’uomo, e cosa significa invece vivere per il regno di Dio riponendo la fiducia solo in Lui.

Salmo 1,1,4-6 Beato l’uomo che confida nel Signore

Beato l’uomo che non entra nel consiglio dei malvagi,
non resta nella via dei peccatori
e non siede in compagnia degli arroganti,
ma nella legge del Signore trova la sua gioia,
la sua legge medita giorno e notte.

È come albero piantato lungo corsi d’acqua,
che dà frutto a suo tempo:
le sue foglie non appassiscono
e tutto quello che fa, riesce bene.

Non così, non così i malvagi,
ma come pula che il vento disperde;
poiché il Signore veglia sul cammino dei giusti,
mentre la via dei malvagi va in rovina.

Il salterio comincia con un salmo che presenta la beatitudine di chi rimane fermo nella meditazione della legge e la mette in pratica. Ancorato all’osservanza della Parola di Dio, non si perde il vero credente ad ascoltare il consiglio degli empi, poiché la Parola è luce ai suoi passi. Egli medita la legge giorno e notte per poter affrontare le varie vicende della vita con rettitudine. La meditazione della Parola lo rende fecondo, al riparo dall’arsura e dai venti tempestosi delle prove. Gli empi, che sono coloro che fanno ostacolo con la loro sufficienza alla Parola, non avranno argomenti davanti al giudizio di Dio, e quali colpevoli verranno dispersi finiranno nella tomba della storia. Per quanto vorranno radicarsi all’interno dell’assemblea dei giusti per potere illudere gli inesperti della Parola, andranno ugualmente in rovina davanti al giudizio di Dio, poiché Dio nessuno lo può ingannare.
E’ un salmo che dona pace, invito alla perseveranza. Non andrà deluso chi medita la legge d’amore nella quale si riflette Dio, che è Amore. E la legge è stata portata a compimento da Cristo; e di più la nuova legge, che perfeziona l’antica, si trova in Cristo, nella sua vita, nei suoi gesti, nelle sue parole. Meditare la legge giorno e notte è meditare quanto ha fatto, detto Cristo; è desiderio di vivere Cristo nell’imitazione di lui. Chi medita Cristo di fronte ad un’azione da compiere non si pone precisamente la domanda: “Cosa farebbe Cristo”, quasi che considerasse Cristo essendo “esterno” a Cristo, ma trova la sua risposta da quello che ha fatto e detto Cristo, poiché egli è “in Cristo”. In lui c’è ogni luce e tesoro di sapienza su come essere graditi al Padre e su come essere aperti nella carità ai fratelli.
Meditare giorno e notte la legge non è opera di giurista, ma è l’opera d’amore che avviene nella comunione con Cristo
Commento di P.Paolo Berti

Dalla lettera di S.Paolo apostolo ai Corìnzi
Fratelli, se si annuncia che Cristo è risorto dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non vi è risurrezione dei morti?
Se infatti i morti non risorgono, neanche Cristo è risorto; ma se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati.
Perciò anche quelli che sono morti in Cristo sono perduti.
Se noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto per questa vita, siamo da commiserare più di tutti gli uomini.
Ora, invece, Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti.
1Cor15,12.16-20

Continuando la sua 1^ lettera ai Corinzi, nel capitolo 15, che abbiamo iniziato domenica scorsa, San Paolo in questo brano afferma che negare la risurrezione dei morti implica la negazione della risurrezione di Cristo e della veracità della testimonianza apostolica.
Il brano inizia con una domanda: “se si annuncia che Cristo è risorto dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non vi è risurrezione dei morti?”
La cultura greca aveva molte difficoltà ad ammettere la possibilità della risurrezione, ma anche fra i cristiani l’argomento della risurrezione incontrò molte difficoltà per superare i pregiudizi esistenti .
I membri del sinedrio di Gerusalemme condannavano e perseguitavano il messaggio cristiano e alcuni ateniesi all’areopàgo quando sentirono parlare di risurrezione di morti, avevano deriso Paolo. In tutti i tempi la superficiale ragione umana ,che misura la sapienza e la potenza di Dio alla propria stregua, ha sollevato le stesse obbiezioni contro alla dottrina della risurrezione dei corpi. Qui Paolo fa notare a quei cristiani che si lasciavano travolgere dall'incredulità del mondo, come la negazione della risurrezione in genere sia in contraddizione col fatto ben costatato della risurrezione di Cristo.
“Se infatti i morti non risorgono, neanche Cristo è risorto;”
È probabile che i sostenitori di questa teoria non si rendessero ben conto delle gravi conseguenze che ne sarebbero derivate, ecco perchè Paolo inizia con una supposizione molto forte.
“ma se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati.”
L'Apostolo adopera parole diverse per indicare la vanità della fede cristiana qualora non fosse risorto Cristo, la fede cristiana sarebbe senza fondamento e poggerebbe sul vuoto. Ma soprattutto sarebbe anche vana, in quanto non potrebbe condurre ad alcuno dei risultati promessi. Se Cristo non fosse risuscitato non avremmo più certezza alcuna che Dio abbia gradito il suo sacrificio quale espiazione dei nostri peccati e la tomba di Gesù rimasta chiusa starebbe ad indicare che anche Lui è rimasto preda della morte. Tolta dunque la risurrezione, crollerebbe la giustificazione dei peccatori ed essi sarebbero ancora nei loro peccati non espiati.
“Perciò anche quelli che sono morti in Cristo sono perduti. Se noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto per questa vita, siamo da commiserare più di tutti gli uomini.”
Se tanti cristiani morti nella pace del Cristo in cui hanno creduto, se la loro fede è vana, sarebbero nella perdizione anziché nel riposo eterno e nella gloria di Dio. E non è pietosa soltanto la sorte di coloro che sono morti in Cristo, ma lo è anche quella di chi vive tuttora nella fede in Lui. Vale a dire, se, nel corso di questa vita terrena, abbiamo concentrato in Cristo la nostra unica speranza di futura felicità e gloria, se, in vista di questa speranza, fondata in Cristo, noi sopportiamo fatiche, derisioni e persecuzioni, noi siamo degni di compassione più degli altri uomini poiché se Cristo non è risuscitato, la nostra speranza non ha fondamento e noi sacrifichiamo affetti, fatiche, beni e vita per una pia illusione; mentre gli altri che vivono per le cose della terra, sono felici, senza farsi troppe illusioni .
“Ora, invece, Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti.”
Dopo aver mostrato a quali terribili conseguenze conduce il falso principio che non c'è risurrezione di morti, Paolo ritorna sul terreno dei fatti che nessuna teoria vale a smuovere, e nel fatto ben provato della risurrezione e della susseguente esaltazione del Cristo, egli scorge la garanzia della finale vittoria dell'umanità redenta sulla morte.

Dal Vangelo secondo Luca
In quel tempo, Gesù, disceso con loro, si fermò in un luogo pianeggiante. C’era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidone.
Ed egli, alzàti gli occhi verso i suoi discepoli, diceva:
«Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio.
Beati voi, che ora avete fame,
perché sarete saziati.
Beati voi, che ora piangete, perché riderete.
Beati voi, quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e vi insulteranno e disprezzeranno il vostro nome come
infame, a causa del Figlio dell’uomo.
Rallegratevi in quel giorno ed esultate perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nel cielo. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i profeti.
Ma guai a voi, ricchi,perché avete già ricevuto la vostra consolazione.
Guai a voi, che ora siete sazi, perché avrete fame.
Guai a voi, che ora ridete,
perché sarete nel dolore e piangerete.
Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i falsi profeti.
Lc 6,17.20-26

Dopo la chiamata dei primi discepoli, proposta la scorsa domenica, la liturgia ora ci presenta una pagina evangelica celebre, quella delle beatitudini nella versione di Luca , che a differenza di Matteo, le colloca in un luogo pianeggiante. All’origine di questo discorso, vera magna carta del cristianesimo, si può supporre che alla base ci sia un insieme di detti pronunciati da Gesù in diverse circostanze.
Il brano inizia presentando Gesù che disceso con loro si fermò in un luogo pianeggiante. C’era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidone.
Oltre ai Dodici vediamo che c’è un gran numero dei discepoli di Gesù e una gran moltitudine di gente provenienti non solo da Gerusalemme ma anche dal litorale di Tiro e di Sidone.
“Ed egli, alzàti gli occhi verso i suoi discepoli, diceva: «Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio. Beati voi, che ora avete fame,perché sarete saziati”.
Nel suo significato originario la parola “poveri” non contempla solo i mendicanti, ma anche gli anawîm, i trascurati, poveri accanto a gente ricca, gli oppressi. Sono loro i poveri reali che hanno fame e piangono. La loro beatitudine consiste nel fatto che Dio interviene in loro favore. A questi “poveri “ Gesù garantisce: “ Vostro è il Regno di Dio!". Si può notare che viene utilizzato un verbo al presente e ciò sta a significare che il Regno è già presente, che già appartiene loro. Quindi non una promessa che riguarda il futuro, ma un Regno che esiste già in mezzo ai poveri.
Il vangelo di Luca non parla della virtù della povertà, di una povertà scelta, liberamente per amore di Dio o per servizio agli altri, ma parla della povertà come una condizione di privazione. Possiamo allora chiederci perchè sono beati questo tipo di poveri? Semplicemente perché Dio è il loro difensore e dove si trova una condizione di miseria, di bisogno, Dio non rimane indifferente, ma risponde, è vicino e solidale. Quindi in questo senso Beati voi, poveri che sperimentate la debolezza, il bisogno, perché Dio – che regna – vi risponderà.
“Beati voi, che ora avete fame,perché sarete saziati. Beati voi, che ora piangete, perché riderete.”
La prima parte di questa espressione è al presente, la seconda al futuro e questo sta a significare che ciò che ora viviamo e soffriamo non è definitivo. Ciò che è definitivo sarà il Regno che stiamo costruendo oggi con la forza dello Spirito di Gesù. Costruire il Regno suppone sofferenza e persecuzione, però una cosa è certa: il Regno giungerà e "voi sarete saziati e riderete!“. Nelle parole di questo versetto, possiamo pensare al Magnificat, il cantico di Maria: "Ha ricolmato di beni gli affamati" (Lc 1,53). è la realtà della vita che ci fa considerare la quotidianità come il luogo dove si costruisce la storia della salvezza.
“Beati voi, quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e vi insulteranno e disprezzeranno il vostro nome come infame, a causa del Figlio dell’uomo.”
La quarta beatitudine è più articolata e si distacca dalle precedenti, in essa si dice esplicitamente che la sofferenza è causata per aver seguito il Figlio dell'uomo, ossia per la fede in Gesù, Questo versetto è al futuro e non riguarda tutti ma solo una categoria di persone: è la situazione dei primi credenti, ancora legati al mondo ebraico che però li osteggia per la loro adesione al messaggio di Cristo. I discepoli di Gesù condividono la condizione dei poveri, perché per essere fedeli a Lui si espongono all'insicurezza e all'emarginazione di un mondo che ragiona secondo altri criteri,
Rallegratevi in quel giorno ed esultate perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nel cielo. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i profeti.”
L'invito alla gioia in questo versetto è intenso. Luca usa il verbo esultare (letteralmente saltellare), perché il tempo della prova dà la certezza di ricevere il dono dell'amore di Dio Padre, la grande ricompensa nel cielo.
Il riferimento alla persecuzione sofferta dai profeti è un'idea comune al tempo di Gesù e da Lui condivisa. Il Nuovo Testamento la riprende in diversi passi (cfr. Mc 6,4; Lc 11,47; At 7,51; 1Ts 2,15, ecc) e sebbene il testo si riferisca chiaramente alla situazione della Chiesa primitiva, non si esclude che Gesù abbia previsto l'opposizione che avrebbero incontrato gli apostoli (e di conseguenza tutti i discepoli) e l'abbia espressa con il tema del giusto perseguitato.
“Ma guai a voi, ricchi, perché avete già ricevuto la vostra consolazione. Guai a voi, che ora siete sazi, perché avrete fame. Guai a voi, che ora ridete,perché sarete nel dolore e piangerete.”
Luca costruisce i quattro guai sulla base delle precedenti beatitudini. La ricchezza è presentata come un rischio reale e pericoloso perché dà una falsa sicurezza; il ricco si sente autosufficiente e ritiene superfluo rivolgersi a Dio, non si cura dei bisogni dei poveri, e chiudendosi nell'egoismo, non pensa al suo destino eterno. Per questo i ricchi hanno già ricevuto quanto è loro dovuto e non si aspettano niente oltre la morte.
Per l'evangelista la ricchezza è un pericolo permanente per tutti; egli è preoccupato che il cuore delle persone si chiuda al dono di Dio, un dono che viene loro incontro nel vangelo di Gesù.
“Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i falsi profeti.”
Quest’ultima minaccia si riferisce ai figli di coloro che nel passato elogiavano i falsi profeti e alcune autorità dei giudei usavano il loro prestigio e la loro autorità per criticare Gesù.
Per riassumere possiamo dire che Gesù nel Vangelo di Luca ribadisce: beati i poveri, perchè avranno il regno di Dio; beati coloro che hanno fame, perchè saranno saziati; beato chi piange perchè riderà; beato chi è perseguitato a causa di Cristo perchè sarà ricompensato in Cielo; e guai al ricco, che non avrà altra gioia, guai al sazio, che non potrà soddisfare altri desideri; guai a chi ride, perchè conoscerà solo l’afflizione; guai a chi è lodato, perchè circuito dall’adulazione, sarà vittima, della falsità.
Gesù non contrappone qui quattro maledizioni a quattro beatitudini: Gesù ricorda soltanto che la consolazione viene da Dio, che solo Dio realizza il riscatto dei poveri, degli emarginati, degli offesi, delle vittime: Gesù garantisce il riscatto del male in bene, perchè Gesù è il risorto, colui che ha riscattato anche la morte: per questo San Paolo afferma che “se Cristo non è risorto, vana è la nostra fede” Ma Cristo è risorto, e la nostra fede è il fondamento della beatitudine, cioè della speranza.

*****

“Possiamo immaginare» ha affermato Francesco, in quale contesto Gesù ha pronunciato il discorso delle beatitudini, così come lo riporta Matteo nel suo Vangelo (5, 1-12). Ecco allora «Gesù, le folle, il monte, i discepoli». E «Gesù si mise a parlare e insegnava la nuova legge, che non cancella l’antica, perché lui stesso ha detto che fino all’ultima jota dell’antica legge dev’essere compiuta». In realtà Gesù «perfeziona l’antica legge, la porta alla sua pienezza». E «questa è la legge nuova, questa che noi chiamiamo le beatitudini». Sì, ha spiegato il Papa, «è la nuova legge del Signore per noi». Infatti le beatitudini «sono la guida di rotta, di itinerario, sono i navigatori della vita cristiana: proprio qui vediamo, su questa strada, secondo le indicazioni di questo navigatore, come possiamo andare avanti nella nostra vita cristiana».
Nelle beatitudini, ha fatto notare Francesco, «ci sono tante cose belle: possiamo fermarci in ognuna fino alle dieci del mattino». Ma «io vorrei soffermarmi su come l’evangelista Luca spiega questo». Rispetto al brano di Matteo proposto oggi dalla liturgia, ha affermato il Papa, Luca nel capitolo 6 del suo Vangelo «dice lo stesso, ma alla fine aggiunge qualcosa che Gesù ha detto: i quattro guai». Proprio «i quattro guai». E così ecco che anche Luca elenca quel «beati, beati, beati, beati tutti». Ma poi aggiunge «guai, guai, guai, guai».
Sono precisamente «quattro guai». E cioè: «Guai a voi ricchi, perché avete avuto la vostra consolazione; guai a voi se siete sazi, perché avrete fame; guai a voi che ridete: piangerete; guai a voi, quando tutti diranno bene di voi: così hanno fatto i vostri antenati con i falsi profeti». E «questi guai — ha proseguito il Papa — illuminano l’essenziale di questo foglio, di questa guida di cammino cristiano».
Il primo «guai» riguarda i ricchi. «Ho detto tante volte» ha ricordato Francesco, che «le ricchezze sono buone» e che «quello che fa male e che è cattivo è l’attaccamento alle ricchezze, guai!». La ricchezza infatti «è un’idolatria: quando io sono attaccato, allora faccio idolatria». Non è certo un caso se «la maggior parte degli idoli sono fatti d’oro». E così ci sono «quelli che si sentono felici, a loro non manca niente», hanno «un cuore soddisfatto, un cuore chiuso, senza orizzonti: ridono, sono sazi, non hanno fame di nulla». E poi ci sono «quelli a cui piace l’incenso: a loro piace che tutti parlino bene di loro e così sono tranquilli». Ma «“guai a voi” dice il Signore: questa è l’anti-legge, è il navigatore sbagliato».
È importante notare, ha proseguito il Papa, che «questi sono i tre scalini che portano alla perdizione, così come le beatitudini sono gli scalini che portano avanti nella vita». Il primo dei «tre scalini che portano alla perdizione» è, appunto, «l’attaccamento alle ricchezze», quando si avverte di non aver «bisogno di nulla». Il secondo è «la vanità», la ricerca «che tutti dicano bene di me, tutti parlino bene: mi sento importante, troppo incenso» e io alla fine «credo di essere giusto, non come quello» ha affermato Francesco, suggerendo di pensare «alla parabola del fariseo e il pubblicano: “Ti ringrazio perché non sono come questo”». Tanto che quando siamo presi dalla vanità si finisce persino per dire, e questo accade tutti i giorni, «grazie, Signore, che sono tanto un buon cattolico, non come il vicino, la vicina».

Il terzo è «l’orgoglio che è la sazietà», sono «le risate che chiudono il cuore». «Con questi tre scalini andiamo alla perdizione» ha spiegato il Papa, perché «sono le anti-beatitudini: l’attaccamento alle ricchezze, la vanità e l’orgoglio».

«Le beatitudini invece sono il cammino, sono la guida per il cammino che ci porta al regno di Dio» ha fatto presente Francesco. Tra tutte però «c’è una che, non dico sia la chiave, ma ci fa pensare tanto: “Beati i miti”». Proprio «la mitezza». Gesù «dice di se stesso: imparate da me che sono mite di cuore, che sono umile e mite di cuore». Dunque «la mitezza è un modo di essere che ci avvicina tanto a Gesù». Invece «l’atteggiamento contrario procura sempre le inimicizie, le guerre e tante cose cose brutte che succedono». Il Papa ha anche messo in guardia dal ritenere che «la mitezza di cuore» possa essere scambiata per «sciocchezza: no, è un’altra cosa, è la profondità nel capire la grandezza di Dio, e adorazione».

Prima di riprendere la celebrazione della messa, il Pontefice ha invitato a pensare alle «beatitudini che sono il biglietto, il foglio di guida della nostra vita, per non perdersi e non perderci». E «ci farà bene oggi leggerle: sono poche, cinque minuti, capitolo 5 di Matteo». Sì, ha proposto, «leggerle un pochettino, a casa, cinque minuti, ci farà bene» perché le beatitudini sono «il cammino, la guida». E pensare, poi, ha concluso, anche alle «quattro anti-beatitudini» riportate dall’evangelista Luca, quei quattro guai «che mi faranno sbagliare strada e finire male».”

Omelia di Papa Francesco S. Messa del 6 giugno 2016 Cappella della Casa Santa Marta, Vaticano

Le letture liturgiche di questa domenica portano alla nostra attenzione due racconti di vocazione: l’una profetica, l’altra apostolica, ma entrambe frutto dell’irruzione di Dio nella vita dell’uomo.
Nella prima lettura, Isaia, nello scenario grandioso del Tempio di Gerusalemme, riceve la rivelazione della grandezza di Dio e accetta l’invito di diventare Suo profeta.
Nella seconda lettura, nella sua lettera ai Corinzi Paolo espone una delle prime formulazioni della fede cristiana, la preghiera del “Credo”, usato nelle prime assemblee durante la celebrazione della “Cena del Signore”.
Nel brano del Vangelo, Luca racconta che dopo la pesca miracolosa, Pietro riconosce in Gesù il Messia e la propria condizione di peccatore. Gesù lo rincuora e lo chiama al suo seguito dicendogli: “Non temere, d’ora in poi sarai pescatore di uomini”. Luca, solo, tra tutti gli evangelisti, alla fine nota: “lasciarono tutto”. Queste due parole riassumono la risposta che quei semplici pescatori hanno dato alla chiamata di Dio. E’ stato indubbiamente un passo difficile da compiere, legati come si è da un insieme di interessi, di possessi e di affetti. Eppure, come i discepoli scopriranno, la vocazione è un “lasciare”, è un “perdere” piuttosto sorprendente perché poi essi “troveranno cento fratelli e sorelle” proprio in quegli uomini di cui essi saranno “pescatori”.

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Dal libro del profeta Isaia
Nell’anno in cui morì il re Ozìa, io vidi il Signore seduto su un trono alto ed elevato; i lembi del suo manto riempivano il tempio. Sopra di lui stavano dei serafini; ognuno aveva sei ali. Proclamavano l’uno all’altro, dicendo:
«Santo, santo, santo il Signore degli eserciti!
Tutta la terra è piena della sua gloria».
Vibravano gli stipiti delle porte al risuonare di quella voce, mentre il tempio si riempiva di fumo. E dissi:
«Ohimè! Io sono perduto,
perché un uomo dalle labbra impure io sono
e in mezzo a un popolo
dalle labbra impure io abito;
eppure i miei occhi hanno visto
il re, il Signore degli eserciti».
Allora uno dei serafini volò verso di me; teneva in mano un carbone ardente che aveva preso con le molle dall’altare. Egli mi toccò la bocca e disse:
«Ecco, questo ha toccato le tue labbra,
perciò è scomparsa la tua colpa
e il tuo peccato è espiato».
Poi io udii la voce del Signore che diceva: «Chi manderò e chi andrà per noi?». E io risposi: «Eccomi, manda me!».
Is 6,1-2a 3-8

Il profeta Isaia ( Primo Isaia autore dei capitoli 1-39) iniziò la sua opera pubblica verso la fine del regno di Ozia, re di Giuda, attorno al 740 a.C., quando l'intera regione siro-palestinese era minacciata dall'espansionismo assiro.
Isaia fu anche uno degli ispiratori della grande riforma religiosa avviata dal re Ezechia (715-687 a.C) che mise al bando le usanze idolatre e animiste che gli ebrei avevano adottato imitando i popoli vicini. Isaia si scagliò così contro i sacrifici umani (prevalentemente di bambini o ragazzi), i simboli sessuali, gli idoli di ogni forma e materiale.
Altro bersaglio della riforma, e delle invettive di Isaia, furono le forme cultuali puramente esteriori, ridotte quasi a pratiche magiche. In particolare, condannò senza mezzi termini il digiuno, le elemosine, le ricche offerte, quando non sono seguite da una condotta di vita moralmente corretta, dal rispetto verso il prossimo, dal soccorso alla vedova e all'orfano, dall'onestà nell'esercizio di cariche pubbliche.
Questo brano riporta la celebre visione che ebbe Isaia.
Nel tempio di Gerusalemme egli contempla" il Signore seduto su un trono alto ed elevato; i lembi del suo manto riempivano il tempio.”. Fu un incontro inatteso e improvviso, che segnerà tutta la sua vita e la sua predicazione. Dio appare a Isaia come il Re in tutta la sua maestà, “Sopra di lui stavano dei serafini; (“angeli di fuoco, splendenti e ardenti"), ognuno aveva sei ali”. La scena solenne e gloriosa si apre quasi con una marcia reale. È l’inno in onore del Signore intonato dai serafini: "Santo, Santo, Santo è il Signore degli eserciti“.. Il loro canto esprime, in un giubilo senza fine, la realtà specifica di Dio: Colui che è "Santo" in modo esclusivo e intensissimo "Signore degli eserciti", cioè di tutte le potenze celesti e terrestri, cioè la sua grandezza suprema, il suo splendore invisibile ad occhio umano.
Nel contatto col Dio "santo“ Isaia avverte, con indescrivibile angoscia, la propria indegnità e si sente di dire: “Ohimè! Io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono e in mezzo a un popolo dalle labbra impure io abito;eppure i miei occhi hanno visto il re, il Signore degli eserciti” .
Ma Dio interviene e manda uno dei serafini che volò verso di lui. Il profeta lo descrive così: “teneva in mano un carbone ardente che aveva preso con le molle dall’altare. Egli mi toccò la bocca e disse: «Ecco, questo ha toccato le tue labbra, perciò è scomparsa la tua colpa e il tuo peccato è espiato”.
La purificazione delle labbra con un carbone ardente è come un gesto sacramentale, è quasi un battesimo che non solo purifica ma crea un nuovo essere e lo santifica. L’uomo della parola di Dio, il profeta, deve essere purificato dalla grazia divina proprio nella Sua parola.
A questo punto, soltanto dopo la purificazione, il profeta può udire la voce del Signore quando dice: “Chi manderò e chi andrà per noi?”. Mandare e andare sono i verbi tipici della vocazione, e la risposta del profeta è totale e senza esitazioni: “Eccomi, manda me!”.
E’ straordinaria la descrizione di questa vocazione. Essa è una scelta personale, è un’adesione matura della personalità ma è anche rischio, perchè come si leggerà nei versetti successivi del racconto di Isaia, la missione conoscerà soprattutto il rifiuto da parte degli uomini a cui il profeta sarà inviato. Comunque la fede, che Isaia manifesta e che non si stancherà di esigere dal suo popolo, è appunto la fede nel "Dio santo": Colui che è il "tutt'altro" e inaccessibile, ma che per amore si è legato al proprio popolo: "Il Santo di Israele", secondo l'espressione originale coniata da Isaia.


Salmo 137/138 Cantiamo al Signore, grande è la sua gloria

Ti rendo grazie, Signore, con tutto il cuore:
hai ascoltato le parole della mia bocca.
Non agli dèi, ma a te voglio cantare,
mi prostro verso il tuo tempio santo.

Rendo grazie al tuo nome per il tuo amore e la tua fedeltà:
hai reso la tua promessa più grande del tuo nome.
Nel giorno in cui ti ho invocato, mi hai risposto,
hai accresciuto in me la forza.

Ti renderanno grazie, Signore, tutti i re della terra,
quando ascolteranno le parole della tua bocca.
Canteranno le vie del Signore:
grande è la gloria del Signore

La tua destra mi salva.
Il Signore farà tutto per me.
Signore, il tuo amore è per sempre:
non abbandonare l’opera delle tue mani.

Il salmista ringrazia Dio per avere ascoltato la sua preghiera e avergli usato misericordia. La tradizione parla del re Davide, ma più probabilmente si tratta di Ezechia dopo la clamorosa liberazione di Gerusalemme dall'assedio degli Assiri (2Re 19,35): “Hai reso la tua promessa più grande del tuo nome”.
Egli vuole cantare la sua lode al cospetto di Dio, rifiutando ogni adesione agli idoli: "Non agli dèi, ma a te voglio cantare".
Dio ha risposto alla sua supplica rendendolo più forte di fronte ai sui nemici: “Hai accresciuto in me la forza”.
Il salmista professa la sua fede nel futuro messianico che vedrà “tutti i re della terra” lodare il Signore. Sarà quando “ascolteranno le parole della tua bocca”, dove per “bocca” si deve intendere il futuro Messia.
I re, i popoli, celebreranno le vie del Signore annunciate dal Messia.
Il salmista ha grande fiducia in Dio, affinché la sua missione di re abbia successo: "Il Signore farà tutto per me". Il salmista termina invocando: “Non abbandonare l'opera delle tue mani”, cioè la dinastia di Davide.
Noi crediamo che giungerà il tempo della “civiltà dell'amore”, quando i popoli e i potenti che li governano, si apriranno a Cristo. Ogni cristiano deve adoperarsi per questo tempo con la forza (“hai accresciuto in me la forza”) che sgorga dalla partecipazione Eucaristica.
La nostra battaglia non è contro nemici fatti di carne e sangue, come ci dice san Paolo (Ef 6,12), ma “contro i Principati e le Potenze, contro i dominatori di questo mondo tenebroso, contro gli spiriti del male”, cioè contro i demoni.
Commento di P.Paolo Berti

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi
Vi proclamo, fratelli, il Vangelo che vi ho annunciato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi e dal quale siete salvati, se lo mantenete come ve l’ho annunciato. A meno che non abbiate creduto invano!
[ A voi infatti ho trasmesso, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto, cioè che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e che fu sepolto e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici.
In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti. Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli. Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto. ]
Io infatti sono il più piccolo tra gli apostoli e non sono degno di essere chiamato apostolo perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Per grazia di Dio, però, sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana. Anzi, ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me. [ Dunque, sia io che loro, così predichiamo e così avete creduto. ] 1Cor15,1-11

Nel 15^ capitolo della 1^lettera ai Corinzi, prima della sua conclusione, Paolo affronta il tema della resurrezione dei morti e del destino finale riservato a coloro che hanno abbracciato la fede in Cristo.
Questo capitolo si divide in tre parti. Nella prima parte Paolo espone il contenuto essenziale del suo vangelo, che consiste nella morte e nella risurrezione di Cristo. Alla luce di questo dato di fede egli tratta poi, nella seconda parte, il tema della risurrezione di coloro che hanno creduto in lui (vv. 12-34). Nella terza parte spiega le modalità con cui avrà luogo la risurrezione (vv. 35-53). Conclude il capitolo un inno alla vittoria sulla morte (vv. 54-58).
In questo brano, Paolo sottolinea il carattere tradizionale e quindi immutabile di ciò che ha annunziato ai Corinzi, e afferma con vigore: “Vi proclamo, fratelli, il Vangelo che vi ho annunciato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi e dal quale siete salvati, se lo mantenete come ve l’ho annunciato. A meno che non abbiate creduto invano! “
Paolo pone subito il confronto tra sé e i corinzi la realtà del Vangelo e ciò che lo unisce con la sua comunità. Il Vangelo che lui, Paolo, ha annunciato, porta alla salvezza, purché non venga manipolato con interpretazioni soggettive. Non si tratta certo di bloccare la Parola di Dio, anzi è in gioco la viva realtà del Vangelo accolta con fede e testimoniata non solo a parole.
“[ A voi infatti ho trasmesso, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto, cioè che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture” Paolo qui sottolinea di non aver inventato lui questo Vangelo, ma di averlo ricevuto dalla tradizione apostolica e di averlo custodito con fedeltà.
In questo versetto troviamo un’antica professione di fede che concentra in poche righe il messaggio di salvezza e probabilmente è stata formulata dalla comunità di Antiochia e risale perciò agli anni quaranta. Si articola in quattro brevi frasi, di cui due sono più importanti e vengono precisate da quelle secondarie. La prima più importante la troviamo in questo versetto : “Cristo morì per i nostri peccati secondo la Scritture.” La morte e la risurrezione di Cristo hanno un profondo significato nella storia della salvezza intessuta da Dio con l'umanità, infatti “è morto per i nostri peccati,” sottolinea il valore salvifico della morte di Gesù. In forza della morte di Cristo i credenti ottengono il perdono e la riconciliazione. “Secondo le Scritture”: gli eventi della morte e risurrezione non sono casuali, ma rientrano nel progetto divino salvifico preannunziato dai profeti.
“che fu sepolto e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici”. La precisazione che “fu sepolto “intende sottolineare la realtà della morte. La sepoltura costituisce il sigillo posto sulla fine irrimediabile del crocifisso.
La seconda affermazione importante è quella della resurrezione, con il dato tradizionale del “terzo giorno”. Segue il richiamo alle apparizioni a Cefa, cioè a Pietro e ai Dodici. La risurrezione di Gesù diventa realtà storica soltanto nelle esperienze dei testimoni, perchè il risorto si è fatto presente con la sua gloria nella vita di questi uomini e come tale diviene oggetto di predicazione e di adesione di fede.
“Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli. Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto. “
Alle apparizioni a Pietro e a Giacomo (detto anche fratello del Signore, era uno dei capi della comunità cristiana di Gerusalemme, (di lui si parla in Gal 1,19) e a tutti gli apostoli, Paolo ricorda per ultimo l’apparizione di cui è stato destinatario lui stesso e porta una sua considerazione personale: “Io infatti sono l’infimo degli apostoli, e non sono degno neppure di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la chiesa di Dio. Per grazia di Dio però sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana; anzi ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me»
Non si hanno racconti di apparizioni di Gesù a Paolo, se non di quella sulla strada di Damasco. Egli classifica la sua esperienza come l'ultima e parla di sé come di un feto abortito. (Questa espressione così forte e alquanto ingiuriosa può darsi sia stata usata nei suoi riguardi dai suoi avversari). Il fatto di essere ora apostolo è pura grazia e Paolo afferma che non c’è nessun merito da parte sua ed è anche per questo che si pone all'ultimo posto nella graduatoria degli apostoli. Però il suo lavoro di missionario impegnato nella predicazione lo pone al di sopra di tutti gli altri apostoli perchè la grazia di Dio non è stata senza effetto in lui. Quindi Paolo gioca sull'antitesi tra ciò che egli è per natura e ciò che è diventato per grazia, egli per questo al tempo stesso si umilia e si innalza.
“Dunque, sia io che loro, così predichiamo e così avete creduto.”
Con la presentazione di se stesso e del suo posto all'interno del gruppo degli apostoli, termina questa introduzione al discorso sulla resurrezione. Egli ha posto in chiaro l'autorità della sua parola, pur essendo l'ultimo fa comunque parte degli apostoli. Ha ricordato anche le linee essenziali del vangelo da lui annunciato e che i Corinzi hanno accolto. Un vangelo che non ha inventato lui, ma che a sua volta ha ricevuto e trasmesso in modo fedele. In quest'ultima frase si nota il plurale: “sia io che loro predichiamo.” Quindi non c'è modo di mettere in dubbio la veridicità delle sue parole.

Dal vangelo secondo Luca
In quel tempo, mentre la folla gli faceva ressa attorno per ascoltare la parola di Dio, Gesù, stando presso il lago di Gennèsaret, vide due barche accostate alla sponda. I pescatori erano scesi e lavavano le reti. Salì in una barca, che era di Simone, e lo pregò di scostarsi un poco da terra. Sedette e insegnava alle folle dalla barca.
Quando ebbe finito di parlare, disse a Simone: «Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca». Simone rispose: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti». Fecero così e presero una quantità enorme di pesci e le loro reti quasi si rompevano. Allora fecero cenno ai compagni dell’altra barca, che venissero ad aiutarli. Essi vennero e riempirono tutte e due le barche fino a farle quasi affondare.
Al vedere questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: «Signore, allontànati da me, perché sono un peccatore». Lo stupore infatti aveva invaso lui e tutti quelli che erano con lui, per la pesca che avevano fatto; così pure Giacomo e Giovanni, figli di Zebedèo, che erano soci di Simone. Gesù disse a Simone: «Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini».
E, tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono.
Lc 5,1-11

L’evangelista Luca introduce la vocazione dei primi discepoli di Gesù (Pietro, Giacomo e Giovanni), a differenza di Matteo e Marco, solo dopo i miracoli di Cafarnao e aggiunge il racconto della pesca miracolosa che l'evangelista Giovanni presenta dopo la risurrezione (21, 1-11).
Il brano inizia riportando che Gesù si trovava sulle rive del lago di Gennèsaret, e oltre a Lui c‘era la folla che “gli faceva ressa attorno per ascoltare la parola di Dio”. L’evangelista riporta anche che Gesù osserva due barche accostate alla sponda. I pescatori erano scesi e lavavano le reti.
Di fronte a questo scenario, Gesù salì in una barca, che era di Simone, e lo pregò di scostarsi un poco da terra.
Le barche erano due ma Gesù sale soltanto su una: quella dove c'è Simone e soltanto da questa barca Egli, seduto, ammaestra le folle (il sedersi è attinente al fare del maestro che con autorità sicura si pone in mezzo ai suoi discepoli). Viene evidenziato che l’insegnamento di Gesù, proviene dalla barca di Pietro che Lui ha scelto.
“Quando ebbe finito di parlare, disse a Simone: «Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca»”.
Nell'ordine di Gesù, dato a Pietro, ci sono due verbi con due soggetti diversi: "prendi il largo" e "calate le reti“. L'ordine è rivolto solo a Pietro, mentre a tutti quelli che erano presenti nella barca comanda di calare le reti. Il significato di questo duplice comando rivolto a soggetti diversi indica che a Pietro viene riservato un ministero, un compito che ad altri non compete: quello di prendere il largo. (In altri termini, quello di far decollare la Chiesa, cercando di darle una nuova identità, nettamente diversa e staccata dal giudaismo); si può ancora notare come l’ordine di “prender il largo” avviene dopo la predicazione di Gesù, quasi a dire che soltanto sulla parola di Gesù la Chiesa riesce a decollare. Essa, dunque, non è frutto di sforzi umani, ma nasce dalla potente parola di Dio. A tutti gli altri, poi, dopo dà l'ordine di calare le reti per la pesca.
“Simone rispose: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti». Simone è un pescatore esperto, per tutta la notte ha gettato le reti per la pesca senza ottenere risultati e nella sua risposta si intuiscono la fatica e lo scoraggiamento provati, ma, fiduciosi nella parola del Maestro, gettano di nuovo le reti. La fiducia nella parola di Gesù per loro ha più forza che l’esperienza deludente della notte trascorsa.
“Fecero così e presero una quantità enorme di pesci e le loro reti quasi si rompevano. Allora fecero cenno ai compagni dell’altra barca, che venissero ad aiutarli. Essi vennero e riempirono tutte e due le barche fino a farle quasi affondare”.
Il risultato è sorprendente. La pesca è così abbondante che le reti quasi si rompono e le barche cominciano ad affondare.. Simone ha bisogno dell’aiuto dei compagni che sono su un’altra barca. Questo ci può insegnare che nessuno riesce ad essere completo da solo. Una comunità deve aiutare l’altra e il conflitto tra le comunità, sia al tempo di Luca che oggi, deve essere superato per raggiungere un obiettivo comune, che è la missione. L’esperienza della forza della Parola di Gesù che trasforma, è il cardine attorno a cui le differenze si abbracciano e si superano.
Questo prodigioso risultato stupisce Simon Pietro, che si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: «Signore, allontànati da me, perché sono un peccatore».
In questo versetto si percepisce il grande stupore di Pietro per la prodigiosa pesca confrontata con la sua realtà di peccatore. Egli ha visto in Gesù di Nazareth la gloria di Dio, la bellezza e lo splendore di Dio. Egli ha percepito che in Gesù c’è la santità, che Gesù è il Signore, mentre egli è solo un misero, un peccatore, indegno di avere una relazione con Lui.
Questo episodio ci ricorda la reazione di Isaia quando nel tempio “vede il Signore” e grida: “Io sono perduto,perché un uomo dalle labbra impure io sono”. E’ la reazione anche di tanti profeti che hanno visto Dio entrare nelle loro vite, attraverso teofanie, manifestazioni grandiose di Dio stesso.
Lo stupore e il tremore che aveva invaso Pietro invade anche i suoi compagni, di cui ora Luca svela i nomi: Giacomo e Giovanni, figli di Zebedèo, che erano soci di Simone. Si può intuire già in quel trio, i tre discepoli che saranno i più vicini a Gesù. Secondo Luca qui Gesù consegna a Pietro la vocazione quando dice: “Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini”. Simone riceve dal Signore la sua missione di essere pescatore di uomini proprio nel momento in cui si scopre un peccatore, non pietra sicura, ma pietra inaffidabile. Il Signore gli dice: “sarai pescatore di uomini” vale a dire : pescherai uomini perché vivano, cioè li strapperai all’abisso delle acque perché vivano. Non si tratta solo di prendere gli uomini e di convertirli, ma di far sì che la loro vita sia una testimonianza vivente.
Il racconto termina con questa annotazione: “E, tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono.” Si può notare che Gesù si era rivolto solo a Simone e indirettamente lo aveva esortato a seguirlo. Ma qui a conclusione viene detto che anche gli altri condividono la scelta di Simone. Si dice: “lasciarono tutto”: la loro vita cambia radicalmente. Incontrare Gesù e fidarsi della sua Parola porta a considerare tutto il resto secondario rispetto a Lui.
Il miracolo del lago di Gennesaret non consiste nelle barche riempite di pesci, neanche nelle barche abbandonate, il miracolo grande è Gesù che non si lascia impressionare dai difetti di quei semplici pescatori, ma li sceglie proprio perché sono gente semplice, anche limitata, e li trasforma in discepoli per affidare a loro il Suo Vangelo .

 

*****

“Il Vangelo di questa domenica racconta – nella redazione di san Luca – la chiamata dei primi discepoli di Gesù. Il fatto avviene in un contesto di vita quotidiana: ci sono alcuni pescatori sulla sponda del lago di Galilea, i quali, dopo una notte di lavoro passata senza pescare nulla, stanno lavando e sistemando le reti. Gesù sale sulla barca di uno di loro, quella di Simone, detto Pietro, e gli chiede di staccarsi un poco da riva e si mette a predicare la Parola di Dio alla gente che si era radunata numerosa. Quando ha finito di parlare, gli dice di prendere il largo e di gettare le reti. Simone aveva già conosciuto Gesù e sperimentato la potenza prodigiosa della sua parola, perciò gli risponde: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti» E questa sua fede non viene delusa: infatti le reti si riempirono di una tale quantità di pesci che quasi si rompevano
Di fronte a questo evento straordinario, i pescatori sono presi da grande stupore. Simon Pietro si getta ai piedi di Gesù dicendo: «Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore». Quel segno prodigioso lo ha convinto che Gesù non è solo un formidabile maestro, la cui parola è vera e potente, ma che Egli è il Signore, è la manifestazione di Dio. E tale presenza ravvicinata suscita in Pietro un forte senso della propria meschinità e indegnità. Da un punto di vista umano, pensa che ci debba essere distanza tra il peccatore e il Santo. In verità, proprio la sua condizione di peccatore richiede che il Signore non si allontani da lui, allo stesso modo in cui un medico non può allontanarsi da chi è malato.
La risposta di Gesù a Simon Pietro è rassicurante e decisa: «Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini» E di nuovo il pescatore di Galilea, ponendo la sua fiducia in questa parola, lascia tutto e segue Colui che è diventato il suo Maestro e Signore. E così fecero anche Giacomo e Giovanni, soci di lavoro di Simone. Questa è la logica che guida la missione di Gesù e la missione della Chiesa: andare in cerca, “pescare” gli uomini e le donne, non per fare proselitismo, ma per restituire a tutti la piena dignità e libertà, mediante il perdono dei peccati.
Questo è l’essenziale del cristianesimo: diffondere l’amore rigenerante e gratuito di Dio, con atteggiamento di accoglienza e di misericordia verso tutti, perché ognuno possa incontrare la tenerezza di Dio e avere pienezza di vita. E qui, in maniera particolare, penso ai confessori: sono i primi a dover dare la misericordia del Padre seguendo l’esempio di Gesù, come hanno fatto anche i due Frati santi, padre Leopoldo e padre Pio.
Il Vangelo di oggi ci interpella: sappiamo fidarci veramente della parola del Signore? Oppure ci lasciamo scoraggiare dai nostri fallimenti? In questo Anno Santo della Misericordia siamo chiamati a confortare quanti si sentono peccatori e indegni di fronte al Signore e abbattuti per i propri errori, dicendo loro le stesse parole di Gesù: “Non temere”. “E’ più grande la misericordia del Padre dei tuoi peccati! E’ più grande, non temere!”. Ci aiuti la Vergine Maria a comprendere sempre più che essere discepoli significa mettere i nostri piedi sulle orme lasciate dal Maestro: sono le orme della grazia divina che rigenera vita per tutti.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 7 febbraio 2016

Nelle letture liturgiche di questa domenica Geremia, Paolo e Luca ci portano ad approfondire un discorso sul dono della profezia che si trasforma in un impegno di carità.
Nella prima lettura Geremia ci parla di quando per la prima volta gli fu rivolta la parola del Signore, che lo invia, nonostante la sua giovane età, a predicare la conversione e la penitenza. La sua fu una vocazione profetica tutta intessuta di ripulse, di solitudine, di persecuzioni.
Nella seconda lettura, nella sua lettera ai Corinzi, Paolo ci offre la pagina più celebre di tutte le sue lettere: è il celebre inno alla carità, all’amore. L’amore-agape è il cuore del cristianesimo, il più grande dei doni spirituali, il solo che potremo portare con noi quando arriveremo davanti a Dio. Dio che è Amore non può che volere e cercare l'amore.
Il brano del Vangelo di Luca conclude l’episodio della sinagoga di Nazareth. Gesù, dapprima è accolto dai suoi compaesani, poi viene rigettato. E’ Luca a riferire l’affermazione di Gesù, divenuta paradigmatica “Nessuno profeta è ben accetto nella sua patria” .La reazione degli abitanti di Nazareth lascia sgomenti perchè non solo non si opposero a Gesù, ma presero persino la decisione di ucciderlo gettandolo dalla rupe sulla quale era costruita la loro città. Ma nessun uomo ha potere sugli inviati del Signore, finché non giunge la loro ora. L'ora di Gesù non era ancora venuta e Lui passando in mezzo a loro si mise in cammino verso un altro villaggio. Il contrasto, l'opposizione, l'ostilità, la volontà di toglierlo di mezzo sempre si abbatterà sui veri profeti. Essi però non devono temere l'uomo. Devono solo perseverare nella loro missione.

Dal libro del profeta Geremìa
Nei giorni del re Giosìa,
mi fu rivolta questa parola del Signore:
«Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto,
prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato;
ti ho stabilito profeta delle nazioni.
Tu, dunque, stringi la veste ai fianchi,
àlzati e di’ loro tutto ciò che ti ordinerò;
non spaventarti di fronte a loro,
altrimenti sarò io a farti paura davanti a loro.
Ed ecco, oggi io faccio di te come una città fortificata,
una colonna di ferro e un muro di bronzo contro tutto il paese,
contro i re di Giuda e i suoi capi,
contro i suoi sacerdoti e il popolo del paese.
Ti faranno guerra, ma non ti vinceranno,
perché io sono con te per salvarti».
Ger 1, 4-5.17-19

Nel libro del profeta Geremia troviamo raccontata in modo autobiografico la sua vita. Sappiamo così che la sua chiamata avvenne intorno al 626 a.C. quando ancora era un ragazzo e desiderava sposarsi con la sua Giuditta, ma Dio stesso glielo proibisce, ed è per questo che è stato l’unico profeta celibe dell’A.T a differenza di tutti gli altri. Aveva un carattere mite e, all'inizio della sua missione, in cui era giovane inesperto, dovette affrontare il momento più difficile e decisivo della storia della nazione giudaica, quello che conduce all'esilio in Babilonia (587 a.C.). Egli tenta di tutto: scuote il torpore del popolo con una predicazione che chiede una radicale conversione; appoggia la riforma nazionalista e religiosa del re Giosia (622 a.C.); cerca di convincere tutti alla sottomissione al dominio di Babilonia dopo la morte del re (609 a.C.). Viene però accusato di pessimismo religioso e di disfattismo politico.
Questo brano riporta dai primi versetti la vocazione del profeta, egli è un giovane timido e pieno di incertezze quando è chiamato da Dio. ”Prima di formarti nel grembo materno…” esprimono il rapporto di dipendenza totale dell’uomo dal suo creatore. Dio lo "afferra" per inviarlo, ma al tempo stesso lascia crescere in lui, pur nella sofferenza, una straordinaria libertà che lo porterà ad un compito ben preciso: essere profeta delle nazioni.
Nella seconda parte del brano, nei versetti” Tu, dunque, stringi la veste ai fianchi, alzati e di’ loro tutto ciò che ti ordinerò…” sono preannunciate le condizioni difficili nelle quali il profeta dovrò esercitare la propria missione. Geremia dovrà prepararsi alla lotta perché il rifiuto della parola del Signore da parte dei suoi compaesani coinvolgerà direttamente e fisicamente anche la sua persona!
Il Signore però gli assicura la sua assistenza personale, resistenza e incorruttibilità per la missione profetica:” non spaventarti di fronte a loro, altrimenti sarò io a farti paura davanti a loro. Ed ecco, oggi io faccio di te come una città fortificata, una colonna di ferro e un muro di bronzo contro tutto il paese, contro i re di Giuda e i suoi capi,contro i suoi sacerdoti e il popolo del paese.” E assicura di essergli sempre vicino: “Ti faranno guerra, ma non ti vinceranno, perché io sono con te per salvarti».
Geremia ricorderà più volte questa sua chiamata, quando si troverà di fronte alle sue debolezze, timidezze e fragilità. Dapprima ignorato dai propri compaesani, poi deriso, isolato, perseguitato, minacciato, percosso, insultato, denunciato da parenti e amici, flagellato. Tutto perché vorrebbero fargli dire ciò che loro desiderano udire. Vorrebbero essere rassicurati dalla sua parola, invece Geremia non può mentire, altrimenti tradirebbe la sua missione, tradirebbe se stesso.
Geremia, profeta del dolore e della misericordia, che preannuncia più di ogni altro la figura di Gesù, rimane per il suo popolo, e per tutti i cristiani, un testimone della speranza. Egli è pure l’esempio di una incorruttibile fedeltà alla propria vocazione, qualunque siano le difficoltà.

Salmo 70 La mia bocca, Signore, racconterà la tua salvezza.
In te, Signore, mi sono rifugiato,
mai sarò deluso.
Per la tua giustizia, liberami e difendimi,
tendi a me il tuo orecchio e salvami.

Sii tu la mia roccia,
una dimora sempre accessibile;
hai deciso di darmi salvezza:
davvero mia rupe e mia fortezza tu sei!
Mio Dio, liberami dalle mani del malvagio.

La mia bocca racconterà la tua giustizia,
ogni giorno la tua salvezza.
Fin dalla giovinezza, o Dio, mi hai istruito
e oggi ancora proclamo le tue meraviglie.

Il salmista vive in un tempo di gravi contrasti nei quali si trova coinvolto per la sua fedeltà a Dio. Probabilmente si è al tempo immediatamente precedente la presa di Gerusalemme e la deportazione a Babilonia. Le sofferenze di questo giusto avvengono in patria, per mano di suoi connazionali, che sono ormai ribelli a Dio e guardano ai culti idolatrici introdotti nel tempio (Cf. 2Re 21,4). Questo giusto si adopera per una riforma dei costumi che può vedersi nell’esito felice della riforma di Giosia.
Il salmista per rafforzare la sua fiducia in Dio non evoca le grandi opere di Dio verso la nazione, ma guarda alla sua storia. Egli è stato educato alla fede in Dio fin da quando la madre lo teneva stretto sul grembo: “Su di te mi appoggiai fin dal grembo materno, dal seno di mia madre sei tu il mio sostegno” E Dio lo ha accompagnato, lo ha istruito con la sua grazia, fin dalla giovinezza: “Fin dalla giovinezza, o Dio, mi hai istruito, ”. Il salmista trova motivo alla sua fedeltà proprio alla fedeltà di Dio su di lui …..
Egli, pur anziano e debole, e in pericolo, si dà forza, con l’aiuto di Dio, di annunciare la giustizia di Dio, la sua fedeltà alle promesse fatte, l’immutabilità della sua parola: “La mia bocca racconterà la tua giustizia, ogni giorno la tua salvezza, che io non so misurare”; “Venuta la vecchiaia e i capelli bianchi, o Dio, non abbandonarmi, fino a che io annunci la tua potenza, a tutte le generazioni le tue imprese".
La giustizia di Dio, dice il salmista, “è alta come il cielo”; cioè non è come quella umana, cedevole, imperfetta, ed esposta ai cedimenti.
Le angosce che Dio ha permesso si abbattessero su di lui sono state veramente grandi poiché dice: “Molte angosce e sventure mi hai fatto vedere: tu mi darai ancora vita, mi farai risalire dagli abissi della terra”. Dagli “abissi della terra”, per dire che la sua situazione è di un finito, di un morto, di cui nessuno più si preoccupa.
Ma la fede in Dio sostiene il salmista e pieno di ferma speranza dice: “Allora io ti renderò grazie al suono dell’arpa, per la tua fedeltà, o mio Dio; a te canterò sulla cetra, o Santo d’Israele”.
Commento tratto da “Cantico dei Cantici” di P.Paolo Berti

Dalla lettera di S.Paolo apostolo ai Corìnzi
Fratelli, desiderate intensamente i carismi più grandi. E allora, vi mostro la via più sublime.
Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita.
E se avessi il dono della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza, se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla.
E se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo, per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe.
La carità è magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta.
La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno, il dono delle lingue cesserà e la conoscenza svanirà. Infatti, in modo imperfetto noi conosciamo e in modo imperfetto profetizziamo. Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà.
Quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Divenuto uomo, ho eliminato ciò che è da bambino.
Adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio; allora invece vedremo faccia a faccia.
Adesso conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto. Ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità.
Ma la più grande di tutte è la carità!
1 Cor 12,31-13,13

Questo brano è il celebre “inno all’amore” di San Paolo, che è incastonato come una perla all’interno di una lettera dal carattere pastorale che l’apostolo indirizza alla tormentata comunità cristiana di Corinto.
“Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita.
E se avessi il dono della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza, se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla.
E se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo, per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe.”
In questi primi versetti viene dipinto l’uomo colmo di tutte le doti umane e spirituali, ma vuoto d’amore. Il dono ambito delle lingue, simbolo non soltanto di cultura, ma anche di più ampie possibilità di relazioni (“il parlare in lingue” nella visione di Paolo è espressione soprattutto di esperienza mistica) diventa - senza l’amore - solo un rimbombo fastidioso di un gong che crea solo disturbo.
In continuo crescendo Paolo poi confronta con la carità i tre doni divini prestigiosi: la profezia, la scienza e la fede, anzi la “pienezza della fede”, quella che dovrebbe essere capace di trasportare le montagne, come aveva detto Gesù (Mc 11,23) .
Ebbene anche questi tre grandi doni, se privi dell’amore, sono considerati “nulla”. La stessa povertà , il dono agli altri dei propri beni, anzi della stessa vita in un atto eroico, se non sono sostenute dall’amore, sono solo gesti di autoglorificazione.
“La carità è magnanima,benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta.”
Questa seconda parte è straordinaria, fa pensare alla corolla di un fiore i cui petali sono costituiti dalle varie virtù che nascono dall’amore ed in particolare emergono: la pazienza, la bontà, l’assenza di invidia e di orgoglio, il disinteresse, il rispetto, la benignità, la costanza.
Se l’amore si spegne, anche le altre virtù umane e religiose appassiscono, ed è facile perciò che al suo posto subentri l’idolo del denaro, dell’egoismo o dell’orgoglio.
“La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno, il dono delle lingue cesserà e la conoscenza svanirà. Infatti, in modo imperfetto noi conosciamo e in modo imperfetto profetizziamo. Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà.”
E’ importante per il credente che la lampada dell’amore-agape non si spenga. E’ vitale che non si spenga nel matrimonio, il sacramento dell’amore umano: essa sola permette all’eros di non essere cieco ed egoista, rende il piacere sereno e puro, trasforma il possesso in donazione, fa fiorire il desiderio in felicità e armonia, cancella l’abitudine e la noia.
E’ fondamentale che la lampada dell’amore non si spenga anche per la persona single, perchè sappia vivere la sua esistenza, il suo rapporto con gli altri come un dono.
E’ quanto mai importante che questa lampada rimanga accesa per il credente, perchè la sua fede non sia una fredda religiosità di facciata, ma un gioioso atto di donazione a Dio e ai fratelli.
Ed essendo la fiamma dell’amore una scintilla di Dio, che è l’Amore supremo, essa “non avrà mai fine” perchè ci condurrà all’eternità divina.
“Quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Divenuto uomo, ho eliminato ciò che è da bambino. Adesso conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto”
La tesi dell’apostolo Paolo per sostenere la durata dell'amore sopra ogni altra virtù si basa sulla teoria che tutti i doni cui tenevano in particolar modo i Corinzi sarebbero cessati. La stessa idea è rappresentata con l'immagine del bambino che per diventare adulto deve lasciare dietro di sé le cose da bambino.
Paolo fa anche presente ai Corinzi che anche la realtà presente, che essi vedono come attraverso uno specchio (a quei tempi lo specchio era un pezzo di metallo lucido, ma pur sempre opaco), dunque imperfetta e indiretta, dovrà essere abbandonata per aprirsi alla nuova realtà dell'incontro con Dio, faccia a faccia, di persona. Solo allora, finito l’ordine del mondo, tutti i doni spirituali, la conoscenza e ogni realtà contingente verranno meno. Sono eterne – dice Paolo - soltanto la fede, la speranza e l'amore.
“Ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità. Ma la più grande di tutte è la carità! “
Di queste tre cose, due passeranno perchè la fede diventerà visione e la speranza diventerà godimento. Ma la Carità-Amore, deve durare perchè Dio è Amore.
Dobbiamo desiderare dunque questo dono che non avrà mai fine. L’Amore è il vertice di tutti i doni e di tutte le virtù, perché l'amore dà senso a tutto, è il solo valore che avrà corso nell’Universo quando tutti gli altri valori del mondo saranno inutili e irrimediabilmente “fuori corso”.

Dal vangelo secondo Luca
In quel tempo, Gesù cominciò a dire nella sinagoga: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato».
Tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano: «Non è costui il figlio di Giuseppe?». Ma egli rispose loro: «Certamente voi mi citerete questo proverbio: “Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafàrnao, fallo anche qui, nella tua patria!”». Poi aggiunse: «In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria. Anzi, in verità io vi dico: c’erano molte vedove in Israele al tempo di Elìa, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; ma a nessuna di esse fu mandato Elìa, se non a una vedova a Sarèpta di Sidòne. C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo; ma nessuno di loro fu purificato, se non Naamàn, il Siro». All’udire queste cose, tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno. Si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte, sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù. Ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino.
Lc 4, 21-30

Il brano del vangelo di oggi si apre con il versetto che concludeva il brano di domenica scorsa, in cui Gesù, nella sinagoga di Nazareth, invece di commentare il testo profetico ne annuncia il compimento dicendo : «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato».
Egli dunque si presenta come colui che dà compimento alla parola scritta del profeta Isaia (61,1-2) . L'inizio effettivo del ministero di Gesù, e quindi della salvezza, per Luca è segnato dall'inaugurarsi del tempo di grazia annunciato da Isaia. Anche Giovanni Battista aveva iniziato la sua predicazione rifacendosi ad un testo di Isaia (40,3-5) e Luca presenta collegati ancora una volta il messia e il suo precursore.
A differenza del Vangelo di Marco, la reazione da parte degli abitanti di Nazareth è abbastanza positiva, infatti leggiamo: “Tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano: «Non è costui il figlio di Giuseppe?». “
A Nazareth Gesù era cresciuto in "sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini" (Lc 2,52), ma nulla era trapelato del grande mistero divino della Sua origine. Proprio per questa conoscenza superficiale gli abitanti di Nazareth sentendo Gesù predicare nella loro sinagoga si meravigliano delle "parole di grazia che uscivano dalla sua bocca“, ma alla meraviglia si mescola l‘incredulità: "Non è costui il figlio di Giuseppe?“.
“Ma egli rispose loro: «Certamente voi mi citerete questo proverbio: "Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafàrnao, fallo anche qui, nella tua patria!"».
Questi versetti, che seguono l'annuncio di Gesù, sono un insieme di testi diversi raccolti da Luca per esporre la propria tesi: il Messia non può limitare la sua azione alla piccola Nazareth, ma deve andare in tutto il paese dei Giudei. Indice di questo è la citazione degli eventi svoltisi a Cafarnao, di cui Luca non ha ancora parlato.
E' Gesù stesso a provocare i suoi ascoltatori citando un proverbio: “In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria”. L’espressione “in verità io vi dico”, dà forza all'affermazione che mette Gesù nella linea dei profeti, rifiutati e perseguitati e sottolinea ancora una volta che Gesù è inviato a tutto il mondo.
“Anzi, in verità io vi dico: c’erano molte vedove in Israele al tempo di Elìa, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; ma a nessuna di esse fu mandato Elìa, se non a una vedova a Sarèpta di Sidòne. C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo; ma nessuno di loro fu purificato, se non Naamàn, il Siro».” e ricorda i il comportamento dei profeti Elia ed Eliseo che avevano compiuto i loro miracoli a favore dei pagani.
All'udire questo tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno, le parole di Gesù suonano come un'accusa intollerabile. I presenti nella sinagoga avevano compreso bene che la missione di Gesù superava i limiti d'Israele ed era destinata a tutte le nazioni, per cui l'azione precipita e Luca lo sottolinea : “Si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte, sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù”. A questo tentativo di eliminarlo, Luca riferisce: “Ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino”.
Gesù non compie un miracolo, ma vuol far capire ai suoi oppositori che Lui andrà avanti per la Sua strada, nessuno potrà impedire la realizzazione del Suo progetto.

 

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“L’odierno racconto evangelico ci conduce ancora una volta, come domenica scorsa, nella sinagoga di Nazareth, il villaggio della Galilea dove Gesù è cresciuto in famiglia ed è conosciuto da tutti. Egli, che da poco tempo se n’era andato per iniziare la sua vita pubblica, ritorna ora per la prima volta e si presenta alla comunità, riunita di sabato nella sinagoga.
Legge il passo del profeta Isaia che parla del futuro Messia e alla fine dichiara: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato» . I concittadini di Gesù, dapprima stupiti e ammirati, poi cominciano a fare la faccia storta, a mormorare tra loro e a dire: perché costui, che pretende di essere il Consacrato del Signore, non ripete qui, nel suo paese, i prodigi che si dice abbia compiuto a Cafarnao e nei villaggi vicini? Allora Gesù afferma: «Nessun profeta è bene accetto nella sua patria» , e si appella ai grandi profeti del passato Elia ed Eliseo, che operarono miracoli in favore dei pagani per denunciare l’incredulità del loro popolo. A questo punto i presenti si sentono offesi, si alzano sdegnati, cacciano fuori Gesù e vorrebbero buttarlo giù dal precipizio. Ma Lui, con la forza della sua pace, «passando in mezzo a loro, si mise in cammino». La sua ora non era ancora arrivata.
Questo brano dell’evangelista Luca non è semplicemente il racconto di una lite tra compaesani, come a volte avviene anche nei nostri quartieri, suscitata da invidie e da gelosie, ma mette in luce una tentazione alla quale l’uomo religioso è sempre esposto- tutti noi siamo esposti - e dalla quale occorre prendere decisamente le distanze. E qual è questa tentazione? E’ la tentazione di considerare la religione come un investimento umano e, di conseguenza, mettersi a “contrattare” con Dio cercando il proprio interesse. Invece, nella vera religione, si tratta di accogliere la rivelazione di un Dio che è Padre e che ha cura di ogni sua creatura, anche di quella più piccola e insignificante agli occhi degli uomini. Proprio in questo consiste il ministero profetico di Gesù: nell’annunciare che nessuna condizione umana può costituire motivo di esclusione - nessuna condizione umana può essere motivo di esclusione! - dal cuore del Padre, e che l’unico privilegio agli occhi di Dio è quello di non avere privilegi. L’unico privilegio agli occhi di Dio è quello di non avere privilegi, di non avere padrini, di essere abbandonati nelle sue mani.
«Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato» . L’“oggi”, proclamato da Cristo quel giorno, vale per ogni tempo; risuona anche per noi in questa piazza, ricordandoci l’attualità e la necessità della salvezza portata da Gesù all’umanità. Dio viene incontro agli uomini e alle donne di tutti i tempi e luoghi nella situazione concreta in cui essi si trovano. Viene incontro anche a noi. E’ sempre Lui che fa il primo passo: viene a visitarci con la sua misericordia, a sollevarci dalla polvere dei nostri peccati; viene a tenderci la mano per farci risalire dal baratro in cui ci ha fatto cadere il nostro orgoglio, e ci invita ad accogliere la consolante verità del Vangelo e a camminare sulle vie del bene. Lui viene sempre a trovarci, a cercarci.
Torniamo nella sinagoga. Certamente quel giorno, nella sinagoga di Nazareth, c’era anche Maria, la Madre. Possiamo immaginare le risonanze del suo cuore, un piccolo anticipo di quello che soffrirà sotto la Croce, vedendo Gesù, lì in sinagoga, prima ammirato, poi sfidato, poi insultato, minacciato di morte. Nel suo cuore, pieno di fede, lei custodiva ogni cosa. Ci aiuti Lei a convertirci da un dio dei miracoli al miracolo di Dio, che è Gesù Cristo.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 31 gennaio 2016

Le letture liturgiche di questa domenica ci parlano dell’ascolto della Parola di Dio che si trasforma in preghiera. Si può dire che sono la rappresentazione di un rito comunitario che si rinnova nel tempo e di cui anche noi siamo chiamati ad essere interpreti: quello della santa Messa.
La prima lettura, tratta dal libro di Neemia, ci narra che dopo l’amara esperienza dell’esilio e la ricostruzione di Gerusalemme, davanti al popolo avviene la benedizione del Signore e una solenne liturgia della Parola: la lettura del libro della Legge, la spiegazione del senso e la comprensione del testo. Da questo triplice momento sbocciano tre atteggiamenti: le lacrime della conversione, segno del perdono divino, l’invito ad aprire le labbra al sorriso, a canti di gioia, a indire banchetti, poiché “questo giorno è consacrato al Signore…”, l’esortazione a mandare porzioni di cibo a quelli che nulla hanno di preparato.
Nella seconda lettura, Paolo, nella sua lettera ai Corinzi ci dice che la varietà dei doni dello Spirito nella Chiesa, corpo ministico di Cristo, è destinata a comporre una unità organica e a promuovere nei cristiani una amorosa solidarietà e unità
Il brano del Vangelo di Luca ci parla di una lettura della Parola di Dio fatta dallo stesso Gesù quando nella sinagoga di Nazareth legge il passo di Isaia, annuncio di salvezza e di liberazione. E al termine Gesù annuncia che quella scrittura si stava realizzando davanti agli occhi dei presenti: tutta la speranza annunziata da Isaia in Gesù stava diventando realtà.

Dal libro di Neemìa
In quei giorni, il sacerdote Esdra portò la legge davanti all’assemblea degli uomini, delle donne e di quanti erano capaci di intendere.
Lesse il libro sulla piazza davanti alla porta delle Acque, dallo spuntare della luce fino a mezzogiorno, in presenza degli uomini, delle donne e di quelli che erano capaci d’intendere; tutto il popolo tendeva l’orecchio al libro della legge. Lo scriba Esdra stava sopra una tribuna di legno, che avevano costruito per l’occorrenza.
Esdra aprì il libro in presenza di tutto il popolo, poiché stava più in alto di tutti; come ebbe aperto il libro, tutto il popolo si alzò in piedi. Esdra benedisse il Signore, Dio grande, e tutto il popolo rispose: «Amen, amen», alzando le mani; si inginocchiarono e si prostrarono con la faccia a terra dinanzi al Signore.
I levìti leggevano il libro della legge di Dio a brani distinti e spiegavano il senso, e così facevano comprendere la lettura. Neemìa, che era il governatore, Esdra, sacerdote e scriba, e i leviti che ammaestravano il popolo dissero a tutto il popolo: «Questo giorno è consacrato al Signore, vostro Dio; non fate lutto e non piangete!». Infatti tutto il popolo piangeva, mentre ascoltava le parole della legge.
Poi Neemìa disse loro: «Andate, mangiate carni grasse e bevete vini dolci e mandate porzioni a quelli che nulla hanno di preparato, perché questo giorno è consacrato al Signore nostro; non vi rattristate, perché la gioia del Signore è la vostra forza».
Ne 8,2-4a.5-6.8-10

Il Libro di Neemia è un testo contenuto sia nella bibbia cristiana che in quella ebraica, dove è contato come un testo unico con il libro di Esdra. E’ stato scritto in ebraico e si ipotizza che la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, sia tra la fine del periodo persiano e l’inizio di quello greco, quindi più o meno tra il 330 e il 250 a.C. o forse, secondo alcuni studiosi, anche più tardi.
E’composto da 13 capitoli descriventi l'attività riformatrice di Neemia a Gerusalemme, dopo il ritorno dall'esilio babilonese, in particolare la ricostruzione delle mura della città .
Storicamente il libro di Neemia è l’ultimo colpo d'occhio che l'Antico Testamento ci permette di gettare sul popolo d'Israele. Gli avvenimenti che riferisce cominciano circa trent'anni dopo quelli che il libro di Ester riferisce e tredici anni dopo il ritorno di Esdra.
Questo brano che parla della promulgazione della legge fatta da Esdra, sacerdote e scriba, verso l’anno 444 a.C., ci permette di cogliere persino nei dettagli lo svolgersi di una liturgia della parola. Questo brano, inizia presentando Esdra, sacerdote e scriba, sopra una tribuna di legno, che avevano costruito per l’occorrenza, che porta il libro della legge di Mosè, che il Signore aveva dato a Israele e lo apre “davanti all’assemblea degli uomini, delle donne e di quanti erano capaci di intendere”. Si suppone che l’esistenza del libro fosse già conosciuta, ma non il suo contenuto. Certamente si tratta del Pentateuco, ma di sicuro non come è giunto fino a noi.
“Esdra aprì il libro in presenza di tutto il popolo, poiché stava più in alto di tutti; come ebbe aperto il libro, tutto il popolo si alzò in piedi. Esdra benedisse il Signore, Dio grande, e tutto il popolo rispose: «Amen, amen», alzando le mani; si inginocchiarono e si prostrarono con la faccia a terra dinanzi al Signore”.
Viene poi menzionato (nei versetti non riportati dal brano) il nome di coloro che, insieme ai leviti spiegavano la legge al popolo mentre il popolo stava in piedi. Essi leggevano il libro della legge di Dio a brani distinti e spiegavano il senso, e così facevano comprendere la lettura.
Il metodo di lettura e di spiegazione non è molto chiaro. È possibile che sia questo un primo esempio di targum, cioè di traduzione in aramaico del testo scritto in ebraico. Siccome i presenti non capivano più la lingua antica di Israele, il testo veniva letto e poi un incaricato, (chiamato meturgheman), dava la traduzione aramaica che conteneva spesso aggiunte e spiegazioni (midraš).
Infine “Neemìa, che era il governatore, Esdra, sacerdote e scriba, e i leviti che ammaestravano il popolo dissero a tutto il popolo: «Questo giorno è consacrato al Signore, vostro Dio; non fate lutto e non piangete!». Infatti tutto il popolo piangeva, mentre ascoltava le parole della legge.”
E’ il segno vivo del pentimento, il cuore è pervaso dal rimorso, il passato con il suo carico di peccati si ripresenta alla coscienza con tutto il suo peso.
Poi Neemia invita tutti i presenti a mangiare carni grasse e bere vini dolci e dice loro di mandare porzioni a quelli che nulla hanno di preparato, e ne dà il motivo: perché questo giorno è consacrato al Signore nostro; non vi rattristate, perché la gioia del Signore è la vostra forza».
Il governatore Neemia , rappresenta l’ultima parola di Dio, che non è quella del giudizio bensì la promessa del perdono. E allora le labbra si devono aprire al sorriso, le case si riempiono di canti di gioia e di banchetti festosi.

Salmo 18 Le tue parole, Signore, sono spirito e vita.

La legge del Signore è perfetta,
rinfranca l'anima;
la testimonianza del Signore è stabile,
rende saggio il semplice.

I precetti del Signore sono retti,
fanno gioire il cuore;
il comando del Signore è limpido,
illumina gli occhi
Il timore del Signore è puro,
rimane per sempre;
i giudizi del Signore sono fedeli,
sono tutti giusti.

Ti siano gradite le parole della mia bocca,
davanti a te i pensieri del mio cuore,
Signore, mia roccia e mio redentore.

Qui c’è la seconda parte del salmo 19(18) e si parla della Torah ….
Vediamo la comparazione della torah con i metalli preziosi (oro raffinato) e coi cibi deliziosi (il “favo stillante” di miele); l’homoecomomicus non potrà mai con i suoi immensi capitali contrattare la parola di Dio e la sapienza. Esse sono un dono offerto da Dio a chi ha il cuore puro e chi le possiede riesce a capire che ricchezze e prosperità sono solo una manciata di fango o di polvere; rispetto alla felicità, alla pace, che la comunione con Dio offre.
Commento tratto da “I Salmi” di Gianfranco Ravasi

Dalla prima lettera di S.Paolo apostolo ai Corinzi
Fratelli, come il corpo è uno solo e ha molte membra, e tutte le membra del corpo, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche il Cristo. Infatti noi tutti siamo stati battezzati mediante un solo Spirito in un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti siamo stati dissetati da un solo Spirito.
E infatti il corpo non è formato da un membro solo, ma da molte membra. Se il piede dicesse: «Poiché non sono mano, non appartengo al corpo», non per questo non farebbe parte del corpo. E se l’orecchio dicesse: «Poiché non sono occhio, non appartengo al corpo», non per questo non farebbe parte del corpo. Se tutto il corpo fosse occhio, dove sarebbe l’udito? Se tutto fosse udito, dove sarebbe l’odorato?
Ora, invece, Dio ha disposto le membra del corpo in modo distinto, come egli ha voluto. Se poi tutto fosse un membro solo, dove sarebbe il corpo? Invece molte sono le membra, ma uno solo è il corpo. Non può l’occhio dire alla mano: «Non ho bisogno di te»; oppure la testa ai piedi: «Non ho bisogno di voi». Anzi proprio le membra del corpo che sembrano più deboli sono le più necessarie; e le parti del corpo che riteniamo meno onorevoli le circondiamo di maggiore rispetto, e quelle indecorose sono trattate con maggiore decenza, mentre quelle decenti non ne hanno bisogno. Ma Dio ha disposto il corpo conferendo maggiore onore a ciò che non ne ha, perché nel corpo non vi sia divisione, ma anzi le varie membra abbiano cura le une delle altre. Quindi se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui.
[Ora voi siete corpo di Cristo e, ognuno secondo la propria parte, sue membra.] Alcuni perciò Dio li ha posti nella Chiesa in primo luogo come apostoli, in secondo luogo come profeti, in terzo luogo come maestri; poi ci sono i miracoli, quindi il dono delle guarigioni, di assistere, di governare, di parlare varie lingue. Sono forse tutti apostoli? Tutti profeti? Tutti maestri? Tutti fanno miracoli? Tutti possiedono il dono delle guarigioni? Tutti parlano lingue? Tutti le interpretano?
1Cor 12,12-30

Continuando il tema dei carismi iniziato nella II domenica, Paolo arriva al punto centrale intorno al quale si imposta tutta l’argomentazione del brano: “come il corpo è uno solo e ha molte membra, e tutte le membra del corpo, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche il Cristo”
La causa che dà consistenza e attività al “tutto” è la forza vitale che tocca ciascun membro e tutti gli elementi del corpo. Infatti, coinvolge tutto e tutti, in quella che possiamo indicare la dinamica dell’amore come l’ha insegnata Gesù .
Tale forza vitale, è lo Spirito Santo: “Infatti noi tutti siamo stati battezzati mediante un solo Spirito in un solo corpo”, in altre parole siamo stati immersi in una realtà che ci riempie e avvolge, in modo tale che, rispettando la diversità di ogni singola persona, tutte partecipano di questo elemento vitale e trovano in esso le condizioni per svilupparsi e crescere in comunione con altre diversità.
Ciò è dovuto al fatto che Dio, assumendo la condizione umana nella persona di Gesù, con il suo insegnamento e con il Suo sacrificio, ha rivelato, a chi confida in Lui, le condizioni affinché ciò si realizzi a favore di tutti. Infatti, lo Spirito, cui Paolo si riferisce, è anche, allo stesso tempo, lo Spirito di Cristo. È a questa realtà che il cristiano deve fare riferimento perché fa parte del patrimonio della propria fede in Gesù Cristo, in virtù della quale percepisce che sono abbattute tutte le barriere per formare uno stesso corpo: “Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti siamo stati dissetati da un solo Spirito.” Si tratta di una considerazione straordinaria e nello stesso tempo rivoluzionaria di Paolo, se consideriamo i tempi di allora, che è costata all’apostolo non poche sofferenze anche nell’ambito dei credenti.
“E infatti il corpo non è formato da un membro solo, ma da molte membra”.
Paolo sfrutta a fondo il paragone del corpo per confermare e completare l'esposizione sui carismi, che abbiamo visto la volta scorsa. Nel proseguire del discorso si sottolinea, all'interno dell'unità, una necessaria pluralità. Senza di questa non si può parlare di un corpo.
“Se il piede dicesse: «Poiché non sono mano, non appartengo al corpo», non per questo non farebbe parte del corpo. E se l'orecchio dicesse: «Poiché non sono occhio, non appartengo al corpo», non per questo non farebbe parte del corpo. Se tutto il corpo fosse occhio, dove sarebbe l'udito? Se tutto fosse udito, dove sarebbe l'odorato? Ora, invece, Dio ha disposto le membra del corpo in modo distinto, come egli ha voluto. “
All'interno del corpo c’è una pluralità, ma si tratta di una pluralità diversificata. Nella sua diversità ogni membro appartiene all'organismo umano. Non è per una casualità né per un capriccio che Dio abbia creato le diversità e le differenze, ma esse rispondono alla Sua volontà di portare la persona e l’umanità alla pienezza dell’esperienza dell’amore, come partecipazione della Sua stessa realtà.
“Se poi tutto fosse un membro solo, dove sarebbe il corpo? Invece molte sono le membra, ma uno solo è il corpo.”
L'assimilazione delle membra a un membro solo nega il corpo nella sua essenziale diversificazione. Dunque né un solo membro, né più membra identiche.
“Non può l'occhio dire alla mano: «Non ho bisogno di te»; oppure la testa ai piedi: «Non ho bisogno di voi».” Il paragone del corpo si presta ad ulteriori contenuti. La diversità delle membra non si riduce a una pura e semplice coesistenza delle une accanto alle altre, come parti in se stesse autosufficienti e autonome. Al contrario, le unisce in un reciproco bisogno. C'è una mutua dipendenza, una complementarietà delle diverse membra.
“Anzi proprio le membra del corpo che sembrano più deboli sono le più necessarie; e le parti del corpo che riteniamo meno onorevoli le circondiamo di maggiore rispetto, e quelle indecorose sono trattate con maggiore decenza, mentre quelle decenti non ne hanno bisogno .Ma Dio ha disposto il corpo conferendo maggiore onore a ciò che non ne ha”,
Paolo, rifacendosi alla cultura del suo tempo introduce qui una classificazione delle membra del corpo in deboli e forti, vili e nobili, indecenti e oneste. L'intento è di precisare che esiste una specie di compensazione all'inferiorità delle membra meno stimate. Infatti più una parte dell'organismo è vile e indecente e maggiore è il rispetto con cui il pudore la circonda e la protegge.
“perché nel corpo non vi sia divisione, ma anzi le varie membra abbiano cura le une delle altre. Quindi se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui.”
Nel corpo dunque esiste una legge fondamentale di mutua sollecitudine. Le membra si prendono cura le une delle altre e partecipano le une alle gioie e ai dolori delle altre.
“Ora voi siete corpo di Cristo e, ognuno secondo la propria parte, sue membra”
Non dobbiamo dimenticare che il vero soggetto di tutta questa descrizione è il corpo che rappresenta la Chiesa, noi siamo le sue membra, diversificate, con diversi compiti, che si prendono cura le une delle altre. Questo avviene grazie allo Spirito che non dona fenomeni straordinari e sovrumani, destinati a pochi, come credevano i Corinti. Al contrario è creatore e animatore di una comunità articolata e diversificata. L'alterità dei cristiani poggia sulla partecipazione ai suoi doni.
“Alcuni perciò Dio li ha posti nella Chiesa in primo luogo come apostoli, in secondo luogo come profeti, in terzo luogo come maestri; poi ci sono i miracoli, quindi il dono delle guarigioni, di assistere, di governare, di parlare varie lingue.”
Paolo enumera i principali carismi presenti nella Chiesa. Si tratta di carismi ugualmente necessari, nella loro diversità., ma c’è sempre una gerarchia. Al primo posto c'è l'apostolato. L'annuncio evangelico incentrato in Cristo è alla base di qualsiasi comunità cristiana. Al secondo posto vi sono i profeti, coloro che avevano il dono di una parola capace di scuotere, provocare ravvedimenti, coinvolgere l'ascoltatore. Poi troviamo i maestri, i catechisti, coloro che accompagnavano i neobattezzati alla conoscenza del mistero cristiano e delle esigenze morali richieste dalla vita di fede.
“Sono forse tutti apostoli? Tutti profeti? Tutti maestri? Tutti fanno miracoli? Tutti possiedono il dono delle guarigioni? Tutti parlano lingue? Tutti le interpretano? “
Con domande retoriche l'apostolo esclude che si possa pensare a un processo di riduzione e livellamento a un solo carisma, fosse pure quello supremo dell'apostolato.
Per riassumere si può ancora dire che il sentimento di appartenenza all’umanità considerata come il vivere in un solo corpo è quanto mai importante, ma è necessario che ad esso si accompagni anche il senso di responsabilità, che si rivela nel farsi carico del processo di crescita generale e nell’uso dei mezzi adeguati per conseguirlo. La Chiesa, unita e solidale a immagine del corpo fisico, forma realmente il corpo di Cristo, costituito dalla partecipazione al Suo corpo eucaristico e animato dalla vita dello Spirito.
E’ questa una delle grandi idee sul mistero della Chiesa che ha fatto di Paolo il grande apostolo

Dal vangelo secondo Luca
Poiché molti hanno cercato di raccontare con ordine gli avvenimenti che si sono compiuti in mezzo a noi, come ce li hanno trasmessi coloro che ne furono testimoni oculari fin da principio e divennero ministri della Parola, così anch’io ho deciso di fare ricerche accurate su ogni circostanza, fin dagli inizi, e di scriverne un resoconto ordinato per te, illustre Teòfilo, in modo che tu possa renderti conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto.
In quel tempo, Gesù ritornò in Galilea con la potenza dello Spirito e la sua fama si diffuse in tutta la regione.
Insegnava nelle loro sinagoghe e gli rendevano lode.
Venne a Nàzaret, dove era cresciuto, e secondo il suo solito, di sabato, entrò nella sinagoga e si alzò a leggere. Gli fu dato il rotolo del profeta Isaìa; aprì il rotolo e trovò il passo dove era scritto: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi e proclamare l’anno di grazia del Signore».
Riavvolse il rotolo, lo riconsegnò all’inserviente e sedette. Nella sinagoga, gli occhi di tutti erano fissi su di lui. Allora cominciò a dire loro: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato».
Lc 1:1-4; 4:14-21

L’evangelista Luca, per la stesura del suo vangelo ci dice sin dall’inizio di avere fatto le cose seriamente, interpellando testimoni diretti di quei fatti, e quanto raccolto di averlo riportato in modo ordinato. Chiarisce anche la motivazione della sua opera: far si che ogni amante di Dio, si renda personalmente conto della solidità della catechesi ricevuta. Si rivolge ad un “illustre Teofilo". Certamente questo Teofilo non è una sola persona particolare e il nome (Teo-filo significa amico di Dio) già rivela la dimensione simbolica che raggruppa tutti coloro che si sentono "amici di Dio".
Nel brano introduttivo Luca, racconta del ritorno di Gesù in Galilea, dove “insegnava nelle sinagoghe e tutti ne facevano grandi lodi”. Sullo sfondo di questa attività si situa la visita a Nazareth. L’evangelista osserva da una parte che Nazareth era il luogo in cui Gesù era cresciuto, e dall’altra che era sua consuetudine recarsi nella sinagoga: egli vuole così sottolineare che Gesù era un giudeo che praticava normalmente la sua religione. Il racconto prosegue: “Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; apertolo trovò il passo dove era scritto: Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio,a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi e proclamare l’anno di grazia del Signore”. Gesù legge il brano in piedi poi: “Riavvolse il rotolo, lo riconsegnò all’inserviente e sedette. Nella sinagoga, gli occhi di tutti erano fissi su di lui.”
Dietro invito del capo sinagoga, ogni adulto maschio poteva prendere la parola dopo aver letto il brano della Scrittura. Il gesto di sedersi, dopo aver consegnato il rotolo all’inserviente, manifesta l’intenzione di parlare; si crea così una suspense, provocata dall’attesa di quanto avrebbe detto. E Gesù pronuncia queste parole: “Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato”. La presenza stessa di Gesù rappresenta dunque l’evento che porta a compimento le promesse di Dio contenute non solo nel brano citato, ma in tutte le Scritture. Dio instaura il Suo regno rivolgendosi prima di tutto alle categorie più emarginate e oppresse attuando la loro piena liberazione. Con la sua parola Gesù non annunzia soltanto, ma attua la salvezza divina, contenuta nelle scritture profetiche. È la parola stessa di Gesù che diventa evento salvifico, vivo, attuale.
“Nel nostro tempo dispersivo e distratto – commentava questo passo Benedetto XVI - questo Vangelo ci invita ad interrogarci sulla nostra capacità di ascolto”. Prima di poter parlare “di Dio e con Dio”, bisogna infatti “ascoltarlo”, e la liturgia della Chiesa “è la scuola di questo ascolto del Signore che ci parla”. Soprattutto, il brano evangelico odierno “ci dice che ogni momento può diventare un «oggi» propizio per la nostra conversione”. È questo il “senso cristiano” del «carpe diem»: che “ogni giorno può diventare l’oggi salvifico, perché la salvezza è storia che continua per la Chiesa e per ciascun discepolo di Cristo”.

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“Nel Vangelo di oggi, l'evangelista Luca prima di presentare il discorso programmatico di Gesù a Nazaret, ne riassume brevemente l'attività evangelizzatrice. E’ un'attività che Egli compie con la potenza dello Spirito Santo: la sua parola è originale, perché rivela il senso delle Scritture; è una parola autorevole, perché comanda persino agli spiriti impuri e questi obbediscono.
Gesù è diverso dai maestri del suo tempo: per esempio, non ha aperto una scuola per lo studio della Legge, ma va in giro a predicare e insegna dappertutto: nelle sinagoghe, per le strade, nelle case, sempre in giro! Gesù è diverso anche da Giovanni Battista, il quale proclama il giudizio imminente di Dio, mentre Gesù annuncia il suo perdono di Padre.
Ed ora immaginiamo di entrare anche noi nella sinagoga di Nazaret, il villaggio dove Gesù è cresciuto fino a circa trent'anni. Ciò che vi accade è un avvenimento importante, che delinea la missione di Gesù. Egli si alza per leggere la Sacra Scrittura. Apre il rotolo del profeta Isaia e prende il passo dove è scritto: “lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l'unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio” . Poi, dopo un momento di silenzio pieno di attesa da parte di tutti, dice, tra lo stupore generale: “Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato”.
Evangelizzare i poveri: questa è la missione di Gesù, secondo quanto Lui dice; questa è anche la missione della Chiesa, e di ogni battezzato nella Chiesa. Essere cristiano ed essere missionario è la stessa cosa. Annunciare il Vangelo, con la parola e, prima ancora, con la vita, è la finalità principale della comunità cristiana e di ogni suo membro.
Si nota qui che Gesù indirizza la Buona Novella a tutti, senza escludere nessuno, anzi privilegiando i più lontani, i sofferenti, gli ammalati, gli scartati della società.
Domandiamoci: che cosa significa evangelizzare i poveri? Significa anzitutto avvicinarli, significa avere la gioia di servirli, di liberarli dalla loro oppressione, e tutto questo nel nome e con lo Spirito di Cristo, perché è Lui il Vangelo di Dio, è Lui la Misericordia di Dio, è Lui la liberazione di Dio, è Lui chi si è fatto povero per arricchirci con la sua povertà. Il testo di lsaia, rafforzato da piccoli adattamenti introdotti da Gesù, indica che l'annuncio messianico del Regno di Dio venuto in mezzo a noi si rivolge in modo preferenziale agli emarginati, ai prigionieri, agli oppressi.
Probabilmente al tempo di Gesù queste persone non erano al centro della comunità di fede. Possiamo domandarci: oggi, nelle nostre comunità parrocchiali, nelle associazioni, nei movimenti, siamo fedeli al programma di Cristo? L'evangelizzazione dei poveri, portare loro il lieto annuncio, è la priorità? Attenzione: non si tratta solo di fare assistenza sociale, tanto meno attività politica. Si tratta di offrire la forza del Vangelo di Dio, che converte i cuori, risana le ferite, trasforma i rapporti umani e sociali secondo la logica dell'amore. I poveri, infatti, sono al centro del Vangelo.
La Vergine Maria, Madre degli evangelizzatori, ci aiuti a sentire fortemente la fame e la sete del Vangelo che c’è nel mondo, specialmente nel cuore e nella carne dei poveri. E ottenga ad ognuno di noi e ad ogni comunità cristiana di testimoniare concretamente la misericordia, la grande misericordia che Cristo ci ha donato.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 24 gennaio 2016

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Pro Memoria

L'umanità è una grande e  immensa famiglia ... Troviamo la dimostrazione di ciò da quello che ci sentiamo nei nostri cuori a Natale.
(Papa Giovanni XXIII)

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