Le letture liturgiche di questa IV domenica di quaresima ci parlano di riconciliazione con Dio e di misericordia divina, di coscienza del peccato e di garanzia del perdono. Inquadrano situazioni di pena che si trasforma in gioia e di penitenza che si trasforma in festa.
Nella prima lettura, tratta dal libro di Giosuè, con l’ingresso degli Israeliti in Palestina si conclude l’esodo e ha inizio il compimento di un’altra promessa fatta da Dio ad Abramo: il dono della terra. Il passaggio dalla schiavitù alla terra promessa, ha avuto inizio e si è concluso con la celebrazione della Pasqua. L’esodo diventa così un grande passaggio. In questo cammino gli Israeliti erano sostenuti dalla manna, che ora cessa, perchè la terra promessa è stata raggiunta. Anche l’Eucarisita è il cibo di un popolo in cammino che cesserà nel giorno in cui verrà il Signore.
Nella seconda lettura, tratta dalla seconda lettera di S.Paolo ai Corinzi, troviamo i criteri fondamentali che guidano l’apostolo delle genti nella sua missione e che sono per lui il punto di vista giusto per risolvere le difficoltà della Chiesa di Corinto: Dio riconcilia a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe … La Pasqua ormai vicina deve fare di noi delle “creature nuove”: se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate…. Ogni giorno, ogni momento, dobbiamo rinnovare la nostra conversione.
Nel brano del Vangelo, Luca ci conforta con una delle più toccanti pagine evangeliche: la parabola del figlio prodigo, o meglio del padre prodigo d’amore che spia una strada deserta, che spera contro ogni speranza, e appena si profila all’orizzonte la figura del figlio, gli corre incontro per abbracciarlo e in quell’abbraccio la morte si trasforma in vita, uno smarrimento diventa un ritrovamento gioioso.
Dal libro di Giosuè
In quei giorni, il Signore disse a Giosuè: «Oggi ho allontanato da voi l’infamia dell’Egitto».
Gli Israeliti rimasero accampati a Gàlgala e celebrarono la Pasqua al quattordici del mese, alla sera, nelle steppe di Gerico.
Il giorno dopo la Pasqua mangiarono i prodotti della terra, àzzimi e frumento abbrustolito in quello stesso giorno.
E a partire dal giorno seguente, come ebbero mangiato i prodotti della terra, la manna cessò. Gli Israeliti non ebbero più manna; quell’anno mangiarono i frutti della terra di Canaan.
Gs 5, 9a, 10-12
Il libro di Giosuè viene subito dopo il Pentateuco e apre la serie dei Libri Storici dell'Antico Testamento. E’ stato scritto in ebraico e la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata in Giudea intorno al VI-V secolo a.C, sulla base di tradizioni orali e scritte.. Il libro prende il nome dal suo protagonista principale, Giosuè, figlio di Nun della tribù di Efraim, presentato già nell'Esodo come aiutante di Mosè. Dal libro dei Numeri sappiamo che era al servizio di Mosè fin dalla giovinezza, e che fu uno degli esploratori della Terra Promessa. Essendo stato, con Caleb, il solo tra il popolo a non rivoltarsi contro Mosè dopo il rientro degli esploratori, ebbe il diritto di entrare nella Terra di Canaan dopo la morte dell'intera generazione mosaica. Il periodo descritto va intorno al 1200.-1150 a.C
Il libro di Giosuè, composto da 24 capitoli è ripartito in tre sezioni:
- la conquista della Palestina (capitoli 1-12) E qui si inserisce uno dei brani più famosi della Bibbia, per prolungare la giornata ed assicurare la vittoria agli Israeliti, Giosuè grida:« Fermati, o sole, su Gabaon, e tu, luna, sulla valle di Aialon! » (Gs 10, 12)
- la suddivisione delle terre conquistate (capitoli 13-21)
- ultimi discorsi e morte di Giosuè (capitoli 22-24)
II capitolo 15, da dove è tratto questo brano, inizia con questo versetto: ”Quando tutti i re degli Amorrei, che sono oltre il Giordano ad occidente, e tutti i re dei Cananei, che erano presso il mare, seppero che il Signore aveva prosciugato le acque del Giordano davanti agli Israeliti, finché furono passati, si sentirono venir meno il cuore e non ebbero più fiato davanti agli Israeliti.” Era avvenuto che nonostante il Giordano fosse in piena per lo scioglimento delle nevi dell’Hermon, Giosuè ricevette da Dio l’ordine di passare e predispose quella che potremmo definire oggi la liturgia del passaggio,(il secondo prodigio delle acque dopo quello del passaggio del Mar Rosso). Il Salmo 114 (113) con espressioni poetiche lo ricorda:. “Il Giordano si volse indietro (…) e tu, Giordano, perché torni indietro?” che presentano il Giordano che ritira a monte il suo flusso d’acqua. Con l’ingresso degli Israeliti in Palestina si conclude l’esodo e ha inizio il compimento di un’altra promessa fatta ad Abramo il dono della terra (Gn 15,18).
In questo brano, dopo che Giosuè circoncise gli Israeliti alla collina Aralot, il Signore lo ribadisce: “Oggi ho allontanato da voi l’infamia dell’Egitto».
Il passaggio dalla schiavitù alla terra promessa ha avuto inizio e si è concluso con la celebrazione della Pasqua che gli “Israeliti accampati a Gàlgala celebrarono al quattordici del mese, alla sera, nelle steppe di Gerico”.
C’è un’annotazione che riveste una particolare importanza: “…a partire dal giorno seguente, come ebbero mangiato i prodotti della terra, la manna cessò “. Il segno del salto di condizione è evidenziato dalla possibilità di mangiare i prodotti della terra e dalla fine della manna. La notizia che il popolo non ha più la manna non è negativa, ma ha il sapore della bella notizia: il popolo può vivere del lavoro delle proprie mani nella sua terra. Al termine del viaggio di liberazione, la fine della manna dà come l'impressione che Dio si metta da parte e lo fa proprio nel momento in cui le Sue promesse si dimostrano vere e quelli che si sono fidati di Lui possono dimostrare di avere avuto ragione, proprio allora Dio toglie il segno più evidente della dipendenza del popolo dalla Sua provvidenza! Il risultato dell'azione di liberazione che Dio compie verso il Suo popolo, è che il popolo è libero, che può provvedere con le proprie mani ai suoi bisogni, fare le proprie scelte e decidere se rimanere fedele a Lui. Dio non si allontana dalla storia del Suo popolo, ma lo lascia libero di cercarlo. La non evidenza della presenza di Dio rende il cammino del credente, un viaggio compiuto nella piena libertà.
Salmo 33 - Gustate e vedete com’è buono il Signore.
Benedirò il Signore in ogni tempo,
sulla mia bocca sempre la sua lode.
Io mi glorio nel Signore:
i poveri ascoltino e si rallegrino.
Magnificate con me il Signore,
esaltiamo insieme il suo nome.
Ho cercato il Signore: mi ha risposto
e da ogni mia paura mi ha liberato.
Guardate a lui e sarete raggianti,
i vostri volti non dovranno arrossire.
Questo povero grida e il Signore lo ascolta,
lo salva da tutte le sue angosce.
L’autore del salmo, ricco dell’esperienza di Dio indirizza il suo sapere ai poveri, agli umili, e in particolare ai suoi figli. Egli afferma che sempre benedirà il Signore e che sempre si glorierà di lui. Egli chiede di venire ascoltato e invita gli umili ad unirsi con lui nel celebrare il Signore: “Magnificate con me il Signore, esaltiamo insieme il suo nome”.
Egli comunica la sua storia dicendo che ha cercato il Signore e ne ha ricevuto risposta cosicché “da ogni timore mi ha liberato”. Per questo invita gli umili a guardare con fiducia a Dio, e dice: “sarete raggianti”. “Questo povero”, cioè il vero povero, quello che è umile, è ascoltato dal Signore e l’angelo del Signore lo protegge dagli assalti dei nemici: “L’angelo del Signore si accampa attorno a quelli che lo temono (Dio), e li libera”. L’angelo del Signore è con tutta probabilità l’angelo protettore del popolo di Dio, chiamato così per antonomasia; sarebbe l’arcangelo Michele (Cf. Es 14,19; 23,23; 32,34; Nm 22,22; Dn 10,21; 12,1).
Il salmista continua la sua composizione invitando ad amare Dio dal quale procede gioia e pace: “Gustate e vedete com'è buono il Signore, beato l’uomo che in lui si rifugia”.
L’orante moltiplica i suoi inviti al bene: “Sta lontano dal male e fà il bene, cerca e persegui la pace”. Cercala, cioè trovala in Dio, e perseguila comportandoti rettamente con gli altri.
Il salmista non nasconde che il giusto è raggiunto da molti mali, ma dice che “da tutti lo libera il Signore”. Anche dalle angosce della morte, poiché “custodisce tutte le tue ossa, neppure uno sarà spezzato”. Queste parole sono avverate nel Cristo, come dice il Vangelo di Giovanni (19,16). Per noi vanno interpretate nel senso che se anche gli empi possono prevalere fino ad uccidere il giusto e farne scempio, le sue ossa sono al riparo perché risorgeranno.
Commento tratto da Perfetta Letiziai
Dalla seconda lettera di S.Paolo apostolo ai Corìnzi
Fratelli, se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove.
Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione. Era Dio infatti che riconciliava a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione
In nome di Cristo, dunque, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta.
Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio.
Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio.
2Cor 5:17-2
Paolo scrisse la seconda lettera ai Corinzi, spinto dai gravi avvenimenti che avevano scosso la comunità di Corinto. Nell’anno 56 Paolo è a Efeso (At 19) e viene a sapere che alcuni contestatori giudeo-cristiani stanno sollevando la comunità contro di lui. Vi fa una breve visita, ma è ricevuto freddamente, stanco e forse implicato troppo personalmente nel conflitto, non riesce ad aggiustare nulla, anzi la sua visita accresce piuttosto il disordine, si ripromette allora di ritornare un’altra volta.
Meno ricca della prima in insegnamenti dottrinali, la seconda lettera ai Corinzi ha il grande merito di introdurci nella vita interiore dell’Apostolo, in cui traspare il suo carattere appassionato. E’ una lettera ardente che può essere considerata come il suo diario intimo, le sue “confessioni”.
Nei primi 6 capitoli Paolo ripercorre la sua vocazione di predicatore del Vangelo e della situazione che si era creata con la comunità di Corinto. I contorni veri di questo malinteso non sono chiari, ma questo diventa per Paolo un motivo per ricordare le motivazioni del suo impegno a favore del Vangelo.
Nel brano che abbiamo l’apostolo esorta i Corinzi a diventare in Cristo creature nuove:
“Fratelli, se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove”.
I predicatori giunti a Corinto davano valore alle proprie parole con esperienze estatiche, alle quali i Corinzi erano particolarmente sensibili. Paolo nel versetto precedente ricorda che tali manifestazioni sono ancora opere della carne mentre il credente in Cristo invece è una creatura nuova e deve tralasciare le opere della carne, le cose vecchie. L'espressione “nuova creatura” è ripresa dagli ambienti apocalittici, nei quali si diceva che alla fine del mondo ogni persona sarebbe diventata una nuova creatura, Paolo quindi prende questo termine e lo adatta al messaggio evangelico. La nuova creatura si realizzerà alla fine dei tempi, ma già da ora chi crede in Cristo è una nuova creatura, perché l'esperienza di liberazione portata da Cristo per il singolo credente è pari allo sconvolgimento della fine dei tempi, è l'irrompere di una nuova epoca.
“Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione”.
Paolo prende ancora un termine dell’ambiente in cui vive, per adattarlo anche in questo caso al messaggio evangelico. Egli prende come punto di riferimento la Pax romana, l'ideale politico a cui l'impero romano aveva ispirato la sua espansione in tutto il bacino del Mediterraneo. Ma se quella era una pace imposta con la spada e il timore, la pace di Cristo si estende grazie alla riconciliazione con il Padre, realizzata dal sacrificio di Cristo, e diffusa in tutto il mondo attraverso i ministri della riconciliazione.
“Era Dio infatti che riconciliava a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione”
Ovviamente una riconciliazione presuppone una situazione di avversione e di rottura e segnala l'iniziativa di Dio come artefice attivo di questo superamento, che è giunto alla riconciliazione del mondo a sé, con il perdono dei peccati, non tenendo più conto delle colpe degli uomini.
“In nome di Cristo, dunque, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio.”
In questa riconciliazione Paolo inserisce il proprio caso particolare. I Corinzi lo avevano criticato, non seguivano più le sue esortazioni perché affascinati dai nuovi predicatori. Paolo ricorda che il suo messaggio non viene da lui, ma viene da Cristo, che ha riconciliato il mondo con il Padre. Egli è solo un ambasciatore! Egli dunque esorta in modo accorato i Corinzi a riconciliarsi con lui, per riconciliarsi a sua volta con Dio.
“Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio.”
In questa parte l’Apostolo ricorda che la riconciliazione del mondo con Dio è avvenuta non solo mediante il perdono dei peccati, ma anche con la giustificazione degli uomini. Coloro che non erano giusti a causa delle loro opere, sono stati resi giusti grazie al sacrificio di Cristo. E' Lui che ci ha resi giusti, quindi non vi sono meriti da parte degli uomini. Essi devono solo accogliere questa loro nuova condizione di essere stati giustificati e devono lasciarsi riconciliare con il Signore.
Viene in mente cosa scriveva Pascal, in un immaginario colloquio tra Dio e l’anima:
Dio: Se tu conoscessi i tuoi peccati ti dispereresti!
L’anima: Se tu mi li mostri, allora mi dispererò.
Dio: Non ti scoraggerai perché i tuoi peccati ti saranno rivelati nel momento stesso in cui ti saranno perdonarti.
Dal vangelo secondo Luca
In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro».
Ed egli disse loro questa parabola: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre.
Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa.
Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».
Lc 15,1-3.11-32
Il Capitolo 15 del Vangelo di Luca ci presenta tre parabole sul tema della misericordia. La prima ci descrive il ritrovamento della pecora, la moneta ritrovata e la terza è la celeberrima parabola del Figliol prodigo che è una sintesi delle due precedenti, perché è la storia di due persone che si perdono spiritualmente: una fuori casa (il figliol prodigo) e l'altra in casa (il fratello maggiore).
Il brano inizia riportando che “si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro».”
Si può subito notare che i pubblicani e i peccatori "ascoltano" la parola di Gesù, manifestando così un desiderio di salvezza mentre i farisei e gli scribi, “mormorano”, palesando ostinazione e rifiuto. Gli scribi e i farisei non riescono ad accettare il comportamento di Gesù che mangia e beve persino con peccatori pubblici, che non solo hanno commesso qualche peccato, ma sono in una condizione permanente di peccato. La condivisione del pasto esprime un senso di
comunione, e siccome Gesù è un maestro e non appartiene alla razza dei peccatori, questa mescolanza di sacro e di profano, di giusto e di peccatore crea problemi perché contrasta con la mentalità degli scribi e dei farisei.
Gesù inizia la parabola raccontando che: “Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. È la storia di sempre: un padre e due figli dei quali il più giovane manifesta una certa inquietudine, un mal di vivere, un atteggiamento sempre attuale dei giovani, di ogni tempo e di ogni luogo, e dice al padre di dargli “la parte del patrimonio che gli spetta”.
“ Ed egli divise tra loro le sue sostanze”. Ciò che colpisce in questa prima parte è la “condiscendenza silenziosa" del Padre che fin troppo rispettoso della libertà del figlio, accetta la sua richiesta e divide le sue sostanze.
Dividere le sostanze quando i1 Padre è ancora in vita, è un chiaro atto di ribellione, impensabile per la cultura orientale. Qui il figlio si dimostra già un sconsiderato e irresponsabile e la legge era molto dura nel reprimere un tale atteggiamento (v. Dt 21,18-21).
“Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno”
Questo figlio va in un paese lontano, e per lontano si intende anche pagano dove si perde ogni contatto con la propria famiglia, ma in cui può effettivamente fare quello che vuole; e questo giovane lo fa “vivendo in modo dissoluto”, fino “a trovarsi nel bisogno”.
La condizione di questo ragazzo diventa così grave al punto che è costretto a “mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci”.
Il porco è un animale immondo, tanto che non viene allevato da ebrei; andare a pascolare i porci è il massimo del degrado, peggio di così non si poteva finire. E la parabola vuole dire questo: il figlio scende al punto più basso della sua vita.
“Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla.”
Questo significa che da figlio è diventato meno di un servo; l’autonomia che lui cercava non l’ha certo trovata! .
“Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame!” In questo suo ragionamento non si può ravvisare ancora una conversione: lo chiama padre, anche se non considera se stesso come figlio, fa un paragone con i salariati, ma ha ancora una falsa immagine del padre.
La fame gli fa capire come abbia sbagliato nel valutare le cose… E’ appropriato qui un antico proverbio ebraico: “Quando gli israeliti hanno bisogno di mangiare carrube, è la volta che si convertono”.
“Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te”.
Il figlio si è allontanato da casa perché pensava che suo padre fosse un tiranno e ritorna a casa con la speranza che suo padre sia un padrone e lo tratti come un padrone tratta i suoi servi. La conversione del figlio in realtà non è una vera conversione, perché non ritorna per amore di suo padre, ma ritorna per fame, con il desiderio di saziarsi, di potere vivere in un modo meno miserabile di quello attuale. Non gli dispiace di aver fatto soffrire suo padre!
“non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”.Questo è il discorso che si era preparato mentalmente, nel quale, con atteggiamento umile, si riconosceva colpevole.
Arriviamo alla seconda parte della parabola dominata dalla figura del padre che:
“quando era ancora lontano, lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò.”
Il padre qui è ben altro, un padre che spia una strada deserta, che spera contro ogni speranza, non aspetta al varco il figlio degenere per rinfacciarli una colpa che non ha scusanti, ma appena si profila all’orizzonte la figura del figlio, questo padre gli corre incontro per abbracciarlo. Per farci capire meglio l'evangelista usa i verbi dell'amore:
“lo vide”. Per quanto lontano possa essere il padre lo vede sempre; nessuna oscurità e tenebre può sottrarlo alla sua vista Sal 139,11). (L’occhio è l’organo del cuore: gli porta l’oggetto del suo desiderio. Lo sguardo di Dio verso il peccatore è tenero e benevolo come quello di una madre verso il figlio malato (Is 49,14-16; Ger 31,20; Sal 27,10; Os 11,8).
“ebbe compassione”. È il verbo che definisce la figura del padre. “Commuoversi” vuole dire: “gli si sono mosse dentro le viscere”. L'evangelista Luca attribuisce a questo padre i sentimenti di una madre, e si collega cosi alla tradizione biblica, dove Dio ha sovente atteggiamenti materni verso Israele.
“gli corse incontro”. C'è una corsa del padre che termina in uno slancio che lo fa letteralmente “cadere addosso” al figlio.
“lo baciò” Il “bacio” è il segno del perdono (v-2Sam 14,33). Questi sono gesti che nell'Antico Testamento indicano il perdono e la riconciliazione il segno che la comunione d’amore che c’era prima, è stata immediatamente ristabilita.
“Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi.
Il padre prende subito l’iniziativa e non permette al figlio neanche di terminare la sua confessione, non lo rimprovera e la dichiarazione di perdono non completata del figlio, indica che l’aspetto importante della parabola, non è la conversione più o meno sentita del figlio, ma piuttosto l’accoglienza e la misericordia del padre. Oltre al vestito più bello si può notare il particolare dell’anello al dito, simbolo di autorità, e dei sandali ai piedi che gli ridona la libertà di figlio (lo schiavo non porta sandali).
“facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”.
È il canto alla vita del figlio ritrovato, della relazione nuova, filiale e fraterna.
I termini "morte e vita" lasciano intuire che la sua gioia deriva da una relazione che si era spezzata prima, ma ora è rinnovata in una atmosfera di gioiosa libertà.
Ora giungiamo all’ultima scena del racconto in cui appare la figura del “figlio maggiore che si trovava nei campi”, che è una tipica rappresentazione del benpensante che soddisfatto della sua conclamata onestà, diventa un impietoso giudice del fratello.
Questo figlio maggiore rappresenta anche Israele, il primogenito di Dio, figura di ogni giusto, ma rappresenta anche colui che crede di essere nel giusto per cui come il figlio maggiore della parabola domanda, si arrabbia e il suo arrabbiarsi è giustificato da un ragionamento che ha una logica rigorosa, in cui suppone che il padre sia un padrone e che i figli siano dei salariati. Afferma perciò con rabbia: io ti servo da tanti anni … e tu non mi hai mai dato un capretto… Il figlio maggiore che ha mantenuto sempre un rapporto da salariato a datore di lavoro, è un esempio di una religiosità seria e impegnata ma di scambio, una religiosità dove Dio è datore di lavoro e l’uomo è un operaio, per cui secondo il lavoro che l’operaio compie, ha diritto ad un salario corrispondente.
Il padre che era uscito per supplicarlo gli dice: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; … ma bisognava far festa e rallegrarsi” con queste parole il padre cerca di far entrare nella logica dell’amore e della gioia colui che è rimasto sempre avvolto nelle funzioni del puro dovere, della sola osservanza di norme che escludono qualsiasi sentimento, gioia e soprattutto perdono. Il padre non rinnega il comportamento tenuto nei confronti del figlio minore e riafferma con enfasi la sua gioia.
La parabola non rivela la reazione del figlio maggiore, non dice se è entrato o no a far festa. Gesù lascia le cose in sospeso con le domande che ognuno di noi anche oggi si può sentire rivolgere: volete fare come il figlio maggiore, essere invidiosi dei peccatori che si convertono? Volete o no entrare alla festa di Dio? Volete continuare a non capire la mentalità, il cuore di Dio?
A Gesù sta a cuore far intravedere a noi peccatori e presunti giusti, il modo con cui Dio si rapporta alle persone: ogni uomo, anche se peccatore, rimane per Dio sempre un figlio, proprio come succede nella parabola.
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Le parole di Papa Francesco
““Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò»
Così il Vangelo ci immette nel cuore della parabola che manifesta l’atteggiamento del padre nel vedere ritornare suo figlio: scosso nelle viscere non aspetta che arrivi a casa ma lo sorprende correndogli incontro. Un figlio atteso e desiderato. Un padre commosso nel vederlo tornare.
Ma quello non è stato l’unico momento in cui il Padre si è messo a correre. La sua gioia sarebbe incompleta senza la presenza dell’altro figlio. Per questo esce anche incontro a lui per invitarlo a partecipare alla festa .Però, sembra proprio che al figlio maggiore non piacessero le feste di benvenuto; non riesce a sopportare la gioia del padre e non riconosce il ritorno di suo fratello: «quel tuo figlio», dice . Per lui suo fratello continua ad essere perduto, perché lo aveva ormai perduto nel suo cuore.
Nella sua incapacità di partecipare alla festa, non solo non riconosce suo fratello, ma neppure riconosce suo padre. Preferisce l’essere orfano alla fraternità, l’isolamento all’incontro, l’amarezza alla festa. Non solo stenta a comprendere e perdonare suo fratello, nemmeno riesce ad accettare di avere un padre capace di perdonare, disposto ad attendere e vegliare perché nessuno rimanga escluso, insomma, un padre capace di sentire compassione.
Sulla soglia di quella casa sembra manifestarsi il mistero della nostra umanità: da una parte c’era la festa per il figlio ritrovato e, dall’altra, un certo sentimento di tradimento e indignazione per il fatto che si festeggiava il suo ritorno. Da un lato l’ospitalità per colui che aveva sperimentato la miseria e il dolore, che era giunto persino a puzzare e a desiderare di cibarsi di quello che mangiavano i maiali; dall’altro lato l’irritazione e la collera per il fatto di fare spazio a chi non era degno né meritava un tale abbraccio.
Così, ancora una volta emerge la tensione che si vive tra la nostra gente e nelle nostre comunità, e persino all’interno di noi stessi. Una tensione che, a partire da Caino e Abele, ci abita e che siamo chiamati a guardare in faccia. Chi ha il diritto di rimanere tra di noi, di avere un posto alla nostra tavola e nelle nostre assemblee, nelle nostre preoccupazioni e occupazioni, nelle nostre piazze e città? Sembra che continui a risuonare quella domanda fratricida: sono forse il custode di mio fratello? (cfr Gen 4,9).
Sulla soglia di quella casa appaiono le divisioni e gli scontri, l’aggressività e i conflitti che percuoteranno sempre le porte dei nostri grandi desideri, delle nostre lotte per la fraternità e perché ogni persona possa sperimentare già da ora la sua condizione e dignità di figlio.
Ma a sua volta, sulla soglia di quella casa brillerà con tutta chiarezza, senza elucubrazioni né scuse che gli tolgano forza, il desiderio del Padre: che tutti i suoi figli prendano parte alla sua gioia; che nessuno viva in condizioni non umane come il suo figlio minore, né nell’orfanezza, nell’isolamento e nell’amarezza come il figlio maggiore. Il suo cuore vuole che tutti gli uomini si salvino e giungano alla conoscenza della verità (1 Tm 2,4).
Sicuramente sono tante le circostanze che possono alimentare la divisione e il conflitto; sono innegabili le situazioni che possono condurci a scontrarci e a dividerci. Non possiamo negarlo. Ci minaccia sempre la tentazione di credere nell’odio e nella vendetta come forme legittime per ottenere giustizia in modo rapido ed efficace. Però l’esperienza ci dice che l’odio, la divisione e la vendetta non fanno che uccidere l’anima della nostra gente, avvelenare la speranza dei nostri figli, distruggere e portare via tutto quello che amiamo.
Perciò Gesù ci invita a guardare e contemplare il cuore del Padre. Solo da qui potremo riscoprirci ogni giorno come fratelli. Solo a partire da questo orizzonte ampio, capace di aiutarci a superare le nostre miopi logiche di divisione, saremo capaci di raggiungere uno sguardo che non pretenda di oscurare o smentire le nostre differenze cercando forse un’unità forzata o l’emarginazione silenziosa. Solo se siamo capaci ogni giorno di alzare gli occhi al cielo e dire “Padre nostro” potremo entrare in una dinamica che ci permetta di guardare e di osare vivere non come nemici, ma come fratelli.
«Tutto ciò che è mio è tuo», dice il padre al figlio maggiore. E non si riferisce solo ai beni materiali ma al partecipare del suo stesso amore e della sua stessa compassione. Questa è la più grande eredità e ricchezza del cristiano. Perché, invece di misurarci o classificarci in base ad una condizione morale, sociale, etnica o religiosa, possiamo riconoscere che esiste un’altra condizione che nessuno potrà cancellare né annientare dal momento che è puro dono: la condizione di figli amati, attesi e festeggiati dal Padre.
«Tutto ciò che è mio è tuo», anche la mia capacità di compassione, ci dice il Padre. Non cadiamo nella tentazione di ridurre la nostra appartenenza di figli a una questione di leggi e proibizioni, di doveri e di adempimenti. La nostra appartenenza e la nostra missione non nasceranno da volontarismi, legalismi, relativismi o integrismi, ma da persone credenti che imploreranno ogni giorno con umiltà e costanza: “venga il tuo Regno”.
La parabola evangelica presenta un finale aperto. Vediamo il padre pregare il figlio maggiore di entrare a partecipare alla festa della misericordia. L’Evangelista non dice nulla su quale sia stata la decisione che egli prese. Si sarà aggiunto alla festa? Possiamo pensare che questo finale aperto abbia lo scopo che ogni comunità, ciascuno di noi, possa scriverlo con la sua vita, col suo sguardo e il suo atteggiamento verso gli altri. Il cristiano sa che nella casa del Padre ci sono molte dimore, e rimangono fuori solo quelli che non vogliono partecipare alla sua gioia.”
Parte dell’Omelia che Papa Francesco
ha pronunciato nel Complesso Sportivo Principe Moulay Abdellah (Rabat)
Domenica, 31 marzo 2019
1. Al termine della celebrazione delle ore 10:00, domenica 20 marzo, avrà luogo nelle sale del catechismo l’incontro delle famiglie del II° anno di Cresima, organizzato con le catechiste di riferimento. Tutti i ragazzi e i bambini sono attesi in oratorio per passare la mattinata insieme.
2. Domenica prossima, 27 marzo, alle ore 10:00 si terrà la celebrazione conclusiva delle Giornate sinodali. Sono invitati a partecipare tutti i membri dei gruppi parrocchiali. Al termine della messa, ci si riunirà nel teatro parrocchiale, per concludere insieme questa prima parte del percorso sinodale parrocchiale. L’equipe pastorale e il parroco, ringraziano unitamente tutti i partecipanti alle giornate già trascorse, per il lavoro, le condivisioni, e la convivialità vissuta insieme.
3. Sempre domenica 27 marzo, alle ore 11:15 avrà luogo nelle sale del catechismo, l’incontro delle famiglie del I° anno di comunione, dedicato alla Quaresima e organizzato con le catechiste di riferimento.
4. Da lunedì 21 marzo, cominciano le Benedizioni pasquali delle case e delle famiglie. Dovendo ancora osservare alcune attenzioni rispetto alle esigenze dell’epidemia di covid, come gli scorsi anni, siete tutti invitati a portare da casa una boccettina con dell’acqua, che verrà benedetta dai sacerdoti al termine delle messe delle 9:00 e delle 18:30. Sulle bacheche in fondo alla chiesa, trovate il calendario con le vie di riferimento per ogni giorno della settimana.
5. Venerdì 25 marzo, la chiesa celebra la Solennità dell’Annunciazione del Signore. Nello stesso giorno Papa Francesco consacrerà la Russi e l’Ucraina al cuore immacolato di Maria. Possiamo unirci in preghiera anche nella messa feriale di quello stesso giorno, alle ore 9:00 e 18:30.
6. Ricordiamo che tutti i venerdì alle 17:45 in chiesa è possibile partecipare alla preghiera della Via Crucis. Seguiranno nelle prossime settimane ulteriori dettagli sulla via crucis dei giovani (1 aprile) e delle famiglie del catechismo (8 aprile)
7. La nostra parrocchia ha accolto alcune famiglie provenienti dall’Ucraina, che si trovano in Via Putti e in una struttura accanto alla bocciofila. Per sostenere queste due realtà ci affidiamo alla vostra generosità. Per qualsiasi dettaglio o contributo, potete fare riferimento a P. Pietro, coordinatore del Comitato dell’Emergenza Ucraina nella nostra parrocchia.
La liturgia di questa III domenica di quaresima ci propone tre letture che parlano di uscita da uno stato di schiavitù e pena, di guarigione dalla malattia del peccato e di conversione (cambiamento della mente e del cuore) garantite da Dio.
Nella prima lettura, tratta dal libro dell’Esodo, Dio parla a Mosè sul Monte Oreb in un roveto che arde senza consumarsi. Gli comunica il Suo nome: “Io sono colui che sono” e gli affida la missione di liberare il Suo popolo dallo stato di schiavitù in cui era tenuto dal Faraone d’Egitto. La chiamata di Mosè costituisce una tappa decisiva nella storia della salvezza.
Nella seconda lettura, tratta dalla prima lettera ai Corinzi, San Paolo, dalla storia d’Israele trae una lezione per i cristiani: gli Ebrei usciti dall’Egitto e assistiti da Dio, con doni prodigiosi, sono morti nel deserto, a causa della loro infedeltà. La conversione, non è mai finita e l’Apostolo come monito alla fine dice: Chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere. Senza umiltà non si arriva alla grazia della conversione.
Nel brano del Vangelo, Luca racconta che Gesù, prendendo prima spunto da due fatti di cronaca di quel tempo, (alcuni giudei trucidati da Pilato e diciotto abitanti di Gerusalemme morti sotto il crollo della torre di Siloe), dice “…se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo”. Propone anche come esempio la parabola del fico sterile per farci capire che se anche la conversione è spesso difficile e lenta, non deve scoraggiarci, perché Dio è misericordioso e paziente!
In questo tempo così angoscioso l’unica cosa che possiamo fare è lasciarci convertire da Fio. Non dobbiamo perdere tempo per cui approfittiamo di ogni istante per essere graditi a lui, che è immensa bontà e infinita giustizia dalla quale nessuno sfugge.
Dal libro dell’Esodo
In quei giorni, mentre Mosè stava pascolando il gregge di Ietro, suo suocero, sacerdote di Madian, condusse il bestiame oltre il deserto e arrivò al monte di Dio, l’Oreb.
L’angelo del Signore gli apparve in una fiamma di fuoco dal mezzo di un roveto. Egli guardò ed ecco: il roveto ardeva per il fuoco, ma quel roveto non si consumava.
Mosè pensò: «Voglio avvicinarmi a osservare questo grande spettacolo: perché il roveto non brucia?». Il Signore vide che si era avvicinato per guardare; Dio gridò a lui dal roveto: «Mosè, Mosè!». Rispose: «Eccomi!». Riprese: «Non avvicinarti oltre! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è suolo santo!». E disse: «Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe». Mosè allora si coprì il volto, perché aveva paura di guardare verso Dio.
Il Signore disse: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto e per farlo salire da questa terra verso una terra bella e spaziosa, verso una terra dove scorrono latte e miele».
Mosè disse a Dio: «Ecco, io vado dagli Israeliti e dico loro: “Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi”. Mi diranno: “Qual è il suo nome?”. E io che cosa risponderò loro?».
Dio disse a Mosè: «Io sono colui che sono!». E aggiunse: «Così dirai agli Israeliti: “Io Sono mi ha mandato a voi”». Dio disse ancora a Mosè: «Dirai agli Israeliti: “Il Signore, Dio dei vostri padri, Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe mi ha mandato a voi”. Questo è il mio nome per sempre; questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione».
Es 3,1-8a.13-15
Il Libro dell'Esodo è il secondo libro del Pentateuco (Torah ebraica) e della Bibbia cristiana. È stato scritto in ebraico e, secondo l'ipotesi di molti studiosi, la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte. È composto da 40 capitoli e nei primi 14 descrive il soggiorno degli Ebrei in Egitto, la loro schiavitù e la miracolosa liberazione tramite Mosè, mentre nei restanti descrive il soggiorno degli Ebrei nel deserto del Sinai. Il libro si apre con la descrizione dello stato di schiavitù del popolo ebreo in Egitto e giunge con il suo racconto sino al patto di Dio con il popolo e alla promulgazione della legge divina, concludendosi con lunghe sezioni legali. Gli studiosi collocano questi avvenimenti tra il 15^ e il 13^ secolo a.C.
Questo celebre brano che rappresenta l’inizio del dialogo tra Dio e l’uomo, si apre con una particolare teofania. Mosè stava pascolando il gregge del suocero, era arrivato oltre il deserto, al monte di Dio, l’Oreb. L’angelo del Signore gli apparve in una fiamma di fuoco dal mezzo di un roveto. ma quel roveto non si consumava. Il roveto è un cespuglio selvatico che consideriamo comunemente un’erbaccia, eppure Dio ha scelto questa pianta umile e povera per manifestare, con una luce che illumina e purifica senza bruciare, la Sua presenza..
Solo quando Mosè incuriosito si volle avvicinare per osservare da vicino il fenomeno ,”Dio gridò a lui dal roveto: «Mosè, Mosè!». Rispose: «Eccomi!». Riprese: «Non avvicinarti oltre! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è suolo santo!».
Dio si presenta così all’improvviso nella vita dell’esule Mosè proclamando: “Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe». Mosè allora si coprì il volto, perché aveva paura di guardare verso Dio”.Mosè si coprì il volto perchè aveva intuito di trovarsi davanti a Dio, e aveva paura di guardare, ma poiché il desiderio di Dio è più forte della paura della morte, Mosè, senza però poterlo vedere direttamente, riprende il discorso dopo che Dio gli conferisce la missione di liberare il suo popolo dal potere dell’Egitto e per farlo salire verso una terra dove scorrono latte e miele. E’ a questo punto che Mose chiede il nome.
E’ il primo dialogo della rivelazione ed è anche uno dei doni più alti di Dio all’uomo. Infatti svelare il proprio nome a qualcuno, presso i Semiti, equivaleva a mettersi in qualche modo in suo potere. Presentandosi come “Io sono colui che sono!” vediamo che Dio non si rivela in un sostantivo, ma in un verbo, cioè in una forma attiva e non statica e inerte come è invece per l’idolo. Il Dio d’Israele, è Colui che è lì, l’eterno vivente, ma non vuole manifestarsi completamente e, allo stesso tempo, si svela come Dio vivo, sempre presente e impegnato in mezzo al Suo popolo.
Il testo, uno dei più profondi della storia della salvezza, indica il compimento di una promessa fatta ad Abramo e segna l’avvio verso altri eventi.
Salmo 102/103 - Il Signore ha pietà del suo popolo
Benedici il Signore, anima mia,
quanto è in me benedica il suo santo nome.
Benedici il Signore, anima mia,
non dimenticare tutti i suoi benefici.
Egli perdona tutte le tue colpe,
guarisce tutte le tue infermità,
salva dalla fossa la tua vita,
ti circonda di bontà e misericordia.
Il Signore compie cose giuste,
difende i diritti di tutti gli oppressi.
Ha fatto conoscere a Mosè le sue vie,
le sue opere ai figli d’Israele.
Misericordioso e pietoso è il Signore,
lento all’ira e grande nell’amore.
Perché quanto il cielo è alto sulla terra,
così la sua misericordia è potente su quelli che lo temono.
La critica è incline a datare la composizione di questo salmo nel tardo postesilio.
Il salmista esorta se stesso a benedire il Signore, e a non “dimenticare tutti i suoi benefici”. Questo ricordare è importantissimo nei momenti dolorosi per non cadere nello scoraggiamento e al contrario stabilirsi in una grande fiducia in Dio. Il salmista non presenta grandi tormenti storici della nazione; pare di poter indovinare normalità di vita attorno a lui. Egli si presenta a Dio come colpevole di numerose mancanze, ma ha sperimentato la misericordia di Dio, che lo ha salvato da angosce e anche probabilmente da una malattia grave: “Egli perdona tutte le tue colpe, guarisce tutte le tue infermità; salva dalla fossa la tua vita”.
Il salmista non cessa di celebrare la bontà, la giustizia di Dio, e prova una grande dolcezza nel fare questo: una dolcezza pacificante: “Ti circonda di bontà e di misericordia”.
Il salmista, fedele all'alleanza, loda Dio per la legge data per mezzo di Mosè: “Ha fatto conoscere a Mosè le sue vie, le sue opere ai figli d'Israele ”. Ma Dio non ha dato a Mosè solo la legge, ha anche dato l'annuncio del Cristo futuro, dal quale abbiamo la grazia e la verità (Cf. Gv 1,17).
La misericordia di Dio celebrata dal salmista si è manifestata per mezzo di Gesù Cristo.
Il salmista si sente sicuro, compreso da Dio, che agisce sul suo popolo con la premura di un padre verso i figli. Un padre che “ricorda che noi siamo polvere”, e che perciò pur rilevando le colpe è pronto a perdonare pienamente: “Non è in lite per sempre, non rimane adirato in eterno”.
L'alleanza osservata è fonte di bene, di unione con Dio. Egli effonde “la sua giustizia”, cioè la sua protezione dal male, sui “figli dei figli”.
Il salmista pieno di gioia conclude invitando tutti gli angeli a benedire Dio. Gli angeli non hanno bisogno di essere esortati a benedire Dio, ma certo possono essere invitati a rafforzare il nostro benedire Dio. Per una lode universale sono invitate a benedire Dio tutte le cose create (Cf. Ps 18,1s): “Benedite il Signore, voi tutte opere sue”.
Commento tratto da Perfetta Letizia
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi
Non voglio che ignoriate, fratelli, che i nostri padri furono tutti sotto la nube, tutti attraversarono il mare, tutti furono battezzati in rapporto a Mosè nella nube e nel mare, tutti mangiarono lo stesso cibo spirituale, tutti bevvero la stessa bevanda spirituale: bevevano infatti da una roccia spirituale che li accompagnava, e quella roccia era il Cristo. Ma la maggior parte di loro non fu gradita a Dio e perciò furono sterminati nel deserto.
Ciò avvenne come esempio per noi, perché non desiderassimo cose cattive, come essi le desiderarono.
Non mormorate, come mormorarono alcuni di loro, e caddero vittime dello sterminatore. Tutte queste cose però accaddero a loro come esempio, e sono state scritte per nostro ammonimento, di noi per i quali è arrivata la fine dei tempi. Quindi, chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere.
1 Cor 10,1-6.10-12
La Prima lettera ai Corinzi, che Paolo scrisse da Efeso nel 56 o 57, è considerata una delle più importanti dal punto di vista dottrinale; vi si trovano informazioni e decisioni su numerosi problemi cruciali del Cristianesimo primitivo, sia per la sua "vita interna": purezza dei costumi (5,1-13:6,12-20), matrimonio e verginità (7,1-40), svolgimento delle assemblee religiose e celebrazione dell‘eucaristia (11.12) , uso dei carismi (12,1-14) ; sia per i rapporti con il mondo pagano; ricorso ai tribunali (6,1-11), carni offerte agli idoli (8-10) .
In questo brano Paolo, per mettere in guardia i Corinzi dal rischio di cadere nell’idolatria, presenta in sintesi l’esempio dei padri, mostrando che essi, pur avendo ricevuto notevoli grazie spirituali, non hanno saputo resistere all’attrattiva del peccato. Dopo aver premesso:”Non voglio infatti che ignoriate, fratelli”, con cui sottolinea l’importanza di ciò che sta per dire, Paolo prosegue: “i nostri padri furono tutti sotto la nube, tutti attraversarono il mare, tutti furono battezzati in rapporto a Mosè nella nube e nel mare ..” L’esperienza fatta dagli israeliti al tempo dell’esodo ha valore anche per i cristiani, i quali riconoscono in essi i loro progenitori nella fede.
Tipico di questi progenitori è il fatto di essere stati sotto la nube e di aver attraversato il mare. Queste due esperienze vengono interpretate simbolicamente come un “essere battezzati” (essere immersi) nella nube e nel mare.
Dopo aver presentato la liberazione degli israeliti come un’esperienza battesimale, Paolo prosegue: “tutti bevvero la stessa bevanda spirituale: bevevano infatti da una roccia spirituale che li accompagnava, e quella roccia era il Cristo” Il cibo spirituale, dato cioè dallo Spirito di Dio e quindi apportatore di un dono salvifico, non è altro che la manna, chiamata anche “pane del cielo” nella quale i primi cristiani vedevano la prefigurazione del pane moltiplicato da Gesù durante il Suo ministero, simbolo a sua volta del pane distribuito nell’ultima cena (Gv 6,31-33) e consumato dai corinzi nella celebrazione della cena del Signore (1Cor 11,17-34), mentre la bevanda spirituale è l’acqua scaturita dalla roccia (Es 17,6).
L’esperienza della salvezza fatta da Israele non è inferiore a quella dei cristiani. “Ma,- continua Paolo,- la maggior parte di loro non fu gradita a Dio e perciò furono sterminati nel deserto”. Se essi sono stati rifiutati da Dio, ciò non è dovuto a un venir meno della grazia divina, ma alla mancanza di partecipazione da parte loro. L’apostolo vuole dunque dire che i sacramenti non operano in modo automatico, come i corinzi potevano pensare (v: 11,17-34), ma richiedono la fede viva e operosa di chi li riceve.
Infine, Paolo mette in guardia i corinzi dalla mormorazione: “Non mormorate, come mormorarono alcuni di loro, e caddero vittime dello sterminatore”. La mormorazione indica l’incredulità, il rifiuto e la sfiducia. E’ collegata a diversi episodi in cui gli israeliti si lamentarono per le difficoltà dell’esodo e alcuni di loro furono sterminati da Dio.
Al termine di questa lista di peccati Paolo riprende quanto aveva affermato prima , commentando: “Tutte queste cose però accaddero a loro come esempio, e sono state scritte per nostro ammonimento, di noi per i quali è arrivata la fine dei tempi.” Nessuno deve pensare, perché sono giunti i tempi della salvezza definitiva attuata da Cristo, che non vi sia più pericolo di peccare. “Quindi, chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere”. La tentazione dunque resta, ma il credente ha però il potere di superarla, purché non si lasci prendere dalla falsa presunzione di essere preservato da cadute.
L’apostolo conclude con una riflessione, non riportata dal brano, che è un vero e proprio incoraggiamento per tutti: “Nessuna tentazione, superiore alle forze umane, vi ha sorpresi; Dio infatti è degno di fede e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze ma, insieme con la tentazione, vi darà anche il modo di uscirne per poterla sostenere. (v.13)
La grazia di Dio dunque è più forte della tentazione: chi sbaglia è l’unico responsabile del suo peccato, perché Dio dà a tutti la possibilità di superare la prova.
Dal vangelo secondo Luca
In quel tempo si presentarono alcuni a riferire a Gesù il fatto di quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici. Prendendo la parola, Gesù disse loro: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. O quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Sìloe e le uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo».
Diceva anche questa parabola: «Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. Allora disse al vignaiolo: “Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest’albero, ma non ne trovo. Tàglialo dunque! Perché deve sfruttare il terreno?”. Ma quello gli rispose: “Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai”».
Lc 13,1-9
Il brano liturgico ci riporta dei fatti che troviamo solo nel vangelo di Luca e non hanno passaggi paralleli negli altri vangeli. Nel lungo cammino di Gesù dalla Galilea fino a Gerusalemme, che occupa quasi la metà del suo vangelo, Luca colloca la maggior parte delle informazioni che ha raccolto sulla vita e l’insegnamento di Gesù
Nel brano leggiamo che: “si presentarono alcuni a riferire a Gesù il fatto di quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici.”. L’inizio del brano prende spunto da un sanguinoso fatto di cronaca 1 (*) : il massacro di alcuni Galilei giunti a Gerusalemme per offrire sacrifici durante una festa giudaica, che si sono trovati coinvolti in un tumulto insurrezionale, una rivolta alquanto frequente allora, e che Pilato ha fatto trucidare. Chi riferisce a Gesù questo fatto di violenza forse attende da lui un giudizio politico.
Gesù risponde ponendo a sua volta una domanda: “Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo….” Viene spontaneo chiederci quale sia il senso della morte e soprattutto della morte ingiusta, della morte di coloro che non hanno colpe, e sono addirittura uomini pii e giusti. Qui c’è la risposta: il male che arriva, non è segno di castigo per i colpiti, ma richiamo alla conversione per i superstiti, che dovrebbero essere grati a Dio di non essere tra il numero dei colpiti, cercando di fare buon uso del tempo che ancora Dio concede loro per portare frutti di bene. Vediamo che Gesù reagisce senza scomporsi a questa segnalazione e chiarisce che il pericolo sovrasta tutti quanti: egli non vede nemici dappertutto, ma fa un esortazione, quella cioè di cogliere il momento opportuno per convertirsi, aspettare potrebbe voler dire perdere un'occasione preziosa e rischiare la stessa sorte.
“O quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Sìloe e le uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? “
Gesù fa riferimento a questi due fatti di cronaca per sottolineare l’urgenza della conversione, di questo tornare a Dio con tutto il cuore e con tutta la mente e che non è mai troppo presto prendere questa decisione fondamentale per ottenere la sSalvezza.
Poi Gesù continua il Suo insegnamento presentando la parabola del fico sterile : “Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò.” Gesù fa riferimento a un’immagine già molte volte utilizzata nell’Antico Testamento per indicare il popolo di Dio. Infatti il fico e la vigna rappresentano nella Scrittura e nella tradizione rabbinica e profetica il popolo di Israele che è la vigna scelta, piantata e curata da Dio nonostante la sua infedeltà. Ed ora è Gesù, il Figlio di Dio che viene a visitare questa vigna e a mangiarne i frutti… e i vignaioli stanno per metterlo a morte ….
In questo versetto viene presentata la parabola: un tale aveva piantato questo fico va nella vigna per raccogliere frutti ma non ne trova. Possiamo leggervi dentro l'azione di Dio che invia Suo Figlio Gesù, che per tre anni predica in mezzo al popolo annunciandosi come il Salvatore, il Redentore, il Misericordioso.
“Allora disse al vignaiolo: “Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest’albero, ma non ne trovo. Tàglialo dunque! Perché deve sfruttare il terreno?”. Il padrone comunica al vignaiolo il suo disappunto per quell’albero che ormai già da tre anni non dà frutti, quindi dà ordine di tagliarlo perché è un parassita, sfrutta solo il terreno senza portare frutto. La decisione del padrone ha una logica giusta: un albero che non dà frutto è improduttivo, sterile, abbatterlo è la soluzione più logica.
Ogni buon contadino sa bene che un vitigno comincia a dare frutto dopo tre anni da quando è stato piantato.
Questi versetti, ci presentano la sterilità del fico e qui possiamo leggere la nostra storia alla luce di quella di Gesù.
“Ma quello gli rispose: “Padrone, lascialo ancora quest’anno”, Il vignaiolo parla in modo misericordioso, chiede pazienza al padrone. Parla nello stesso modo in cui Gesù ci ha parlato di Dio: paziente e misericordioso.
“finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. Il vignaiolo non ne vuole sapere di tagliare l’albero anche se deve riconoscere che finora è stato improduttivo e s’impegna a lavorare perché il fico porti frutto: lo zappa tutt’attorno e gli mette il concime. Viene da pensare a quell’opera attenta, premurosa, abbondante che Dio ha compiuto, attraverso Gesù, a nostro favore, per rendere la nostra vita feconda di frutti di bene.
“Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai”. Il tempo che si prolunga è segno di misericordia, non assenza di giudizio. Il tempo si prolunga per permetterci di approfittarne, non per giustificare il rinvio o l’indifferenza… comunque la pazienza di Dio ha un limite! Il tempo è decisivo, non perché breve, ma perché carico di occasioni determinanti.
Questo dialogo tra padrone e vignaiolo mette in risalto il valore dell’intercessione, della preghiera per ottenere misericordia, fatta da Gesù che è il vignaiolo al Padre che è il padrone. Fa pensare alla stessa intercessione chiesta da Abramo verso le città di Sodoma e Gomorra, la stessa intercessione di Mosè nei confronti di Israele nell’episodio del vitello d’oro.
La parabola è fin troppo chiara: Il Padre e il Figlio si prendono cura dell'uomo e attendono che egli risponda al loro amore. Come al fico sterile il Padrone della vigna concede ancora del tempo per farlo fruttificare, così Dio concede del tempo anche all’uomo che non dà frutti di conversione, prima della “resa dei conti”.
Nella parola "quest'anno“ sono indicati tutti gli anni e i secoli delle generazioni che verranno. E' “l'anno” della pazienza e della misericordia di Dio, san Pietro lo ribadisce nella sua lettera: "Egli. usa pazienza verso di voi, non volendo che alcuno perisca, ma che tutti abbiano modo di pentirsi" (2Pt 3,9).
Con la parabola del fico Gesù, in un certo senso, ci vuole confortare: la conversione è spesso difficile e lenta, ma questo non deve scoraggiarci perché la giustizia di Dio è paziente. La conversione, anzi – come dice San Paolo – non è mai finita; il rifiuto del peccato perché dia frutti va continuamente concimato con il coraggio di essere diversi, con la carità e l’amore, con il rigetto delle tentazioni. “Chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere” ci raccomanda San Paolo. Senza la vera umiltà non si attinge alla grazia della conversione.
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“Il Vangelo di questa terza domenica di Quaresima ci parla della misericordia di Dio e della nostra conversione. Gesù racconta la parabola del fico sterile. Un uomo ha piantato un fico nella propria vigna, e con tanta fiducia ogni estate va a cercare i suoi frutti ma non ne trova, perché quell’albero è sterile. Spinto da quella delusione ripetutasi per ben tre anni, pensa dunque di tagliare il fico, per piantarne un altro. Chiama allora il contadino che sta nella vigna e gli esprime la sua insoddisfazione, intimandogli di tagliare l’albero, così che non sfrutti inutilmente il terreno. Ma il vignaiolo chiede al padrone di avere pazienza e gli domanda una proroga di un anno, durante il quale egli stesso si preoccuperà di riservare una cura più attenta e delicata al fico, per stimolare la sua produttività. Questa è la parabola. Che cosa rappresenta questa parabola? Cosa rappresentano i personaggi di questa parabola?
Il padrone raffigura Dio Padre e il vignaiolo è immagine di Gesù, mentre il fico è simbolo dell’umanità indifferente e arida. Gesù intercede presso il Padre in favore dell’umanità – e lo fa sempre – e lo prega di attendere e di concederle ancora del tempo, perché in essa possano germogliare i frutti dell’amore e della giustizia. Il fico che il padrone della parabola vuole estirpare rappresenta una esistenza sterile, incapace di donare, incapace di fare il bene. È simbolo di colui che vive per sé stesso, sazio e tranquillo, adagiato nelle proprie comodità, incapace di volgere lo sguardo e il cuore a quanti sono accanto a lui e si trovano in condizione di sofferenza, di povertà, di disagio. A questo atteggiamento di egoismo e di sterilità spirituale, si contrappone il grande amore del vignaiolo nei confronti del fico: fa aspettare il padrone, ha pazienza, sa aspettare, gli dedica il suo tempo e il suo lavoro. Promette al padrone di prendersi particolare cura di quell’albero infelice.
E questa similitudine del vignaiolo manifesta la misericordia di Dio, che lascia a noi un tempo per la conversione. Tutti noi abbiamo bisogno di convertirci, di fare un passo avanti, e la pazienza di Dio, la misericordia, ci accompagna in questo. Nonostante la sterilità, che a volte segna la nostra esistenza, Dio ha pazienza e ci offre la possibilità di cambiare e di fare progressi sulla strada del bene. Ma la dilazione implorata e concessa in attesa che l’albero finalmente fruttifichi, indica anche l’urgenza della conversione. Il vignaiolo dice al padrone: «Lascialo ancora quest’anno» . La possibilità della conversione non è illimitata; perciò è necessario coglierla subito; altrimenti essa sarebbe perduta per sempre.
Noi possiamo pensare in questa Quaresima: cosa devo fare io per avvicinarmi di più al Signore, per convertirmi, per “tagliare” quelle cose che non vanno? “No, no, io aspetterò la prossima Quaresima”. Ma sarai vivo la prossima Quaresima? Pensiamo oggi, ognuno di noi: cosa devo fare davanti a questa misericordia di Dio che mi aspetta e che sempre perdona? Cosa devo fare? Noi possiamo fare grande affidamento sulla misericordia di Dio, ma senza abusarne. Non dobbiamo giustificare la pigrizia spirituale, ma accrescere il nostro impegno a corrispondere prontamente a questa misericordia con sincerità di cuore.
Nel tempo di Quaresima, il Signore ci invita alla conversione. Ognuno di noi deve sentirsi interpellato da questa chiamata, correggendo qualcosa nella propria vita, nel proprio modo di pensare, di agire e di vivere le relazioni con il prossimo.
Al tempo stesso, dobbiamo imitare la pazienza di Dio che ha fiducia nella capacità di tutti di potersi “rialzare” e riprendere il cammino. Dio è Padre, e non spegne la debole fiamma, ma accompagna e cura chi è debole perché si rafforzi e porti il suo contributo di amore alla comunità. La Vergine Maria ci aiuti a vivere questi giorni di preparazione alla Pasqua come un tempo di rinnovamento spirituale e di fiduciosa apertura alla grazia di Dio e alla sua misericordia.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 24 marzo 2019
1 Questo eccidio anche se non è noto storicamente, è verosimile nel clima surriscaldato della Giudea. Giuseppe Flavio parla infatti di un massacro di samaritani compiuto nel 35 d.C. da soldati romani sul monte Garizim in occasione di un sacrificio. E’ probabile che l’evangelista si riferisca a una repressione avvenuta nel tempio, mentre si sacrificavano gli agnelli per la celebrazione pasquale. La strage assumeva una particolare gravità per il fatto che era stata compiuta nel luogo sacro, durante un rito liturgico.
“Su di te sia pace!”. Il versetto 8 del Salmo 122 offre il tema al pellegrinaggio notturno al Divino Amore per invocare la pace, promosso dalla diocesi di Roma per sabato 19 marzo, festa di san Giuseppe. Quel giorno, alle ore 20, l’immagine della Madonna del Divino Amore verrà portata nella basilica di San Giovanni in Laterano e, per l’occasione, la cattedrale di Roma resterà aperta per chiunque voglia recarsi in preghiera. Quindi, alle 23.30, il cardinale vicario Angelo De Donatis guiderà un momento di preghiera comunitaria e poi, alle ore 24, dalla basilica partirà il pellegrinaggio notturno a piedi verso il santuario di Castel di Leva. All’arrivo, alle 6, il porporato presiederà la Messa.
«Viviamo con grande preoccupazione l’attuale situazione di guerra in Ucraina – scrive il cardinale De Donatis in una lettera ai fedeli e agli uomini di buona volontà della diocesi di Roma –. Tutti desideriamo la pace, quella pace che gli uomini da soli non riescono a costruire. Per questo intendiamo rispondere all’invito del nostro vescovo Papa Francesco a perseverare nella preghiera e nella penitenza. In altre occasioni, di fronte a momenti di grande difficoltà, il popolo romano si è affidato alla Madonna del Divino Amore per invocare la Sua materna intercessione».
Ecco, allora, la proposta del pellegrinaggio notturno. «Vi invito a partecipare a questa iniziativa – è l’appello del vicario del Papa per la diocesi di Roma – con la consapevolezza che la preghiera ha il potere di cambiare il cuore dell’uomo ed il corso della storia».
Per «consentire a tutti di unirsi spiritualmente alla preghiera di intercessione della comunità diocesana», il pellegrinaggio sarà trasmesso in diretta televisiva e in streaming sui canali social.
1. La Diocesi di Roma invita tutti i fedeli al Pellegrinaggio per la Pace, sabato 19 marzo: a partire dalle ore 20:00 dalla Basilica di San Giovanni in Laterano si parteciperà a una preghiera personale e comunitaria fino alle ore 24:00 quando avrà inizio il pellegrinaggio a piedi verso il Santuario del Divino Amore, con arrivo previsto per le ore 6:00 di domenica 20 marzo e si concluderà con la celebrazione della santa messa.
2. I laici salettini si riuniranno per l’incontro mensile giovedì 17 marzo alle ore 17:00 presso la casa di formazione dei missionari salettini, situata in Via Fabiola 65 – la partecipazione è aperta a tutti.
3. Tanti parrocchiani ci hanno chiesto come poter essere d’aiuto per la situazione in Ucraina. La Caritas di Roma è attiva attraverso una Fondazione ONLUS a sostegno del paese. Chi lo desidera può pertanto contribuire attraverso un’offerta, versano l’importo direttamente sull’IBAN della fondazione “Caritas Roma” o è possibile lasciare la stessa offerta alla parrocchia, che provvederà a inviarla tramite bonifico. Qualora vi fosse invece qualcuno disponibile all’accoglienza dei profughi per offrire un alloggio o una casa è possibile telefonare al numero 800938873 o compilare un questionario collegandosi a un link di Google. Infondo alla chiesa troverete un volantino che riassume tutte le possibilità di aiuto per questa drammatica vicenda che stiamo vivendo: il virus dell’odio si mostra ancora oggi, privo di un vaccino che possa distruggerlo. Grazie per quanto potrete fare.
4. A proposito di questa situazione e per poter coordinare al meglio tutti gli aiuti che la nostra comunità parrocchiale potrà fornire, il parroco e la comunità sacerdotale hanno deciso di predisporre il Comitato dell’Emergenza Ucraina, guidato da P. Pietro e composto dai rappresentanti delle associazioni parrocchiali di Caritas, XLaStrada e Amistad.
5. Al termine della celebrazione delle ore 10:00 di domenica 13 marzo, avrà luogo nella sala San Giuseppe, l’incontro delle famiglie del 3 anno di comunione con le catechiste di riferimento. Tutti i ragazzi sono attesi in oratorio per passare la mattinata insieme.
L'umanità è una grande e immensa famiglia ... Troviamo la dimostrazione di ciò da quello che ci sentiamo nei nostri cuori a Natale.
(Papa Giovanni XXIII)