Le letture liturgiche di questa IV domenica di quaresima ci parlano di riconciliazione con Dio e di misericordia divina, di coscienza del peccato e di garanzia del perdono. Inquadrano situazioni di pena che si trasforma in gioia e di penitenza che si trasforma in festa.
Nella prima lettura, tratta dal libro di Giosuè, con l’ingresso degli Israeliti in Palestina si conclude l’esodo e ha inizio il compimento di un’altra promessa fatta da Dio ad Abramo: il dono della terra. Il passaggio dalla schiavitù alla terra promessa, ha avuto inizio e si è concluso con la celebrazione della Pasqua. L’esodo diventa così un grande passaggio. In questo cammino gli Israeliti erano sostenuti dalla manna, che ora cessa, perchè la terra promessa è stata raggiunta. Anche l’Eucarisita è il cibo di un popolo in cammino che cesserà nel giorno in cui verrà il Signore.
Nella seconda lettura, tratta dalla seconda lettera di S.Paolo ai Corinzi, troviamo i criteri fondamentali che guidano l’apostolo delle genti nella sua missione e che sono per lui il punto di vista giusto per risolvere le difficoltà della Chiesa di Corinto: Dio riconcilia a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe … La Pasqua ormai vicina deve fare di noi delle “creature nuove”: se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate…. Ogni giorno, ogni momento, dobbiamo rinnovare la nostra conversione.
Nel brano del Vangelo, Luca ci conforta con una delle più toccanti pagine evangeliche: la parabola del figlio prodigo, o meglio del padre prodigo d’amore che spia una strada deserta, che spera contro ogni speranza, e appena si profila all’orizzonte la figura del figlio, gli corre incontro per abbracciarlo e in quell’abbraccio la morte si trasforma in vita, uno smarrimento diventa un ritrovamento gioioso.
Dal libro di Giosuè
In quei giorni, il Signore disse a Giosuè: «Oggi ho allontanato da voi l’infamia dell’Egitto».
Gli Israeliti rimasero accampati a Gàlgala e celebrarono la Pasqua al quattordici del mese, alla sera, nelle steppe di Gerico.
Il giorno dopo la Pasqua mangiarono i prodotti della terra, àzzimi e frumento abbrustolito in quello stesso giorno.
E a partire dal giorno seguente, come ebbero mangiato i prodotti della terra, la manna cessò. Gli Israeliti non ebbero più manna; quell’anno mangiarono i frutti della terra di Canaan.
Gs 5, 9a, 10-12
Il libro di Giosuè viene subito dopo il Pentateuco e apre la serie dei Libri Storici dell'Antico Testamento. E’ stato scritto in ebraico e la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata in Giudea intorno al VI-V secolo a.C, sulla base di tradizioni orali e scritte.. Il libro prende il nome dal suo protagonista principale, Giosuè, figlio di Nun della tribù di Efraim, presentato già nell'Esodo come aiutante di Mosè. Dal libro dei Numeri sappiamo che era al servizio di Mosè fin dalla giovinezza, e che fu uno degli esploratori della Terra Promessa. Essendo stato, con Caleb, il solo tra il popolo a non rivoltarsi contro Mosè dopo il rientro degli esploratori, ebbe il diritto di entrare nella Terra di Canaan dopo la morte dell'intera generazione mosaica. Il periodo descritto va intorno al 1200.-1150 a.C
Il libro di Giosuè, composto da 24 capitoli è ripartito in tre sezioni:
- la conquista della Palestina (capitoli 1-12) E qui si inserisce uno dei brani più famosi della Bibbia, per prolungare la giornata ed assicurare la vittoria agli Israeliti, Giosuè grida:« Fermati, o sole, su Gabaon, e tu, luna, sulla valle di Aialon! » (Gs 10, 12)
- la suddivisione delle terre conquistate (capitoli 13-21)
- ultimi discorsi e morte di Giosuè (capitoli 22-24)
II capitolo 15, da dove è tratto questo brano, inizia con questo versetto: ”Quando tutti i re degli Amorrei, che sono oltre il Giordano ad occidente, e tutti i re dei Cananei, che erano presso il mare, seppero che il Signore aveva prosciugato le acque del Giordano davanti agli Israeliti, finché furono passati, si sentirono venir meno il cuore e non ebbero più fiato davanti agli Israeliti.” Era avvenuto che nonostante il Giordano fosse in piena per lo scioglimento delle nevi dell’Hermon, Giosuè ricevette da Dio l’ordine di passare e predispose quella che potremmo definire oggi la liturgia del passaggio,(il secondo prodigio delle acque dopo quello del passaggio del Mar Rosso). Il Salmo 114 (113) con espressioni poetiche lo ricorda:. “Il Giordano si volse indietro (…) e tu, Giordano, perché torni indietro?” che presentano il Giordano che ritira a monte il suo flusso d’acqua. Con l’ingresso degli Israeliti in Palestina si conclude l’esodo e ha inizio il compimento di un’altra promessa fatta ad Abramo il dono della terra (Gn 15,18).
In questo brano, dopo che Giosuè circoncise gli Israeliti alla collina Aralot, il Signore lo ribadisce: “Oggi ho allontanato da voi l’infamia dell’Egitto».
Il passaggio dalla schiavitù alla terra promessa ha avuto inizio e si è concluso con la celebrazione della Pasqua che gli “Israeliti accampati a Gàlgala celebrarono al quattordici del mese, alla sera, nelle steppe di Gerico”.
C’è un’annotazione che riveste una particolare importanza: “…a partire dal giorno seguente, come ebbero mangiato i prodotti della terra, la manna cessò “. Il segno del salto di condizione è evidenziato dalla possibilità di mangiare i prodotti della terra e dalla fine della manna. La notizia che il popolo non ha più la manna non è negativa, ma ha il sapore della bella notizia: il popolo può vivere del lavoro delle proprie mani nella sua terra. Al termine del viaggio di liberazione, la fine della manna dà come l'impressione che Dio si metta da parte e lo fa proprio nel momento in cui le Sue promesse si dimostrano vere e quelli che si sono fidati di Lui possono dimostrare di avere avuto ragione, proprio allora Dio toglie il segno più evidente della dipendenza del popolo dalla Sua provvidenza! Il risultato dell'azione di liberazione che Dio compie verso il Suo popolo, è che il popolo è libero, che può provvedere con le proprie mani ai suoi bisogni, fare le proprie scelte e decidere se rimanere fedele a Lui. Dio non si allontana dalla storia del Suo popolo, ma lo lascia libero di cercarlo. La non evidenza della presenza di Dio rende il cammino del credente, un viaggio compiuto nella piena libertà.
Salmo 33 - Gustate e vedete com’è buono il Signore.
Benedirò il Signore in ogni tempo,
sulla mia bocca sempre la sua lode.
Io mi glorio nel Signore:
i poveri ascoltino e si rallegrino.
Magnificate con me il Signore,
esaltiamo insieme il suo nome.
Ho cercato il Signore: mi ha risposto
e da ogni mia paura mi ha liberato.
Guardate a lui e sarete raggianti,
i vostri volti non dovranno arrossire.
Questo povero grida e il Signore lo ascolta,
lo salva da tutte le sue angosce.
L’autore del salmo, ricco dell’esperienza di Dio indirizza il suo sapere ai poveri, agli umili, e in particolare ai suoi figli. Egli afferma che sempre benedirà il Signore e che sempre si glorierà di lui. Egli chiede di venire ascoltato e invita gli umili ad unirsi con lui nel celebrare il Signore: “Magnificate con me il Signore, esaltiamo insieme il suo nome”.
Egli comunica la sua storia dicendo che ha cercato il Signore e ne ha ricevuto risposta cosicché “da ogni timore mi ha liberato”. Per questo invita gli umili a guardare con fiducia a Dio, e dice: “sarete raggianti”. “Questo povero”, cioè il vero povero, quello che è umile, è ascoltato dal Signore e l’angelo del Signore lo protegge dagli assalti dei nemici: “L’angelo del Signore si accampa attorno a quelli che lo temono (Dio), e li libera”. L’angelo del Signore è con tutta probabilità l’angelo protettore del popolo di Dio, chiamato così per antonomasia; sarebbe l’arcangelo Michele (Cf. Es 14,19; 23,23; 32,34; Nm 22,22; Dn 10,21; 12,1).
Il salmista continua la sua composizione invitando ad amare Dio dal quale procede gioia e pace: “Gustate e vedete com'è buono il Signore, beato l’uomo che in lui si rifugia”.
L’orante moltiplica i suoi inviti al bene: “Sta lontano dal male e fà il bene, cerca e persegui la pace”. Cercala, cioè trovala in Dio, e perseguila comportandoti rettamente con gli altri.
Il salmista non nasconde che il giusto è raggiunto da molti mali, ma dice che “da tutti lo libera il Signore”. Anche dalle angosce della morte, poiché “custodisce tutte le tue ossa, neppure uno sarà spezzato”. Queste parole sono avverate nel Cristo, come dice il Vangelo di Giovanni (19,16). Per noi vanno interpretate nel senso che se anche gli empi possono prevalere fino ad uccidere il giusto e farne scempio, le sue ossa sono al riparo perché risorgeranno.
Commento tratto da Perfetta Letiziai
Dalla seconda lettera di S.Paolo apostolo ai Corìnzi
Fratelli, se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove.
Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione. Era Dio infatti che riconciliava a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione
In nome di Cristo, dunque, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta.
Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio.
Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio.
2Cor 5:17-2
Paolo scrisse la seconda lettera ai Corinzi, spinto dai gravi avvenimenti che avevano scosso la comunità di Corinto. Nell’anno 56 Paolo è a Efeso (At 19) e viene a sapere che alcuni contestatori giudeo-cristiani stanno sollevando la comunità contro di lui. Vi fa una breve visita, ma è ricevuto freddamente, stanco e forse implicato troppo personalmente nel conflitto, non riesce ad aggiustare nulla, anzi la sua visita accresce piuttosto il disordine, si ripromette allora di ritornare un’altra volta.
Meno ricca della prima in insegnamenti dottrinali, la seconda lettera ai Corinzi ha il grande merito di introdurci nella vita interiore dell’Apostolo, in cui traspare il suo carattere appassionato. E’ una lettera ardente che può essere considerata come il suo diario intimo, le sue “confessioni”.
Nei primi 6 capitoli Paolo ripercorre la sua vocazione di predicatore del Vangelo e della situazione che si era creata con la comunità di Corinto. I contorni veri di questo malinteso non sono chiari, ma questo diventa per Paolo un motivo per ricordare le motivazioni del suo impegno a favore del Vangelo.
Nel brano che abbiamo l’apostolo esorta i Corinzi a diventare in Cristo creature nuove:
“Fratelli, se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove”.
I predicatori giunti a Corinto davano valore alle proprie parole con esperienze estatiche, alle quali i Corinzi erano particolarmente sensibili. Paolo nel versetto precedente ricorda che tali manifestazioni sono ancora opere della carne mentre il credente in Cristo invece è una creatura nuova e deve tralasciare le opere della carne, le cose vecchie. L'espressione “nuova creatura” è ripresa dagli ambienti apocalittici, nei quali si diceva che alla fine del mondo ogni persona sarebbe diventata una nuova creatura, Paolo quindi prende questo termine e lo adatta al messaggio evangelico. La nuova creatura si realizzerà alla fine dei tempi, ma già da ora chi crede in Cristo è una nuova creatura, perché l'esperienza di liberazione portata da Cristo per il singolo credente è pari allo sconvolgimento della fine dei tempi, è l'irrompere di una nuova epoca.
“Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione”.
Paolo prende ancora un termine dell’ambiente in cui vive, per adattarlo anche in questo caso al messaggio evangelico. Egli prende come punto di riferimento la Pax romana, l'ideale politico a cui l'impero romano aveva ispirato la sua espansione in tutto il bacino del Mediterraneo. Ma se quella era una pace imposta con la spada e il timore, la pace di Cristo si estende grazie alla riconciliazione con il Padre, realizzata dal sacrificio di Cristo, e diffusa in tutto il mondo attraverso i ministri della riconciliazione.
“Era Dio infatti che riconciliava a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione”
Ovviamente una riconciliazione presuppone una situazione di avversione e di rottura e segnala l'iniziativa di Dio come artefice attivo di questo superamento, che è giunto alla riconciliazione del mondo a sé, con il perdono dei peccati, non tenendo più conto delle colpe degli uomini.
“In nome di Cristo, dunque, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio.”
In questa riconciliazione Paolo inserisce il proprio caso particolare. I Corinzi lo avevano criticato, non seguivano più le sue esortazioni perché affascinati dai nuovi predicatori. Paolo ricorda che il suo messaggio non viene da lui, ma viene da Cristo, che ha riconciliato il mondo con il Padre. Egli è solo un ambasciatore! Egli dunque esorta in modo accorato i Corinzi a riconciliarsi con lui, per riconciliarsi a sua volta con Dio.
“Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio.”
In questa parte l’Apostolo ricorda che la riconciliazione del mondo con Dio è avvenuta non solo mediante il perdono dei peccati, ma anche con la giustificazione degli uomini. Coloro che non erano giusti a causa delle loro opere, sono stati resi giusti grazie al sacrificio di Cristo. E' Lui che ci ha resi giusti, quindi non vi sono meriti da parte degli uomini. Essi devono solo accogliere questa loro nuova condizione di essere stati giustificati e devono lasciarsi riconciliare con il Signore.
Viene in mente cosa scriveva Pascal, in un immaginario colloquio tra Dio e l’anima:
Dio: Se tu conoscessi i tuoi peccati ti dispereresti!
L’anima: Se tu mi li mostri, allora mi dispererò.
Dio: Non ti scoraggerai perché i tuoi peccati ti saranno rivelati nel momento stesso in cui ti saranno perdonarti.
Dal vangelo secondo Luca
In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro».
Ed egli disse loro questa parabola: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre.
Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa.
Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».
Lc 15,1-3.11-32
Il Capitolo 15 del Vangelo di Luca ci presenta tre parabole sul tema della misericordia. La prima ci descrive il ritrovamento della pecora, la moneta ritrovata e la terza è la celeberrima parabola del Figliol prodigo che è una sintesi delle due precedenti, perché è la storia di due persone che si perdono spiritualmente: una fuori casa (il figliol prodigo) e l'altra in casa (il fratello maggiore).
Il brano inizia riportando che “si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro».”
Si può subito notare che i pubblicani e i peccatori "ascoltano" la parola di Gesù, manifestando così un desiderio di salvezza mentre i farisei e gli scribi, “mormorano”, palesando ostinazione e rifiuto. Gli scribi e i farisei non riescono ad accettare il comportamento di Gesù che mangia e beve persino con peccatori pubblici, che non solo hanno commesso qualche peccato, ma sono in una condizione permanente di peccato. La condivisione del pasto esprime un senso di
comunione, e siccome Gesù è un maestro e non appartiene alla razza dei peccatori, questa mescolanza di sacro e di profano, di giusto e di peccatore crea problemi perché contrasta con la mentalità degli scribi e dei farisei.
Gesù inizia la parabola raccontando che: “Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. È la storia di sempre: un padre e due figli dei quali il più giovane manifesta una certa inquietudine, un mal di vivere, un atteggiamento sempre attuale dei giovani, di ogni tempo e di ogni luogo, e dice al padre di dargli “la parte del patrimonio che gli spetta”.
“ Ed egli divise tra loro le sue sostanze”. Ciò che colpisce in questa prima parte è la “condiscendenza silenziosa" del Padre che fin troppo rispettoso della libertà del figlio, accetta la sua richiesta e divide le sue sostanze.
Dividere le sostanze quando i1 Padre è ancora in vita, è un chiaro atto di ribellione, impensabile per la cultura orientale. Qui il figlio si dimostra già un sconsiderato e irresponsabile e la legge era molto dura nel reprimere un tale atteggiamento (v. Dt 21,18-21).
“Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno”
Questo figlio va in un paese lontano, e per lontano si intende anche pagano dove si perde ogni contatto con la propria famiglia, ma in cui può effettivamente fare quello che vuole; e questo giovane lo fa “vivendo in modo dissoluto”, fino “a trovarsi nel bisogno”.
La condizione di questo ragazzo diventa così grave al punto che è costretto a “mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci”.
Il porco è un animale immondo, tanto che non viene allevato da ebrei; andare a pascolare i porci è il massimo del degrado, peggio di così non si poteva finire. E la parabola vuole dire questo: il figlio scende al punto più basso della sua vita.
“Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla.”
Questo significa che da figlio è diventato meno di un servo; l’autonomia che lui cercava non l’ha certo trovata! .
“Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame!” In questo suo ragionamento non si può ravvisare ancora una conversione: lo chiama padre, anche se non considera se stesso come figlio, fa un paragone con i salariati, ma ha ancora una falsa immagine del padre.
La fame gli fa capire come abbia sbagliato nel valutare le cose… E’ appropriato qui un antico proverbio ebraico: “Quando gli israeliti hanno bisogno di mangiare carrube, è la volta che si convertono”.
“Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te”.
Il figlio si è allontanato da casa perché pensava che suo padre fosse un tiranno e ritorna a casa con la speranza che suo padre sia un padrone e lo tratti come un padrone tratta i suoi servi. La conversione del figlio in realtà non è una vera conversione, perché non ritorna per amore di suo padre, ma ritorna per fame, con il desiderio di saziarsi, di potere vivere in un modo meno miserabile di quello attuale. Non gli dispiace di aver fatto soffrire suo padre!
“non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”.Questo è il discorso che si era preparato mentalmente, nel quale, con atteggiamento umile, si riconosceva colpevole.
Arriviamo alla seconda parte della parabola dominata dalla figura del padre che:
“quando era ancora lontano, lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò.”
Il padre qui è ben altro, un padre che spia una strada deserta, che spera contro ogni speranza, non aspetta al varco il figlio degenere per rinfacciarli una colpa che non ha scusanti, ma appena si profila all’orizzonte la figura del figlio, questo padre gli corre incontro per abbracciarlo. Per farci capire meglio l'evangelista usa i verbi dell'amore:
“lo vide”. Per quanto lontano possa essere il padre lo vede sempre; nessuna oscurità e tenebre può sottrarlo alla sua vista Sal 139,11). (L’occhio è l’organo del cuore: gli porta l’oggetto del suo desiderio. Lo sguardo di Dio verso il peccatore è tenero e benevolo come quello di una madre verso il figlio malato (Is 49,14-16; Ger 31,20; Sal 27,10; Os 11,8).
“ebbe compassione”. È il verbo che definisce la figura del padre. “Commuoversi” vuole dire: “gli si sono mosse dentro le viscere”. L'evangelista Luca attribuisce a questo padre i sentimenti di una madre, e si collega cosi alla tradizione biblica, dove Dio ha sovente atteggiamenti materni verso Israele.
“gli corse incontro”. C'è una corsa del padre che termina in uno slancio che lo fa letteralmente “cadere addosso” al figlio.
“lo baciò” Il “bacio” è il segno del perdono (v-2Sam 14,33). Questi sono gesti che nell'Antico Testamento indicano il perdono e la riconciliazione il segno che la comunione d’amore che c’era prima, è stata immediatamente ristabilita.
“Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi.
Il padre prende subito l’iniziativa e non permette al figlio neanche di terminare la sua confessione, non lo rimprovera e la dichiarazione di perdono non completata del figlio, indica che l’aspetto importante della parabola, non è la conversione più o meno sentita del figlio, ma piuttosto l’accoglienza e la misericordia del padre. Oltre al vestito più bello si può notare il particolare dell’anello al dito, simbolo di autorità, e dei sandali ai piedi che gli ridona la libertà di figlio (lo schiavo non porta sandali).
“facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”.
È il canto alla vita del figlio ritrovato, della relazione nuova, filiale e fraterna.
I termini "morte e vita" lasciano intuire che la sua gioia deriva da una relazione che si era spezzata prima, ma ora è rinnovata in una atmosfera di gioiosa libertà.
Ora giungiamo all’ultima scena del racconto in cui appare la figura del “figlio maggiore che si trovava nei campi”, che è una tipica rappresentazione del benpensante che soddisfatto della sua conclamata onestà, diventa un impietoso giudice del fratello.
Questo figlio maggiore rappresenta anche Israele, il primogenito di Dio, figura di ogni giusto, ma rappresenta anche colui che crede di essere nel giusto per cui come il figlio maggiore della parabola domanda, si arrabbia e il suo arrabbiarsi è giustificato da un ragionamento che ha una logica rigorosa, in cui suppone che il padre sia un padrone e che i figli siano dei salariati. Afferma perciò con rabbia: io ti servo da tanti anni … e tu non mi hai mai dato un capretto… Il figlio maggiore che ha mantenuto sempre un rapporto da salariato a datore di lavoro, è un esempio di una religiosità seria e impegnata ma di scambio, una religiosità dove Dio è datore di lavoro e l’uomo è un operaio, per cui secondo il lavoro che l’operaio compie, ha diritto ad un salario corrispondente.
Il padre che era uscito per supplicarlo gli dice: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; … ma bisognava far festa e rallegrarsi” con queste parole il padre cerca di far entrare nella logica dell’amore e della gioia colui che è rimasto sempre avvolto nelle funzioni del puro dovere, della sola osservanza di norme che escludono qualsiasi sentimento, gioia e soprattutto perdono. Il padre non rinnega il comportamento tenuto nei confronti del figlio minore e riafferma con enfasi la sua gioia.
La parabola non rivela la reazione del figlio maggiore, non dice se è entrato o no a far festa. Gesù lascia le cose in sospeso con le domande che ognuno di noi anche oggi si può sentire rivolgere: volete fare come il figlio maggiore, essere invidiosi dei peccatori che si convertono? Volete o no entrare alla festa di Dio? Volete continuare a non capire la mentalità, il cuore di Dio?
A Gesù sta a cuore far intravedere a noi peccatori e presunti giusti, il modo con cui Dio si rapporta alle persone: ogni uomo, anche se peccatore, rimane per Dio sempre un figlio, proprio come succede nella parabola.
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Le parole di Papa Francesco
““Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò»
Così il Vangelo ci immette nel cuore della parabola che manifesta l’atteggiamento del padre nel vedere ritornare suo figlio: scosso nelle viscere non aspetta che arrivi a casa ma lo sorprende correndogli incontro. Un figlio atteso e desiderato. Un padre commosso nel vederlo tornare.
Ma quello non è stato l’unico momento in cui il Padre si è messo a correre. La sua gioia sarebbe incompleta senza la presenza dell’altro figlio. Per questo esce anche incontro a lui per invitarlo a partecipare alla festa .Però, sembra proprio che al figlio maggiore non piacessero le feste di benvenuto; non riesce a sopportare la gioia del padre e non riconosce il ritorno di suo fratello: «quel tuo figlio», dice . Per lui suo fratello continua ad essere perduto, perché lo aveva ormai perduto nel suo cuore.
Nella sua incapacità di partecipare alla festa, non solo non riconosce suo fratello, ma neppure riconosce suo padre. Preferisce l’essere orfano alla fraternità, l’isolamento all’incontro, l’amarezza alla festa. Non solo stenta a comprendere e perdonare suo fratello, nemmeno riesce ad accettare di avere un padre capace di perdonare, disposto ad attendere e vegliare perché nessuno rimanga escluso, insomma, un padre capace di sentire compassione.
Sulla soglia di quella casa sembra manifestarsi il mistero della nostra umanità: da una parte c’era la festa per il figlio ritrovato e, dall’altra, un certo sentimento di tradimento e indignazione per il fatto che si festeggiava il suo ritorno. Da un lato l’ospitalità per colui che aveva sperimentato la miseria e il dolore, che era giunto persino a puzzare e a desiderare di cibarsi di quello che mangiavano i maiali; dall’altro lato l’irritazione e la collera per il fatto di fare spazio a chi non era degno né meritava un tale abbraccio.
Così, ancora una volta emerge la tensione che si vive tra la nostra gente e nelle nostre comunità, e persino all’interno di noi stessi. Una tensione che, a partire da Caino e Abele, ci abita e che siamo chiamati a guardare in faccia. Chi ha il diritto di rimanere tra di noi, di avere un posto alla nostra tavola e nelle nostre assemblee, nelle nostre preoccupazioni e occupazioni, nelle nostre piazze e città? Sembra che continui a risuonare quella domanda fratricida: sono forse il custode di mio fratello? (cfr Gen 4,9).
Sulla soglia di quella casa appaiono le divisioni e gli scontri, l’aggressività e i conflitti che percuoteranno sempre le porte dei nostri grandi desideri, delle nostre lotte per la fraternità e perché ogni persona possa sperimentare già da ora la sua condizione e dignità di figlio.
Ma a sua volta, sulla soglia di quella casa brillerà con tutta chiarezza, senza elucubrazioni né scuse che gli tolgano forza, il desiderio del Padre: che tutti i suoi figli prendano parte alla sua gioia; che nessuno viva in condizioni non umane come il suo figlio minore, né nell’orfanezza, nell’isolamento e nell’amarezza come il figlio maggiore. Il suo cuore vuole che tutti gli uomini si salvino e giungano alla conoscenza della verità (1 Tm 2,4).
Sicuramente sono tante le circostanze che possono alimentare la divisione e il conflitto; sono innegabili le situazioni che possono condurci a scontrarci e a dividerci. Non possiamo negarlo. Ci minaccia sempre la tentazione di credere nell’odio e nella vendetta come forme legittime per ottenere giustizia in modo rapido ed efficace. Però l’esperienza ci dice che l’odio, la divisione e la vendetta non fanno che uccidere l’anima della nostra gente, avvelenare la speranza dei nostri figli, distruggere e portare via tutto quello che amiamo.
Perciò Gesù ci invita a guardare e contemplare il cuore del Padre. Solo da qui potremo riscoprirci ogni giorno come fratelli. Solo a partire da questo orizzonte ampio, capace di aiutarci a superare le nostre miopi logiche di divisione, saremo capaci di raggiungere uno sguardo che non pretenda di oscurare o smentire le nostre differenze cercando forse un’unità forzata o l’emarginazione silenziosa. Solo se siamo capaci ogni giorno di alzare gli occhi al cielo e dire “Padre nostro” potremo entrare in una dinamica che ci permetta di guardare e di osare vivere non come nemici, ma come fratelli.
«Tutto ciò che è mio è tuo», dice il padre al figlio maggiore. E non si riferisce solo ai beni materiali ma al partecipare del suo stesso amore e della sua stessa compassione. Questa è la più grande eredità e ricchezza del cristiano. Perché, invece di misurarci o classificarci in base ad una condizione morale, sociale, etnica o religiosa, possiamo riconoscere che esiste un’altra condizione che nessuno potrà cancellare né annientare dal momento che è puro dono: la condizione di figli amati, attesi e festeggiati dal Padre.
«Tutto ciò che è mio è tuo», anche la mia capacità di compassione, ci dice il Padre. Non cadiamo nella tentazione di ridurre la nostra appartenenza di figli a una questione di leggi e proibizioni, di doveri e di adempimenti. La nostra appartenenza e la nostra missione non nasceranno da volontarismi, legalismi, relativismi o integrismi, ma da persone credenti che imploreranno ogni giorno con umiltà e costanza: “venga il tuo Regno”.
La parabola evangelica presenta un finale aperto. Vediamo il padre pregare il figlio maggiore di entrare a partecipare alla festa della misericordia. L’Evangelista non dice nulla su quale sia stata la decisione che egli prese. Si sarà aggiunto alla festa? Possiamo pensare che questo finale aperto abbia lo scopo che ogni comunità, ciascuno di noi, possa scriverlo con la sua vita, col suo sguardo e il suo atteggiamento verso gli altri. Il cristiano sa che nella casa del Padre ci sono molte dimore, e rimangono fuori solo quelli che non vogliono partecipare alla sua gioia.”
Parte dell’Omelia che Papa Francesco
ha pronunciato nel Complesso Sportivo Principe Moulay Abdellah (Rabat)
Domenica, 31 marzo 2019