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Mar 23, 2017

IV Domenica di Quaresima - Anno A – “ Gesù luce del mondo” 26 marzo 2017

Siamo giunti alla quarta domenica di quaresima, e la liturgia ci presenta delle letture che invitano ad interrogarci sulla qualità della nostra fede, che non è credere in qualcosa (che Dio esiste e che c’è un aldilà) ma credere in Gesù Cristo, Figlio di Dio, altrimenti non avrebbe senso chiamarci Cristiani.

La prima lettura, tratta dal primo libro di Samuele, ci presenta una tappa importante nella storia della salvezza:l’elezione di Davide. Dio sceglie tra i figli di Iesse il meno quotato umanamente, il più piccolo e neanche considerato molto dal proprio padre. Dio vede nel cuore e non guarda all’apparenza.

Nella seconda lettura, Paolo nella sua lettera agli Efesini, afferma che i battezzati, diventati “luce nel Signore”, si devono impegnare comportarsi come “figli della luce”, perseverando nella fede, nella bontà e nella carità.

Il Vangelo di Giovanni con l’episodio del miracolo del cieco nato, tratta il tema dell’incontro di colui che è tenebra con Cristo-luce. Nel racconto della guarigione Gesù opera un rovesciamento di condizione affinché coloro che non vedono, vedano, e coloro che credono di vedere, diventino ciechi. I farisei e i genitori del cieco sono incapaci di “vedere”, solo il cieco , arriva a vedere perchè crede in Gesù.

Dal primo libro di Samuele
In quei giorni, il Signore disse a Samuele: «Riempi d’olio il tuo corno e parti. Ti mando da Iesse il Betlemmita, perché mi sono scelto tra i suoi figli un re». Samuele fece quello che il Signore gli aveva comandato.
Quando fu entrato, egli vide Eliàb e disse: «Certo, davanti al Signore sta il suo consacrato!». Il Signore replicò a Samuele: «Non guardare al suo aspetto né alla sua alta statura. Io l’ho scartato, perché non conta quel che vede l’uomo: infatti l’uomo vede l’apparenza, ma il Signore vede il cuore».
Iesse fece passare davanti a Samuele i suoi sette figli e Samuele ripeté a Iesse: «Il Signore non ha scelto nessuno di questi». Samuele chiese a Iesse: «Sono qui tutti i giovani?». Rispose Iesse: «Rimane ancora il più piccolo, che ora sta a pascolare il gregge». Samuele disse a Iesse: «Manda a prenderlo, perché non ci metteremo a tavola prima che egli sia venuto qui». Lo mandò a chiamare e lo fece venire. Era fulvo, con begli occhi e bello di aspetto.
Disse il Signore: «Àlzati e ungilo: è lui!». Samuele prese il corno dell’olio e lo unse in mezzo ai suoi fratelli, e lo spirito del Signore irruppe su Davide da quel giorno in poi.
1 Sam 16, 1b.4a. 6-7. 10-13°

I due libri di Samuele sono due testi contenuti anche nella Bibbia ebraica dove sono contati come un testo unico e costituiscono, con i successivi due Libri dei Re, un'opera continua. Sono stati scritti in ebraico e secondo l'ipotesi condivisa da molti studiosi, la loro redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte. Sia i libri di Samuele che quelli dei Re sono da ricondurre ad un unico progetto, quello di tratteggiare la vicenda storica di Israele dalla fine dell'epoca dei Giudici fino alla fine della monarchia con l'invasione babilonese di Nabucodonosor: un arco di tempo che comprende ben sei secoli.

Il primo libro di Samuele, da cui questo brano viene tratto, descrive l'abbandono dell'ordinamento giuridico dei Giudici, con cui spesso le tribù si governavano in modo indipendente l'una dall'altra, e la nascita dell'ordinamento monarchico. Esso abbraccia un periodo di tempo che va dal XII secolo fino al 1010 a.C. circa, anno presunto della morte di Saul.
Questo brano presenta una tappa importante nella storia della salvezza: lo scettro passa dalla tribù di Beniamino (quella di Saul) alla tribù di Giuda (quella di David). Samuele fa come il Signore gli aveva ordinato, ma non era preparato a riconoscere l’eletto, poiché, nonostante l’esperienza con Saul, guardava ancora “all'apparenza”.

Va presso la casa di Iesse e di tutti i suoi sette figli, è il minore, il pastorello, che non era neanche in casa, (praticamente il dimenticato! Anche per il padre Iesse questo ragazzino non era neanche preso in considerazione). Ma sarà proprio lui, Davide il pastorello, che il narratore descrive così: “Era fulvo, con begli occhi e bello di aspetto” che sarà unto ”in mezzo ai suoi fratelli” come re d’Israele.
Il fatto che viene scelto l’ultimo, l’umanamente meno idoneo, mette in rilievo la volontà divina nel condurre la storia: “Dio legge nei cuori e non giudica secondo le apparenze!” non sceglie le persone capaci, ma rende capaci le persone che sceglie!…

Salmo 22 - Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla.

Il Signore è il mio pastore:
non manco di nulla.
Su pascoli erbosi mi fa riposare,
ad acque tranquille mi conduce.
Rinfranca l’anima mia.

Mi guida per il giusto cammino
a motivo del suo nome.
Anche se vado per una valle oscura,
non temo alcun male, perché tu sei con me.
Il tuo bastone e il tuo vincastro
mi danno sicurezza.

Davanti a me tu prepari una mensa
sotto gli occhi dei miei nemici.
Ungi di olio il mio capo;
il mio calice trabocca.

Sì, bontà e fedeltà mi saranno compagne
tutti i giorni della mia vita,
abiterò ancora nella casa del Signore
per lunghi giorni.

L’orante ha fatto l’esperienza di come il Signore lo guidi in mezzo a numerose difficoltà tesegli dai nemici. Egli dichiara che non manca di nulla perché Dio in tutto l’aiuta. Le premure del suo Pastore sono continue e si sente curato come un pastore cura il suo gregge conducendolo a pascoli erbosi e ad acque tranquille. L’orante riconosce che tutto ciò viene dalla misericordia di Dio, che agisce “a motivo del suo nome”, ma egli corrisponde con amore all’iniziativa di Dio nei suoi confronti. La consapevolezza che Dio lo ama per primo gli dà una grande fiducia in lui, cosicché se dovesse camminare nel buio notturno di una profonda valle non temerebbe le incursioni di briganti o persecutori, piombanti dall’alto su di lui. La valle oscura è poi simbolo di ogni situazione difficile nella quale tutto sembra avverso. Dio, buon Pastore, lo difende con il suo bastone e lo guida dolcemente con il suo vincastro, che è quella piccola bacchetta con cui i pastori indirizzano il gregge con piccoli colpetti. Non solo lo guida in mezzo alle peripezie, ma anche gli dona accoglienza, proprio davanti ai suoi nemici, i quali pensano di averlo ridotto ad essere solo uno sconvolto e disperato fuggiasco. Egli, al contrario, è uno stabile ospite del Signore che gli prepara una mensa e gli unge il capo con olio per rendere lucenti i suoi capelli e quindi rendere bello e fresco il suo aspetto. E il calice che ha davanti è traboccante, ma non perché è pieno fino all’orlo, ma perché è traboccante d'amore. Quel calice di letizia è nel sensus plenior del salmo il calice del sangue di Cristo, mentre la mensa è la tavola Eucaristica, e l’olio è il vigore comunicato dallo Spirito Santo.
Il cristiano abita nella casa del Signore, l’edificio chiesa, dove c’è la mensa Eucaristica. … e quindi egli, per dono del Signore, vi è perenne legittimo abitante.

Commento di Padre Paolo Alberti

Dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesini
Fratelli, un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come figli della luce; ora il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità.
Cercate di capire ciò che è gradito al Signore. Non partecipate alle opere delle tenebre, che non danno frutto, ma piuttosto condannatele apertamente. Di quanto viene fatto in segreto da [coloro che disobbediscono a Dio] è vergognoso perfino parlare, mentre tutte le cose apertamente condannate sono rivelate dalla luce: tutto quello che si manifesta è luce. Per questo è detto:
«Svégliati, tu che dormi,risorgi dai morti e Cristo ti illuminerà».
Ef 5, 8-14

La Lettera agli Efesini, come le lettere ai Filippesi, ai Colossesi e a Filemone, formano il gruppo delle «Lettere della prigionia» poiché Paolo afferma di essere «prigioniero». L’Apostolo fu una prima volta ad Efeso (Atti degli Apostoli 18, 19-22) e vi soggiornò (At18,23-20) ancora durante il suo secondo viaggio missionario, ingrandendo in questo modo il suo raggio d’azione pastorale. La lettera agli Efesini viene attribuita a Paolo, che l'avrebbe scritta durante la sua prigionia a Roma intorno all'anno 62 . La prima parte (1,3 - 3,21) è dottrinale, mentre la seconda parte,(4,1 - 6,20) , da dove è tratto questo brano, è esortativa.

Il testo inizia con una constatazione:”un tempo eravate tenebra…” e le tenebre, in quanto opposte alla luce, sono una metafora con cui si indica tutto quello che è male, sofferenza e peccato. Qui però le tenebre non indicano solo una situazione di peccato, ma si identificano con le persone stesse che ne sono portatrici in quanto sono contagiate nel profondo del loro essere. In forza della loro adesione a Cristo gli efesini invece hanno assunto una nuova identità:”ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come figli della luce; ora il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità. Cercate di capire ciò che è gradito al Signore.”. I credenti non solo sono illuminati da Cristo, ma in forza della loro incorporazione a Lui sono diventati essi stessi luce. In altre parole, per loro Cristo non è stato semplicemente lo strumento della loro salvezza ma, incorporandoli a sé, Cristo li ha resi partecipi del suo stesso modo di essere. Paolo poi spiega, che “il frutto della luce”, si manifesta in tre grandi orientamenti di vita: bontà, giustizia e verità. Questi tre termini non indicano comportamenti diversi, ma definiscono una condotta che piace a Dio perché consiste nel compimento della sua volontà, cioè si ispira all’amore per Lui e per il prossimo.

Il fatto di essere ormai luce non preclude ai credenti la possibilità di ricadere nelle tenebre. per questo Paolo ritorna sul tema iniziale con questa esortazione: Non partecipate alle opere delle tenebre, che non danno frutto, ma piuttosto condannatele apertamente. Di quanto viene fatto in segreto da [coloro che disobbediscono a Dio] è vergognoso perfino parlare. I credenti devono evitare per questo di ricadere nelle tenebre compiendo le opere da esse ispirate, sapendo quali siano le conseguenze.
Paolo poi prosegue: tutte le cose apertamente condannate sono rivelate dalla luce: tutto quello che si manifesta è luce. Per questo è detto:
«Svégliati, tu che dormi,risorgi dai morti e Cristo ti illuminerà».
L’impegno perciò di colui che in Cristo è diventato luce non è solo di fuggire il male o di compiere il bene, ma anche di denunciare le opere delle tenebre come male. Solo così il cristiano può seguire Cristo e continuare la Sua azione.

Dal vangelo secondo Giovanni
[ In quel tempo, Gesù passando vide un uomo cieco dalla nascita ] e i suoi discepoli lo interrogarono: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?». Rispose Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio. Bisogna che noi compiamo le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può agire. Finché io sono nel mondo, sono la luce del mondo».
Detto questo, [ sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco e gli disse: «Va’ a lavarti nella piscina di Sìloe», che significa “Inviato”. Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva.
Allora i vicini e quelli che lo avevano visto prima, perché era un mendicante, dicevano: «Non è lui quello che stava seduto a chiedere l’elemosina?». Alcuni dicevano: «È lui»; altri dicevano: «No, ma è uno che gli assomiglia». Ed egli diceva: «Sono io!». ] Allora gli domandarono: «In che modo ti sono stati aperti gli occhi?». Egli rispose: «L’uomo che si chiama Gesù ha fatto del fango, me lo ha spalmato sugli occhi e mi ha detto: “Va’ a Sìloe e làvati!”. Io sono andato, mi sono lavato e ho acquistato la vista». Gli dissero: «Dov’è costui?». Rispose: «Non lo so».

Condussero dai farisei quello che era stato cieco: era un sabato, il giorno in cui Gesù aveva fatto del fango e gli aveva aperto gli occhi. Anche i farisei dunque gli chiesero di nuovo come aveva acquistato la vista. Ed egli disse loro: «Mi ha messo del fango sugli occhi, mi sono lavato e ci vedo». Allora alcuni dei farisei dicevano: «Quest’uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato». Altri invece dicevano: «Come può un peccatore compiere segni di questo genere?». E c’era dissenso tra loro. Allora dissero di nuovo al cieco: «Tu, che cosa dici di lui, dal momento che ti ha aperto gli occhi?». Egli rispose: «È un profeta!». ] Ma i Giudei non credettero di lui che fosse stato cieco e che avesse acquistato la vista, finché non chiamarono i genitori di colui che aveva ricuperato la vista. E li interrogarono: «È questo il vostro figlio, che voi dite essere nato cieco? Come mai ora ci vede?». I genitori di lui risposero: «Sappiamo che questo è nostro figlio e che è nato cieco; ma come ora ci veda non lo sappiamo, e chi gli abbia aperto gli occhi, noi non lo sappiamo. Chiedetelo a lui: ha l’età, parlerà lui di sé». Questo dissero i suoi genitori, perché avevano paura dei Giudei; infatti i Giudei avevano già stabilito che, se uno lo avesse riconosciuto come il Cristo, venisse espulso dalla sinagoga. Per questo i suoi genitori dissero: «Ha l’età: chiedetelo a lui!».

Allora chiamarono di nuovo l’uomo che era stato cieco e gli dissero: «Da’ gloria a Dio! Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore». Quello rispose: «Se sia un peccatore, non lo so. Una cosa io so: ero cieco e ora ci vedo». Allora gli dissero: «Che cosa ti ha fatto? Come ti ha aperto gli occhi?». Rispose loro: «Ve l’ho già detto e non avete ascoltato; perché volete udirlo di nuovo? Volete forse diventare anche voi suoi discepoli?». Lo insultarono e dissero: «Suo discepolo sei tu! Noi siamo discepoli di Mosè! Noi sappiamo che a Mosè ha parlato Dio; ma costui non sappiamo di dove sia». Rispose loro quell’uomo: «Proprio questo stupisce: che voi non sapete di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi. Sappiamo che Dio non ascolta i peccatori, ma che, se uno onora Dio e fa la sua volontà, egli lo ascolta. Da che mondo è mondo, non si è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a un cieco nato. Se costui non venisse da Dio, non avrebbe potuto far nulla». [ Gli replicarono: «Sei nato tutto nei peccati e insegni a noi?». E lo cacciarono fuori.

Gesù seppe che l’avevano cacciato fuori; quando lo trovò, gli disse: «Tu, credi nel Figlio dell’uomo?». Egli rispose: «E chi è, Signore, perché io creda in lui?». Gli disse Gesù: «Lo hai visto: è colui che parla con te». Ed egli disse: «Credo, Signore!». E si prostrò dinanzi a lui. ] Gesù allora disse: «È per un giudizio che io sono venuto in questo mondo, perché coloro che non vedono, vedano e quelli che vedono, diventino ciechi». Alcuni dei farisei che erano con lui udirono queste parole e gli dissero: «Siamo ciechi anche noi?». Gesù rispose loro: «Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: “Noi vediamo”, il vostro peccato rimane». Gv 8,12b

L’ evangelista Giovanni narra la guarigione di un uomo nato cieco. Probabilmente il contesto è quello della festa delle Capanne, celebrazione importante per gli Ebrei. È la festa del raccolto autunnale che viene celebrata all’aperto, nei vigneti. Ricorda il soggiorno di Israele nel deserto durante l’esodo, e prevedeva il pellegrinaggio al Tempio di Gerusalemme. Il brano si divide in quattro parti: miracolo e prime reazioni (vv. 1-12); primo interrogatorio del cieco guarito (vv. 13-23); secondo interrogatorio (vv. 24-34); la fede nel Figlio dell’uomo (vv. 35-41).

Il racconto inizia presentandoci Gesù, che passando probabilmente attraverso una delle porte che davano accesso al tempio, vede un mendicante cieco dalla nascita .
Alla vista del cieco, i discepoli gli domandano se la sua malattia sia dovuto a un peccato commesso da lui oppure, essendo questo male iniziato prima della sua nascita, dai suoi genitori, dimostrando così di condividere la convinzione popolare secondo cui una disgrazia non può essere se non un castigo divino .
Alla domanda dei discepoli Gesù risponde negativamente e afferma che egli è diventato cieco perché in lui siano manifestate le opere di Dio. E subito aggiunge, preannunziando il significato di ciò che sta per fare: “ Bisogna che noi compiamo le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può agire. Finché io sono nel mondo, sono la luce del mondo».
Dopo aver chiarito il significato di ciò che sta per compiere, Gesù adotta una metodo insolito, egli sputa per terra, fa del fango con la saliva, gesto questo provocatorio che è proibito nel giorno di sabato, spalma il fango sugli occhi del cieco, e poi lo manda a lavarsi nella piscina di Siloe, nella quale confluiva l’acqua del torrente Gichon, che si trova a sud-ovest della città vecchia di Gerusalemme. Il cieco obbedisce alle parole di Gesù, ottenendo così la guarigione. I primi a rendersene conto sono coloro che erano abituati a vederlo mendicare presso la porta del tempio. Alcuni di loro pensano però che si tratti di una persona diversa, ma egli stesso tronca ogni discussione dicendo di essere proprio lui e spiegando come erano andate le cose.

Dopo che la sua identità è stata accertata, il cieco guarito viene condotto dai farisei, perché esprimano il loro giudizio, dato che il miracolo è stato compiuto nel giorno di sabato. Inizia così un interrogatorio, nel quale saranno coinvolti anche i genitori dell’uomo a cui chiedono se è veramente il loro figlio cieco dalla nascita e, in caso affermativo, come mai ora ci veda. Alla prima domanda essi rispondono che il cieco guarito è veramente loro figlio, mentre alla seconda rispondono di non sapere come ciò sia avvenuto e poi per concludere il discorso dicono:. Chiedetelo a lui: ha l’età, parlerà lui di sé”
L’evangelista osserva che la loro risposta è stata dettata dal timore, in quanto i farisei avevano deciso di espellere dalla sinagoga chiunque avesse riconosciuto Gesù come il Cristo (è probabile che venga inserita durante la vita di Gesù una situazione che si è verificata soltanto verso gli anni 90 con la birkat ha-minim , con cui è stata comminata la scomunica ai seguaci di Gesù di Nazareth, che frequentavano il Tempio e le sinagoghe.)

I farisei, non avendo raggiunto lo scopo che si erano prefissi, si rivolgono nuovamente al cieco guarito e gli chiedono di impegnarsi con un giuramento a dire la verità. Affermano poi di sapere per certo che Gesù è un peccatore: gli chiedono così in un certo senso di ritrattare quanto aveva precedentemente affermato. Ma egli ribadisce ancora la sua versione dei fatti. Non sapendo che cosa dire, i farisei gli chiedono di nuovo come siano andate le cose, sperando forse che egli si contraddica. A questo punto l’uomo si rifiuta e li provoca persino chiedemdo ironicamente se anche loro vogliono diventare discepoli di Gesù. Allora i farisei lo insultano e gli dicono: «Suo discepolo sei tu! Noi siamo discepoli di Mosè! Noi sappiamo che a Mosè ha parlato Dio; ma costui non sappiamo di dove sia».. Mentre dunque i farisei si allontanano sempre più da Gesù, il cieco guarito si avvicina sempre più a Lui e alla fine afferma: “Da che mondo è mondo, non si è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a un cieco nato. Se costui non venisse da Dio, non avrebbe potuto far nulla”.

Intanto Gesù, sapendo che il cieco guarito è stato scacciato dalla sinagoga, gli va incontro e gli domanda se crede nel Figlio dell’uomo. Egli allora gli chiede chi è il Figlio dell’uomo e Gesù risponde: “Lo hai visto: è colui che parla con te. Udite queste parole l’uomo si prostra davanti a lui dicendo:: “Credo, Signore!”. Dopo aver riconosciuto che Gesù è un profeta, un uomo che viene da Dio, egli giunge a riconoscere in Lui il Messia e Signore cioè Dio, ma prima ha dovuto essere scacciato dalla sinagoga, perdendo così tutte le sue sicurezze religiose e sociali.

Gesù allora, prendendo lo spunto dal titolo di Figlio dell’uomo, afferma: «È per un giudizio che io sono venuto in questo mondo, perché coloro che non vedono, vedano e quelli che vedono, diventino ciechi». Alcuni dei farisei gli chiedono allora se fossero ciechi anche loro, e Gesù risponde che se fossero ciechi non avrebbero alcun peccato, ma siccome dicono di vedere, il loro peccato rimane.
Si comprende così che “coloro che vedono” sono in realtà quelli che pretendono di vedere, ma sono anche loro dei ciechi; essi però, rifiutando di essere illuminati dal Figlio dell’uomo, non possono essere guariti.
È dunque vero che Gesù è la luce del mondo, ma la Sua luce raggiunge effettivamente solo coloro che si aprono a riceverla, mentre provoca la cecità in coloro che non sono disposti a riconoscerla.
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Il Vangelo odierno ci presenta l’episodio dell’uomo cieco dalla nascita, al quale Gesù dona la vista. Il lungo racconto si apre con un cieco che comincia a vedere e si chiude – è curioso questo - con dei presunti vedenti che continuano a rimanere ciechi nell’anima. Il miracolo è narrato da Giovanni in appena due versetti, perché l’evangelista vuole attirare l’attenzione non sul miracolo in sé, ma su quello che succede dopo, sulle discussioni che suscita; anche sulle chiacchiere, tante volte un’opera buona, un’opera di carità suscita chiacchiere e discussioni, perché ci sono alcuni che non vogliono vedere la verità. L’evangelista Giovanni vuol attirare l’attenzione su questo che accade anche ai nostri giorni quando si fa un’opera buona. Il cieco guarito viene prima interrogato dalla folla stupita – hanno visto il miracolo e lo interrogano -, poi dai dottori della legge; e questi interrogano anche i suoi genitori. Alla fine il cieco guarito approda alla fede, e questa è la grazia più grande che gli viene fatta da Gesù: non solo di vedere, ma di conoscere Lui, vedere Lui come «la luce del mondo» (Gv 9,5).

Mentre il cieco si avvicina gradualmente alla luce, i dottori della legge al contrario sprofondano sempre più nella loro cecità interiore. Chiusi nella loro presunzione, credono di avere già la luce; per questo non si aprono alla verità di Gesù. Essi fanno di tutto per negare l’evidenza. Mettono in dubbio l’identità dell’uomo guarito; poi negano l’azione di Dio nella guarigione, prendendo come scusa che Dio non agisce di sabato; giungono persino a dubitare che quell’uomo fosse nato cieco. La loro chiusura alla luce diventa aggressiva e sfocia nell’espulsione dal tempio dell’uomo guarito.
Il cammino del cieco invece è un percorso a tappe, che parte dalla conoscenza del nome di Gesù. Non conosce altro di Lui; infatti dice: «L’uomo che si chiama Gesù ha fatto del fango, me lo ha spalmato sugli occhi» (v. 11). A seguito delle incalzanti domande dei dottori della legge, lo considera dapprima un profeta (v. 17) e poi un uomo vicino a Dio (v. 31). Dopo che è stato allontanato dal tempio, escluso dalla società, Gesù lo trova di nuovo e gli “apre gli occhi” per la seconda volta, rivelandogli la propria identità: «Io sono il Messia», così gli dice. A questo punto colui che era stato cieco esclama: «Credo, Signore!» (v. 38), e si prostra davanti a Gesù. Questo è un brano del Vangelo che fa vedere il dramma della cecità interiore di tanta gente, anche la nostra perché noi alcune volte abbiamo momenti di cecità interiore.

La nostra vita a volte è simile a quella del cieco che si è aperto alla luce, che si è aperto a Dio, che si è aperto alla sua grazia. A volte purtroppo è un po’ come quella dei dottori della legge: dall’alto del nostro orgoglio giudichiamo gli altri, e perfino il Signore! Oggi, siamo invitati ad aprirci alla luce di Cristo per portare frutto nella nostra vita, per eliminare i comportamenti che non sono cristiani; tutti noi siamo cristiani, ma tutti noi, tutti, alcune volte abbiamo comportamenti non cristiani, comportamenti che sono peccati. Dobbiamo pentirci di questo, eliminare questi comportamenti per camminare decisamente sulla via della santità. Essa ha la sua origine nel Battesimo. Anche noi infatti siamo stati “illuminati” da Cristo nel Battesimo, affinché, come ci ricorda san Paolo, possiamo comportarci come «figli della luce» (Ef 5,8), con umiltà, pazienza, misericordia. Questi dottori della legge non avevano né umiltà, né pazienza, né misericordia!

Io vi suggerisco, oggi, quando tornate a casa, prendete il Vangelo di Giovanni e leggete questo brano del capitolo 9. Vi farà bene, perché così vedrete questa strada dalla cecità alla luce e l’altra strada cattiva verso una più profonda cecità. Domandiamoci come è il nostro cuore? Ho un cuore aperto o un cuore chiuso? Aperto o chiuso verso Dio? Aperto o chiuso verso il prossimo? Sempre abbiamo in noi qualche chiusura nata dal peccato, dagli sbagli, dagli errori. Non dobbiamo avere paura! Apriamoci alla luce del Signore, Lui ci aspetta sempre per farci vedere meglio, per darci più luce, per perdonarci. Non dimentichiamo questo!
Papa Francesco
Parte dell’Angelus del 30 marzo 2014

1586

Pro Memoria

L'umanità è una grande e  immensa famiglia ... Troviamo la dimostrazione di ciò da quello che ci sentiamo nei nostri cuori a Natale.
(Papa Giovanni XXIII)

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