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Mar 23, 2019

III Domenica di Quaresima - Anno C - "Dio non ci salva senza di noi" - 24 marzo 2019

La liturgia di questa III domenica di quaresima ci propone tre letture che parlano di uscita da uno stato di schiavitù e pena, di guarigione dalla malattia del peccato e di conversione (cambiamento della mente e del cuore) garantite da Dio.
Nella prima lettura, tratta dal libro dell’Esodo, Dio parla a Mosè sul Monte Oreb in un roveto che arde senza consumarsi. Gli comunica il Suo nome: “Io sono colui che sono” e gli affida la missione di liberare il Suo popolo dallo stato di schiavitù in cui era tenuto dal Faraone d’Egitto. La chiamata di Mosè costituisce una tappa decisiva nella storia della salvezza.
Nella seconda lettura, tratta dalla prima lettera ai Corinzi, San Paolo, dalla storia d’Israele trae una lezione per i cristiani: gli Ebrei usciti dall’Egitto e assistiti da Dio, con doni prodigiosi, sono morti nel deserto, a causa della loro infedeltà. La conversione, non è mai finita e l’Apostolo come monito alla fine dice: Chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere. Senza umiltà non si arriva alla grazia della conversione.
Nel brano del Vangelo, Luca racconta che Gesù, prendendo prima spunto da due fatti di cronaca di quel tempo, (alcuni giudei trucidati da Pilato e diciotto abitanti di Gerusalemme morti sotto il crollo della torre di Siloe), dice “…se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo”. Propone anche come esempio la parabola del fico sterile per farci capire che se anche la conversione è spesso difficile e lenta, non deve scoraggiarci, perchè Dio è misericordioso e paziente!

Dal libro dell’Esodo
In quei giorni, mentre Mosè stava pascolando il gregge di Ietro, suo suocero, sacerdote di Madian, condusse il bestiame oltre il deserto e arrivò al monte di Dio, l’Oreb.
L’angelo del Signore gli apparve in una fiamma di fuoco dal mezzo di un roveto. Egli guardò ed ecco: il roveto ardeva per il fuoco, ma quel roveto non si consumava.
Mosè pensò: «Voglio avvicinarmi a osservare questo grande spettacolo: perché il roveto non brucia?». Il Signore vide che si era avvicinato per guardare; Dio gridò a lui dal roveto: «Mosè, Mosè!». Rispose: «Eccomi!». Riprese: «Non avvicinarti oltre! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è suolo santo!». E disse: «Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe». Mosè allora si coprì il volto, perché aveva paura di guardare verso Dio.
Il Signore disse: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto e per farlo salire da questa terra verso una terra bella e spaziosa, verso una terra dove scorrono latte e miele».
Mosè disse a Dio: «Ecco, io vado dagli Israeliti e dico loro: “Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi”. Mi diranno: “Qual è il suo nome?”. E io che cosa risponderò loro?».
Dio disse a Mosè: «Io sono colui che sono!». E aggiunse: «Così dirai agli Israeliti: “Io Sono mi ha mandato a voi”». Dio disse ancora a Mosè: «Dirai agli Israeliti: “Il Signore, Dio dei vostri padri, Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe mi ha mandato a voi”. Questo è il mio nome per sempre; questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione».
Es 3,1-8a.13-15

Il Libro dell'Esodo è il secondo libro del Pentateuco (Torah ebraica) e della Bibbia cristiana. È stato scritto in ebraico e, secondo l'ipotesi di molti studiosi, la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte. È composto da 40 capitoli e nei primi 14 descrive il soggiorno degli Ebrei in Egitto, la loro schiavitù e la miracolosa liberazione tramite Mosè, mentre nei restanti descrive il soggiorno degli Ebrei nel deserto del Sinai. Il libro si apre con la descrizione dello stato di schiavitù del popolo ebreo in Egitto e giunge con il suo racconto sino al patto di Dio con il popolo e alla promulgazione della legge divina, concludendosi con lunghe sezioni legali. Gli studiosi collocano questi avvenimenti tra il 15^ e il 13^ secolo a.C.
Questo celebre brano che rappresenta l’inizio del dialogo tra Dio e l’uomo, si apre con una particolare teofania. Mosè stava pascolando il gregge del suocero, era arrivato oltre il deserto, al monte di Dio, l’Oreb. L’angelo del Signore gli apparve in una fiamma di fuoco dal mezzo di un roveto. ma quel roveto non si consumava. Il roveto è un cespuglio selvatico che consideriamo comunemente un’erbaccia, eppure Dio ha scelto questa pianta umile e povera per manifestare, con una luce che illumina e purifica senza bruciare, la Sua presenza..
Solo quando Mosè incuriosito si volle avvicinare per osservare da vicino il fenomeno ,”Dio gridò a lui dal roveto: «Mosè, Mosè!». Rispose: «Eccomi!». Riprese: «Non avvicinarti oltre! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è suolo santo!».
Dio si presenta così all’improvviso nella vita dell’esule Mosè proclamando: “Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe». Mosè allora si coprì il volto, perché aveva paura di guardare verso Dio”.Mosè si coprì il volto perchè aveva intuito di trovarsi davanti a Dio, e aveva paura di guardare, ma poiché il desiderio di Dio è più forte della paura della morte, Mosè, senza però poterlo vedere direttamente, riprende poi il discorso dopo che Dio gli conferisce la missione di liberare il suo popolo dal potere dell’Egitto e per farlo salire verso una terra dove scorrono latte e miele. E’ a questo punto che Mose chiede il nome.
E’ il primo dialogo della rivelazione ed è anche uno dei doni più alti di Dio all’uomo. Infatti svelare il proprio nome a qualcuno, presso i Semiti, equivaleva a mettersi in qualche modo in suo potere. Presentandosi come “Io sono colui che sono!” vediamo che Dio non si rivela in un sostantivo, ma in un verbo, cioè in una forma attiva e non statica e inerte come è invece per l’idolo. Il Dio d’Israele, è Colui che è lì, l’eterno vivente, ma non vuole manifestarsi completamente e, allo stesso tempo, si svela come Dio vivo, sempre presente e impegnato in mezzo al Suo popolo.
Il testo, uno dei più profondi della storia della salvezza, indica il compimento di una promessa fatta ad Abramo e segna l’avvio verso altri eventi.

Salmo 102/103 - Il Signore ha pietà del suo popolo
Benedici il Signore, anima mia,
quanto è in me benedica il suo santo nome.
Benedici il Signore, anima mia,
non dimenticare tutti i suoi benefici.

Egli perdona tutte le tue colpe,
guarisce tutte le tue infermità,
salva dalla fossa la tua vita,
ti circonda di bontà e misericordia.

Il Signore compie cose giuste,
difende i diritti di tutti gli oppressi.
Ha fatto conoscere a Mosè le sue vie,
le sue opere ai figli d’Israele.

Misericordioso e pietoso è il Signore,
lento all’ira e grande nell’amore.
Perché quanto il cielo è alto sulla terra,
così la sua misericordia è potente su quelli che lo temono.

La critica è incline a datare la composizione di questo salmo nel tardo postesilio.
Il salmista esorta se stesso a benedire il Signore, e a non “dimenticare tutti i suoi benefici”. Questo ricordare è importantissimo nei momenti dolorosi per non cadere nello scoraggiamento e al contrario stabilirsi in una grande fiducia in Dio. Il salmista non presenta grandi tormenti storici della nazione; pare di poter indovinare normalità di vita attorno a lui. Egli si presenta a Dio come colpevole di numerose mancanze, ma ha sperimentato la misericordia di Dio, che lo ha salvato da angosce e anche probabilmente da una malattia grave: “Egli perdona tutte le tue colpe, guarisce tutte le tue infermità; salva dalla fossa la tua vita”.
Il salmista non cessa di celebrare la bontà, la giustizia di Dio, e prova una grande dolcezza nel fare questo: una dolcezza pacificante: “Ti circonda di bontà e di misericordia”.
Il salmista, fedele all'alleanza, loda Dio per la legge data per mezzo di Mosè: “Ha fatto conoscere a Mosè le sue vie, le sue opere ai figli d'Israele ”. Ma Dio non ha dato a Mosè solo la legge, ha anche dato l'annuncio del Cristo futuro, dal quale abbiamo la grazia e la verità (Cf. Gv 1,17).
La misericordia di Dio celebrata dal salmista si è manifestata per mezzo di Gesù Cristo.
Il salmista si sente sicuro, compreso da Dio, che agisce sul suo popolo con la premura di un padre verso i figli. Un padre che “ricorda che noi siamo polvere”, e che perciò pur rilevando le colpe è pronto a perdonare pienamente: “Non è in lite per sempre, non rimane adirato in eterno”.
L'alleanza osservata è fonte di bene, di unione con Dio. Egli effonde “la sua giustizia”, cioè la sua protezione dal male, sui “figli dei figli”.
Il salmista pieno di gioia conclude invitando tutti gli angeli a benedire Dio. Gli angeli non hanno bisogno di essere esortati a benedire Dio, ma certo possono essere invitati a rafforzare il nostro benedire Dio. Per una lode universale sono invitate a benedire Dio tutte le cose create (Cf. Ps 18,1s): “Benedite il Signore, voi tutte opere sue”.
Commento di P.Paolo Berti

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi
Non voglio che ignoriate, fratelli, che i nostri padri furono tutti sotto la nube, tutti attraversarono il mare, tutti furono battezzati in rapporto a Mosè nella nube e nel mare, tutti mangiarono lo stesso cibo spirituale, tutti bevvero la stessa bevanda spirituale: bevevano infatti da una roccia spirituale che li accompagnava, e quella roccia era il Cristo. Ma la maggior parte di loro non fu gradita a Dio e perciò furono sterminati nel deserto.
Ciò avvenne come esempio per noi, perché non desiderassimo cose cattive, come essi le desiderarono.
Non mormorate, come mormorarono alcuni di loro, e caddero vittime dello sterminatore. Tutte queste cose però accaddero a loro come esempio, e sono state scritte per nostro ammonimento, di noi per i quali è arrivata la fine dei tempi. Quindi, chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere.
1 Cor 10,1-6.10-12

La Prima lettera ai Corinzi, che Paolo scrisse da Efeso nel 56 o 57, è considerata una delle più importanti dal punto di vista dottrinale; vi si trovano informazioni e decisioni su numerosi problemi cruciali del Cristianesimo primitivo, sia per la sua "vita interna": purezza dei costumi (5,1-13:6,12-20), matrimonio e verginità (7,1-40), svolgimento delle assemblee religiose e celebrazione dell‘eucaristia (11.12) , uso dei carismi (12,1-14) ; sia per i rapporti con il mondo pagano; ricorso ai tribunali (6,1-11), carni offerte agli idoli (8-10) .
In questo brano Paolo, per mettere in guardia i Corinzi dal rischio di cadere nell’idolatria, presenta in sintesi l’esempio dei padri, mostrando che essi, pur avendo ricevuto notevoli grazie spirituali, non hanno saputo resistere all’attrattiva del peccato. Dopo aver premesso:”Non voglio infatti che ignoriate, fratelli”, con cui sottolinea l’importanza di ciò che sta per dire, Paolo prosegue: “i nostri padri furono tutti sotto la nube, tutti attraversarono il mare, tutti furono battezzati in rapporto a Mosè nella nube e nel mare ..” L’esperienza fatta dagli israeliti al tempo dell’esodo ha valore anche per i cristiani, i quali riconoscono in essi i loro progenitori nella fede.
Tipico di questi progenitori è il fatto di essere stati sotto la nube e di aver attraversato il mare. Queste due esperienze vengono interpretate simbolicamente come un “essere battezzati” (essere immersi) nella nube e nel mare.
Dopo aver presentato la liberazione degli israeliti come un’esperienza battesimale, Paolo prosegue: “tutti bevvero la stessa bevanda spirituale: bevevano infatti da una roccia spirituale che li accompagnava, e quella roccia era il Cristo” Il cibo spirituale, dato cioè dallo Spirito di Dio e quindi apportatore di un dono salvifico, non è altro che la manna, chiamata anche “pane del cielo” nella quale i primi cristiani vedevano la prefigurazione del pane moltiplicato da Gesù durante il Suo ministero, simbolo a sua volta del pane distribuito nell’ultima cena (Gv 6,31-33) e consumato dai corinzi nella celebrazione della cena del Signore (1Cor 11,17-34), mentre la bevanda spirituale è l’acqua scaturita dalla roccia (Es 17,6).
L’esperienza della salvezza fatta da Israele non è inferiore a quella dei cristiani. “Ma,- continua Paolo,- la maggior parte di loro non fu gradita a Dio e perciò furono sterminati nel deserto”. Se essi sono stati rifiutati da Dio, ciò non è dovuto a un venir meno della grazia divina, ma alla mancanza di partecipazione da parte loro. L’apostolo vuole dunque dire che i sacramenti non operano in modo automatico, come i corinzi potevano pensare (v: 11,17-34), ma richiedono la fede viva e operosa di chi li riceve. Infine, Paolo mette in guardia i corinzi dalla mormorazione: “Non mormorate, come mormorarono alcuni di loro, e caddero vittime dello sterminatore”. La mormorazione è collegata a diversi episodi in cui gli israeliti si lamentarono per le difficoltà dell’esodo e alcuni di loro furono sterminati da Dio.
Al termine di questa lista di peccati Paolo riprende quanto aveva affermato prima , commentando: “Tutte queste cose però accaddero a loro come esempio, e sono state scritte per nostro ammonimento, di noi per i quali è arrivata la fine dei tempi.” Nessuno deve pensare, perché sono giunti i tempi della salvezza definitiva attuata da Cristo, che non vi sia più pericolo di peccare. “Quindi, chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere”. La tentazione dunque resta, ma il credente ha però il potere di superarla, purché non si lasci prendere dalla falsa presunzione di essere preservato da cadute.
L’apostolo conclude con una riflessione, non riportata dal brano, che è un vero e proprio incoraggiamento per tutti: “Nessuna tentazione, superiore alle forze umane, vi ha sorpresi; Dio infatti è degno di fede e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze ma, insieme con la tentazione, vi darà anche il modo di uscirne per poterla sostenere. (v.13)
La grazia di Dio dunque è più forte della tentazione: chi sbaglia è l’unico responsabile del suo peccato, perché Dio dà a tutti la possibilità di superare la prova.

Dal vangelo secondo Luca
In quel tempo si presentarono alcuni a riferire a Gesù il fatto di quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici. Prendendo la parola, Gesù disse loro: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. O quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Sìloe e le uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo».
Diceva anche questa parabola: «Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. Allora disse al vignaiolo: “Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest’albero, ma non ne trovo. Tàglialo dunque! Perché deve sfruttare il terreno?”. Ma quello gli rispose: “Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai”».
Lc 13,1-9

Il brano liturgico ci riporta dei fatti che troviamo solo nel vangelo di Luca e non hanno passaggi paralleli negli altri vangeli. Nel lungo cammino di Gesù dalla Galilea fino a Gerusalemme, che occupa quasi la metà del suo vangelo, Luca colloca la maggior parte delle informazioni che ha raccolto sulla vita e l’insegnamento di Gesù
Nel brano leggiamo che: “si presentarono alcuni a riferire a Gesù il fatto di quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici.”. L’inizio del brano prende spunto da un sanguinoso fatto di cronaca ( ) : il massacro di alcuni Galilei giunti a Gerusalemme per offrire sacrifici durante una festa giudaica, che si sono trovati coinvolti in un tumulto insurrezionale, una rivolta alquanto frequente allora, e che Pilato ha fatto trucidare. Chi riferisce a Gesù questo fatto di violenza forse attende da lui un giudizio politico.
Gesù risponde ponendo a sua volta una domanda: “Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo….” Qual’è il senso della morte? E soprattutto della morte ingiusta, della morte di coloro che sembrano non avere colpa ed essere addirittura uomini pii e giusti? Infatti il male che arriva, non è segno di castigo per i colpiti, ma richiamo alla conversione per i superstiti, che dovrebbero essere grati a Dio di non essere tra il numero dei colpiti, cercando di fare buon uso del tempo che ancora Dio concede loro per portare frutti di bene. Gesù reagisce con compostezza a questa segnalazione e chiarisce che il pericolo sovrasta tutti quanti: egli non vede nemici dappertutto, che sarebbe il sintomo di una malattia, di mania di persecuzione, ma fa un esortazione: quello è il momento opportuno per convertirsi, aspettare potrebbe voler dire perdere un'occasione preziosa e rischiare la stessa sorte.
“O quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Sìloe e le uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? “
Gesù fa riferimento a questi due fatti di cronaca per sottolineare l’urgenza della conversione, di questo tornare a Dio con tutto il cuore e con tutta la mente e che non è mai troppo presto prendere questa decisione fondamentale per ottenere la Salvezza.
Poi Gesù continua il Suo insegnamento presentando la parabola del fico sterile : “Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò.” Gesù fa riferimento a un’immagine già molte volte utilizzata nell’Antico Testamento per indicare il popolo di Dio. Infatti il fico e la vigna rappresentano nella Scrittura e nella tradizione rabbinica e profetica il popolo di Israele che è la vigna scelta, piantata e curata da Dio nonostante la sua infedeltà. Ed ora è Gesù, il Figlio di Dio che viene a visitare questa vigna e a mangiarne i frutti… e i vignaioli stanno per metterlo a morte ….
In questo versetto viene presentata la parabola: un tale aveva piantato questo fico va nella vigna per raccogliere frutti ma non ne trova. Possiamo leggervi dentro l'azione di Dio che invia Suo Figlio Gesù, che per tre anni predica in mezzo al popolo annunciandosi come il Salvatore, il Redentore, il Misericordioso.
“Allora disse al vignaiolo: “Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest’albero, ma non ne trovo. Tàglialo dunque! Perché deve sfruttare il terreno?”. Il padrone comunica al vignaiolo il suo disappunto per quell’albero che ormai già da tre anni non dà frutti, quindi dà ordine di tagliarlo perché è un parassita, sfrutta solo il terreno senza portare frutto. La decisione del padrone ha una logica giusta: un albero che non dà frutto è improduttivo, sterile, abbatterlo è la soluzione più logica.
Ogni buon contadino sa bene che un vitigno comincia a dare frutto dopo tre anni da quando è stato piantato.
Questi versetti, ci presentano la sterilità del fico e qui possiamo leggere la nostra storia alla luce di quella di Gesù.
“Ma quello gli rispose: “Padrone, lascialo ancora quest’anno”, Il vignaiolo parla in modo misericordioso, chiede pazienza al padrone. Parla nello stesso modo in cui Gesù ci ha parlato di Dio: paziente e misericordioso.
“finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. Il vignaiolo non ne vuole sapere di tagliare l’albero anche se deve riconoscere che finora è stato improduttivo e s’impegna a lavorare perché il fico porti frutto: lo zappa tutt’attorno e gli mette il concime. Viene da pensare a quell’opera attenta, premurosa, abbondante che Dio ha compiuto, attraverso Gesù, a nostro favore, per rendere la nostra vita feconda di frutti di bene.
“Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai”. Il tempo che si prolunga è segno di misericordia, non assenza di giudizio. Il tempo si prolunga per permetterci di approfittarne, non per giustificare il rinvio o l’indifferenza… comunque la pazienza di Dio ha un limite! Il tempo è decisivo, non perché breve, ma perché carico di occasioni determinanti.
Questo dialogo tra padrone e vignaiolo mette in risalto il valore dell’intercessione, della preghiera per ottenere misericordia, fatta da Gesù che è il vignaiolo al Padre che è il padrone. Fa pensare alla stessa intercessione chiesta da Abramo verso le città di Sodoma e Gomorra, la stessa intercessione di Mosè nei confronti di Israele nell’episodio del vitello d’oro.
La parabola è fin troppo chiara: Il Padre e il Figlio si prendono cura dell'uomo e attendono che egli risponda al loro amore. Come al fico sterile il Padrone della vigna concede ancora del tempo per farlo fruttificare, così Dio concede del tempo anche all’uomo che non dà frutti di conversione, prima della “resa dei conti”.
Nella parola "quest'anno“ sono indicati tutti gli anni e i secoli delle generazioni che verranno. E' “l'anno” della pazienza e della misericordia di Dio: "Egli. usa pazienza verso di voi, non volendo che alcuno perisca, ma che tutti abbiano modo di pentirsi" (2Pt 3,9).
Ma noi non dobbiamo fare come gli " empi che trovano pretesto alla loro dissolutezza nella grazia del nostro Dio… " (Gd 1,4). Non ci si deve prendere gioco dell’infinita bontà di Dio, della Sua tolleranza e della Sua pazienza, ma riconoscere che la bontà di Dio ci deve spingere alla conversione (v.Rm 2,4).

 

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“Ogni giorno, purtroppo, le cronache riportano notizie brutte: omicidi, incidenti, catastrofi…. Nel brano evangelico di oggi, Gesù accenna a due fatti tragici che a quel tempo avevano suscitato molto scalpore: una repressione cruenta compiuta dai soldati romani all’interno del tempio; e il crollo della torre di Siloe, a Gerusalemme, che aveva causato diciotto vittime.
Gesù conosce la mentalità superstiziosa dei suoi ascoltatori e sa che essi interpretano quel tipo di avvenimenti in modo sbagliato. Infatti pensano che, se quegli uomini sono morti così crudelmente, è segno che Dio li ha castigati per qualche colpa grave che avevano commesso; come dire: “se lo meritavano”. E invece il fatto di essere stati risparmiati dalla disgrazia equivaleva a sentirsi “a posto”. Loro “se lo meritavano”; io sono “a posto”.
Gesù rifiuta nettamente questa visione, perché Dio non permette le tragedie per punire le colpe, e afferma che quelle povere vittime non erano affatto peggiori degli altri. Piuttosto, Egli invita a ricavare da questi fatti dolorosi un ammonimento che riguarda tutti, perché tutti siamo peccatori; dice infatti a coloro che lo avevano interpellato: «Se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo»
Anche oggi, di fronte a certe disgrazie e ad eventi luttuosi, può venirci la tentazione di “scaricare” la responsabilità sulle vittime, o addirittura su Dio stesso. Ma il Vangelo ci invita a riflettere: che idea di Dio ci siamo fatti? Siamo proprio convinti che Dio sia così, o quella non è piuttosto una nostra proiezione, un dio fatto “a nostra immagine e somiglianza”? Gesù, al contrario, ci chiama a cambiare il cuore, a fare una radicale inversione nel cammino della nostra vita, abbandonando i compromessi con il male – e questo lo facciamo tutti, i compromessi con il male - le ipocrisie – io credo che quasi tutti ne abbiamo almeno un pezzetto di ipocrisia -, per imboccare decisamente la strada del Vangelo. Ma ecco di nuovo la tentazione di giustificarci: “Ma da che cosa dovremmo convertirci? Non siamo tutto sommato brava gente?”. Quante volte abbiamo pensato questo: “Ma, tutto sommato io sono uno bravo, sono una brava – non è così? – non siamo dei credenti, anche abbastanza praticanti?”. E noi crediamo che così siamo giustificati.
Purtroppo, ciascuno di noi assomiglia molto a un albero che, per anni, ha dato molteplici prove della sua sterilità. Ma, per nostra fortuna, Gesù è simile a quel contadino che, con una pazienza senza limiti, ottiene ancora una proroga per il fico infecondo: «Lascialo ancora quest’anno – dice al padrone – […] Vedremo se porterà frutto per l’avvenire». Un “anno” di grazia: il tempo del ministero di Cristo, il tempo della Chiesa prima del suo ritorno glorioso, il tempo della nostra vita, scandito da un certo numero di Quaresime, che ci vengono offerte come occasioni di ravvedimento e di salvezza, il tempo di un Anno Giubilare della Misericordia. L’invincibile pazienza di Gesù! Avete pensato, voi, alla pazienza di Dio? Avete pensato anche alla sua irriducibile preoccupazione per i peccatori, come dovrebbero provocarci all’impazienza nei confronti di noi stessi! Non è mai troppo tardi per convertirsi, mai! Fino all’ultimo momento: la pazienza di Dio che ci aspetta.
Ricordate quella piccola storia di santa Teresa di Gesù Bambino, quando pregava per quell’uomo condannato a morte, un criminale, che non voleva ricevere il conforto della Chiesa, respingeva il sacerdote: voleva morire così. E lei pregava, nel convento. E quanto quell’uomo era lì, proprio al momento di essere ucciso, si rivolge al sacerdote, prende il Crocifisso e lo bacia. La pazienza di Dio! E fa lo stesso anche con noi, con tutti noi! Quante volte – noi non lo sappiamo, lo sapremo in Cielo –, quante volte noi siamo lì, lì… [sul punto di cadere] e il Signore ci salva: ci salva perché ha una grande pazienza per noi. E questa è la sua misericordia. Mai è tardi per convertirci, ma è urgente, è ora! Incominciamo oggi.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 28 febbraio 2016

 

(1)Questo eccidio anche se non è noto storicamente, è verosimile nel clima surriscaldato della Giudea. (Giuseppe Flavio parla infatti di un massacro di samaritani compiuto nel 35 d.C. da soldati romani sul monte Garizim in occasione di un sacrificio. E’ probabile che l’evangelista si riferisca a una repressione avvenuta nel tempio, mentre si sacrificavano gli agnelli per la celebrazione pasquale. La strage assumeva una particolare gravità per il fatto che era stata compiuta nel luogo sacro, durante un rito liturgico.

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