La prima domenica dopo Pasqua, prima di chiamarsi della Divina Misericordia, era chiamata "domenica in albis". Questo nome era dovuto perché ai primi tempi della Chiesa il battesimo era amministrato durante la notte di Pasqua, ed i battezzandi indossavano una tunica bianca che portavano poi per tutta la settimana successiva, fino alla prima domenica dopo Pasqua, detta perciò "domenica in cui si depongono le vesti bianche" ("in albis depositis"). Questa domenica dal 2000 è stata proclamata Festa della Divina Misericordia per volontà del Papa Giovanni Paolo II, come testimonia la sua seconda Enciclica “Dives in Misericordia”, scritta nel 1980.
Le letture liturgiche però non hanno subito variazioni.
Nella prima lettura tratta dagli Atti degli Apostoli, Luca sottolinea la crescita della prima comunità e colpisce l’immagine dei malati che si accostano a Pietro per farsi almeno coprire con la sua ombra nella speranza della guarigione.
Nella seconda lettura tratta dal libro dell’Apocalisse, Gesù risorto appare a Giovanni in visione come giudice universale, e gli affida la missione per le sette Chiese, raffigurate simbolicamente in sette candelabri d’oro. A Giovanni quasi privo di sensi Gesù lo rassicura dicendo: «Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo, e il Vivente…” Gesù è l’eterno vivente e ad ogni celebrazione liturgica noi lo possiamo incontrare!
Il Vangelo di Giovanni riporta l’incontro di Gesù risorto con gli apostoli e il Suo saluto: Pace a Voi ! L’episodio di Tommaso, con i suoi umanissimi dubbi, è particolarmente utile per tutti coloro che procedono a tentoni in una valle oscura alla ricerca di Dio. Tommaso alla fine è stato in grado di proclamare la sua fede con una purezza straordinaria, forse la più alta del quarto Vangelo: “Mio Signore e mio Dio!”
Dagli Atti degli Apostoli
Molti segni e prodigi avvenivano fra il popolo per opera degli apostoli. Tutti erano soliti stare insieme nel portico di Salomone; nessuno degli altri osava associarsi a loro, ma il popolo li esaltava.
Sempre più, però, venivano aggiunti credenti al Signore, una moltitudine di uomini e di donne, tanto che portavano gli ammalati persino nelle piazze, ponendoli su lettucci e barelle, perché, quando Pietro passava, almeno la sua ombra coprisse qualcuno di loro.
Anche la folla delle città vicine a Gerusalemme accorreva, portando malati e persone tormentate da spiriti impuri, e tutti venivano guariti.
At 5,12-16
Luca in questo brano inizia affermando che “Molti segni e prodigi avvenivano fra il popolo per opera degli apostoli.” La stessa frase la troviamo espressa in modo similare nel primo sommario sulla vita della comunità (V 2,43b).
“Tutti erano soliti stare insieme nel portico di Salomone; “ Qui si precisa che tutti si ritrovavano nel portico di Salomone e Luca osserva che essi formavano un gruppo abbastanza chiuso, in quanto “nessuno degli altri osava associarsi a loro,” e precisa ulteriormente, che il popolo li esaltava ossia che era loro favorevole.
A questa constatazione aggiunge che “Sempre più, però, venivano aggiunti credenti al Signore, una moltitudine di uomini e di donne,” ossia che aumentava il numero non solo di uomini, ma anche di donne che credevano nel Signore.
“tanto che portavano gli ammalati persino nelle piazze, ponendoli su lettucci e barelle, perché, quando Pietro passava, almeno la sua ombra coprisse qualcuno di loro.” Qui vengono spiegati gli effetti dei prodigi compiuti dagli apostoli sulla gente. Anche se la descrizione è chiaramente esagerata, c’è da tener presente che l’ombra era vista come continuazione della persona con tutti i suoi poteri, per cui si portavano gli ammalati nelle piazze, si ponevano su lettucci e giacigli, nella speranza che, al giungere di Pietro, la sua ombra coprisse qualcuno di loro.
Poi Luca aggiunge che “Anche la folla delle città vicine a Gerusalemme accorreva, portando malati e persone tormentate da spiriti impuri, e tutti venivano guariti. “
Questa descrizione ricorda l’attività di Gesù (Lc 6,17-19) ed anche quella di Paolo a Efeso (At 19,11.12).
Come il loro maestro, anche gli apostoli annunziano la venuta del regno di Dio più con i segni che con le parole, noncuranti dei fenomeni di superstizione che accompagnavano inevitabilmente la loro opera taumaturgica.
La comunità qui appare in tutta la sua bellezza e la sua unità: Apostoli e discepoli insieme e concordi e, allo stesso tempo, si presenta come un gruppo giudaico ben separato dagli altri e in continua crescita.
Questa immagine della comunità è quella che più sottolinea il favore e l’entusiasmo del popolo e questo non poteva non infastidire i detentori del potere.
Salmo 117 - Rendete grazie al Signore perché è buono: il suo amore è per sempre
Dica Israele: «Il suo amore è per sempre».
Dica la casa di Aronne:
«Il suo amore è per sempre».
Dicano quelli che temono il Signore:
«Il suo amore è per sempre».
La pietra scartata dai costruttori
è divenuta la pietra d’angolo.
Questo è stato fatto dal Signore:
una meraviglia ai nostri occhi.
Questo è il giorno che ha fatto il Signore:
rallegriamoci in esso ed esultiamo!
Ti preghiamo, Signore: dona la salvezza!
Ti preghiamo, Signore: dona la vittoria!
Benedetto colui che viene nel nome del Signore.
Vi benediciamo dalla casa del Signore.
Il Signore è Dio, egli ci illumina.
Il salmo è stato composto per essere recitato con cori alterni e da un solista. Esso celebra una vittoria contro nemici numerosi. Probabilmente è stato scritto al tempo di Giuda Maccabeo dopo la vittoria su Nicanore e la purificazione del tempio di Gerusalemme (1Mac7,33; 2Mac 10,1s) (165 a.C). Si è condotti a questa collocazione storica, a preferenza di quella del tempo della ricostruzione delle mura di Gerusalemme con Neemia (445 a.C), dal fatto che si parla di “grida di giubilo e di vittoria”, che sono proprie di una vittoria militare. Inoltre le “tende dei giusti” non possono essere né le case, né le capanne di frasche per la festa delle Capanne, ma le tende di un accampamento militare.
Il salmo inizia con l'invito a celebrare l'eterna misericordia di Dio. A questo viene invitato tutto il popolo: “Dica Israele il suo amore è per sempre"; i leviti e i sacerdoti: “Dica la casa di Aronne”; i “timorati di Dio”: “Dicano quelli che temono il Signore” (Cf. Ps 113 B).
Il solista - storicamente Giuda Maccabeo – presenta come Dio lo ha aiutato dandogli la forza, nella confidenza in lui, di sfidare i suoi nemici. Egli non ha confidato, né intende confidare, in alleanze con potenti della terra, che lo avrebbero trascinato agli idoli, ma ha confidato nel Signore. Era circondato dal fronte compatto delle genti vicine asservite al dominio dei Seleucidi, ma “Nel nome del Signore le ho distrutte". L'urto contro di lui era stato forte, ma aveva vinto nel nome del Signore: “Mi avevano spinto con forza per farmi cadere, ma il Signore è stato il mio aiuto”. “Cadere” significa cedere all'idolatria.
Egli sa che deve continuare la lotta, ma è fiducioso nel Signore: “Non morirò, ma resterò in vita e annuncerò le opere del Signore”. “Le opere del Signore” sono la liberazione dall'Egitto, l'alleanza del Sinai e la conquista della Terra Promessa.
Il solista, che è alla testa di un corteo chiede che gli vengano aperte le porte del tempio purificato dopo le profanazioni di Nicanore per “ringraziare il Signore”: “Apritemi le porte della giustizia...”.
“La pietra scartata dai costruttori”, è Giuda Maccabeo e i suoi, scartati da tanti di Israele che si erano fatti conquistare dai costumi ellenistici (1Mac 1,11s). Tale pietra per la forza di Dio era diventata “pietra d'angolo”, per Israele.
“Questo è il giorno che fatto il Signore”; il giorno della vittoria, del ripristino del culto nel tempio, è dovuto al Signore. Per noi cristiani quel giorno è il giorno della risurrezione; della vittoria di Cristo contro il male. Il corteo viene invitato a disporsi con ordine fino all'altare: “Formate il corteo con rami frondosi fino agli angoli dell'altare”. Il salmo si conclude ripetendo l'invito a celebrare la misericordia del Signore. Il salmo è messianico nel senso che esso profeticamente riguarda il Cristo: (Mt 21,42; Mc 12,10; Lc 20,17; At 4,11; Rm 9,23; 1Pt 2,7).
Commento tratto da “Cantico dei Cantici” di P.Paolo Berti
Dal libro dell’Apocalisse di S.Giovanni apostolo
Io,Giovanni, vostro fratello e compagno nella tribolazione, nel regno e nella perseveranza in Gesù, mi trovavo nell’isola chiamata Patmos a causa della parola di Dio e della testimonianza di Gesù.Fui preso dallo Spirito nel giorno del Signore e udii dietro di me una voce potente, come di tromba, che diceva: «Quello che vedi, scrivilo in un libro e mandalo alle sette Chiese».
Mi voltai per vedere la voce che parlava con me, e appena voltato vidi sette candelabri d’oro e, in mezzo ai candelabri, uno simile a un Figlio d’uomo, con un abito lungo fino ai piedi e cinto al petto con una fascia d’oro.
Appena lo vidi, caddi ai suoi piedi come morto. Ma egli, posando su di me la sua destra, disse: «Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo, e il Vivente.
Ero morto, ma ora vivo per sempre e ho le chiavi della morte e degli inferi. Scrivi dunque le cose che hai visto, quelle presenti e quelle che devono accadere in seguito».
Ap 1,9-11a, 12-13, 17-19
L’Apocalisse di Giovanni, ultimo libro del Nuovo Testamento, si compone di 22 capitoli, ed è uno dei testi più controversi e difficili da interpretare. Appartiene al gruppo di scritti neotestamentari noto come “letteratura giovannea“, in quanto redatta, intorno all’anno 95, verso la fine dell'impero di Domiziano, dai discepoli dell’apostolo che si sono ispirati al suo insegnamento.
I libri che hanno di più influenzato l'Apocalisse sono i libri dei Profeti Daniele, Ezechiele, Isaia, Zaccaria e poi anche il Libro dei Salmi. L'autore presenta sé stesso come Giovanni, esiliato a Patmos, isola dell‘Egeo, a circa 70 km da Efeso, a causa della parola di Dio. Secondo alcuni studiosi, la stesura definitiva del libro, anche se iniziata durante l'esilio dell’autore, sarebbe avvenuta ad Efeso.
Questo brano presenta la prima rivelazione avuta da Giovanni, durante un’estasi:
“Io,Giovanni, vostro fratello e compagno nella tribolazione, nel regno e nella perseveranza in Gesù, mi trovavo nell’isola chiamata Patmos a causa della parola di Dio e della testimonianza di Gesù.” Giovanni inizia la sua testimonianza dando alcune indicazioni su di sé, così sappiamo che scrive mentre si trova in esilio nell'isola di Patmos, presso Efeso. Si dichiara fratello e compagno dei cristiani a cui si rivolge in tre ambiti differenti. Il primo è la tribolazione, le persecuzioni che tutti loro stanno soffrendo. Il secondo è il regno, perché sa di essere unito nel regno di Dio con i suoi fratelli in Cristo. Terzo: la perseveranza nell'attesa di Gesù, perché egli aspetta con costanza e fede il Signore che tornerà e porterà tutto a perfezione.
“Fui preso dallo Spirito nel giorno del Signore e udii dietro di me una voce potente, come di tromba, che diceva: «Quello che vedi, scrivilo in un libro e mandalo alle sette Chiese»”.
Giovanni ha fatto un'esperienza straordinaria e qui la racconta. Il giorno del Signore è la domenica, e il fatto che lui lo evidenzia in modo così solenne ci deve far pensare che non sia una semplice indicazione di tempo, bensì un'importante intervento del Signore nella storia. Il giorno del Signore ci ricorda anche la Pasqua, il trionfo di Gesù sulla morte, e l'annuncio della Parusia, il ritorno glorioso di Cristo.
Giovanni proprio in questo giorno dunque viene rapito in estasi e lo Spirito di Dio lo mette in contatto con un mondo soprannaturale. Egli sente una voce “come di tromba”!. La tromba era lo strumento musicale più forte e nella sacra scrittura viene associato spesso alla manifestazione del divino. La voce lo invita a prendere nota di quello che vede e di comunicarlo alle sette chiese dell'Asia minore (il brano liturgico non riporta i versetti con il nome delle chiese).
“Mi voltai per vedere la voce che parlava con me, e appena voltato vidi sette candelabri d’oro”
Giovanni deve voltarsi, cioè deve lasciare la terra per rivolgersi a Dio. I sette candelabri d'oro ci ricordano il candelabro a sette bracci che nel Tempio bruciava senza interruzione davanti a Dio (Es 25,31-40).
Anche il profeta Zaccaria utilizzerà il simbolo del candelabro e Giovanni si ispira molto a questo profeta
“in mezzo ai candelabri, uno simile a un Figlio d’uomo, con un abito lungo fino ai piedi e cinto al petto con una fascia d’oro.”
Il Figlio d'uomo è una definizione che troviamo per la prima volta nel libro del profeta Daniele (7,13-14) e che è stata utilizzata dall'apocalittica ebraica per designare un essere misterioso, esecutore escatologico del disegno di Dio e titolare dell'autorità regale e giudiziaria. Gesù stesso ha utilizzato questo termine per indicare se stesso, quindi questo personaggio misterioso è Cristo che appare in tutta la sua gloria. La veste talare indica il sacerdozio e la cintura d'oro la regalità.
Il brano liturgico non riporta i versetti 14-16 in cui si dice che il personaggio aveva i capelli bianchi (che sono simbolo di eternità), era splendente come il sole, teneva in mano sette stelle e dalla bocca gli usciva come una spada acuminata (simbolo della Parola di Dio).
“Appena lo vidi, caddi ai suoi piedi come morto. Ma egli, posando su di me la sua destra, disse: «Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo e il Vivente. Ero morto, ma ora vivo per sempre e ho le chiavi della morte e degli inferi”.
Giovanni cade come morto e la sua reazione causata dalla paura è sempre quella dell'essere umano quando si trova al cospetto del divino. Ma il Signore lo esorta a non temere e lo richiama alla vita.
Egli è il Vivente, cioè vive per sempre. Non solo, ha anche potere sulla morte e sull‘oltretomba. Queste prerogative gli sono state date perché si è sottoposto alla morte di croce e con la sua resurrezione ha vinto la morte.
“Scrivi dunque le cose che hai visto, quelle presenti e quelle che devono accadere in seguito».”
Giovanni riceve dunque un mandato importante. Ha già visto qualcosa, vedrà altre cose riguardanti il presente e il futuro, egli deve scrivere tutto e comunicarlo ai suoi fratelli nella fede
Dal vangelo secondo Giovanni
La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore.
Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati». Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo».
Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!».
Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!». Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.
Gv 20, 19-31
In questo brano di Vangelo, Giovanni narra l’apparizione del risorto ai suoi discepoli il giorno stesso di Pasqua e la loro paura si trasforma in gioia.
“ La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!»”.
È il primo giorno dopo il sabato, inizio perciò di una settimana nuova, di un tempo nuovo. I discepoli sono spaventati, hanno paura dei Giudei e l’evangelista precisa che le porte erano chiuse. I discepoli spaventati sono rassicurati da Gesù quando presentandosi dice: “Pace a voi”. Non è un augurio di pace qualsiasi è la pace che li renderà in grado di superare lo scandalo della croce e ottenere la liberazione nella loro vita.
“Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco”. Questo particolare sta ad indicare la continuità tra il Gesù della croce e il Risorto. Giovanni sottolinea con forza che Gesù che appare e che sta in mezzo ai discepoli è un essere reale, è lo stesso Gesù appeso sulla croce, per questo mostra i segni del suo martirio. Giovanni è il solo a dare rilievo alla piaga del costato; già nella crocifissione l'aveva citata per il significato profondo del sangue e dell’acqua che ne uscirono (Gv 19,34-35).
“E i discepoli gioirono al vedere il Signore”. La gioia dei discepoli è una gioia incontenibile che non è possibile contenere ma che deve essere condivisa: il Cristo risorto è sorgente inesauribile di perdono e i discepoli dovranno annunciarla a tutti .
“Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi».” Il saluto pasquale ripetuto due volte: “Pace a voi” è il primo dono della Pasqua: è liberazione dall’angoscia della morte che turbava il cuore dei discepoli e li teneva prigionieri della paura..
“Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».”
Il soffio sui discepoli da parte di Gesù evoca sicuramente il gesto creativo di Dio. Nel libro della Genesi (2,7) troviamo questo alitare di Dio sull’uomo per cui l’uomo divenne un essere vivente. Questo gesto di soffiare di Gesù, è una promessa che si verificherà a Pentecoste (At 2,1-4), afferma la Sua divinità, indicando, nel dono dello Spirito, la vera vita a cui la Chiesa deve sempre attingere,
“Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo»”.
Tommaso non era rimasto con gli altri discepoli che, seppure intimoriti erano rimasti uniti. Non essendo con gli altri Tommaso non vede il Risorto e non accogliendo prontamente l’annuncio evangelico della risurrezione che gli viene dato, ricerca altre conferme perchè non riesce ancora a credere. Tommaso non è un curioso, perché Gesù non si manifesta ai curiosi, ma Gesù viene apposta per lui, a lui che si vuole rendere conto, che cerca qualcosa in più per dare ragione alla propria fede.
“Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!»”
Gesù è lo stesso della prima apparizione, entra a porte chiuse e presentandosi dice ancora: “Pace a voi”. Poi và da Tommaso e lo invita a costatare con le sue mani i segni della Sua passione, calma le sue apprensioni e lo invita a non essere incredulo, ma credente!»”
Tommaso tocca con mano che quel Gesù che ha patito ed è morto è quel medesimo Gesù che è risuscitato. La prova della sua risurrezione è quella di essere presente davanti a lui: quelle piaghe sono la prova della sua risurrezione. “Metti”: è un imperativo presente attivo, quasi un invito a continuare il gesto del mettere il dito-
“Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio”. Tommaso ora crede non per sentito dire e non teme di esagerare nella sua professione di fede. In nessun punto del Vangelo di Giovanni infatti c'è una dichiarazione di fede così ferma e chiara. Tra la prima professione del discepolo Natanaele (1,49) all'ultima di Tommaso è contenuto il cammino di fede della comunità.
Dobbiamo in un certo senso essere grati a Tommaso! Il mondo ha bisogno di cristiani come lui, di gente che è alla ricerca continua della verità, che dica: “Proprio perché ho messo il dito nelle piaghe posso dire che il Signore è risorto”. Non è certo facile toccare le piaghe delle sofferenze del mondo e dire: “Mio Signore e mio Dio”.
Per due volte Tommaso ripete l'aggettivo "Mio", che ha un significato unico straordinario, è un “mio” che non indica possesso geloso, è come quando noi diciamo in modo spontaneo “Gesù mio”, ma indica chi mi ha rubato il cuore, chi mi fa vivere, la parte migliore di me, la mia identità e la mia gioia. "Mio", come lo è il cuore e senza, non potrei vivere. "Mio", come lo è il respiro della mia anima.
Qualcosa di simile che esprime lo stesso concetto lo possiamo trovare in un’espressione di P. Pedro Arrupe, Preposito generale della Compagnia di Gesù dal 1965 al 1983, quando ha detto “Togliete Gesù Cristo dalla mia vita e tutto crollerà come un corpo al quale si togliessero lo scheletro, il cuore e la testa.” come dire: “Mio Signore e Mio Dio” senza di te non potrei vivere.
“Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto”.
Le parole che Gesù qui pronuncia non rappresentano certo una critica nei confronti di coloro che appartengono alla categoria di Tommaso, ma piuttosto esprimono un grande apprezzamento per tutti quelli che, pur non avendo avuto un’esperienza diretta di Gesù, hanno creduto sulla parola dei testimoni oculari.
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“Nel brano evangelico di oggi abbiamo ascoltato il racconto dell’incontro dell’apostolo Tommaso col Signore risorto: all’apostolo viene concesso di toccare le sue ferite e così egli lo riconosce – lo riconosce, al di là dell’identità umana del Gesù di Nazaret, nella sua vera e più profonda identità: "Mio Signore e mio Dio!“ .
Il Signore ha portato con sé le sue ferite nell’eternità. Egli è un Dio ferito; si è lasciato ferire dall’amore verso di noi. Le ferite sono per noi il segno che Egli ci comprende e che si lascia ferire dall’amore verso di noi. Queste sue ferite – come possiamo noi toccarle nella storia di questo nostro tempo! Egli, infatti, si lascia sempre di nuovo ferire per noi. Quale certezza della sua misericordia e quale consolazione esse significano per noi! E quale sicurezza ci danno circa quello che Egli è: "Mio Signore e mio Dio!" E come costituiscono per noi un dovere di lasciarci ferire a nostra volta per Lui!
Le misericordie di Dio ci accompagnano giorno per giorno. Basta che abbiamo il cuore vigilante per poterle percepire. Siamo troppo inclini ad avvertire solo la fatica quotidiana che a noi, come figli di Adamo, è stata imposta. Se però apriamo il nostro cuore, allora possiamo, pur immersi in essa, constatare continuamente anche quanto Dio sia buono con noi; come Egli pensi a noi proprio nelle piccole cose, aiutandoci così a raggiungere quelle grandi.”
Stralcio del discorso di Benedetto XVI nella II domenica dopo Pasqua 15 aprile 2007