Le letture liturgiche di questa domenica hanno come filo conduttore la vera conversione che operando in noi ci trasforma in creature nuove. Ci si apre alla carità quando si scopre dentro di noi il piacere di fare il bene senza mettere cautele e senza frontiere, senza limiti e senza fini personali.
Nella prima lettura, tratta dal libro del Deuteronomio,
si afferma che la parola del Signore è molto vicina, è nella bocca e nel cuore di ognuno. La fedeltà non è compito impossibile, ma alla portata di tutti. Vera saggezza per Israele è osservare i comandi e i decreti di Dio.
Nella seconda lettura, San Paolo nella suo Inno Cristologico inviato ai Colossesi esalta la figura di Cristo, il suo primato e la sua funzione nella creazione e nella ri-creazione dell’uomo.
Nel Vangelo, Luca con la parabola del buon samaritano mette a fuoco l’amore cristiano, che si esprime in azioni e in parole e ci insegna che non basta credere, occorre tradurre la fede in opere nella vita quotidiana, incominciando dalle piccole cose, dai piccoli gesti.
Dal libro del Deuteronòmio
Mosè parlò al popolo dicendo: «Obbedirai alla voce del Signore, tuo Dio, osservando i suoi comandi e i suoi decreti, scritti in questo libro della legge, e ti convertirai al Signore, tuo Dio, con tutto il cuore e con tutta l’anima.
Questo comando che oggi ti ordino non è troppo alto per te,né troppo lontano da te.
Non è nel cielo, perché tu dica: “Chi salirà per noi in cielo, per prendercelo e farcelo udire, affinché possiamo eseguirlo?”. Non è di là dal mare, perché tu dica: “Chi attraverserà per noi il mare, per prendercelo e farcelo udire, affinché possiamo eseguirlo?”. Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica».
Dt 30,10-14
Il libro del Deuteronomio, secondo la tradizione ebraica e molte confessioni religiose cristiane, sarebbe stato scritto da Mosè, ma molti esegeti moderni ritengono che tutto il Pentateuco sia in realtà una raccolta di vari scritti di epoche diverse, formatasi nel periodo post-esilico. Per quanto riguarda il Deuteronomio almeno la parte centrale, si pensa che sia stata composta da un movimento profetico sorto intorno all‘VIII-VII Sec. a.C., nel periodo della conquista assira, ed alla seguente riforma del re Giosia. Si presenta come il testamento di Mosè, la raccolta cioè delle ultime sue disposizioni che avrebbe espresso poco prima della sua morte, quando ormai il popolo, radunato nelle steppe di Moab, sta per iniziare il suo ingresso nella terra promessa. Questo testo fa parte del terzo e ultimo discorso attribuito a Mosè.
Il versetto con cui inizia il brano “Obbedirai alla voce del Signore, tuo Dio, osservando i suoi comandi e i suoi decreti, scritti in questo libro della legge, e ti convertirai al Signore, tuo Dio, con tutto il cuore e con tutta l’anima” è staccato dai seguenti e fa corpo con la parte precedente dove si afferma che qualunque possa essere la condotta di Israele, Dio accorderà sempre il Suo perdono se c’è un sincero pentimento. Dopo il versetto iniziale nel brano si prospetta un avvenire gioioso che avrà luogo quando Israele obbedirà a tutti i comandamenti del Signore e si convertirà a Lui con tutto il cuore e con tutta l’anima. Si apre così un’epoca in cui si manifesterà il vero significato della legge di Dio. A proposito di questa legge si dice: “Questo comando che oggi ti ordino non è troppo alto per te,né troppo lontano da te”. La legge di Dio non è dunque una realtà estranea all’uomo, difficile da capirsi e quindi imposta dall’esterno, anche se con l’autorità stessa di Dio.
Per chiarire il suo pensiero, l’autore nega che il comandamento di Dio si trovi in due luoghi lontani e inaccessibili, cioè nel cielo o al di là del mare. Per quanto riguarda il cielo egli afferma: “Non è nel cielo, perché tu dica: Chi salirà per noi in cielo, per prendercelo e farcelo udire, affinché possiamo eseguirlo?”. Se il comando di Dio fosse nell’alto dei cieli, difficilmente si troverebbe qualcuno capace di andarlo a prendere, e così sarebbe impossibile eseguirlo. Anche a proposito del mare egli dice: “Non è di là dal mare, perché tu dica: “Chi attraverserà per noi il mare, per prendercelo e farcelo udire, affinché possiamo eseguirlo?”. Dopo aver negato che il comandamento di Dio si trovi in luoghi lontani e inaccessibili, l’autore conclude: “Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica”. In questo versetto non si parla più di comandamento, ma di “parola”: questo termine era usato nella tradizione sinaitica per designare i singoli comandamenti del decalogo (Es 20,1). Qui invece indica l’unico comandamento di cui solo la circoncisione del cuore permette l’osservanza, cioè l’amore di Dio.
In realtà non si tratta di un comandamento in senso proprio, ma di un’ispirazione che viene da Dio e si fa sentire nel profondo del cuore, in modo tale che il credente sia portato a osservarla spontaneamente.
Salmo 18 - I precetti del Signore fanno gioire il cuore.
La legge del Signore è perfetta,
rinfranca l’anima;
la testimonianza del Signore è stabile,
rende saggio il semplice.
I precetti del Signore sono retti,
fanno gioire il cuore;
il comando del Signore è limpido,
illumina gli occhi.
Il timore del Signore è puro,
rimane per sempre;
i giudizi del Signore sono fedeli,
sono tutti giusti.
Più preziosi dell’oro,
di molto oro fino,
più dolci del miele
e di un favo stillante.
Il salmista ha sperimentato nella sua vita quanto sia giusta la legge del Signore, tanto che fa gioire il cuore.
La legge, i suoi comandi, sono limpidi, perché non oscurano gli occhi portandoli a veder in modo malvagio le cose, ma li liberano dalle oscurità per dare loro la capacità di un luminoso vedere la bellezza delle cose,che inneggiano al Creatore e servono l’uomo.
“Il timore del Signore è puro”, perché non è come quello di chi teme la punizione perché colpevole, ma è il timore puro di chi teme di giungere a rattristare Dio con la disobbedienza alla legge d’amore verso lui e verso gli altri.
Il salmista comincia a focalizzarsi sull’effetto della legge su di lui; di lui che è piccolo, ma che è istruito dai giudizi di Dio, che sono contenuti nella legge, poiché Dio giudica gli uomini con quella legge.
Il salmista è consapevole di avere tante mancanze di cui non si rende pienamente conto: le “inavvertenze”. Di queste chiede a Dio perdono. Egli, infatti, anche se osserva la legge non reputa per niente di osservarla perfettamente e sa che sta nell’orgoglio la ragione di una scarsa osservanza. Orgoglio che se non dominato conduce l’uomo al grande peccato, cioè al peccato di una grande e palese disobbedienza alla legge.
Per ultimo, il salmista, chiede a Dio che ascolti, nella sua bontà misericordiosa, la sua preghiera che sgorga da un cuore retto e non doppio, consapevole di non poter nascondere nulla a Dio: “Davanti a te i pensieri del mio cuore”.
Infine, il salmista, sigilla la sua preghiera dicendo: “Signore, mia roccia e mio redentore”. “Mia rupe”, perché è la sua difesa dai suoi nemici (I nemici sono innanzi tutto i demoni Cf. Ef 6,12); ed è “mio redentore”, perché con la sua legge e la sua grazia lo ha strappato dal buio dell’ignoranza e del peccato.
Commento di P.Paolo Berti
Dalla lettera di S.Paolo apostolo ai Colossési
Cristo Gesù è immagine del Dio invisibile,
primogenito di tutta la creazione,
perché in lui furono create tutte le cose
nei cieli e sulla terra,
quelle visibili e quelle invisibili:
Troni, Dominazioni, Principati e Potenze.
Tutte le cose sono state create
per mezzo di lui e in vista di lui.
Egli è prima di tutte le cose e tutte in lui sussistono.
Egli è anche il capo del corpo, della Chiesa.
Egli è principio,primogenito di quelli che risorgono dai morti,
perché sia lui ad avere il primato su tutte le cose.
È piaciuto infatti a Dio che abiti in lui tutta la pienezza
e che per mezzo di lui e in vista di lui
siano riconciliate tutte le cose,
avendo pacificato con il sangue della sua croce
sia le cose che stanno sulla terra,
sia quelle che stanno nei cieli.
Col 1,15-20
La Lettera ai Colossesi, è stata scritta da S.Paolo durante la sua prigionia a Roma, attorno al 62; (altri esperti sostengono che l’autore della lettera sia un suo discepolo e che l’abbia scritta dopo la morte dell’Apostolo (64-67), verso fine I secolo). Probabilmente Paolo non si era mai recato a Colosse, che era allora una piccola città dell’entroterra dell’Asia minore (circa 124 km a nord di Efeso) e il Vangelo era stato portato lì da alcuni missionari da Efeso, fra questi Èpafra, al quale Paolo dà la sua approvazione all’inizio della lettera (1,7).
La lettera è composta da 4 capitoli contenenti meditazioni teologiche su Gesù, la Chiesa, la salvezza per grazia, ed infine alcune , esortazioni di condotta morale.
Il brano riporta il celebre inno cristologico, che inizia con una ampia formula di ringraziamento, poi Paolo esprime mediante un dittico il primato di Cristo:
Nell’ordine della creazione naturale:
Cristo Gesù è immagine del Dio invisibile, primogenito di tutta la creazione, perché in lui furono create tutte le cose nei cieli e sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili: … Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte in lui sussistono.
Poi nell’ordine della “ricreazione” soprannaturale, cioè dal punto di vista salvifico
Egli è anche il capo del corpo, della Chiesa. Egli è principio, primogenito di quelli che risorgono dai morti, perché sia lui ad avere il primato su tutte le cose. È piaciuto infatti a Dio che abiti in lui tutta la pienezza e che per mezzo di lui e in vista di lui siano riconciliate tutte le cose, avendo pacificato con il sangue della sua croce sia le cose che stanno sulla terra, sia quelle che stanno nei cieli.
Il soggetto è Cristo preesistente, sempre però considerato nella persona storica ed unica del Figlio di Dio fatto uomo. E’ proprio questo essere concreto ed incarnato che è detto immagine di Dio, perchè riflette in una natura umana e visibile l’immagine di Dio-invisibile. E’ questo Cristo incarnato che può essere detto primogenito di tutta la creazione e che gode di un primato unico . Nell’ordine poi della salvezza, egli può essere considerato il capo della Chiesa, perchè è il primogenito di coloro che risuscitano dai morti, ed è Colui che ha unito a sé tutte le cose.
Dal vangelo secondo Luca
In quel tempo, un dottore della Legge si alzò per mettere alla prova Gesù e chiese: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?». Costui rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso». Gli disse: «Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai».
Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è mio prossimo?». Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gèrico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. Anche un levìta, giunto in quel luogo, vide e passò oltre.
Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: “Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno”. Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?». Quello rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa’ così».
Lc 10 , 25-37
La parabola molto conosciuta, quella del Buon Samaritano, l’evangelista Luca la inserisce nel cosiddetto capitolo missionario che inizia con Gesù che designa altri settantadue discepoli e li manda in missione. Chi segue veramente Cristo deve sentirsi missionario del suo Vangelo, ed essere missionari significa anche farsi samaritani per gli altri.
Il brano inizia dalla domanda avanzata da un dottore della Legge, che per mettere alla prova Gesù chiese: : “Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?”.
Il dottore con questa domanda voleva controllare se Gesù impartisse insegnamenti contrari alla legge e alla tradizione e trarne motivo di accusa. Gesù, ancora una volta, non cade nel tranello e risponde:.
“Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?”. Gesù sa che colui che pone la domanda è un esperto della legge, che conosce benissimo la risposta. Ecco perché, facendo ricorso ad una dialettica antica, risponde ponendo a sua volta due domande, lasciando così pronunciare la risposta al suo interlocutore. Le domande, poste da Gesù, sembrano simili, ma non lo sono; una cosa è “Cosa c’è scritto nella legge” e un’altra è “Come leggi”, cioè come si interpreta quello che c’è scritto.. Lo scriba rispose: : "Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore... e il prossimo tuo come te stesso“. Lo scriba risponde citando il cosiddetto Shemà Israel…, professione di fede del pio israelita. La risposta mette insieme versetti del Deuteronomio (6,5) e del Levitico (19,18).. Come si può notare, Luca evita di ripetere il verbo amerai, questo perché si tratta di un solo precetto che se anche porta verso obiettivi distinti questi non diversi. Amare Dio e amare il prossimo è la stessa cosa; l’uno non è possibile senza l’altro.
Gesù allora disse: “Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai” condividendo la risposta del dottore.
“Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è mio prossimo?”.
Il dottore poteva essere soddisfatto, ma non arrende e pone una nuova domanda sempre per mettere Gesù in difficoltà. Il problema che assilla questo esperto della legge è capire chi è il prossimo. In quel tempo c’era una discussione intorno a chi dovesse essere considerato, per un israelita, suo prossimo: i più generosi arrivavano a considerare prossimo i connazionali, i parenti e i proseliti; altri restringevano il campo, escludendo il nemico personale, chi non apparteneva al proprio partito e la pensava diversamente, come facevano i farisei. Quindi la domanda era importante. Gesù risponde raccontando la parabola:
“Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gèrico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto ” Di quest’uomo sappiamo che stava tornando da Gerusalemme ed era diretto a Gerico. Si può notare che sta facendo un cammino a ritroso rispetto a Gesù, che sta andando a Gerusalemme (Lc 9,51). Gerico è la città più bassa della terra, è ad oltre 300 metri sotto il livello del mare, quindi indica un luogo di morte, va controcorrente rispetto a Cristo, ma addirittura si allontana anche da Gerusalemme, luogo della presenza di Dio.
L’immagine di quest’uomo che scende da Gerusalemme a Gerico, che giace mezzo morto pieno di ferite, a cui viene portato via tutto, è l’emblema dell’isolamento del dolore. Egli rimane solo con il peso insostenibile del male.
“Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. Anche un levìta, giunto in quel luogo, vide e passò oltre”. Il sacerdote è il custode della Legge e il levita è l’addetto al culto. Questi lo vedono e gli girano intorno e continuano per la loro strada, con totale indifferenza; vedono, ma non provvedono.
Alla luce di quanto era contemplato nei loro regolamenti si può dire che il sacerdote e il levita pensano che l’uomo sia morto e non potevano toccare un cadavere, altrimenti si sarebbero contaminati; stavano andando a prestare il loro culto nel tempio e quindi dovevano sottrarsi all’impurità. Essi, quindi preferiscono il culto, il loro servizio religioso, all’esercizio della carità. Questi hanno paura di contaminarsi per questo non si compromettono!
“Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione.”
I samaritani non appartenevano del tutto al popolo di Dio: addirittura erano considerati dai giudei quasi eretici; eppure proprio uno di loro riconosce l’uomo nel bisogno e si china su di lui. Egli dimostra un amore spontaneo e disinteressato, tenero e servizievole, personale ed efficace. Il samaritano, come il sacerdote e il levita, vede, ma a differenza loro, si commosse.
“Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura”
Il samaritano non solo va verso l’uomo, lo vede e si commuove, ma anche si china su di lui per curarlo, versando vino per purificare le ferite e olio per lenirle. Egli si sporca le mani, non ha paura di contaminarsi.
Il samaritano che si china è immagine di Dio che si china sulle ferite dell’uomo. Dio in Gesù Cristo si è chinato, cioè è sceso al nostro livello, ha svuotato completamente se stesso assumendo una condizione di schiavo diventando simile agli uomini (Fil 2,7).
“lo portò in un albergo e si prese cura di lui” La locanda rappresenta la Chiesa, dove Gesù vuole riunire quanti sono feriti dalla vita. È bello pensare la Chiesa, come dice Papa Francesco, come ad un ospedale da campo dopo una battaglia in cui è' inutile chiedere a un ferito grave se ha il colesterolo e gli zuccheri alti! Si devono curare le sue ferite. Poi potremo parlare di tutto il resto" ”. Si nota che il Samaritano non rivolge alcuna parola al mal capitato; nemmeno chiede il perché di quello che è successo e questo ci fa capire che l’amore non ha bisogno di esprimersi con le parole; che il dolore non chiede ragioni. Il silenzio del buon Samaritano è un amore che non ha bisogno di parole!
“Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: “Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno”. I due denari impegnati dal samaritano rappresentano ciò che serve per vivere bene in attesa che il Signore ritorni. I Padri della Chiesa vedono ciò che Gesù lascia per la nostra salvezza: Sacra Scrittura e i Sacramenti; questi sono strumenti di grazia che aiutano nel cammino verso di Lui.
Gesù termina l’esposizione della sua parabola con una domanda: “Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?”.
Gesù ha capovolto, dunque, la domanda iniziale: la questione vera non è più “«Chi è il mio prossimo?”, ma “A chi posso farmi prossimo?”. Sapere chi è il prossimo, senza farsi prossimo non serve a molto. Questo il grande insegnamento finale di Gesù!
“Quello rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa’ così”
In questo caso la parola “compassione” racchiude due concetti propri di Dio: fedeltà e solidarietà. Dio è fedele all’uomo quando è a lui solidale, quando cioè viene in aiuto alle sue esigenze. È questa la compassione che Gesù vuole: fedeltà a Dio è solidarietà verso i bisognosi.
Lo scriba questo l’ha compreso bene! Gesù quindi conferma la sua risposta e lo invita a fare altrettanto.
Solo chi soffre con chi soffre vive la carità; le ferite della vita non cercano spiegazione ma condivisione e compassione ed è questa compassione che Dio ci ha rivelato in Cristo.
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“Oggi la liturgia ci propone la parabola detta del “buon samaritano”, tratta dal Vangelo di Luca . Essa, nel suo racconto semplice e stimolante, indica uno stile di vita, il cui baricentro non siamo noi stessi, ma gli altri, con le loro difficoltà, che incontriamo sul nostro cammino e che ci interpellano. Gli altri ci interpellano. E quando gli altri non ci interpellano, qualcosa lì non funziona; qualcosa in quel cuore non è cristiano. Gesù usa questa parabola nel dialogo con un dottore della legge, a proposito del duplice comandamento che permette di entrare nella vita eterna: amare Dio con tutto il cuore e il prossimo come sé stessi.. “Sì – replica quel dottore della legge – ma, dimmi, chi è il mio prossimo?”.
Anche noi possiamo porci questa domanda: chi è il mio prossimo? Chi devo amare come me stesso? I miei parenti? I miei amici? I miei connazionali? Quelli della mia stessa religione?... Chi è il mio prossimo?
E Gesù risponde con questa parabola. Un uomo, lungo la strada da Gerusalemme a Gerico, è stato assalito dai briganti, malmenato e abbandonato. Per quella strada passano prima un sacerdote e poi un levita, i quali, pur vedendo l’uomo ferito, non si fermano e tirano dritto. Passa poi un samaritano, cioè un abitante della Samaria, e come tale disprezzato dai giudei perché non osservante della vera religione; e invece lui, proprio lui, quando vide quel povero sventurato, «ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite […], lo portò in un albergo e si prese cura di lui» ; e il giorno dopo lo affidò alle cure dell’albergatore, pagò per lui e disse che avrebbe pagato anche tutto il resto.
A questo punto Gesù si rivolge al dottore della legge e gli chiede: «Chi di questi tre – il sacerdote, il levita, il samaritano – ti sembra sia stato il prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?». E quello naturalmente - perché era intelligente - risponde: «Chi ha avuto compassione di lui» . In questo modo Gesù ha ribaltato completamente la prospettiva iniziale del dottore della legge – e anche la nostra! –: non devo catalogare gli altri per decidere chi è il mio prossimo e chi non lo è. Dipende da me essere o non essere prossimo - la decisione è mia -, dipende da me essere o non essere prossimo della persona che incontro e che ha bisogno di aiuto, anche se estranea o magari ostile. E Gesù conclude: «Va’ e anche tu fa’ così» . Bella lezione! E lo ripete a ciascuno di noi: «Va’ e anche tu fa’ così», fatti prossimo del fratello e della sorella che vedi in difficoltà. “Va’ e anche tu fa’ così”. Fare opere buone, non solo dire parole che vanno al vento. Mi viene in mente quella canzone: “Parole, parole, parole”. No. Fare, fare. E mediante le opere buone che compiamo con amore e con gioia verso il prossimo, la nostra fede germoglia e porta frutto. Domandiamoci – ognuno di noi risponda nel proprio cuore – domandiamoci: la nostra fede è feconda? La nostra fede produce opere buone? Oppure è piuttosto sterile, e quindi più morta che viva? Mi faccio prossimo o semplicemente passo accanto? Sono di quelli che selezionano la gente secondo il proprio piacere? Queste domande è bene farcele e farcele spesso, perché alla fine saremo giudicati sulle opere di misericordia. Il Signore potrà dirci: Ma tu, ti ricordi quella volta sulla strada da Gerusalemme a Gerico? Quell’uomo mezzo morto ero io. Ti ricordi? Quel bambino affamato ero io. Ti ricordi? Quel migrante che tanti vogliono cacciare via ero io. Quei nonni soli, abbandonati nelle case di riposo, ero io. Quell’ammalato solo in ospedale, che nessuno va a trovare, ero io.
Ci aiuti la Vergine Maria a camminare sulla via dell’amore, amore generoso verso gli altri, la via del buon samaritano.
Ci aiuti a vivere il comandamento principale che Cristo ci ha lasciato. E’ questa la strada per entrare nella vita eterna.”
Papa Francesco Parte dell’ Angelus del 3 luglio 2016