Le letture liturgiche di questa domenica hanno ancora come tema la preghiera, ma la prospettiva è differente. Lo sguardo è proiettato sul modo di pregare; modo che diventa determinante nel rapporto con Dio, con se stessi e con gli altri.
Nella prima lettura, tratta dal Libro del Siracide, si afferma che la preghiera umile e perseverante di chi si riconosce piccolo e povero, fa dolce violenza al cuore di Dio: “Il Signore è giudice e per lui non c’è preferenza di persone”.
Nella seconda lettura, l’apostolo Paolo terminando la sua seconda lettera a Timoteo, vede la sua esistenza come una “offerta”, simile cioè al vino o all’olio versati sulle vittime destinate all’olocausto. Egli si offre a Dio convinto di aver adempiuto la sua missione, e attende con fiducia il premio.
Nel Vangelo di Luca, la parabola del fariseo e del pubblicano nel tempio insegna il giusto modo di pregare. Nella vita possiamo dire che siamo a volte un po’ farisei e un po’ pubblicani e su questo P.Cantalamessa ha giustamente commentato: “Se proprio dobbiamo rassegnarci ad essere un po’ l’uno e un po’ l’altro, allora che sia almeno il rovescio: farisei nella vita e pubblicani al tempio! Come il fariseo, cerchiamo nella vita di ogni giorno, di non essere ladri, ingiusti e adulteri, di osservare meglio i comandamenti di Dio; come il pubblicano, riconosciamo quando siamo al cospetto di Dio, che quel poco che abbiamo fatto è tutto dono suo e imploriamo, per noi e per tutti, la sua misericordia.”
Dal libro del Siracide
Il Signore è giudice e per lui non c’è preferenza di persone.
Non è parziale a danno del povero e ascolta la preghiera dell'oppresso.
Non trascura la supplica dell'orfano né la vedova, quando si sfoga nel lamento.
Chi la soccorre è accolto con benevolenza, la sua preghiera arriva fino alle nubi.
La preghiera del povero attraversa le nubi, né si quieta finché non sia arrivata;
non desiste finché l'Altissimo non sia intervenuto,
e abbia reso soddisfazione ai giustie ristabilito l'equità.
Sir 35,15b – 17.20-22a
Il libro del Siracide è un libro un po’ particolare perché fa parte della Bibbia cristiana, ma non figura nel canone ebraico. Si tratta di un testo deuterocanonico che, assieme ai libri di Rut, Tobia, Maccabei I e II, Giuditta, Sapienza e le parti greche del libro di Ester e di Daniele, è considerato ispirato nella tradizione cattolica e ortodossa, per cui è stato accolto dalla Chiesa Cattolica, mentre la tradizione protestante lo considera apocrifo . È stato scritto originariamente in ebraico a Gerusalemme attorno al 196-175 a.C. da Yehoshua ben Sira (tradotto "Gesù figlio di Sirach", da qui il nome del libro "Siracide"), un giudeo di Gerusalemme, in seguito fu tradotto in greco dal nipote poco dopo il 132 a.C. .
È composto da 51 capitoli con vari detti di genere sapienziale, sintesi della religione ebraica tradizionale e della sapienza comune. Benché non sia stato accolto nel canone ebraico, il Siracide è citato frequentemente negli scritti rabbinici; nel Nuovo Testamento la lettera di Giacomo vi attinge molte espressioni, ed anche la saggezza popolare fa proprie alcune massime.
Nel prologo l'anonimo nipote dell'autore spiega che tradusse il libro quando si trovava a soggiornare ad Alessandria d’Egitto, nel 38° anno del regno Tolomeo VIII, che regnò in Egitto a più riprese a partire dal 132 a.C..
In questo brano la prima parte riporta una massima che riguarda il potere del giudizio di Dio: Il Signore è giudice e per lui non c’è preferenza di persone. In quanto giudice Dio non fa preferenza di persone e questa imparzialità si manifesta soprattutto nel rapporto con le categorie più disagiate, verso le quali è facile commettere soprusi: Non è parziale a danno del povero e ascolta la preghiera dell'oppresso. Non trascura la supplica dell'orfano né la vedova, quando si sfoga nel lamento. Nella categoria degli sfruttati ci sono in primo piano le vedove e gli orfani e nei loro confronti è facile che i giudici umani commettano ingiustizie. Ma Dio è dalla loro parte e li difende nei confronti di coloro che li opprimono.
Dopo le massime riguardanti Dio come giudice, Siracide presenta l’efficacia della preghiera rivolta a Dio : Chi la soccorre è accolto con benevolenza, la sua preghiera arriva fino alle nubi. La preghiera del povero attraversa le nubi, né si quieta finché non sia arrivata; non desiste finché l'Altissimo non sia intervenuto, e abbia reso soddisfazione ai giusti e ristabilito l'equità. È soprattutto la preghiera di coloro che sono discriminati e oppressi che giunge direttamente a Dio ed è talmente insistente da provocare il Suo intervento. Il povero è qui identificato con il giusto, cioè la persona innocente, quello che non si è macchiato di soprusi e ingiustizie, per cui Dio non lo abbandona a se stesso, ma interviene per fargli giustizia.
I fatti che ogni giorno accadono sembrano smentire questa affermazione che può sembrare anche ingenua, tuttavia bisogna riconoscere che, pur credendo che Dio agisce potentemente nelle vicende di questo mondo, noi non possiamo umanamente conoscere i sistemi che usa quando interviene. Solo in base alla fede si può affermare che Dio è dalla parte degli ultimi e lo si può dimostrare nella misura in cui noi siamo disponibili a impegnarci fino in fondo in loro favore. L’amore di Dio verso gli ultimi si manifesta soprattutto nel comportamento concreto di quanti credono in Lui.
Salmo 33 - Il povero grida e il Signore lo ascolta
Benedirò il Signore in ogni tempo,
sulla mia bocca sempre la sua lode.
Io mi glorio nel Signore,
I poveri ascoltino e si rallegrino.
Il volto del Signore contro i malfattori
per eliminarne dalla terra il ricordo.
Gridano e il Signore li ascolta,
li libera da tutte le loro angosce.
Il Signore è vicino a chi ha il cuore spezzato,
egli salva gli spiriti affranti.
Il Signore riscatta la vita dei suoi servi,
non sarà condannato chi in lui si rifugia.
L’autore del salmo, ricco dell’esperienza di Dio indirizza il suo sapere ai poveri, agli umili, e in particolare ai suoi figli. Egli afferma che sempre benedirà il Signore e che sempre si glorierà di lui. Egli chiede di venire ascoltato e invita gli umili ad unirsi con lui nel celebrare il Signore: “Magnificate con me il Signore, esaltiamo insieme il suo nome”.
Egli comunica la sua storia dicendo che ha cercato il Signore e ne ha ricevuto risposta cosicché “da ogni timore mi ha liberato”. Per questo invita gli umili a guardare con fiducia a Dio, e dice: “sarete raggianti”. “Questo povero”, cioè il vero povero, quello che è umile, è ascoltato dal Signore e l’angelo del Signore lo protegge dagli assalti dei nemici: “L’angelo del Signore si accampa attorno a quelli che lo temono (Dio), e li libera”. L’angelo del Signore è con tutta probabilità l’angelo protettore del popolo di Dio, chiamato così per antonomasia; sarebbe l’arcangelo Michele (Cf. Es 14,19; 23,23; 32,34; Nm 22,22; Dn 10,21; 12,1).
Il salmista continua la sua composizione invitando ad amare Dio dal quale procede gioia e pace: “Gustate e vedete com'è buono il Signore, beato l’uomo che in lui si rifugia”.
L’orante moltiplica i suoi inviti al bene: “Sta lontano dal male e fa' il bene, cerca e persegui la pace”. Cercala, cioè trovala in Dio, e perseguila comportandoti rettamente con gli altri.
Il salmista non nasconde che il giusto è raggiunto da molti mali, ma dice che “da tutti lo libera il Signore”. Anche dalle angosce della morte, poiché “custodisce tutte le tue ossa, neppure uno sarà spezzato”. Queste parole sono avverate nel Cristo, come dice il Vangelo di Giovanni (19,16). Per noi vanno interpretate nel senso che se anche gli empi possono prevalere fino ad uccidere il giusto e farne scempio, le sue ossa sono al riparo perché risorgeranno.
Commento ” di P.Paolo Berti
Dal seconda lettera di S.Paolo apostolo a Timoteo
Figlio mio, io sto già per essere versato in offerta ed è giunto il momento che io lasci questa vita. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta soltanto la corona di giustizia che il Signore, il giudice giusto, mi consegnerà in quel giorno; non solo a me, ma anche a tutti coloro che hanno atteso con amore la sua manifestazione.
Nella mia prima difesa in tribunale nessuno mi ha assistito; tutti mi hanno abbandonato. Nei loro confronti, non se ne tenga conto. Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché io potessi portare a compimento l’annuncio del Vangelo e tutte le genti lo ascoltassero: e così fui liberato dalla bocca del leone.
Il Signore mi libererà da ogni male e mi porterà in salvo nei cieli, nel suo regno; a lui la gloria nei secoli dei secoli. Amen.
2Tm 4,6-8, 16-18
Paolo nel terminare la sua lettera a Timoteo volge lo sguardo al passato: io sto già per essere versato in offerta ed è giunto il momento che io lasci questa vita. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede. Riguardo al suo passato, Paolo descrive la sua vita apostolica come una battaglia e come una competizione sportiva paragonando l'impegno e il rischio della sua missione alle gare nello stadio. Lo sguardo si volge poi al futuro, con il ricorso nuovamente alle immagini delle gare sportive: Ora mi resta soltanto la corona di giustizia che il Signore, il giudice giusto, mi consegnerà in quel giorno; non solo a me, ma anche a tutti coloro che hanno atteso con amore la sua manifestazione. Per l’ambiente greco al vincitore di una gara spettava la corona di alloro, premio carico di significati come onore, gioia, immortalità e trionfo. Alla corona qui invece segue “di giustizia”: non si tratta dunque di un riconoscimento umano, ma di quello che viene da Dio.
Nella seconda parte del brano Paolo ritorna sulla sua situazione attuale:. Nella mia prima difesa in tribunale nessuno mi ha assistito; tutti mi hanno abbandonato. Nei loro confronti, non se ne tenga conto. In questo sfogo si sente il rammarico per l’abbandono da parte dei suoi, ma verso di loro Paolo ha parole di perdono. È difficile sapere se si tratta di un ricordo storico o del semplice motivo dell’abbandono dai suoi amici, come era stato per Gesù. La solitudine di Paolo però è riempita dalla vicinanza del Signore: Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché io potessi portare a compimento l’annuncio del Vangelo e tutte le genti lo ascoltassero: e così fui liberato dalla bocca del leone. Paolo è consapevole che solo con la grazia di Dio ha potuto portare a termine la sua missione. Questo risultato è espresso con l’immagine della lotta vittoriosa dei gladiatori contro i leoni nel circo. Non si tratta però di una vittoria umana, bensì del successo dell’opera di evangelizzazione, che può benissimo coesistere con l’imminente martirio. L’esperienza del conforto che gli viene dal Signore apre infine il cuore alla speranza: “Il Signore mi libererà da ogni male e mi porterà in salvo nei cieli, nel suo regno; a lui la gloria nei secoli dei secoli. Amen”. La liberazione a cui tende l’Apostolo non è più quella che si attua in questo mondo, ma quella che consiste nell’ingresso nel regno dei cieli, quando l’anima si ricongiunge definitivamente con Dio.
Dal vangelo secondo Luca
In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di esser giusti e disprezzavano gli altri:
“Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l'altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: O Dio, ti ringrazio perchè non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte la settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore.
Io vi dico: questi a differenza dell'altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato e chi invece si umilia sarà esaltato”.
Lc 18, 9-14
In questo brano del Vangelo di Luca, troviamo la celebre parabola, del fariseo e del pubblicano, che ancora una volta è solo l’evangelista Luca a riferirci e che idealmente continua la lezione sulla preghiera introdotta da Gesù la scorsa domenica con la parabola del giudice iniquo e della vedova.
Luca introduce il brano precisando che:
“Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di esser giusti e disprezzavano gli altri:” E’ chiaro il riferimento ai farisei, i quali si distinguevano per un’osservanza rigorosa dei comandamenti e si tenevano separati dagli altri. Tra i più discriminati erano i pubblicani, i quali erano oggetto di critica in modo particolare perché erano a contatto con i pagani e per questo venivano considerati impuri. Il racconto ci presenta subito i personaggi appartenenti a queste due categorie:
“Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l'altro pubblicano”
Sono ambedue giudei praticanti, che si recano regolarmente al tempio per pregare.
Viene per primo descritto l’atteggiamento del fariseo: “Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte la settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”.
Il modo di fare del fariseo in apparenza è normale, sia per la posizione del corpo, sia per il contenuto della preghiera. Comincia con il ringraziamento: “O Dio ti ringrazio ……” ma continua poi con l’elenco delle proprie buone azioni, che sono anche più numerose di quanto prescriveva la stessa legge ebraica. Era prescritto infatti il digiuno una volta l’anno, ma lui digiunava ben due volte la settimana; la decima doveva pagarsi solo per i prodotti più importanti della terra, ma lui la paga addirittura per tutti senza distinzione!.
Il suo ringraziamento però è in realtà una esaltazione di se stesso e disprezzo degli altri uomini, che considera come “ladri, ingiusti e adulteri”; la sua arroganza arriva al punto di citare espressamente tra costoro il pubblicano che era salito con lui al tempio..
A distanza dal fariseo e dalle prime file degli uomini ‘buoni e pii’, in fondo al tempio, il pubblicano mormora la sua preghiera. La sua condizione di peccatore lo rende come colui che non può guardare il cielo, secondo l’uso comune della preghiera israelita, perché il peso dei peccati sembra schiacciarlo.
La sua preghiera è silenziosa e molto breve: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”.
Si può notare che Egli non promette, come Zaccheo (Lc 19,8) di cambiar vita, non promette proprio nulla al Signore, però a differenza del Fariseo, che può elencare i suoi meriti, egli non elenca le sue colpe, non passa in rassegna le sue azioni. A differenza del fariseo il suo pensiero è rivolto solo a Dio, non agli altri, tanto è vero che non si accorge neanche della presenza del fariseo che è ben in vista, in piedi nelle prime file del tempio.
Il racconto termina con un commento di Gesù:
“Io vi dico: questi a differenza dell'altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato e chi invece si umilia sarà esaltato”.
E’ evidente la provocazione che Gesù fa al perbenismo dei suoi ascoltatori perché, come modello degno di esempio, egli presenta un individuo considerato spregevole nell’opinione pubblica.
Gesù comunque non vuole certo dire che tutti i farisei e tutti i pubblicani siano come i due protagonisti della parabola, ma presenta costoro come rappresentanti tipici della categoria a cui appartengono.
Nella parabola il fariseo rispecchia una religiosità distorta, perché crede di potersi vantare dinanzi a Dio per la sua osservanza scrupolosa della legge, e il suo ringraziamento è solo apparente.
Il pubblicano rappresenta invece l’uomo che si mette di fronte a Dio nella sua situazione reale di creatura limitata e peccatrice, si abbandona a Lui e attende unicamente da Lui la salvezza.
Questa parabola ci riguarda molto da vicino perché dobbiamo riconoscere che abbiamo in noi un po’ dell’atteggiamento del fariseo e a volte del pubblicano, ma se proprio dobbiamo rassegnarci ad essere un po’ l’uno e un po’ l’altro, come commentava bene P.Cantalamessa, cerchiamo però di essere farisei nella vita e pubblicani al tempio! Come il fariseo cerchiamo nella vita di ogni giorno, di non essere ladri, ingiusti, ed adulteri, come il pubblicano, quando siamo al cospetto di Dio, riconosciamoci peccatori e che quel poco che abbiamo fatto è tutto dono suo.
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“… Entrambi i protagonisti di questa parabola salgono al tempio per pregare, ma agiscono in modi molto differenti, ottenendo risultati opposti. Il fariseo prega «stando in piedi» e usa molte parole. La sua è, sì, una preghiera di ringraziamento rivolta a Dio, ma in realtà è uno sfoggio dei propri meriti, con senso di superiorità verso gli «altri uomini», qualificati come «ladri, ingiusti, adulteri», come, ad esempio – e segnala l’altro che era lì – «questo pubblicano». Ma proprio qui è il problema: quel fariseo prega Dio, ma in verità guarda a sé stesso, prega se stesso invece di avere davanti gli occhi il Signore, ha uno specchio…. Insomma, più che pregare, il fariseo si compiace della propria osservanza dei precetti. … Insomma, quel fariseo, che si ritiene giusto, trascura il comandamento più importante: l’amore per Dio e per il prossimo. Non basta dunque domandarci quanto preghiamo, dobbiamo anche chiederci come preghiamo, o meglio, com’è il nostro cuore: è importante esaminarlo per valutare i pensieri, i sentimenti, ed estirpare arroganza e ipocrisia. Ma, io domando: si può pregare con arroganza? No. Si può pregare con ipocrisia? No, Dobbiamo pregare davanti a Dio come siamo, ma questo pregava con arroganza e ipocrisia …
Il pubblicano invece si presenta nel tempio con animo umile, con animo pentito: «fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto». La sua preghiera è brevissima, non è così lunga come quella del fariseo: «O Dio, abbi pietà di me peccatore». … Infatti, gli esattori delle tasse – detti appunto, “pubblicani” – erano considerati persone impure, sottomesse ai dominatori stranieri, erano malvisti dalla gente e in genere associati ai “peccatori”…. I gesti di penitenza e le poche e semplici parole del pubblicano testimoniano la sua consapevolezza circa la sua misera condizione. La sua preghiera è essenziale. Agisce da umile, sicuro solo di essere un peccatore bisognoso di pietà. Se il fariseo non chiedeva nulla perché aveva già tutto, il pubblicano può solo mendicare la misericordia di Dio. …
Gesù conclude la parabola con una sentenza: «Io vi dico: questi – cioè il pubblicano –, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato». …La superbia compromette ogni azione buona, svuota la preghiera, allontana da Dio e dagli altri. Se Dio predilige l’umiltà non è per avvilirci: l’umiltà è piuttosto la condizione necessaria per essere rialzati da Lui, così da sperimentare la misericordia che viene a colmare i nostri vuoti. Se la preghiera del superbo non raggiunge il cuore di Dio, l’umiltà del misero lo spalanca. Dio ha una debolezza: la debolezza per gli umili, davanti a un cuore umile Dio apre il suo cuore totalmente."
Papa Francesco Stralcio della Catechesi del 1 giugno 2016