Nell’ultima domenica dell’Anno liturgico la Chiesa celebra Cristo Re dell'Universo.
La storia di questa festa parte dal 1899 con papa Leone XIII, ma fu PIO XI che la confermò come festa con l'enciclica Quas Primas dell'11 dicembre 1925. Dice il Papa nell'Enciclica: « E perché più abbondanti siano i desiderati frutti e durino più stabilmente nella società umana, è necessario che venga divulgata la cognizione della regale dignità di nostro Signore quanto più è possibile. Al quale scopo Ci sembra che nessun'altra cosa possa maggiormente giovare quanto l'istituzione di una festa particolare e propria di Cristo Re. »
Nella forma ordinaria del rito romano la festa coincide con l’ultima domenica dell’anno liturgico. La festa di Cristo Re è anche la festa di Cristo crocifisso e nel messaggio cristiano l’annuncio della glorificazione convive con la memoria della passione.
Nella prima lettura, tratta dal secondo libero di Samuele, si rievoca il momento in cui Davide viene riconosciuto re di tutto Israele. Davide ci viene proposto come una prefigurazione profetica di Gesù che incarnerà le promesse salvifiche del Padre.
Nella seconda lettura, l’apostolo Paolo, continuando la sua lettera ai Colossesi, nel vibrante e commosso inno cristologico contempla il significato della regalità di Cristo, che con la Sua morte in croce, e la Sua resurrezione, assicura la vita eterna a coloro che lo seguono.
Nel Vangelo di Luca, incontriamo il messia, il Salvatore, crocifisso tra due ladroni, ed è proprio uno dei ladroni a riconoscere per primo la regalità di Gesù dicendogli: “Ricordati di me quando entrerai nel tuo regno” e Gesù fa di lui il primo peccatore salvato. Karl Rahner, uno dei maggiori teologi del secolo scorso, ha scritto: “Un malfattore guardò alla morte di Cristo e ciò che vide bastò perchè comprendesse anche la sua morte, la beatitudine della sua morte. L’altro malfattore distolse lo sguardo e Gesù non gli disse nulla. Il buio e il silenzio che sovrastano quella morte ci ricordano che la morte può essere purtroppo anche l’inizio della morte eterna”.
Dal secondo libro di Samuele
In quei giorni, vennero tutte le tribù d’Israele da Davide a Ebron, e gli dissero:
«Ecco noi siamo tue ossa e tua carne. Già prima, quando regnava Saul su di noi, tu conducevi e riconducevi Israele. Il Signore ti ha detto: “Tu pascerai il mio popolo Israele, tu sarai capo d’Israele”».
Vennero dunque tutti gli anziani d’Israele dal re a Ebron, il re Davide concluse con loro un’alleanza a Ebron davanti al Signore ed essi unsero Davide re d’Israele.
2Sam 5,1-3
I due Libri di Samuele costituiscono, con i successivi due libri dei Re, un'opera continua ed hanno lo scopo di tratteggiare la vicenda storica del popolo di Israele dalla fine dell'epoca dei Giudici fino alla fine della monarchia con l'invasione babilonese di Nabucodonosor: un arco di tempo di circa sei secoli. La redazione definitiva dell’intera opera risale al VI secolo a.C.
Il nome "Libri di Samuele" deriva dal fatto che un'opinione talmudica tardiva ne attribuiva la compilazione al profeta Samuele, il quale però occupa un ruolo di primo piano solo nei primi 15 capitoli del primo libro.
Il secondo libro di Samuele è dominato interamente dalla grandiosa figura del re Davide, nella sua grandezza di sovrano e di guerriero così come nelle sue miserie di uomo. Esso abbraccia un arco di tempo pari a quello dell'intero regno di Davide sulle dodici tribù, che tradizionalmente va dal 1010 fino al 970 a.C.. In tutto comprende 24 capitoli, in cui si raccontano le vicende del re Davide, a partire dalla sua ascesa al trono fino alla morte.
In questo brano liturgico si narra la consacrazione di Davide, dopo varie peripezie e lotte intestine, come re di tutto Israele. L’ascesa di Davide al trono di Israele è presentata come iniziativa delle tribù interessate, le quali si recano da Davide in Ebron e gli dicono: Ecco noi siamo tue ossa e tua carne. Già prima, quando regnava Saul su di noi, tu conducevi e riconducevi Israele. Il Signore ti ha detto: “Tu pascerai il mio popolo Israele, tu sarai capo d’Israele”.
Coloro che si recano da Davide sono, come apparirà subito dopo, gli anziani delle tribù del Nord. In quel momento Gerusalemme non era stata ancora conquistata e Davide dimorava in Ebron, il centro più importante della tribù di Giuda, noto soprattutto perché lì si trovavano le tombe dei patriarchi.
I rappresentanti delle tribù hanno tre motivi per proporre a Davide di diventare re. Anzitutto egli appartiene al loro popolo. L’espressione “tue ossa e tua carne” è usata spesso nella Bibbia per indicare la parentela e l’appartenenza allo stesso gruppo e secondo Dt 17,15 il re deve appartenere al popolo di Israele. Come seconda motivazione essi ricordano che già quando regnava Saul, Davide “conduceva e riconduceva” Israele, letteralmente lo faceva entrare e lo faceva uscire, cioè era a capo dell’esercito di Saul: ciò costituiva una legittimazione per succedere al re defunto. Infine essi accennano alla motivazione più forte, cioè a una promessa divina in forza della quale Davide sarebbe diventato il pastore di Israele, cioè il re legittimo di tutto il popolo. Da queste tre motivazioni risulta che essi lo ritenevano la persona più adatta per regnare su tutte le tribù di Israele.
Il brano concludendo con l’annotazione: “Vennero tutti gli anziani d’Israele dal re a Ebron, il re Davide concluse con loro un’alleanza a Ebron davanti al Signore ed essi unsero Davide re d’Israele” ,dimostra che la salita al trono di Davide è effetto di una scelta fatta dai rappresentanti delle tribù. La conclusione di un’alleanza con colui che è stato designato implica la definizione di certe condizioni che definiscono i diritti e i doveri dei due contraenti. Questa alleanza viene ratificata “davanti al Signore”, il quale è invocato come garante del rispetto degli accordi presi.
La figura di Davide è stata idealizzata dalla tradizione con lo scopo di presentarlo come il re ideale, la cui fedeltà a Dio non è stata uguagliata da nessuno dei suoi successori. Ciò non ha impedito a chi scrive di ricordare che la sua ascesa al trono è avvenuta mediante soprusi e omicidi che, pur essendosi verificati a sua insaputa, gettano un’ombra negativa su di lui, rischiando di farlo apparire come un sanguinario usurpatore. Perciò è importante mostrare come egli sia stato unto re non solo dagli anziani della sua tribù, ma anche da quelli delle altre tribù: tutto Israele l’ha dunque riconosciuto come suo capo naturale. Ma la tradizione ricorda anche che già precedentemente egli era stato unto come re da parte di Samuele (1Sam 16,1-13).
Il racconto di questa unzione, avvenuta in segreto, è stato scritto allo scopo di dimostrare come Davide non fosse stato scelto dagli uomini, ma da Dio stesso.
Ciò che, secondo la tradizione, contraddistingue Davide è proprio la sua fedeltà al progetto divino riguardante la liberazione di Israele e la sua costituzione come popolo nella terra promessa. In lui e nella sua discendenza il popolo troverà un punto di riferimento molto sicuro nei suoi rapporti con Dio. Sarà la promessa a lui fatta di dare stabilità alla sua discendenza che darà origine all’attesa messianica per cui il vero unto del Signore non sarà più Davide, ma il suo discendente, il Messia promesso, mediante il quale Israele otterrà da Dio la liberazione definitiva.
Salmo 121- Andremo con gioia alla casa del Signore.
Quale gioia, quando mi dissero:
«Andremo alla casa del Signore!».
Già sono fermi i nostri piedi
alle tue porte, Gerusalemme!
È là che salgono le tribù,
le tribù del Signore,
secondo la legge d’Israele,
per lodare il nome del Signore.
Là sono posti i troni del giudizio,
i troni della casa di Davide.
E’ uno dei più noti e appassionati canti di Sion e delle “ascensioni”, un testo messo sovente in musica a partire dallo splendido e sontuoso “Vespro della Beata Vergine” di Claudio Monteverdi (1610). La prima strofa unisce in felice sintesi psicologica l’istante in cui il pellegrino pronunziò la grande decisione «Andremo alla casa del Signore!».(la frase potrebbe essere la citazione di una delle formule tipiche dei Salmi di pellegrinaggio a Sion) e l’attuazione di quell’antico desiderio.
Nell’ebreo l’arrivo a Gerusalemme genera una gioia elementare, istintiva: il lungo cammino è dimenticato e il distacco è lacerante perché nel tempio si sperimenta la vita perfetta con Dio.
Commento tratto da “I Salmi” di Gianfranco Ravasi
Dalla lettera di S.Paolo apostolo ai Colossesi
Fratelli, ringraziate con gioia il Padre che vi ha resi capaci
di partecipare alla sorte dei santi nella luce.
È lui che ci ha liberati dal potere delle tenebre
e ci ha trasferiti nel regno del Figlio del suo amore,
per mezzo del quale abbiamo la redenzione,
il perdono dei peccati.
Egli è immagine del Dio invisibile,
primogenito di tutta la creazione,
perché in lui furono create tutte le cose
nei cieli e sulla terra,
quelle visibili e quelle invisibili:
Troni, Dominazioni, Principati e Potenze.
Tutte le cose sono state create
per mezzo di lui e in vista di lui.
Egli è prima di tutte le cose e tutte in lui sussistono.
Egli è anche il capo del corpo, della Chiesa.
Egli è principio,
primogenito di quelli che risorgono dai morti,
perché sia lui ad avere il primato su tutte le cose.
È piaciuto infatti a Dio
che abiti in lui tutta la pienezza
e che per mezzo di lui e in vista di lui
siano riconciliate tutte le cose,
avendo pacificato con il sangue della sua croce
sia le cose che stanno sulla terra,
sia quelle che stanno nei cieli.
Col 1,12-20
La Lettera ai Colossesi, è stata scritta da Paolo durante la sua prigionia a Roma, attorno al 62; (altri esperti sostengono che l’autore della lettera sia un suo discepolo e che l’abbia scritta dopo la morte dell’Apostolo (64-67), verso fine I secolo). Probabilmente Paolo non si era mai recato a Colosse, che era allora una piccola città dell’entroterra dell’Asia minore (circa 124 km a nord di Efeso) e il Vangelo era stato portato lì da alcuni missionari da Efeso, fra questi Èpafra, al quale Paolo dà la sua approvazione all’inizio della lettera (1,7).
La lettera è composta da 4 capitoli contenenti meditazioni teologiche su Gesù, la Chiesa, la salvezza per grazia, ed infine alcune esortazioni di condotta morale.
Il brano riporta il celebre inno cristologico, che inizia con una ampia formula di ringraziamento, poi Paolo esprime mediante un dittico il primato di Cristo:
“È lui che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del Figlio del suo amore”,
Forte è il contrasto luce/tenebre. E' Dio Padre che ha liberato gli uomini e le donne dal potere delle tenebre e li ha resi parte del regno di Suo Figlio. Qui si può intravedere l'esperienza della liberazione dall'Egitto e l'entrata nella Terra Promessa, ma . quell'esperienza di liberazione era solo un modello, una piccola anticipazione della liberazione che è avvenuta tramite la morte e la risurrezione di Cristo, liberazione da ben altre tenebre, entrata in un ben altro regno. Il regno è del Padre, ma è stato dato al Figlio del Suo amore. Vi è una relazione di amore tra il Padre e il Figlio: è l'amore che ha generato il Figlio e che rigenera i figli.
“per mezzo del quale abbiamo la redenzione, il perdono dei peccati”.
Per mezzo del Figlio abbiamo ricevuto la redenzione, cioè il perdono dei peccati, la cancellazione di ogni conseguenza negativa del male e del peccato. Nei versetti seguenti troviamo l'inno vero e proprio, che analizza la natura di Cristo e della Sua opera di redenzione.
“Egli è immagine del Dio invisibile, primogenito di tutta la creazione”,
Gesù è immagine del Dio invisibile. Nell'A.T. l'immagine appare sin dalle prime pagine, nella Genesi infatti è scritto che l'uomo è creato a immagine di Dio (1,26-27) e nei libri sapienziali, la Sapienza stessa è immagine di Dio (7,26).
Anche nell'ambiente greco si concepisce il mondo come immagine di Dio, ma il pensiero dei primi cristiani va soprattutto su Gesù come manifestazione/incarnazione della Sapienza di Dio, che rivela la grandezza del Padre e mediatrice nei confronti della creazione.
Gesù è anche il primogenito. Anche questo termine riveste grande importanza nella cultura biblica perché il primogenito è colui che ha la preminenza sui fratelli e una dignità unica nei confronti del padre. Cristo in quanto primogenito dunque non è solo mediatore nella creazione, ma in Lui, in quanto primogenito, si manifesta il volto nascosto e inaccessibile di Dio.
“perché in lui furono create tutte le cose nei cieli e sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili:
Troni, Dominazioni, Principati e Potenze. Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui”.
In questo versetto si ribadisce la centralità di Cristo rispetto alla creazione. Cristo svolge il ruolo di fonte, di fondamento - consistenza e meta finale. Egli esercita la Sua signoria nei cieli e sulla terra, sulle cose visibili e quelle invisibili. I Troni, Dominazioni, Principati e Potenze erano le varie gerarchie di angeli che erano ritenuti partecipi del governo dell'universo fisico e del mondo religioso precristiano ed erano ritenuti speciali custodi della legge di Mosè e del suo sistema (V.Gal 3,19 e Col 2,15 ). Anche gli angeli sono stati dunque creati in Cristo e quindi non possono godere di un'adorazione indipendente da Lui.
“Egli è prima di tutte le cose e tutte in lui sussistono”.
L'essere prima è inteso in senso di anteriorità ma anche di supremazia. La sussistenza di tutte le cose in un principio è un'affermazione che vedeva l'universo come un insieme divino e coerente.
“Egli è anche il capo del corpo, della Chiesa”.
La Chiesa intesa come corpo è un tema caro a Paolo. In Rm 12 e 1Cor 12 il corpo è la comunità dei fedeli. In Colossesi ed Efesini il Cristo è la testa di questo corpo, lo governa e gli dà la vita. Parlando della Chiesa l'autore sposta l'accento dalla dimensione cosmica a quella storica: Cristo si trova concretamente in una comunità di uomini e di donne, che vive riconoscendo la Sua supremazia.
“Egli è principio,primogenito di quelli che risorgono dai morti, perché sia lui ad avere il primato su tutte le cose.”
Mentre la prima parte dell'inno sottolineava la supremazia di Gesù sulla creazione, la seconda parte parla della riconciliazione e della pacificazione universale. Il Cristo è il principio! Questo è un tema molto caro ai greci e si ritrova nei testi biblici riguardanti la Sapienza. Poi si ripete di nuovo il termine del “primogenito” . Egli così diventa il capostipite di una nuova umanità, quella che ha vinto la morte. In base a questo si ribadisce nuovamente il primato di Cristo su tutte le cose.
“È piaciuto infatti a Dio che abiti in lui tutta la pienezza”
Grazie alla sua partecipazione in prima persona alla riconciliazione di tutti gli esseri creati, Gesù Cristo riceve in se stesso ogni pienezza, cioè la pienezza di tutta la divinità, tutto quello che Dio ci vuole comunicare di se stesso in Cristo, per introdurci e perfezionarci in Lui.
“e che per mezzo di lui e in vista di lui siano riconciliate tutte le cose, avendo pacificato con il sangue della sua croce sia le cose che stanno sulla terra, sia quelle che stanno nei cieli.”
E' Dio che ha riconciliato in Cristo e in vista di Cristo tutte le cose. E' una pacificazione totale, che coinvolge il cielo e la terra. E' una pacificazione e riconciliazione che ha avuto un preciso momento: la morte in croce di Cristo. E' questo il punto fondamentale. Se si può negare la partecipazione di Cristo alla creazione, non si può certo evitare il fatto storico della croce e risurrezione di Cristo, che ha permesso una totale riconciliazione di tutte le cose create.
Dal vangelo secondo Luca
In quel tempo, [dopo che ebbero crocifisso Gesù,] il popolo stava a vedere; i capi invece deridevano Gesù dicendo: «Ha salvato altri! Salvi se stesso, se è lui il Cristo di Dio, l’eletto». Anche i soldati lo deridevano, gli si accostavano per porgergli dell’aceto e dicevano: «Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso». Sopra di lui c’era anche una scritta: «Costui è il re dei Giudei».
Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!». L’altro invece lo rimproverava dicendo: «Non hai alcun timore di Dio, tu che sei condannato alla stessa pena? Noi, giustamente, perché riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni; egli invece non ha fatto nulla di male». E disse: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». Gli rispose: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso».
Lc 23, 35-43
Solo l’Evangelista Luca riferisce l’episodio del "buon ladrone" che non compare invece nel Vangelo di Matteo, secondo cui vennero crocifissi insieme a Gesù due ladroni, che entrambi lo oltraggiavano e lo insultavano. Sembra strano che la liturgia per la solennità di Cristo, re dell'universo, ci presenti un brano tratto dalla passione, ed è anche strano immaginare che a riconoscere la Sua regalità fosse uno dei due malfattori che fu crocifisso con Gesù. Infatti, mentre il suo compagno lo insultava e rivolgendosi a lui gli diceva: “Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!”, perciò lo interpella come “Cristo” senza però riconoscerlo, il buon ladrone (da alcuni vangeli apocrifi sappiamo che sia chiamava Disma) invece riconosce, in quell’uomo, orribilmente sfigurato, che sta morendo in croce come lui, il re di un regno ultraterreno. Egli prima si rivolge al suo compagno dicendogli: “Non hai alcun timore di Dio, tu che sei condannato alla stessa pena? Noi, giustamente, perché riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni; egli invece non ha fatto nulla di male”. Riconosce perciò l'innocenza di Gesù, infine si rivolge a Lui : "Gesù, ricordati di me, quando entrerai nel tuo regno!" Colpisce il fatto che rivolgendosi a Lui lo chiama per nome (nessuno, neanche i suoi apostoli lo avevano fatto). E’ l’atto di fede più grande che Gesù ha potuto vedere. Era facile riconoscerlo messia e profeta quando era circondato dai suoi discepoli e compiva miracoli, ora invece, quando le tenebre scendono sulla terra, avviene il miracolo della conversione dell’ultimo momento: Disma ha visto accanto a sé, condannato a morte come lui, la fragilità di un uomo ma anche la forza di Dio. Lo ha riconosciuto Signore di un regno nel quale lo supplica di essere accolto, senza una parola di rimpianto per la sua vita terrena che sta finendo. Ha quella fede che Gesù si sforzava di installare nei suoi discepoli, e che ora premia nel ladrone con la breve risposta: “In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso”.
Il primo salvato dal Figlio di Dio crocifisso è dunque, un peccatore che all’ultimo momento crede nella misericordia di Dio, e Gesù, che non è un semplice giusto, ma anche Re e Salvatore, chiama al Suo regno, nel Suo paradiso, chi confida il Lui.
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“La solennità di Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’Universo corona l’anno liturgico… Il Vangelo presenta infatti la regalità di Gesù al culmine della sua opera di salvezza, e lo fa in un modo sorprendente. «Il Cristo di Dio, l’eletto, il Re» appare senza potere e senza gloria: è sulla croce, dove sembra più un vinto che un vincitore. La sua regalità è paradossale: il suo trono è la croce; la sua corona è di spine; non ha uno scettro, ma gli viene posta una canna in mano; non porta abiti sontuosi, ma è privato della tunica; non ha anelli luccicanti alle dita, ma le mani trafitte dai chiodi; non possiede un tesoro, ma viene venduto per trenta monete.
Davvero il regno di Gesù non è di questo mondo (cfr Gv 18,36); ma proprio in esso, ci dice l’Apostolo Paolo nella seconda lettura, troviamo la redenzione e il perdono. Perché la grandezza del suo regno non è la potenza secondo il mondo, ma l’amore di Dio, un amore capace di raggiungere e risanare ogni cosa. Per questo amore Cristo si è abbassato fino a noi, ha abitato la nostra miseria umana, ha provato la nostra condizione più infima: l’ingiustizia, il tradimento, l’abbandono; ha sperimentato la morte, il sepolcro, gli inferi. In questo modo il nostro Re si è spinto fino ai confini dell’universo per abbracciare e salvare ogni vivente. Non ci ha condannati, non ci ha nemmeno conquistati, non ha mai violato la nostra libertà, ma si è fatto strada con l’amore umile che tutto scusa, tutto spera, tutto sopporta (cfr 1 Cor 13,7).
Solo questo amore ha vinto e continua a vincere i nostri grandi avversari: il peccato, la morte, la paura.
Oggi, cari fratelli e sorelle, proclamiamo questa singolare vittoria, con la quale Gesù è divenuto il Re dei secoli, il Signore della storia: con la sola onnipotenza dell’amore, che è la natura di Dio, la sua stessa vita, e che non avrà mai fine (cfr 1 Cor 13,8). Con gioia condividiamo la bellezza di avere come nostro re Gesù: la sua signoria di amore trasforma il peccato in grazia, la morte in risurrezione, la paura in fiducia.
Sarebbe però poca cosa credere che Gesù è Re dell’universo e centro della storia, senza farlo diventare Signore della nostra vita: tutto ciò è vano se non lo accogliamo personalmente e se non accogliamo anche il suo modo di regnare. Ci aiutano in questo i personaggi che il Vangelo odierno presenta. Oltre a Gesù, compaiono tre figure: il popolo che guarda, il gruppo che sta nei pressi della croce e un malfattore crocifisso accanto a Gesù.
Anzitutto, il popolo: il Vangelo dice che «stava a vedere»: nessuno dice una parola, nessuno si avvicina. Il popolo sta lontano, a guardare che cosa succede. È lo stesso popolo che per le proprie necessità si accalcava attorno a Gesù, ed ora tiene le distanze. Di fronte alle circostanze della vita o alle nostre attese non realizzate, anche noi possiamo avere la tentazione di prendere le distanze dalla regalità di Gesù, di non accettare fino in fondo lo scandalo del suo amore umile, che inquieta il nostro io, che scomoda. Si preferisce rimanere alla finestra, stare a parte, piuttosto che avvicinarsi e farsi prossimi. Ma il popolo santo, che ha Gesù come Re, è chiamato a seguire la sua via di amore concreto; a domandarsi, ciascuno ogni giorno: “che cosa mi chiede l’amore, dove mi spinge? Che risposta do a Gesù con la mia vita?”
C’è un secondo gruppo, che comprende diversi personaggi: i capi del popolo, i soldati e un malfattore. Tutti costoro deridono Gesù. Gli rivolgono la stessa provocazione: «Salvi se stesso!» È una tentazione peggiore di quella del popolo. Qui tentano Gesù, come fece il diavolo agli inizi del Vangelo (cfr Lc 4,1-13), perché rinunci a regnare alla maniera di Dio, ma lo faccia secondo la logica del mondo: scenda dalla croce e sconfigga i nemici! Se è Dio, dimostri potenza e superiorità! Questa tentazione è un attacco diretto all’amore: «salva te stesso»; non gli altri, ma te stesso. Prevalga l’io con la sua forza, con la sua gloria, con il suo successo. È la tentazione più terribile, la prima e l’ultima del Vangelo.
Ma di fronte a questo attacco al proprio modo di essere, Gesù non parla, non reagisce. Non si difende, non prova a convincere, non fa un’apologetica della sua regalità. Continua piuttosto ad amare, perdona, vive il momento della prova secondo la volontà del Padre, certo che l’amore porterà frutto.
Per accogliere la regalità di Gesù, siamo chiamati a lottare contro questa tentazione, a fissare lo sguardo sul Crocifisso, per diventargli sempre più fedeli. Quante volte invece, anche tra noi, si sono ricercate le appaganti sicurezze offerte dal mondo. Quante volte siamo stati tentati di scendere dalla croce. La forza di attrazione del potere e del successo è sembrata una via facile e rapida per diffondere il Vangelo, dimenticando in fretta come opera il regno di Dio…..
Nel Vangelo compare un altro personaggio, più vicino a Gesù, il malfattore che lo prega dicendo: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno» . Questa persona, semplicemente guardando Gesù, ha creduto nel suo regno. E non si è chiuso in se stesso, ma con i suoi sbagli, i suoi peccati e i suoi guai si è rivolto a Gesù. Ha chiesto di esser ricordato e ha provato la misericordia di Dio: «oggi con me sarai nel paradiso».
Dio, appena gliene diamo la possibilità, si ricorda di noi. Egli è pronto a cancellare completamente e per sempre il peccato, perché la sua memoria non registra il male fatto e non tiene sempre conto dei torti subiti, come la nostra. Dio non ha memoria del peccato, ma di noi, di ciascuno di noi, suoi figli amati. E crede che è sempre possibile ricominciare, rialzarsi.
Chiediamo anche noi il dono di questa memoria aperta e viva. Chiediamo la grazia di non chiudere mai le porte della riconciliazione e del perdono, ma di saper andare oltre il male e le divergenze, aprendo ogni possibile via di speranza. Come Dio crede in noi stessi, infinitamente al di là dei nostri meriti, così anche noi siamo chiamati a infondere speranza e a dare opportunità agli altri…, Perché, anche se si chiude la Porta santa, rimane sempre spalancata per noi la vera porta della misericordia, che è il Cuore di Cristo. Dal costato squarciato del Risorto scaturiscono fino alla fine dei tempi la misericordia, la consolazione e la speranza.
Tanti pellegrini hanno varcato le Porte sante e fuori del fragore delle cronache hanno gustato la grande bontà del Signore. Ringraziamo per questo e ricordiamoci che siamo stati investiti di misericordia per rivestirci di sentimenti di misericordia, per diventare noi pure strumenti di misericordia. Proseguiamo questo nostro cammino, insieme.
Ci accompagni la Madonna, anche lei era vicino alla croce, lei ci ha partorito lì come tenera Madre della Chiesa che tutti desidera raccogliere sotto il suo manto. Ella sotto la croce ha visto il buon ladrone ricevere il perdono e ha preso il discepolo di Gesù come suo figlio. È la Madre di misericordia, a cui ci affidiamo: ogni nostra situazione, ogni nostra preghiera, rivolta ai suoi occhi misericordiosi, non resterà senza risposta.”
Papa Francesco Parte dell’Omelia del 20 novembre 2016