La liturgia di questa domenica ci aiuta a comprendere meglio come Dio non ama l’ipocrisia di chi dice subito si e non fa la sua volontà.La misura del valore autentico e nascosto di ogni persona è in ultima istanza solo nelle mani di Dio che vede nei cuori e non giudica per sentito dire!
Nella prima lettura, tratta dal Libro del profeta Ezechiele, ci porta a considerare che ogni uomo è arbitro della propria salvezza in quanto il Signore è pronto a perdonare sia il giusto che il peccatore che pentendosi si converte
Nella seconda lettura, nella sua lettera ai Filippesi, Paolo riporta l’inno di lode a Colui che eseguì in modo perfetto la missione affiedatagli al Padre Suo. Obbediente fino alla morte: per amore del Padre e per amore dell’uomo.
Nel Vangelo di Matteo, troviamo Gesù che presenta una parabola che è un vero e proprio quadretto di vita familiare, semplice, ma sempre attuale: un figlio apparentemente corretto che dice subito si alla richiesta del padre, ma poi non obbedisce, e l’altro figlio, il classico ribelle, che prima dice no, ma poi pentito fa la volontà del padre. Questo testo è un chiaro invito a infrangere i luoghi comuni nel giudicare gli uomini. Ogni creatura, infatti, ha sempre in sè la fiaccola dell’amore di Dio, anche quando è appannata dal peccato, e ai nostri occhi umani sembra sul punto di spegnersi. Gesù non ha mai spento nessuna fiaccola, anche la più flebile, ma vi ha sempre aggiunto nuovo olio perchè potesse ritornare a splendere.
Dal libro del profeta Ezechiele
Così dice il Signore: «Voi dite: “Non è retto il modo di agire del Signore”. Ascolta dunque, casa d’Israele: Non è retta la mia condotta o piuttosto non è retta la vostra? Se il giusto si allontana dalla giustizia e commette il male e a causa di questo muore, egli muore appunto per il male che ha commesso.
E se il malvagio si converte dalla sua malvagità che ha commesso e compie ciò che è retto e giusto, egli fa vivere se stesso. Ha riflettuto, si è allontanato da tutte le colpe commesse: egli certo vivrà e non morirà». Ez 18,25-28
Il profeta Ezechiele nacque intorno al 620 a.C. verso la fine del regno di Giuda. Fu deportato in Babilonia nel 597 a.C. assieme al re Ioiachin, stabilendosi nel villaggio di Tel Aviv sul fiume Chebar. Cinque anni più tardi ricevette la chiamata alla missione di profeta, con il compito di rincuorare i Giudei in esilio e quelli rimasti a Gerusalemme. Ezechiele anche se non fu un profeta all'altezza di Isaia o Geremia, ebbe una sua originalità, che in certi casi può averlo fatto apparire ingenuo. Usò immagini di grande potenza evocativa, specie negli oracoli di condanna, ebbe toni ed espressioni particolarmente duri ed efficaci.
Nella parte precedente questo brano, che la liturgia ci propone, Ezechiele aveva messo in discussione, come aveva già fatto Geremia (cfr. Ger 31,29), il proverbio secondo cui «i padri hanno mangiato l'uva acerba e i denti dei figli si sono allegati» ed esordisce affermando, a nome di Dio, che questo proverbio non deve essere più ripetuto, ed indica quali sono le condizioni perché un uomo possa vivere .
In questo brano il profeta immagina che gli israeliti criticano il comportamento di Dio per cui pronto il Signore risponde: «Ascolta dunque, popolo d'Israele: Non è retta la mia condotta o piuttosto non è retta la vostra?» Il pensiero di scontare la pena di peccati commessi dai loro padri era per i giudei un comodo alibi per non responsabilizzarsi, mentre l’idea di una responsabilità personale li stimolava ad essere responsbaili delle loro azioni.
Dopo aver difeso il comportamento di Dio il profeta sintetizza il suo messaggio: in due ipotesi.
Nella prima dice: “Se il giusto si allontana dalla giustizia e commette il male e a causa di questo muore, egli muore appunto per il male che ha commesso.”
Nella seconda prospetta il caso opposto: “E se il malvagio si converte dalla sua malvagità che ha commesso e compie ciò che è retto e giusto, egli fa vivere se stesso. Ha riflettuto, si è allontanato da tutte le colpe commesse: egli certo vivrà e non morirà».
Dio mette davanti a Israele la vita e il bene, la morte e il male, e comanda che il popolo lo ami, minacciando in caso contrario i castighi più terribili (Dt 30,15-20). Ma Dio non è indifferente alle scelte delle Sue creature, Egli non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva .
La fede in un Dio amante della vita sta alla base della fede di Israele. Questa fede comporta l’osservanza dei comandamenti riguardanti la giustizia e la solidarietà con i più poveri. Se Dio vuole che il popolo gli sia fedele, l’unico motivo è che da questa fedeltà derivi al popolo la possibilità di essere prospero e felice.
In un’epoca in cui non si parlava ancora di una vita oltre la morte, sentirsi in comunione con Dio implicava anche un benessere materiale, che diventava però segno della benedizione divina solo se era condiviso con il bisognoso.
Salmo 24Ricòrdati, Signore, della tua misericordia.
Fammi conoscere, Signore, le tue vie,
insegnami i tuoi sentieri.
Guidami nella tua fedeltà e istruiscimi,
perché sei tu il Dio della mia salvezza;
io spero in te tutto il giorno.
Ricòrdati, Signore, della tua misericordia
e del tuo amore, che è da sempre.
I peccati della mia giovinezza
e le mie ribellioni, non li ricordare:
ricòrdati di me nella tua misericordia,
per la tua bontà, Signore.
Buono e retto è il Signore,
indica ai peccatori la via giusta;
guida i poveri secondo giustizia,
insegna ai poveri la sua via.
Il salmista è pieno d’umiltà al ricordo delle sue numerose colpe della sua giovinezza. E’ sgomento alla vista che tanti suoi amici lo hanno tradito per un nulla. Uno screzio è bastato perché si mettessero contro di lui. Egli, piegato dal peso dei suoi peccati, domanda che Dio guardi a lui e non a quanto ha fatto non osservando “la sua alleanza e i suoi precetti”. Si trova in grande difficoltà di fronte ad avversari che lo odiano in modo violento e lui non ha via di salvezza che quella del Signore. Gli errori passati sono il frutto del suo abbandono della “via giusta”. Ora sa che “tutti i sentieri del Signore sono amore e fedeltà”, cioè non portano a rovina, ma anzi danno prosperità, poiché la discendenza di chi teme il Signore “possederà la terra”. L’orante voleva affermarsi sugli altri agendo con spavalderia, con vie traverse, ed ecco che sconfessa tutto il suo passato, trattenendone però la lezione di umiltà, che gli ha dato. Egli sa che non andrà deluso perché ha deciso di essere protetto da "integrità e rettitudine”, cioè dall’osservanza dell’alleanza stabilita da Dio con Israele. L’orante non pensa solo a se stesso, si sente parte del popolo di Dio, e invoca la liberazione di Israele dalle angosce date dai nemici. La liberazione dell’Israele di Dio, la Chiesa, cioè l’Israele fondato sulla fede in Cristo, non escludendo nella sua carità quello etnico basato sulla carne e sul sangue, per il quale la pace passerà dall’accoglienza del Principe della pace.
Commento di P. Paolo Berti
Dalla lettera di S.Paolo apostolo ai Filippesi
Fratelli, se c’è qualche consolazione in Cristo, se c’è qualche conforto, frutto della carità, se c’è qualche comunione di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di compassione, rendete piena la mia gioia con un medesimo sentire e con la stessa carità, rimanendo unanimi e concordi. Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso. Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri.
Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù
egli, pur essendo nella condizione di Dio,
non ritenne un privilegio l’essere come Dio,
ma svuotò se stesso
assumendo una condizione di servo,
diventando simile agli uomini.
Dall’aspetto riconosciuto come uomo,
umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte
e a una morte di croce.
Per questo Dio lo esaltò
e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome,
perché nel nome di Gesù
ogni ginocchio si pieghi nei cieli,
sulla terra e sotto terra,
e ogni lingua proclami:
«Gesù Cristo è Signore!»,
a gloria di Dio Padre.
Fil 2,1-11
Continuando la lettera ai Filippesi, che Paolo ha scritto da Efeso durante il terzo viaggio missionario, dopo averli incoraggiati a “combattere unanimi per la fede del vangelo senza lasciarsi intimidire in nulla dagli avversari” provenienti dall’esterno (1,27-30), in questo brano liturgico egli li esorta all’unità, e all’impegno per la salvezza.
Paolo inizia la sua esortazione con quattro frasi poste al condizionale:
“se c’è qualche consolazione in Cristo, se c’è qualche conforto, frutto della carità, se c’è qualche comunione di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di compassione”, In questo modo egli mette in luce alcuni atteggiamenti che devono animare la vita della comunità. Questi atteggiamenti costruiscono la comunità stessa, la quale può raggiungere il suo scopo solo se tutti i suoi membri si lasciano impregnare da “sentimenti di amore e di compassione”. Ma al tempo stesso Paolo sottolinea che questi atteggiamenti procurano anche a lui conforto e consolazione: rendete piena la mia gioia con un medesimo sentire e con la stessa carità, rimanendo unanimi e concordi. L’accenno alla gioia che gli procurano spinge l’apostolo a precisare meglio il suo pensiero: ciò che gli sta a cuore è il fatto che essi abbiano un medesimo sentire e con la stessa carità, Dunque ciò che gli sta soprattutto a cuore non è l’unità esteriore dell’agire, ma l’essere uniti nell’amore vicendevole e unanime nei pensieri, cioè nel modo di vedere e di valutare i valori fondamentali della vita.
Egli poi continua affermando: “ Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso. Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri”. Con queste parole egli esorta i filippesi a evitare lo spirito di rivalità e di concorrenza che rappresentano il rischio più grosso per la vita di una comunità.
Per evitare di cadere in una spirale di intolleranza reciproca è importante perseguire il bene, cercando sì il proprio interesse, ma sempre all’interno di un bene più grande, che è quello di tutti. Per ottenere ciò è necessaria una buona dose di umiltà, che consiste nel non ritenersi superiori agli altri, cioè nel non pensare di essere al centro di tutto e di far girare gli altri intorno a sé.
Infine queste esortazioni all’amore fraterno vengono condensate in un’unica richiesta:
Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù .
Paolo non si accontenta di proporre dei comportamenti, anche se sublimi, che però rischiano di rimanere astratti, senza impatto nella vita delle persone. Egli propone un modello da seguire, che è quello del loro Maestro, Gesù Cristo. Egli però non chiede di imitare quello che Lui ha fatto, ma piuttosto di avere gli stessi sentimenti che hanno ispirato la Sua vita. Ciò che conta non è il fare, ma il pensare, cioè l’adesione convinta e vissuta, i valori per i quali Gesù è vissuto ed è morto
Per presentare concretamente quale sia stato il modo di pensare di Gesù, Paolo inserisce a questo punto l’inno cristologico, preso forse dalla liturgia di qualche comunità, che esprime tutta l’ampiezza del mistero di Cristo, che qui è celebrato in due grandi aspetti: discesa e risalita, che formano una curva le cui estremità si ricongiungono.
L’inno si apre con: egli, pur essendo nella condizione di Dio,
E continua con una frase in cui si spiega in che modo Gesù ha gestito il Suo essere nella condizione di Dio: non ritenne un privilegio l’essere come Dio,
Questa espressione è stata comunemente tradotta “l’essere uguale a Dio”, con riferimento alla natura o essenza divina di Cristo. L’inno prosegue affermando che Cristo svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Perciò non solo non volle avvalersi del Suo privilegio, ma addirittura vi rinunciò, in quanto “svuotò se stesso”. Questo però non significa che Gesù ha cessato di essere uguale a Dio, ma che si è spogliato, nella Sua umanità, della gloria divina manifestata solo nella trasfigurazione (Mt 17,1-8) che poi riceve dal Padre.
E’ andato fino al più profondo dell’abbassamento “umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce. La precisazione “morte di croce” assume un significato speciale, in quanto la pena capitale della crocifissione richiamava alla mente dei filippesi, che vivevano in una città romana, l’umiliazione più degradante e più ignominiosa, il colmo dell’abiezione: essi potevano così rendersi conto che Gesù aveva raggiunto il limite estremo dell’umiliazione sottoponendosi perfino al crudelissimo e terribile supplizio, della crocifissione.
“Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome”, il Padre lo glorifica, gli sottomette l’universo e gli dà la piena prerogativa del suo titolo regale e divino di Signore “perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: «Gesù Cristo è Signore!», a gloria di Dio Padre.”
Nel pensiero di Paolo forse qui emerge il ricordo dell’orgoglio di Adamo, che pretendeva di farsi uguale a Dio, per contrapporlo al dono e all’abnegazione di Cristo. Ma l’inno soprattutto ricorda ancora più chiaramente i canti del Servo del Signore (Is 53) il cammino di umiliazione che ha portato Gesù, sulla linea del personaggio predetto da Isaia, alla sofferenza e alla morte. In altre parole, Egli diversamente da Adamo, non ha voluto condurre il Suo rapporto con Dio in termini di potere o di dominio, ma di amore e di servizio.
Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: «Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. Si rivolse al primo e disse: “Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna”. Ed egli rispose: “Non ne ho voglia”. Ma poi si pentì e vi andò. Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed egli rispose: “Sì, signore”. Ma non vi andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». Risposero: «Il primo». E Gesù disse loro: «In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli».
Mt 21, 28-32
Questo episodio che l’evangelista Matteo ci riporta, avviene dopo l’ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme, e la cacciata dal tempio dei venditori, perciò il contesto della parabola è quello del conflitto aperto tra Gesù e le autorità religiose e civili che governano Gerusalemme.
Matteo ci presenta cinque controversie che segnano la rottura tra Gesù e chi esercita il potere.
La prima in particolare riguarda l'autorità di Gesù. I capi, infatti, dopo che Gesù aveva scacciato i venditori dal Tempio, ingaggiano con lui una vera e propria battaglia che si concluderà con la Sua condanna. Gesù non si sottrae allo scontro, anzi desidera confrontarsi e chiama i suoi interlocutori ad esporsi e a prendere posizione.
Gesù qui racconta che un uomo che aveva due figli, chiede al primo di andare a lavorare nella vigna. Questi risponde di sì, ma poi non ci va. Poi chiede la stessa cosa al secondo, che risponde di no, ma poi, pentitosi, ci va. Dal testo appare in modo abbastanza evidente che i destinatari della parabola sono i gran sacerdoti e gli anziani, menzionati nella controversia precedente quella su quale autorità Gesù agisse (v. 23), mentre il simbolo della vigna si riferisce al popolo d'Israele (Is 5,1-7) .
L'invito del padre ai due figli evidenzia la sua premura per la vigna, mentre la risposta dei figli sottolinea la loro libertà nei confronti del padre ed esprime teologicamente la risposta di fede o d'incredulità alla parola di Dio.
Al termine di questo breve racconto Gesù provoca il giudizio dei suoi interlocutori chiedendo: “Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?”. E quando questi non possono fare a meno di rispondere: “Il primo”, Gesù allora afferma: “In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio.” C’è da tenere presente che nell’ambiente giudaico questa affermazione è sorprendente e quanto mai provocatoria perché la conversione di queste due categorie di persone era ritenuta quasi impossibile!
Gesù poi prosegue: “Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli”. Matteo con questo versetti intende agganciare la parabola alla funzione del Battista, oggetto della disputa precedente tra Gesù e le autorità giudaiche. La “via della giustizia” è un'espressione sapienziale (V. Pr 8,20; 16,31), che indica qui la fedeltà del Precursore alla missione affidatagli da Dio, considerata da Matteo parallela a quella del Messia
Questa parabola è tipica della predicazione di Gesù, il quale, proprio per sottolineare l’iniziativa salvifica di Dio a vantaggio di tutti, mette in primo piano gli ultimi, presentandoli come l’oggetto privilegiato dell’indulgenza divina. Gesù non ha mai giudicato gli uomini per categorie, per cui i pubblicani e le prostitute andranno in paradiso, non in quanto pubblicani e prostitute, ma perché, pur essendo vissuti nel peccato, hanno poi accolto l’annuncio del regno, abbracciando la fede e le sue opere, come gli operai dell’ultima ora.
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“Oggi ci provoca la parabola dei due figli, che alla richiesta del padre di andare nella sua vigna rispondono: il primo no, ma poi va; il secondo sì, ma poi non va. C’è però una grande differenza tra il primo figlio, che è pigro, e il secondo, che è ipocrita. Proviamo a immaginare cosa sia successo dentro di loro. Nel cuore del primo, dopo il no, risuonava ancora l’invito del padre; nel secondo, invece, nonostante il sì, la voce del padre era sepolta. Il ricordo del padre ha ridestato il primo figlio dalla pigrizia, mentre il secondo, che pur conosceva il bene, ha smentito il dire col fare. Era infatti diventato impermeabile alla voce di Dio e della coscienza e così aveva abbracciato senza problemi la doppiezza di vita. Gesù con questa parabola pone due strade davanti a noi, che – lo sperimentiamo – non siamo sempre pronti a di dire sì con le parole e le opere, perché siamo peccatori. Ma possiamo scegliere se essere peccatori in cammino, che restano in ascolto del Signore e quando cadono si pentono e si rialzano, come il primo figlio; oppure peccatori seduti, pronti a giustificarsi sempre e solo a parole secondo quello che conviene.
Questa parabola Gesù la rivolse ad alcuni capi religiosi del tempo, che assomigliavano al figlio dalla vita doppia, mentre la gente comune si comportava spesso come l’altro figlio. Questi capi sapevano e spiegavano tutto, in modo formalmente ineccepibile, da veri intellettuali della religione. Ma non avevano l’umiltà di ascoltare, il coraggio di interrogarsi, la forza di pentirsi. E Gesù è severissimo: dice che persino i pubblicani li precedono nel Regno di Dio.
È un rimprovero forte, perché i pubblicani erano dei corrotti traditori della patria. Qual era allora il problema di questi capi? Non sbagliavano in qualcosa, ma nel modo di vivere e pensare davanti a Dio: erano, a parole e con gli altri, inflessibili custodi delle tradizioni umane, incapaci di comprendere che la vita secondo Dio è in cammino e chiede l’umiltà di aprirsi, pentirsi e ricominciare.
Cosa dice questo a noi? Che non esiste una vita cristiana fatta a tavolino, scientificamente costruita, dove basta adempiere qualche dettame per acquietarsi la coscienza: la vita cristiana è un cammino umile di una coscienza mai rigida e sempre in rapporto con Dio, che sa pentirsi e affidarsi a Lui nelle sue povertà, senza mai presumere di bastare a sé stessa. Così si superano le edizioni rivedute e aggiornate di quel male antico, denunciato da Gesù nella parabola: l’ipocrisia, la doppiezza di vita, il clericalismo che si accompagna al legalismo, il distacco dalla gente. La parola chiave è pentirsi: è il pentimento che permette di non irrigidirsi, di trasformare i no a Dio in sì, e i sì al peccato in no per amore del Signore. La volontà del Padre, che ogni giorno delicatamente parla alla nostra coscienza, si compie solo nella forma del pentimento e della conversione continua. In definitiva, nel cammino di ciascuno ci sono due strade: essere peccatori pentiti o peccatori ipocriti. Ma quel che conta non sono i ragionamenti che giustificano e tentano di salvare le apparenze, ma un cuore che avanza col Signore, lotta ogni giorno, si pente e ritorna a Lui. Perché il Signore cerca puri di cuore, non puri “di fuori”.
Vediamo allora, cari fratelli e sorelle, che la Parola di Dio scava in profondità, «discerne i sentimenti e i pensieri del cuore» (Eb 4,12). Ma è pure attuale: la parabola ci richiama anche ai rapporti, non sempre facili, tra padri e figli. Oggi, alla velocità con cui si cambia tra una generazione e l’altra, si avverte più forte il bisogno di autonomia dal passato, talvolta fino alla ribellione. Ma, dopo le chiusure e i lunghi silenzi da una parte o dall’altra, è bene recuperare l’incontro, anche se abitato ancora da conflitti, che possono diventare stimolo di un nuovo equilibrio. Come in famiglia, così nella Chiesa e nella società: non rinunciare mai all’incontro, al dialogo, a cercare vie nuove per camminare insieme.”
Papa Francesco Parte dell’omelia celebrata a Bologna per la conclusione del Congresso Eucaristico Diocesano il 1 ottobre 2017