La solennità dell’assunzione in cielo della Beata Vergine Maria – anima e corpo - è un dogma solennemente proclamato da Pio XII il 1 novembre 1950. È l’unico
dogma proclamato da un Papa nel XX secolo. Questo è il passaggio finale del documento, con la solenne definizione dogmatica: «Pertanto, dopo avere innalzato ancora a Dio supplici istanze, e avere invocato la luce dello Spirito di Verità, a gloria di Dio onnipotente, che ha riversato in Maria vergine la sua speciale benevolenza a onore del suo Figlio, Re immortale dei secoli e vincitore del peccato e della morte, a maggior gloria della sua augusta Madre e a gioia ed esultanza di tutta la chiesa, per l'autorità di nostro Signore Gesù Cristo, dei santi apostoli Pietro e Paolo e Nostra, pronunziamo, dichiariamo e definiamo essere dogma da Dio rivelato che: l'immacolata Madre di Dio sempre vergine Maria, terminato il corso della vita terrena, fu assunta alla gloria celeste in anima e corpo. Perciò, se alcuno, che Dio non voglia, osasse negare o porre in dubbio volontariamente ciò che da Noi è stato definito, sappia che è venuto meno alla fede divina e cattolica.» (Munificentissimus Deus) Papa Francesco nell’Angelus del 15 agosto 2020 ha detto: Quando l’uomo mise piede sulla luna, fu detta una frase che divenne famosa: «Questo è un piccolo passo per un uomo, un grande balzo per l’umanità». In effetti, l’umanità aveva raggiunto un traguardo storico. Ma oggi, nell’Assunzione di Maria in Cielo, celebriamo una conquista infinitamente più grande. La Madonna ha poggiato i piedi in paradiso: non ci è andata solo in spirito, ma anche con il corpo, con tutta sé stessa. Questo passo della piccola Vergine di Nazaret è stato il grande balzo in avanti dell’umanità. …
Nella prima lettura, tratta dal Libro dell’Apocalisse, incontriamo l’immagine simbolica di una donna che partorisce un figlio maschio. E’ facile per noi riconoscere in lei Maria che dà alla vita il Signore Gesù. Tuttavia, anche nell’Apocalisse l’immagine si amplifica, per diventare simbolo della Chiesa, che con il suo impegno testimonia nella storia la presenza del Figlio di Dio. Egli è rapito in cielo per renderci partecipi della Sua vittoria sulla morte. La donna continuerà a combattere con noi nel deserto, ma condividendo già la gloria di Dio, ci mostra quale sarà l’esito finale della lotta: tutto, anche la morte, sarà posto sotto i piedi di suo Figlio.
Con la seconda lettura, tratta dalla prima lettera di S.Paolo ai Corinzi, possiamo comprendere di più come l’assunzione al cielo di Maria è il frutto della risurrezione di Cristo, che è la “primizia” dei risorti. Maria anticipa il destino di gloria promesso a “quelli che sono di Cristo”.
Nel Vangelo, Luca ci presenta la visita premurosa di Maria alla cugina Elisabetta. Alla lode della cugina, Maria risponde con un gioioso cantico divenuto la preghiera dei poveri del Signore, la grande lode di ringraziamento per la presenza in mezzo a noi, deboli, poveri, ma credenti, del Signore Salvatore.
Dal libro dell’Apocalisse di S.Giovanni apostolo
Si aprì il tempio di Dio che è nel cielo e apparve nel tempio l’arca della sua alleanza.
Un segno grandioso apparve nel cielo: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e, sul capo, una corona di dodici stelle. Era incinta, e gridava per le doglie e il travaglio del parto.
Allora apparve un altro segno nel cielo: un enorme drago rosso, con sette teste e dieci corna e sulle teste sette diademi; la sua coda trascinava un terzo delle stelle del cielo e le precipitava sulla terra. Il drago si pose davanti alla donna, che stava per partorire, in modo da divorare il bambino appena lo avesse partorito.
Essa partorì un figlio maschio, destinato a governare tutte le nazioni con scettro di ferro, e suo figlio fu rapito verso Dio e verso il suo trono. La donna invece fuggì nel deserto, dove Dio le aveva preparato un rifugio.
Allora udii una voce potente nel cielo che diceva:
«Ora si è compiuta la salvezza, la forza e il regno del nostro Dio
e la potenza del suo Cristo».
Ap 11,19a – 12,1-6ª.10ab
Il libro dell'Apocalisse, che è stato scritto dall’Apostolo Giovanni o da un suo discepolo nell’Anno 95, quando si trovava in esilio all’isola di Patmos, si compone di 22 capitoli. E’ la rivelazione di Gesù Cristo come Egli è, (da qui il nome Apocalisse=rivelazione) il Signore dei signori, il Re dei re, il quale si riappropria di ciò che gli appartiene: la terra.
Anche nel linguaggio comune si è sentito parlare del "settimo sigillo", questo perché nell'Apocalisse la prima serie di giudizi è dettata dall'apertura di sette sigilli.
In Israele ai tempi dell'Antico Testamento l'atto di proprietà veniva redatto, quindi arrotolato e sigillato, in caso di contestazione l'atto di proprietà veniva aperto.
Ecco, Cristo nell'Apocalisse apre i sigilli perché ha deciso di riprendere possesso della terra.
L'Apocalisse è il libro della Bibbia che completa le informazioni profetiche rispetto al piano di Dio. Descrive in modo molto dettagliato gli eventi futuri dell'umanità. In sostanza l'ultimo libro della Bibbia, forse il più importante per quanto riguarda le profezie e la comprensione del piano di Dio, è diviso in cinque parti:
1. Capitoli da 1 a 3. Lettera alle sette chiese dell'Asia, Dio usa Giovanni, l'autore del libro, per rivelare alla Chiesa le cose che dovranno avvenire.
2. Capitoli 4 e 5. L'affermazione dell'autorità divina di Cristo sulla terra.
3. Capitoli da 6 a 19. Il periodo di sette anni della Tribolazione, descritta attraverso gli eventi ed i giudizi, periodo che inizia con l'apertura del primo sigillo, il cavallo bianco cavalcato dall'Anticristo, con l'arco senza le frecce, prende il potere senza fare la guerra, il cavallo bianco sembra significare che abbia usurpato il ruolo di Cristo. Il periodo termina con Gesù che viene cavalcando un cavallo bianco, seguito dai suoi eserciti, non ci sarà battaglia, viene posta fine alla Tribolazione.
4. Capitolo 20. Il regno dei mille anni governato da Gesù Cristo, al termine dei quali ci sarà l'ultima ribellione dell'umanità, l'apertura dei libri ed il giudizio universale relativo a quelli che non hanno la salvezza di Cristo.
5. Capitoli 21 e 22. La vita eterna con Dio con dei nuovi cieli e la nuova terra, il compimento finale del Piano di Dio.
Questo brano, che la liturgia ci presenta, tratto dal capitolo 12, si può dire è la pagina più bella dell’Apocalisse:
«Un segno grandioso apparve nel cielo: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e, sul capo, una corona di dodici stelle...».
L’intero capitolo è dominato anche da un altro “segno”, quello «di un enorme drago rosso, con sette teste e dieci corna e sulle teste sette diademi; la sua coda trascinava un terzo delle stelle del cielo e le precipitava sulla terra», ed è tutto intarsiato di allusioni a testi biblici.
E’ grande il contrasto che si scorge in questa visione: da un lato la donna e il figlio, dall’altro il dragone rosso incoronato.
Sono state date nel tempo numerose e valide interpretazioni, la più comune è quella che identifica nella donna, Maria che genera il Cristo. In realtà il pensiero di Giovanni è probabilmente orientato in altra direzione. La donna simboleggia anche il popolo di Dio, prima l’antico Israele, da cui Gesù ha preso carne, l’altro il nuovo Israele, la Chiesa, al cui interno il Cristo è continuamente generalato attraverso l’Eucaristia e la Sua parola.. Maria, la Chiesa, il Cristo sono intimamente connessi e sono segno altissimo del bene e della salvezza
In questo testo sia S.Agostino che S.Bernardo hanno visto nella Donna dell’Apocalisse il simbolo di Maria, come altri testi sacri che richiamano il mistero della Chiesa, possono essere applicati alla Vergine Maria, in quanto il vero mistero che la circonda, s’inserisce nel mistero della Chiesa e insieme lo illumina, come lo ha sottolineato il Concilio Vaticano II.
Salmo 44 - Risplende la Regina, Signore, alla tua destra.
Figlie di re stanno fra le tue predilette;
alla tua destra sta la regina, in ori di Ofir.
Ascolta, figlia, guarda, porgi l'orecchio,
dimentica il tuo popolo
e la casa di tuo padre.
Il re è invaghito della la tua bellezza.
E’ lui il tuo Signore: rendigli omaggio.
Dietro a lei le vergini sue compagne
Condotte in gioia ed esultanza;
guidate in gioia ed esultanza,
sono presentate nel palazzo del re.
Questo salmo per essere compreso ha bisogno di una precisazione teologica. I re di dinastia davidica erano delle figure del futuro re, il Messia. Così il salmo guarda al futuro Messia mentre celebra le nozze di un re d’Israele. Le lodi che lo scriba presenta al re hanno come ultimo traguardo il Cristo.
Le nozze sono quelle tra Salomone e la figlia del re di Tiro. Non esiste nella storia biblica o extrabiblica una menzione di queste nozze, ma si sa che Davide e poi Salomone ebbero stretti contatti d’amicizia con il re di Tiro circa la costruzione del Tempio, e del resto nel salmo si parla di Tiro, e della “figlia del re”.
Il salmista è uno scriba che ha composto un poema di lode e lo recita davanti al re. Le sue lodi sono splendide, non protocollari, egli celebra nel re il futuro Messia. Tutte le nozze del re Salomone con la figlia del re di Tiro, diventano figura della azioni future del Messia e in questo senso pieno vanno lette.
Lo scriba è pieno di gioia, lodando il re sa di compiere un atto che termina nella lode a Dio.
Il re è detto “il più bello tra i figli dell’uomo”. Bello di una bellezza divina il Cristo. Sulle sue “labbra è diffusa la grazia”, cioè la parola sapiente, la giustizia nel governare, la promozione dell’osservanza alla Legge. “Dio ti ha benedetto per sempre”, perché non ritirerà mai il suo favore alla casa di Davide (2Sam 7,12).
Lo scriba invita il re, chiamato prode, a cingersi la spada al fianco per combattere i suoi nemici, che vogliono ostacolare il suo lottare (“cavalca”) per la causa “della verità, della mitezza e della giustizia”. Così Cristo avanzerà nel mondo per mezzo della verità - lui la Verità -, della mitezza e della giustizia. Egli colpirà alla fine i suoi nemici con la spada della sua condanna (Ps 2,9; Ap 19,15).
Lo scriba afferma che il trono del re dura per sempre, poiché esso è destinato al futuro Messia. Il re è chiamato Dio, perché fa le veci di Dio, ma sarà veramente Dio nel futuro Messia.
“Scettro di rettitudine è il tuo scettro regale”, dice lo scriba. "Di rettitudine" perché fondato sulla Legge, che ha per sostanza l’amore.
Egli, il re, è stato consacrato tale “con olio di letizia”, a preferenza dei suoi uguali, cioè dei suoi fratelli discendenti di Davide. Cristo sarà consacrato re per opera dello Spirito Santo nel Giordano, sarà lui consacrato re tra tutti i discendenti di Davide (Lc 1,32); egli che sarà riconosciuto per la fede nella sua realtà di Figlio di Dio.
Le vesti del re emanano profumi, secondo l’uso orientale. Il profumo indica l’amabilità della persona. C’è festa attorno a lui: “Da palazzi d’avorio ti rallegri il suono di strumenti a corda”. Palazzi d’avorio perché ricchi di mobili intarsiati d’avorio. E’ la festa per lui. E’ la celebrazione della grandezza che ha ricevuto da Dio. Cristo è ben degno che dalle regge dei re si innalzi la celebrazione della sua grandezza, che sorpassa all’infinito ogni grandezza (Cf. Fil 2,9).
Lo scriba fa menzione dell’harem del re, fatto di figlie di re, segno della influenza tra i popoli. I popoli si sono alleati con lui dando a lui le figlie dei re. Ma alla destra del re c’è la regina. Questa regina viene dai pagani. E’ la figlia del re di Tiro, ma è invitata a lasciare ogni ricordo del suo popolo e della sua casa. Così la Chiesa viene anche dai pagani. E i pagani porteranno al Cristo le loro ricchezze: “Gli abitanti di Tiro portano doni”. Mentre “i più ricchi del popolo (Israele)” cercano il favore del re.
Certo Israele si aprirà a Cristo e i più ricchi di dottrina in Israele cercheranno di essere graditi al Re dei re, e ne guarderanno il volto pronti ad obbedire alla sua parola.
La regina è presentata in tutto il suo splendore; è la donna che l’Apocalisse presenta avvolta nel sole (12,1).
Le “vergini, sue compagne”, che facevano corolla alla figlia del re di Tiro, entrano anch’esse nel palazzo regale, diventando partecipi della sua gioia.
Il salmista alla fine della sua composizione guarda decisamente al futuro Messia. Ai suoi padri, cioè ai capi delle dodici tribù d’Israele succederanno “i tuoi figli”, cioè i dodici apostoli, che saranno, nel loro essere a fondamento della Chiesa, capi di tutta la terra.
La grandezza, la gloria del Cristo sarà ricordata da tutte le generazioni; e tutti i popoli lo “loderanno in eterno, per sempre”.
Commento tratto da Perfetta Letizia
Dalla 1^ lettera di S.Paolo apostolo ai Corinzi
Fratelli, Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti. Perché, se per mezzo di un uomo venne la morte, per mezzo di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti. Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita.
Ognuno però al suo posto: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo. Poi sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo aver ridotto al nulla ogni Principato e ogni Potenza e Forza.
E’ necessario infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L'ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte, perché ogni cosa ha posto sotto i suoi piedi
1Cor 15,20-27
Paolo scrisse intorno al 53 a.C., da Efeso, questa 1^ lettera ai Corinzi, che è considerata una delle più importanti dal punto di vista dottrinale. Vi si trovano infatti informazioni e decisioni su numerosi problemi cruciali del Cristianesimo primitivo, sia per la sua "vita interna": purezza dei costumi, svolgimento delle assemblee religiose e celebrazione dell'eucaristia, uso dei carismi, sia per i rapporti con il mondo pagano.
Nell’ultimo capitolo della lettera Paolo, rispondendo a problemi che gli avevano posto, affronta il tema della risurrezione finale dei credenti. Nella prima parte egli dimostra la sua tesi sulla risurrezione finale (vv. 1-34), nella seconda (vv. 35-53) ne illustra invece le modalità; egli conclude la sua esposizione con un inno di lode a Cristo vincitore della morte (vv. 54-58).
Il rifiuto della risurrezione dei credenti porterebbe all’assurdo di negare di conseguenza anche la risurrezione stessa di Cristo. Ma questo metterebbe in crisi la loro fede stessa perciò Paolo riafferma il punto centrale di questa fede:
”Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti”
Per Paolo la risurrezione di Cristo è una primizia non solo perché precede la risurrezione di tutti i credenti, ma anche e soprattutto perché ne è il modello e la causa. Il concetto di “primizia” viene ulteriormente elaborato da Paolo alla luce della concezione biblica secondo cui i membri di un gruppo formano una sola cosa con colui che ne è il capo e che li rappresenta. Rifacendosi a questa concezione Paolo afferma in due frasi disposte in modo parallelo che, come la morte è originata da un uomo, altrettanto deve essere per la risurrezione; e come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo.
In quanto solidale con Adamo l’umanità fa fin d’ora l’esperienza della morte mentre la risurrezione dai morti invece per ora si è attuata solo in Cristo. La risurrezione finale dei credenti è dunque una conseguenza della comunione con Cristo, di cui la solidarietà in Adamo appare solo come una realtà negativa ormai passata.
A questo punto l’apostolo sente di dover fare una precisazione circa i tempi della salvezza. Egli afferma: “Ognuno però al suo posto: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo”
Tra la risurrezione di Cristo, che è un evento già attuato, e quella dei credenti, che avrà luogo alla fine, c’è non solo una diversità di tempo, ma anche di “ordine”. Questa diversità proviene dal fatto che Cristo è la “primizia”: la Sua risurrezione prelude perciò a quella dei credenti, la \quale però avrà luogo solo “alla sua venuta”, cioè al momento del Suo ritorno glorioso.
Nella seconda parte del brano Paolo collega strettamente il regno di Cristo con il regno di Dio, mettendo in luce il loro avvicendarsi nel piano della salvezza. Egli ritiene che con la risurrezione di Cristo abbia avuto inizio il Suo regno messianico, che deve durare fino alla fine, quando egli “consegnerà il regno a Dio Padre” e ciò non avverrà però prima che Egli abbia “ridotto al nulla ogni Principato e ogni Potenza e Forza”. Paolo sottolinea espressamente che l’ultimo nemico ad essere annientato sarà proprio la morte, la cui sconfitta avrà luogo appunto mediante la risurrezione dei morti. Se Cristo non fosse capace di eliminarla, non sarebbe veramente il Signore nel quale la comunità professa la sua fede.
L’apostolo infine precisa (nel versetto successivo non riportato nel brano): “Quando tutto gli sarà stato sottomesso, anche il Figlio sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti” (1) da questo “tutto” è escluso colui che gli ha sottomesso ogni cosa, cioè il Padre.
Nella prospettiva di Paolo l’attesa della risurrezione finale implica quindi la lotta, insieme con Cristo, contro tutte le realtà negative che condizionano la vita umana, quali l’ingiustizia, la violenza, lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo.
È proprio la speranza della risurrezione, in quanto implica una salvezza che abbraccia tutte le cose create, che spinge il credente a non chiudersi nel suo individualismo, ma ad impegnarsi affinché il mondo nuovo promesso da Gesù cominci ad apparire già ora nel corso della storia.
Dal vangelo secondo Luca
In quei giorni, Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda.
Entrata nella casa di Zaccarìa, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo.
Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: “Benedetta tu fra le donne, e benedetto il frutto del tuo grembo! che devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell'adempimento di ciò che il Signore le ha detto”.
Allora Maria disse:
“L'anima mia magnifica il Signore
e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore, perché ha guardato l'umiltà della sua serva.
D'ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata.
Grandi cose ha fatto in me l'Onnipotente e Santo è il suo nome:
di generazione in generazione la sua misericordia si stende su quelli che lo temono.
Ha spiegato la potenza del suo braccio;
ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore;
ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili;
ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote.
Ha soccorso Israele, suo servo, ricordandosi della sua misericordia,
come aveva promesso ai nostri padri,
ad Abramo e alla sua discendenza, per sempre”.
Maria rimase con lei circa tre mesi,poi tornò a casa sua.
Lc 1, 39-56
In questo brano Luca sembra dipingere a parole l’episodio della Visitazione, che è il mistero della comunicazione muta di due donne diverse per età, ambiente, caratteristiche.
Maria ha saputo dall’angelo che Elisabetta, “che tutti dicevano sterile” aspettava un bambino. A questa notizia ella decide immediatamente di recarsi da lei: “In quei giorni, Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda”. La fretta con cui Maria intraprende questo viaggio rispecchia la sua fede e la sua completa disponibilità al piano divino. Per recarsi da Elisabetta Maria attraversa una delle regioni montagnose che circondano Gerusalemme e raggiunge una “città di Giuda” che la tradizione individua con il villaggio di Ein Karim, a 6 Km ad ovest di Gerusalemme.
“Entrata nella casa di Zaccarìa, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo”
Con la discesa dello Spirito su Elisabetta si attua la promessa dell’angelo a Zaccaria: sarà pieno di Spirito Santo fin dal seno di sua madre (Lc 1,15). Per bocca di sua madre è lo stesso Giovanni che dà inizio al suo compito profetico di annunziare la venuta del Messia, infatti proprio sotto l’azione dello Spirito Elisabetta
esclamò a gran voce: “Benedetta tu fra le donne, e benedetto il frutto del tuo grembo!”
La frase ispirata di Elisabetta è una duplice benedizione. Anzitutto ella dichiara Maria “benedetta tra le donne”, cioè dotata di una benedizione superiore a quella delle altre donne. E soggiunge: che devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo.” Per la prima volta Gesù viene designato qui come “Signore” e ciò sotto l’influsso dello Spirito.
Infine Elisabetta conclude: E beata colei che ha creduto nell'adempimento di ciò che il Signore le ha detto”. Mentre Zaccaria non aveva avuto fede (Lc. 1,20), Maria ha creduto alla parola di Dio, come aveva fatto Abramo (Gen 15,6). La storia, guidata da Dio sotto il segno della Provvidenza, trova in lei il suo compimento. A queste parole il cuore di Maria si apre alla gioia ed ella rende grazie a Dio pronunziando un inno che, dalla parola iniziale nella traduzione latina, viene chiamato «Magnificat».
Nei primi versetti Maria dice: “L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore, perché ha guardato l'umiltà della sua serva. D'ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata. Grandi cose ha fatto in me l'Onnipotente e Santo è il suo nome: di generazione in generazione la sua misericordia si stende su quelli che lo temono. “Maria si rivolge a Dio come suo “salvatore” e gli esprime la sua esultanza e la sua lode per i benefici di cui l’ha colmata. Il primo motivo di questa esultanza consiste nel fatto che ha guardato l'umiltà della sua serva. cioè ha operato una scelta preferendo proprio colei che, per la sua “umiltà” può essere paragonata a una serva. E come serva si era già dichiarata Maria nella risposta all’angelo nell’evento dell’annunciazione
Maria fa poi una considerazione generale circa il suo futuro destino affermando che, in forza della chiamata divina, d’ora in poi tutte le generazioni la diranno beata: l’esaltazione di Maria si estenderà dunque senza limiti di tempo e di spazio. Da questa constatazione Maria passa poi di nuovo ad esaltare l’iniziativa divina a suo riguardo: il Potente ha fatto per lei grandi cose; con ciò ha dimostrato che il Suo nome è santo e che la Sua misericordia si estende “di generazione e generazione” in favore di quelli che Lo temono. La santità del nome divino si manifesta appunto nelle opere che Egli compie per la liberazione del Suo popolo.
Nei versetti seguenti il canto di lode diventa più ampio : “Ha spiegato la potenza del suo braccio;
ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote”.
Con queste parole Maria mostra che quanto Dio ha fatto in suo favore non è altro che un esempio di come Egli guida le vicende del mondo. Anzitutto Maria esalta la potenza che ha dimostrato stendendo il suo braccio (Es 6,6) e disperdendo i superbi nei “pensieri del loro cuore”, cioè nei loro progetti di grandezza. Poi prosegue con due parallelismi contrapposti: ha rovesciato i potenti dai troni e ha innalzato gli umili, cioè quelli privi di potere, ha ricolmato di beni gli affamati e ha rimandato a mani vuote i ricchi.
Gli ultimi versetti contengono un’esaltazione dell’opera di salvezza che Dio ha attuato in favore del Suo popolo: “Ha soccorso Israele, suo servo, ricordandosi della sua misericordia, come aveva promesso ai nostri padri, ad Abramo e alla sua discendenza, per sempre”.
Maria ricorda l’aiuto dato da Dio ad Israele Suo servo come manifestazione della Sua misericordia e come adempimento delle promesse fatte ai padri: in questa versetto la mente va ancora una volta al tema del servo, che accomuna Maria e Israele; l’accenno alla “discendenza” di Abramo non poteva non ricordare a noi cristiani la figura di Gesù, in funzione del quale erano state fatte le promesse (il concetto lo riprende Paolo nella lettera ai Galati 3,16).
Al termine del Magnificat, Luca annota: “Maria rimase con lei circa tre mesi, poi tornò a casa sua”.
in questo modo termina il racconto della visita ad Elisabetta.
Per riassumere si può dire che il canto del Magnificat è la celebrazione gioiosa e riassuntiva di tutta la storia della salvezza che da Maria, nella quale trova compimento, viene ripresa e rifatta nelle sue tappe risalendo fine alle origini. Questa storia, che sconvolge le situazioni umane, è condotta da Dio senza interruzioni, con il criterio dell’amore misericordioso che non conosce fine.
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“Oggi, solennità dell’Assunzione della Vergine Maria, contempliamo lei che sale in anima e corpo alla gloria del Cielo. Anche il Vangelo odierno ce la presenta mentre sale, questa volta verso una «regione montuosa» . E sale perché? Per aiutare la cugina Elisabetta, e là proclama il cantico gioioso del Magnificat. Maria sale e la Parola di Dio ci rivela ciò che la caratterizza mentre va verso l’alto: il servizio al prossimo e la lode a Dio. Ambedue le cose: Maria è la donna del servizio al prossimo e Maria è la donna che loda Dio. L’evangelista Luca, del resto, narra la vita stessa di Cristo come una salita verso l’alto, verso Gerusalemme, luogo del dono di sé sulla croce, e allo stesso modo descrive anche il cammino di Maria. Gesù e Maria percorrono insomma la stessa strada: due vite che salgono in alto, glorificando Dio e servendo i fratelli. Gesù come Redentore, che dà la vita per noi, per la nostra giustificazione; Maria come la serva che va a servire: due vite che vincono la morte e risorgono; due vite i cui segreti sono il servizio e la lode. Soffermiamoci su questi due aspetti: servizio e lode.
Il servizio. È quando ci abbassiamo a servire i fratelli che andiamo in alto: è l’amore che eleva la vita. Andiamo a servire i fratelli e con questo servizio andiamo “in alto”. Ma servire non è facile: la Madonna, che ha appena concepito, percorre quasi 150 chilometri per raggiungere, da Nazareth, la casa di Elisabetta. Aiutare costa, a tutti noi. Lo sperimentiamo sempre nella fatica, nella pazienza e nelle preoccupazioni che il prendersi cura degli altri comporta. Pensiamo, ad esempio, ai chilometri che tanti percorrono ogni giorno per andare e tornare dal lavoro e svolgere molte mansioni a favore del prossimo; pensiamo ai sacrifici di tempo e di sonno per accudire un neonato o un anziano; e all’impegno nel servire chi non ha da ricambiare, nella Chiesa come nel volontariato. Io ammiro il volontariato. È faticoso, ma è salire verso l’alto, è guadagnare il Cielo! Questo è servizio vero.
Però il servizio rischia di essere sterile senza la lode a Dio. Infatti, quando Maria entra in casa della cugina, loda il Signore. Non parla della sua stanchezza per il viaggio, ma dal cuore le prorompe un cantico di giubilo. Perché chi ama Dio conosce la lode. E il Vangelo oggi ci mostra “una cascata di lode”: il bambino sussulta di gioia nel grembo di Elisabetta (cfr Lc 1,44), la quale pronuncia parole di benedizione e “la prima beatitudine”: «Beata colei che ha creduto» (Lc 1,45); e tutto culmina in Maria, che proclama il Magnificat . La lode aumenta la gioia. La lode è come una scala: porta in alto i cuori. La lode eleva gli animi e vince la tentazione di abbattersi. Avete visto che la gente noiosa, quella che vive del chiacchiericcio, è incapace di lodare? Domandatevi: io sono capace di lodare? Quanto fa bene lodare ogni giorno Dio, e anche gli altri! Quanto fa bene vivere di gratitudine e di benedizione anziché di rimpianti e lamentele, alzare lo sguardo verso l’alto invece che tenere il muso lungo! Le lamentele: c’è gente che si lamenta tutti i giorni. Ma guarda che Dio è vicino a te, guarda che ti ha creato, guarda le cose che ti ha dato. Loda, loda! E questo è salute spirituale.
Servizio e lode. Proviamo a interrogarci: io vivo il lavoro e le occupazioni quotidiane con spirito di servizio o con egoismo? Mi dedico a qualcuno gratuitamente, senza ricercare vantaggi immediati? Faccio insomma del servizio il “trampolino di lancio” della mia vita? E pensando alla lode: so, come Maria, esultare in Dio? Prego benedicendo il Signore? E, dopo averlo lodato, diffondo la sua gioia tra le persone che incontro? Ognuno cerchi di rispondere a queste domande.
La nostra Madre, Assunta in Cielo, ci aiuti a salire ogni giorno più in alto attraverso il servizio e la lode.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 15 agosto 2023
(1) Nota. A questo versetto ha fatto riferimento la dottrina dell’Apocatastasi sostenuta da Origene di Alessandria e Gregorio di Nissa, condannata come eresia nel Sinodo di Costantinopoli del 543
In queste ultime settimane dell’Anno liturgico, le letture che la Liturgia propone ci invitano alla vigilanza, ad un continuo senso di attesa, per preparare il nostri cuori all’incontro con il Signore.
La prima lettura, tratta dal Libro della Sapienza, vediamo che proprio la Sapienza viene personificata nelle vesti di una figura femminile quanto mai affascinante, che i giusti cercano, amano e infine la trovano. Solo Dio la può donare, ma di questo dono bisogna esserne degni.
Nella seconda lettura, Paolo nella sua lettera ai Tessalonicesi, che ritenevano imminente l’ultima venuta di Cristo ed erano perciò preoccupati per i fratelli defunti, rasserena gli animi, riducendo l’importanza dell’evento finale per presentarlo come il coronamento di una salvezza che già si attua nella vita e nella morte dei credenti.
Nel Vangelo di Matto, troviamo la celebre parabola delle vergini sagge e stolte.
E’ facile comprendere che questo racconto ci invita a stare svegli nello spirito, e sempre pronti al momento in cui il Signore verrà. La vigilanza, l’attesa operosa, la premura carica d’amore, l’impegno personale spalancano la porta del banchetto nuziale con il Signore. Come pensiero costante per il nostro cammino, anche in questo periodo così oscuro che stiamo vivendo, potremo ricordare ciò che la grande santa Teresa d’Avila diceva: Nulla ti turbi, nulla ti spaventi. Tutto passa, solo Dio non cambia. La pazienza ottiene tutto. Chi ha Dio non manca di nulla: solo Dio basta!
Dal libro della Sapienza
La sapienza è splendida e non sfiorisce, facilmente si lascia vedere da coloro che la amano e si lascia trovare da quelli che la cercano.
Nel farsi conoscere previene coloro che la desiderano. Chi si alza di buon mattino per cercarla non si affaticherà, la troverà seduta alla sua porta.
Riflettere su di lei, infatti, è intelligenza perfetta, chi veglia a causa sua sarà presto senza affanni; poiché lei stessa va in cerca di quelli che sono degni di lei, appare loro benevola per le strade e in ogni progetto va loro incontro.
Sap 6,12-16
Il libro della Sapienza si presenta come opera del re Salomone, ma è un evidente espediente letterario, perché è stato scritto da un pio giudeo di lingua greca, sicuro conoscitore del mondo ellenistico, che viveva in Alessandria d’Egitto tra il 120-80 a.C.
E’ il più recente dei libri dell’Antico Testamento e il suo autore si rivolge ai suoi correligionari che vivevano in ambiente greco, per convincerli della superiorità della sapienza ebraica, ispirata da Dio e concretamente espressa nella Legge che governa il popolo eletto, sulla filosofia e la vita pagana.
Nelle sue grandi linee, il libro espone le vie della sapienza opposte alla via degli empi, la sapienza in se stessa come realtà divina, le opere della sapienza divina nella storia di Israele.
In quest’opera, la dottrina biblica sulla sapienza raggiunge gli ultimi sviluppi ed è come il sintomo dell’insegnamento del Nuovo Testamento sulla grazia; a sua volta il Nuovo Testamento aiuta a capire la dottrina dell’antico sulla sapienza.
La speranza beata nell’aldilà è espressa con rara chiarezza, illuminando il problema dell’umano destino. E’ l’ultimo passo verso la rivelazione cristiana: Cristo, sapienza di Dio incarnata tra gli uomini, è la fonte della vita e della felicità eterna.
Questo spiega l’influsso che il libro ha esercitato nella cristologia di Giovanni e di Paolo…
In questo brano l’autore definisce la sapienza splendida e non sfiorisce e che si lascia vedere da coloro che la amano e si lascia trovare da quelli che la cercano.
Qui il termine “sapienza” indica non solo una dottrina, ma la verità divina, dono di Dio il quale si lascia trovare da chi lo cerca, anzi “Nel farsi conoscere previene coloro che la desiderano. Chi si alza di buon mattino per cercarla non si affaticherà, la troverà seduta alla sua porta….
Nell’A.T. la Sapienza non è possibile concepirla distinta da Dio. Solo nel N.T. San Paolo definisce una persona (il Crocifisso) “Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio” (1Cor 1,24)
O Dio, tu sei il mio Dio,
all’aurora io ti cerco,
di te ha sete l'anima mia,
a te anela la mia carne
come terra deserta, arida, senz’acqua.
Così nel santuario ti ho cercato,
per contemplare la tua potenza e la tua gloria.
Poiché la tua grazia vale più della vita,
le mie labbra diranno la tua lode.
Nel mio giaciglio di te mi ricordo
e penso a te nelle veglie notturne,
a te che sei stato il mio aiuto,
esulto di gioia all’ombra delle tue ali.
Il salmo presenta un pio giudeo, che fin dal primissimo mattino si pone in orazione. Egli cerca Dio, perché gli si è rivelato a lui per mezzo del dono della fede e delle Scritture, e ora cerca l’unione con lui, l’intima conoscenza di lui, in un “cercare” in cui il “trovare” spinge ancor più a cercare.
L’orante è presentato come un assetato in mezzo ad un deserto. Ma l’assetato del salmo sa dov’è la fonte, non è disorientato; sa che la fonte della pace e della gioia è Dio: Dio stesso è questa fonte.
L’orante ha un punto di riferimento: il tempio; e così vi si reca per trarre ristoro nella contemplazione Dio: “Così nel santuario ti ho contemplato, guardando la tua potenza e la tua gloria”. L’orante cerca Dio, ama Dio, non tanto i benefici di Dio. Ama lui, e lo dichiara poiché dice che la comunione con lui (“il tuo amore") “vale più della vita”. Questa dolce consapevolezza è la molla della sua lode: “Le mie labbra canteranno la tua lode”; “Così ti benedirò per tutta la vita”. Egli, ritornato dal tempio alla sua dimora, probabilmente distante da Gerusalemme, ha come pensiero dolce e vivo Dio, e così “nelle veglie notturne”, quando il sonno è assente, non si agita, ma pensa a Dio, cerca Dio.
Ha tanti nemici che cercano di ucciderlo, che probabilmente sono con bande di predoni Idumei (Cf. Ps 58), ma ha la ferma speranza che i nemici non avranno vittoria e che il re trionferà e insieme a lui chi gli è fedele: “Chi giura per lui” (Cf. 1Sam 17,55; 25,2; 2Sam 11,11; 15,21; ecc.). Gli ultimi versetti, per le loro dure espressioni, non entrano nella recitazione cristiana.
Commento tratto da “Perfetta Leltizia”
Dalla prima lettera di S.Paolo apostolo ai Tessalonicesi
Non vogliamo, fratelli, lasciarvi nell'ignoranza a proposito di quelli che sono morti, perché non siate tristi come gli altri che non hanno speranza. Se infatti crediamo che Gesù è morto e risorto, così anche Dio, per mezzo di Gesù, radunerà con lui coloro che sono morti.
Sulla parola del Signore infatti vi diciamo questo: noi, che viviamo e che saremo ancora in vita alla venuta del Signore, non avremo alcuna precedenza su quelli che sono morti.
Perché il Signore stesso, a un ordine, alla voce dell'arcangelo e al suono della tromba di Dio, discenderà dal cielo. E prima risorgeranno i morti in Cristo; quindi noi, che viviamo e che saremo ancora in vita, verremo rapiti insieme con loro nelle nubi, per andare incontro al Signore in alto, e così per sempre saremo con il Signore.
Confortatevi dunque a vicenda con queste parole
1Ts 4,13-18
Nella sua lettera ai Tessalonicesi Paolo nella prima parte aveva fatto un lungo ringraziamento, nella seconda invece fa una serie di raccomandazioni per rispondere a richieste particolari dei tessalonicesi..
Nel brano liturgico viene riportata la terza raccomandazione con la quale l’Apostolo dà una risposta a un problema specifico della comunità, quello della sorte di coloro che sono morti prima del ritorno del Signore.
Il problema a cui Paolo risponde non è chiaro, anche se lo si può comprendere abbastanza bene dalle sue parole: egli infatti aveva annunziato l'imminente ritorno di Gesù come giudice escatologico. Per i tessalonicesi era quindi logico pensare che sarebbero stati sollevati dall'esperienza della morte per entrare direttamente nel regno glorioso di Dio. Ora invece il ritorno del Signore non si era ancora attuato mentre alcuni membri della comunità erano morti. Questo fatto aveva determinato in loro un certo malessere: che fine avevano fatto i loro fratelli defunti? Sarebbero stati esclusi per sempre dalla salvezza?
Si potrebbe pensare che questo disagio nascesse dal fatto che l’apostolo non aveva ancora detto nulla circa la risurrezione finale dei credenti; siccome ciò è improbabile, potrebbe anche darsi che i dubbi dei tessalonicesi derivassero dalla difficoltà, tipica del mondo greco, di capire e di accettare la dottrina della risurrezione finale dei morti. Comunque sia, le prime morti verificatesi dopo l’evangelizzazione di Tessalonica suscitavano un doloroso problema a cui Paolo non poteva non rispondere.
Come risposta ai dubbi espressi dai tessalonicesi, Paolo chiarisce il suo insegnamento:” Non vogliamo, fratelli, lasciarvi nell'ignoranza a proposito di quelli che sono morti, perché non siate tristi come gli altri che non hanno speranza.”. La speranza, di cui ha già parlato all’inizio in relazione con la fede e l’amore (V.1,3) è la virtù che permette al credente di attendere l’intervento finale di Dio in questo mondo e di passare indenne attraverso le tribolazioni della vita.
Per dare fondamento alla speranza messa alla prova dei tessalonicesi, Paolo richiama anzitutto l’evento su cui si fonda la loro fede: ” Se infatti crediamo che Gesù è morto e risorto”. È questo il centro della professione di fede che i tessalonicesi stessi avevano diffuso nella loro città circa l’insegnamento ricevuto da Paolo. Da questo principio si ricava la conseguenza “così anche Dio, per mezzo di Gesù, radunerà con lui coloro che sono morti.
A questo punto, rifacendosi a una “parola del Signore”, Paolo dichiara: “noi, che viviamo e che saremo ancora in vita alla venuta del Signore, non avremo alcuna precedenza su quelli che sono morti. ”.
Alla sua seconda venuta il Signore troverà alcune persone ancora in vita, ma questo fatto non rappresenterà per loro un privilegio. Paolo convalida poi questa affermazione con una descrizione di ciò che avverrà alla fine: «il Signore stesso, a un ordine, alla voce dell'arcangelo e al suono della tromba di Dio, discenderà dal cielo». Queste immagini erano note nel mondo culturale giudaico dell’epoca di Paolo: non è infatti difficile trovare mescolate nell’apocalittica giudaica e cristiana allusioni al comando di Dio, alla voce dell’arcangelo (Ap 5,2; 7,2), al suono della tromba (V.Es 19,13.16.19; Ap 1,10; 4,1 ecc.) e alla venuta del Figlio dell’uomo (V. Dn 7,13).
Quando avrà luogo la venuta del Signore, “prima risorgeranno i morti in Cristo”, cioè i defunti che, avendo creduto in Cristo durante la loro vita, sono diventati partecipi anche della Sua morte e resurrezione(V. Rm 6,4). Dopo di ciò anche “quindi noi, che viviamo e che saremo ancora in vita, verremo rapiti insieme con loro nelle nubi, per andare incontro al Signore in alto, e così per sempre saremo con il Signore..”
È significativo che l’apostolo, designando coloro che saranno ancora in vita al momento della seconda venuta del Signore, comprende tra essi anche se stesso.
Paolo qui è dunque convinto che la fine del mondo avrà luogo nel corso della sua generazione. Egli immagina il termine della vita terrena per coloro che saranno in vita alla venuta del Signore alla luce dei “rapimenti in cielo” di cui si parla nel giudaismo per esempio a proposito di Elia (V.2Re 2,11; 1Mac 2,58) . Questo rapimento avrà lo scopo di rendere possibile l’incontro con il Signore. La salvezza raggiungerà il suo culmine quando tutti i giusti saranno ammessi alla piena comunione con Lui e con il Padre. (Secondo Tertulliano , i morti, resuscitando, risponderanno per primi al segnale. Essi saranno raggiunti dai sopravvissuti e tutti insieme saranno condotti all’incontro col Signore, poi lo accompagneranno al giudizio che inaugura il Suo regno senza fine. Importante è il tratto finale: e così per sempre saremo con il Signore.
Per questo Paolo conclude: Confortatevi dunque a vicenda con queste parole” per rasserenare gli animi dei tessalonicesi, riducendo l’importanza dell’evento finale per presentarlo come il coronamento di una salvezza che già si attua nella vita e nella morte dei credenti.
L’Apostolo ha potuto valorizzare così il tempo dell’attesa, dando spazio alla ricerca della santità, all’amore fraterno e alla fondazione di nuove comunità. Esortando poi i credenti a vivere con il lavoro delle proprie mani , egli ha dato importanza all’impegno per migliorare l’ambiente in cui viviamo, mostrando che una vita oziosa non si addice a una visione cristiana del mondo .
Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: il regno dei cieli sarà simile a dieci vergini che presero le loro lampade e uscirono incontro allo sposo. Cinque di esse erano stolte e cinque sagge; le stolte presero le loro lampade, ma non presero con sé l’olio; le sagge invece, insieme alle loro lampade, presero anche l’olio in piccoli vasi. Poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e si addormentarono.
A mezzanotte si alzò un grido: “Ecco lo sposo! Andategli incontro!”. Allora tutte quelle vergini si destarono e prepararono le loro lampade. Le stolte dissero alle sagge: “Dateci un po’ del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono”.
Le sagge risposero: “No, perché non venga a mancare a noi e a voi; andate piuttosto dai venditori e compratevene”.
Ora, mentre quelle andavano a comprare l’olio, arrivò lo sposo e le vergini che erano pronte entrarono con lui alle nozze, e la porta fu chiusa.
Più tardi arrivarono anche le altre vergini e incominciarono a dire: “Signore, signore, aprici!”. Ma egli rispose: “In verità io vi dico: non vi conosco”.
Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora.“
Mt 25, 1-13
Matteo nel fare il resoconto dell’ultima settimana di Gesù prima della sua passione, dopo aver riportato le parabole riguardanti la gravità dell’ora, e il il discorso escatologico, ora riporta una parabola, quella delle dieci vergini , riguardante la vigilanza.
Il brano inizia con la solita breve introduzione, in cui si dice che “Il regno dei cieli sarà simile ….” poi c’è la descrizione della situazione: “dieci vergini che presero le loro lampade e uscirono incontro allo sposo. Cinque di esse erano stolte e cinque sagge; le stolte presero le loro lampade, ma non presero con sé l’olio; le sagge invece, insieme alle loro lampade, presero anche l’olio in piccoli vasi.
Il tempo passa e improvvisamente è annunziata la venuta dello sposo: “Poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e si addormentarono. A mezzanotte si alzò un grido: “Ecco lo sposo! Andategli incontro!”. A questo punto viene alla luce la differenza tra i due gruppi di vergini: “Allora tutte quelle vergini si destarono e prepararono le loro lampade. Le stolte dissero alle sagge: “Dateci un po’ del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono”. Le sagge risposero: “No, perché non venga a mancare a noi e a voi; andate piuttosto dai venditori e compratevene”.”
Anche se le usanze nuziali del tempo di Gesù non sono molto note, ciò non impedisce l’interpretazione della parabola. Sappiamo dagli esperti che secondo le usanze in cui si svolgevano le nozze nella Palestina del I secolo d.C., nell’ultimo giorno dei festeggiamenti, al tramonto, il fidanzato si recava con gli amici alla residenza della fidanzata che attendeva il suo arrivo in compagnia delle amiche. Con l’arrivo del corteo dello sposo, si costituiva un’unica comitiva verso la casa dello sposo dove si sarebbe celebrato il matrimonio e consumato il banchetto nuziale.. Ma in questo racconto il ritardo stranamente si allunga; il sonno e l’eccitazione impediscono ad alcune ragazze, amiche della sposa, di misurare l’olio necessario per il corteo finale. Inizia così l’atmosfera di tensione che appare nella parabola: corsa nella notte per trovare una bottega aperta, echi del corteo dello sposo che ormai si avvicina e progressivamente si allontana, e la porta del banchetto si chiude, cosi quando “ più tardi arrivarono anche le altre vergini e incominciarono a dire: “Signore, signore, aprici!”, lo sposo con accento ostile e sospetto risponde: “In verità io vi dico: non vi conosco”.
Le vergini stolte perciò non possono partecipare al banchetto nuziale. L'occasione di una festa si è trasformata per loro in una situazione di umiliazione e di sconforto.
Lo sposo richiama subito la figura del Cristo giudice, le vergini simboleggiano i discepoli di Gesù, l'olio sembra che in Matteo si riferisca alla pratica delle opere buone, che presuppone una fede perseverante nella Parola. La discriminazione tra i due gruppi delle vergini esprime il diverso comportamento dei cristiani in attesa della parusia, uno vigile e operoso, l'altro ozioso. Il messaggio centrale della parabola viene sintetizzato nella conclusione: “Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora”
E’ facile comprendere che con questo racconto, Gesù, nel Vangelo di Matteo, ci invita a stare svegli nello spirito, e sempre pronti al momento in cui il Signore verrà.
E’ un invito “a vivere nell’amore”, allo scopo di essere degni di raggiungere la pienezza del Regno, quando il Signore ci chiamerà a sè. L’importante, per noi, è avere la lampada accesa, quindi, l’olio dello Spirito non deve mai mancare. Ricordiamoci che solo l'amore, di cui Gesù parla, quando dice “come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri” (Gv 13,34) ci dà la misura del nostro essere cristiani.
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“Il brano del Vangelo di questa domenica ci invita a prolungare la riflessione sulla vita eterna, iniziata in occasione della Festa di Tutti i Santi e della Commemorazione dei fedeli defunti. Gesù narra la parabola delle dieci vergini invitate a una festa nuziale, simbolo del Regno dei cieli.
Ai tempi di Gesù c’era la consuetudine che le nozze si celebrassero di notte; pertanto il corteo degli invitati doveva procedere con le lampade accese. Alcune damigelle sono stolte: prendono le lampade ma non prendono con sé l’olio; quelle sagge, invece, assieme alle lampade prendono anche dell’olio. Lo sposo tarda, tarda a venire, e tutte si assopiscono. Quando una voce avverte che lo sposo sta per arrivare, le stolte, in quel momento, si accorgono di non avere olio per le loro lampade; lo chiedono alle sagge, ma queste rispondono che non possono darlo, perché non basterebbe per tutte. Mentre le stolte vanno a comprare l’olio, arriva lo sposo. Le ragazze sagge entrano con lui nella sala del banchetto, e la porta viene chiusa. Le altre arrivano troppo tardi e vengono respinte.
È chiaro che con questa parabola, Gesù ci vuole dire che dobbiamo essere preparati all’incontro con Lui. Non solo all’incontro finale, ma anche ai piccoli e grandi incontri di ogni giorno in vista di quell’incontro, per il quale non basta la lampada della fede, occorre anche l’olio della carità e delle opere buone. La fede che ci unisce veramente a Gesù è quella, come dice l’apostolo Paolo, «che si rende operosa per mezzo della carità» (Gal 5,6). È ciò che viene rappresentato dall’atteggiamento delle ragazze sagge. Essere saggi e prudenti significa non aspettare l’ultimo momento per corrispondere alla grazia di Dio, ma farlo attivamente da subito, cominciare da adesso. “Io… sì, poi più avanti mi convertirò…” – “Convertiti oggi! Cambia vita oggi!” – “Sì, sì… domani”. E lo stesso dice domani, e così mai arriverà. Oggi! Se vogliamo essere pronti per l’ultimo incontro con il Signore, dobbiamo sin d’ora cooperare con Lui e compiere azioni buone ispirate al suo amore.
Noi sappiamo che capita, purtroppo, di dimenticare la meta della nostra vita, cioè l’appuntamento definitivo con Dio, smarrendo così il senso dell’attesa e assolutizzando il presente. Quando uno assolutizza il presente, guarda soltanto il presente, perde il senso dell’attesa, che è tanto bello, e tanto necessario, e anche ci butta fuori dalle contraddizioni del momento. Questo atteggiamento – quando si perde il senso dell’attesa – preclude ogni prospettiva sull’al di là: si fa tutto come se non si dovesse mai partire per l’altra vita. E allora ci si preoccupa soltanto di possedere, di emergere, di sistemarsi… E sempre di più. Se ci lasciamo guidare da ciò che ci appare più attraente, da quello che mi piace, dalla ricerca dei nostri interessi, la nostra vita diventa sterile; non accumuliamo alcuna riserva di olio per la nostra lampada, ed essa si spegnerà prima dell’incontro con il Signore. Dobbiamo vivere l’oggi, ma l’oggi che va verso il domani, verso quell’incontro, l’oggi carico di speranza. Se invece siamo vigilanti e facciamo il bene corrispondendo alla grazia di Dio, possiamo attendere con serenità l’arrivo dello sposo. Il Signore potrà venire anche mentre dormiamo: questo non ci preoccuperà, perché abbiamo la riserva di olio accumulata con le opere buone di ogni giorno, accumulata con quell’attesa del Signore, che Lui venga il più presto possibile e che venga a portarmi con Lui.
Invochiamo l’intercessione di Maria Santissima, perché ci aiuti a vivere, come ha fatto Lei, una fede operosa: essa è la lampada luminosa con cui possiamo attraversare la notte oltre la morte e giungere alla grande festa della vita.”
Papa Francesco
Parte dell’Angelus del 8 novembre 2020
La commemorazione dei fedeli defunti appare già nel secolo IX, in continuità con l’uso monastico del secolo VII di consacrare un giorno completo alla preghiera per tutti i defunti. Amalario, arcivescovo e teologo francese, nel secolo IX, poneva già la memoria di tutti i defunti successivamente a quelli dei santi che erano già in cielo. È solo con l’abate benedettino sant’Odilone di Cluny che questa data del 2 novembre fu dedicata alla commemorazione di tutti i fedeli defunti, per i quali già sant’Agostino lodava la consuetudine di pregare anche al di fuori dei loro anniversari, proprio perché non fossero trascurati quelli senza suffragio. La Chiesa è stata sempre particolarmente fedele al ricordo dei defunti.
Papa Benedetto XV (1914-1922), al tempo della prima guerra mondiale, giunse a concedere a ogni sacerdote la facoltà di celebrare «tre messe» in questo giorno.
Le letture proposte dalla liturgia ci aiuteranno a comprendere questo grande mistero che ci sgomenta. Imprimiamo nel nostro animo le parole di Gesù nel Vangelo di Giovanni quando dice: “questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno”. Queste parole ci rivelano il meraviglioso volto del nostro Dio, che ragiona con la logica dell’includere, dell’accogliere, del portare a casa. Il nostro morire è un tornare a casa. La morte non può essere veramente la fine di tutto. Questo nostro anelito alla vita viene preso per mano dall’amore sconfinato del Padre e ci assicura che Cristo è risorto, e che noi risorgeremo in Lui.
PRIMA MESSA
Dal libro di Giobbe
Rispondendo Giobbe prese a dire:
«Oh, se le mie parole si scrivessero,
se si fissassero in un libro,
fossero impresse con stilo di ferro e con piombo,
per sempre s’incidessero sulla roccia!
Io so che il mio redentore è vivo
e che, ultimo, si ergerà sulla polvere!
Dopo che questa mia pelle sarà strappata via,
senza la mia carne, vedrò Dio.
Io lo vedrò, io stesso,
i miei occhi lo contempleranno e non un altro».
Gb 19,1.23-27a
Il Libro di Giobbe, composto da 42 capitoli, è stato scritto in ebraico dopo l’esilio probabilmente nel 5^ secolo a.C.. A quell’epoca il tempio era stato ricostruito (520-515 a.C. v.Esd 5-6) e le mura di Gerusalemme restaurate (445 a.C. V. Ne 2-4). Raggruppata e organizzata intorno ai loro capi la piccola comunità giudaica riprende vita. Le difficoltà però non mancano e si vedono riapparire le ingiustizie e le violenze di un tempo. I poveri, che rappresentano sovente la parte più religiosa del popolo, subiscono prepotenze ed angherie.
I profeti intervengono per rispondere agli infiniti interrogativi che il problema del male porta all’umanità che si chiede “Dov’è il Dio della giustizia?” (Ml 2,17) . Ed è questa la questione che solleva il libro di Giobbe: Perchè il male?. Ci troviamo in questo libro di fronte ad una ricerca drammatica sul senso dell'esistenza, sull'amore di Dio, e sulla fedeltà verso di Lui.
L’autore, rimasto anonimo, ambienta il suo racconto in un paese favoloso, anche per quel tempo, dell'Antico Medio Oriente. Il protagonista, Giobbe, è un uomo profondamente religioso, ma anche turbato dalla sua fede perché non riesce più a coordinare le idee che aveva di un Dio giusto e buono con i fatti che gli capitano: prima era un uomo ricco e felice, e poi improvvisamente colpito dalla sventura, perde i figli, i beni, la salute, e non è neanche confortato dalla moglie, che lo scaccia anche da casa.
Nonostante le 4 disgrazie (è da notare il numero 4 che è il numero della terra), Giobbe reagisce, sa di essere innocente, non ha rinnegato mai i decreti di Dio, perciò si rivolge a Lui con una sola preghiera: “Ricordati… “ termine usato nelle preghiere di Israele per ricordare a Dio l’alleanza e quindi la fedeltà.
Il libro di Giobbe è anche un grande canto dell’uomo con tutte le sue lacerazioni, le sue ansie e le sue speranze. Giobbe è uno di quei grandi miti sui quali di continuo l’uomo va ridisegnando la mappa delle proprie interrogazioni per verificare i contorni della propria fede.
In questo brano, Giobbe è colpito sul vivo dalle parole ingiuriose di uno dei suoi amici (Bildad), ma non viene convinto dalle sue spiegazioni. Egli è sempre cosciente di essere oppresso ingiustamente. Perseguitato da Dio, condannato dagli uomini, egli sente però che Dio è dalla sua parte ed è sicuro che prima della sua morte o anche dopo la morte, l’Eterno si alzerà in giudizio al suo fianco come difensore e vendicatore e proclamerà davanti a tutti la sua innocenza.
Nota: nei versetti «Io so che il mio redentore è vivo e che, ultimo, si ergerà sulla polvere!»
il testo ebraico non era molto chiaro, la Vulgàta, traduzione in latino della Bibbia dall'antica versione greca ed ebraica, realizzata all'inizio del IV secolo da S.Girolamo, vi ha interpretato un atto di fede di Giobbe nella risurrezione.
Salmo 27/26 Sono certo di contemplare la bontà del Signore nella terra dei viventi
Il Signore è mia luce e mia salvezza:
di chi avrò timore?
Il Signore è difesa della mia vita:
di chi avrò paura?
Una cosa ho chiesto al Signore,
questa sola io cerco:
abitare nella casa del Signore
tutti i giorni della mia vita,
per contemplare la bellezza del Signore
e ammirare il suo santuario.
Ascolta, Signore, la mia voce.
Io grido: abbi pietà di me, rispondimi!
Il tuo volto, Signore, io cerco.
Non nascondermi il tuo volto.
Sono certo di contemplare la bontà del Signore
nella terra dei viventi.
Spera nel Signore, sii forte,
si rinsaldi il tuo cuore e spera nel Signore.
"Il Signore è mia luce”, dice il salmista. La luce è fonte di vita, fa vedere le cose, dona letizia e il salmista trova in Dio la sua luce, la sua sorgente di letizia, la sua conoscenza delle cose. E il Signore è pure sua salvezza assistendolo contro i nemici, che altrimenti prevarrebbero su di lui e gli strazierebbero la carne, tanto lo odiano. Ma col Signore non vede perché dovrebbe avere paura: “Di chi avrò timore;... di chi avrò paura?”. . . .
Egli non ha ambizioni di potere, di onori e ricchezze. Ha chiesto una sola cosa al Signore e questa sola cerca: “Abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita”. Noi chiediamo di vivere sempre centrati nell’Eucaristia, nella viva appartenenza alla Chiesa, in ammirazione della sua bellezza di pace, di carità, di fede, di speranza, di sacrificio, di testimonianza, di operosità instancabile.
“La casa del Signore” è per il salmista il luogo di rifugio offertogli dal Signore nel giorno della sventura, quando c’è la prova, la tribolazione. In essa si sente protetto, come nascosto, dalla turba degli uomini, e nello stesso tempo come posto su di una rupe inattaccabile.
Il salmista ritorna sulla sua situazione di dolore, trovando sempre conforto nella fede. Umile, non può che presentarsi come reo di molti peccati davanti al Signore e chiede di non essere respinto con ira da Signore.
Egli ha un programma: “Cercare il volto del Signore”, per conoscerlo sempre di più e così sempre di più amarlo….
Ora è saldo e sicuro, ma insidiato da falsi testimoni che lo vogliono trascinare in giudizio e per questo diffondono negli animi violenza contro di lui. Ma anche se costoro avessero da prevalere egli è certo di “contemplare la bontà del Signore nella terra dei viventi”; nel cielo e poi un giorno nella risurrezione, nella creazione rinnovata.
Commento tratto da “Perfetta Letizia”
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani
Fratelli, la speranza non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato.
Infatti, quando eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi. Ora, a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi.
A maggior ragione ora, giustificati nel suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di lui. Se infatti, quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più, ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita. Non solo, ma ci gloriamo pure in Dio, per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo, grazie al quale ora abbiamo ricevuto la riconciliazione.
Rm 5,5-11
San Paolo scrisse la lettera ai Romani da Corinto probabilmente tra gli anni 58-59. La comunità dei cristiani di Roma era già ben formata e coordinata, ma lui ancora non la conosceva. Forse il primo annuncio fu portato a Roma da quei “Giudei di Roma”, presenti a Gerusalemme nel giorno della Pentecoste e che accolsero il messaggio di Pietro e il Battesimo da lui amministrato, diventando cristiani. Nacque subito la necessità di avere a Roma dei presbiteri e questi non poterono che essere nominati a Gerusalemme.
La Lettera ai Romani, che è uno dei testi più alti e più impegnativi degli scritti di Paolo, ed è anche la più lunga e più importante come contenuto teologico, è composta da 16 capitoli: i primi 11 contengono insegnamenti sull'importanza della fede in Gesù per la salvezza, contrapposta alla vanità delle opere della Legge; il seguito è composto da esortazioni morali. Paolo, in particolare, fornisce indicazioni di comportamento per i cristiani all'interno e all'esterno della loro comunità.
In questo brano, tratto dal capitolo 5, Paolo dopo aver sostenuto che di fronte alle dolorose prove della vita il credente è sorretto oltre che dalla fede, anche dalla speranza e dall’amore, ora parlando della speranza afferma: “la speranza non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato”
La speranza non può deludere perché non si limita a provocare l’attesa delle realtà future, ma ne dà un’esperienza anticipata mediante l’amore che lo Spirito santo riversa nei cuori.
Poi Paolo ricorda l’opera compiuta da Cristo per i credenti: “Infatti, quando eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi”.
Cristo dunque è morto per persone che non meritavano nulla, erano infatti “peccatori”. Con questo termine egli indica qui non i fratelli ancora legati all’osservanza delle norme rituali giudaiche (V. Rm 14,2),. ma coloro che sono sotto il dominio del peccato. Essi erano non solo deboli, ma anche “empi”, ma proprio per essi Cristo morì nel tempo stabilito.
L’Apostolo commenta quanto ha appena affermato mettendo in luce il carattere straordinario della morte di Cristo: “Ora, a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi”.
A volte può capitare che un uomo sia disposto a morire per una persona giusta: ci sono casi, infatti, in cui la dedizione verso una persona amata (figlio, coniuge o amico) spinge fino al sacrificio della vita. Ma Cristo ha fatto una cosa che, umanamente parlando, è inconcepibile: egli è morto per noi proprio mentre eravamo ancora indegni e peccatori ed è in questo gesto supremo che si è manifestato l’amore di Dio per tutti noi.
Infine Paolo fa questa riflessione: “A maggior ragione ora, giustificati nel suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di lui”. Se Dio è giunto al punto di dimostrare mediante Cristo un amore così grande per noi quando eravamo ancora peccatori, a maggior ragione ora che siamo giustificati ci salverà per mezzo di Cristo dall’ira finale.
L’apostolo ripete poi lo stesso ragionamento introducendo il concetto di riconciliazione: “Se infatti, quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più, ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita”. Egli sottolinea dunque che Dio, riconciliandosi con noi mediante la morte di Cristo quando eravamo ancora nemici, non potrà non condurci alla salvezza finale ora che siamo stati riconciliati.
La riconciliazione rappresenta il primo passo verso la salvezza, che viene indicata con un verbo al futuro (saremo salvati): con esso l’apostolo vuole sottolineare che la salvezza definitiva, che consiste nell’incontro personale con Dio, è una realtà escatologica, ma al tempo stesso imminente, perché gli ultimi tempi sono già iniziati (V.Rm 13,11). Mentre la riconciliazione ha avuto luogo “per mezzo della morte del Figlio suo”, la salvezza finale si attuerà “mediante la sua vita”: la morte di Cristo ha messo dunque in moto un processo che Egli stesso, ormai vivo in forza della Sua risurrezione, porterà un giorno a compimento facendo sì che i credenti diventino partecipi della Sua nuova vita.
Infine Paolo conclude: “Non solo, ma ci gloriamo pure in Dio, per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo, grazie al quale ora abbiamo ricevuto la riconciliazione”. In forza della riconciliazione così ottenuta, il credente può ora definitivamente “gloriarsi” in Dio.
E' decisamente una prospettiva al di là di ogni nostra possibile aspettativa, una condizione davvero felice per la quale non potevamo vantare alcun merito. Infatti il nostro gloriarci è per mezzo di Gesù Cristo che ci ha meritato questa pace con Dio, la riconciliazione, l'entrata in una vita davvero piena e libera.
Dal vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, Gesù disse alla folla:
«Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me: colui che viene a me, io non lo caccerò fuori, perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato.
E questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno.
Questa infatti è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno».
Gv 6,37-40
Questo brano tratto dal 6^ Capitolo del Vangelo di Giovanni, si colloca subito dopo il discorso di Gesù sul pane di vita. Precedentemente Gesù dopo aver moltiplicato i pani e i pesci si era ritirato sulla montagna e poi aveva attraversato il lago. La gente però che lo voleva fare re lo seguì sull'altra sponda e allora egli tiene il famoso discorso sul pane di vita disceso dal cielo. Egli assicura di essere il vero pane, chi viene a Lui non avrà più fame e chi crede in Lui non avrà più sete. Poi Gesù ritorna dai suoi discepoli, che nel frattempo erano risaliti in barca per tornare a Cafarnao, camminando sulle acqua del lago e ai loro timori risponde: “Sono io, non temete”.
Quando poi alla folla, che per ritrovarlo aveva attraversato il lago con le barche, Gesù dice: “voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati” . E poi Gesù introduce il discorso sul pane di vita. “Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete.
Da qui inizia il brano liturgico: “Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me: colui che viene a me, io non lo caccerò fuori,”
Coloro che seguono Gesù sono come dei doni che il Padre fa al Figlio. Egli li accoglie, non li getta fuori. Il verbo "gettare fuori" è quello utilizzato spesso da Matteo per indicare coloro che sono esclusi dal regno di Dio e dal banchetto delle nozze di Suo Figlio (V. Mt 22,13).
“perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato”.
Già Isaia (55,10-11) affermava che la parola di Dio è simile a un messaggero che ritorna solo dopo aver compiuto la sua missione. Così anche Gesù è disceso dal cielo per compiere la Sua missione facendo la volontà del Padre.
Dio vuole la salvezza completa e perfetta di tutte le persone affidate a Suo Figlio. Questa salvezza ci è data attraverso la risurrezione finale. Le parole di Gesù: "E questa è la volontà di colui che mi ha mandato, che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma lo risusciti nell'ultimo giorno" ci fanno capire che Gesù salva tutti donando la vita eterna, la vita stessa di Dio. E questo dono della vita eterna è legato a una condizione: contemplare il Figlio di Dio e credere in lui. Si tratta dello sguardo contemplativo di una fede profonda che orienta tutta l'esistenza verso la persona di Gesù.
Gesù è Dio che realizza il desiderio più profondo dell'uomo: vivere sempre. Egli appaga questo desiderio vitale dell'uomo a condizione che egli creda, non solo a parole ma con la vita vissuta, che Gesù è il Figlio di Dio.
L'espressione "nell'ultimo giorno" ha un significato preciso: è il giorno in cui termina la creazione dell'uomo e si compie la morte di Gesù; il giorno in cui si celebrerà il trionfo finale del Figlio sulla morte e tutti potranno ricevere lo Spirito che verrà donato all'umanità: il giorno della Pasqua di risurrezione. Allora Gesù porterà a compimento la Sua missione tramite la risurrezione e donerà la vita definitiva, che ha inizio già nella vita presente mediante la fede e il suo compimento nella risurrezione alla fine dei tempi.
seconda MESSA
Dal libro del profeta Isaia
In quel giorno, preparerà il Signore
degli eserciti per tutti i popoli,
su questo monte,
un banchetto di grasse vivande.
Egli strapperà su questo monte
il velo che copriva la faccia di tutti i popoli
e la coltre distesa su tutte le nazioni.
Eliminerà la morte per sempre.
Il Signore Dio asciugherà le lacrime
su ogni volto,
l’ignominia del suo popolo farà scomparire
da tutta la terra,
poiché il Signore ha parlato.
E si dirà in quel giorno:
«Ecco il nostro Dio;
in lui abbiamo sperato perché ci salvasse.
Questi è il Signore in cui abbiamo sperato;
rallegriamoci, esultiamo per la sua salvezza,
Is 25,6a-7-9
Questa parte del libro del profeta Isaia è una sezione di oracoli chiamata “grande Apocalisse” perché riguarda la fine del mondo e il giudizio finale. Al centro di questa raccolta troviamo l’oracolo che preannunzia il banchetto degli ultimi tempi.
Il banchetto viene così descritto: “Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli, su questo monte,un banchetto di grasse vivande», Il simbolismo del banchetto è noto nella Bibbia, ma qui Isaia si riferisce anzitutto al banchetto dell’alleanza, che i capi di Israele avevano consumato sul monte Sinai al cospetto di DIO, ma in questo caso però il convito viene preparato direttamente da Dio. Anche qui il banchetto viene imbandito sulla montagna, che indica simbolicamente il luogo in cui Dio ha messo la Sua dimora.
Diversamente dal banchetto del Sinai però qui sono presenti non solo i rappresentanti di Israele, ma ”tutte le nazioni”. L’alleanza escatologica quindi non sarà più limitata a un solo popolo, ma si estenderà a tutta l’umanità. Dalla magnificenza dei cibi serviti nel banchetto, si può comprendere l’importanza decisiva nella storia della salvezza.
Nel corso del banchetto il Signore indica ai convitati, sotto forma di doni simbolici, gli scopi che intende perseguire. Anzitutto Dio “strapperà su questo monte il velo che copriva la faccia di tutti i popoli e la coltre distesa su tutte le nazioni”.
Sul monte avviene dunque una nuova rivelazione, analoga a quella avvenuta sul Sinai.. Poi” Eliminerà la morte per sempre” Secondo la Genesi la morte era stata la prima conseguenza del peccato di Adamo (V.Gen 3,19), . non si tratta però semplicemente della morte fisica, ma della lontananza da Dio che la morte fisica simboleggia. Oltre a cancellare per sempre la morte, “Il Signore Dio asciugherà le lacrime su ogni volto” Anche la sofferenza sia fisica che morale fa parte della triste relazione tra peccato e morte, per questo nel banchetto finale anch’essa verrà eliminata per sempre. (L’Apocalisse al cap. 21 ne farà riferimento nel v.4 “E tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte),
Infine “l’ignominia del suo popolo farà scomparire da tutta la terra, poiché il Signore ha parlato”.
Alla promessa fatta da Dio per mezzo del profeta, il popolo reagisce con un piccolo inno di lode che verrà pronunziato quando le promesse si saranno realizzate: “Ecco il nostro Dio; in lui abbiamo sperato perché ci salvasse. Questi è il Signore in cui abbiamo sperato; rallegriamoci, esultiamo per la sua salvezza,”
In questa preghiera predomina la speranza in una salvezza che può venire solo dal Signore. Il popolo esprime la sua fede nella parola di DIO e aspetta solo da Lui l’eliminazione di quei mali che gli impediscono di godere fino in fondo della Sua comunione.
Il testo termina con queste parole non riportate nel brano liturgico: “poiché la mano del Signore si poserà su questo monte”.
La “mano del Signore” rappresenta la Sua potenza che gli permette di intervenire in modo straordinario ed efficace nella storia e negli eventi di questo mondo. Ma questa potenza non si esercita più nella guerra contro i Suoi nemici, bensì nella riconciliazione di tutte le nazioni con Lui e tra di loro.
Salmo 24/25 Chi spera in te, Signore, non resta deluso
Ricòrdati, Signore, della tua misericordia
e del tuo amore, che è da sempre
Ricordati di me nella tua misericordia
Per la tua bontà, Signore.
Allarga il mio cuore angosciato,
Liberami dagli affanni
Vedi la mia povertà e la mia fatica
e perdona tutti i miei peccati.
Proteggimi, portami in salvo,
che io non resti deluso,
Perché in te mi sono rifugiato.
Mi proteggano integrità e rettitudine,
Perché in te ho sperato
Il salmista è pieno d’umiltà al ricordo delle sue numerose colpe della sua giovinezza. E’ sgomento alla vista che tanti suoi amici lo hanno tradito per un nulla. Uno screzio è bastato perché si mettessero contro di lui. Egli, piegato dal peso dei suoi peccati, domanda che Dio guardi a lui e non a quanto ha fatto non osservando “la sua alleanza e i suoi precetti”. Si trova in grande difficoltà di fronte ad avversari che lo odiano in modo violento e lui non ha via di salvezza che quella del Signore. Gli errori passati sono il frutto del suo abbandono della “via giusta”. Ora sa che “tutti i sentieri del Signore sono amore e fedeltà”, cioè non portano a rovina, ma anzi danno prosperità, poiché la discendenza di chi teme il Signore “possederà la terra”. L’orante voleva affermarsi sugli altri agendo con spavalderia, con vie traverse, ed ecco che sconfessa tutto il suo passato, trattenendone però la lezione di umiltà, che gli ha dato. Egli sa che non andrà deluso perché ha deciso di essere protetto da "integrità e rettitudine”, cioè dall’osservanza dell’alleanza stabilita da Dio con Israele. L’orante non pensa solo a se stesso, si sente parte del popolo di Dio, e invoca la liberazione di Israele dalle angosce date dai nemici. La liberazione dell’Israele di Dio, la Chiesa, cioè l’Israele fondato sulla fede in Cristo, non escludendo nella sua carità quello etnico basato sulla carne e sul sangue, per il quale la pace passerà dall’accoglienza del Principe della pace.
Il ccmmento è tratto da Perfetta Letizia
Dalla lettera di S. Paolo Apostolo ai Romani
Fratelli, tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: “Abbà, Padre!”.
Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se veramente prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria.
Ritengo infatti che le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi. L’ardente aspettativa della creazione, infatti, è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio.
La creazione infatti è stata sottoposta alla caducità – non per sua volontà, ma per volontà di colui che l’ha sottoposta – nella speranza che anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio.
Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi. Non solo, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo.
Rm 8,14-23
Paolo, continuando la sua lettera ai Romani, in questo brano tratta il tema portante della vita del cristiano che è animata e guidata dallo Spirito. Questa presenza dello Spirito ci rende figli di Dio ed essere figli significa anche essere eredi, partecipare della stessa sorte di Cristo. Non è un caso se questo brano è stato scelto come lettura per la commemorazione dei defunti perché queste parole ci rafforzano nel vivere la nostra vita cristiana e ci consolano al pensiero della nostra morte e di quella dei nostri cari.
«tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio»
E' questa l’affermazione molto forte che Paolo ci da. Essere figli di Dio non è riducibile a una qualità acquisita più o meno magicamente e nemmeno si tratta di uno status giuridico, che non cambia il volto dell'esistenza. Consiste invece in un nuovo cammino di vita, aperto e sostenuto dall'azione potente dello Spirito, il cui traguardo è l'entrata nell'eredità divina.
«E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: “Abbà, Padre!”.
In questo versetto possiamo vedere le due fasi, la situazione attuale e il punto di arrivo. Già adesso siamo figli di Dio se ci muoviamo sotto la guida dello Spirito perché abbiamo già raggiunto uno stato di libertà dal dominio del peccato. Viviamo il già e il non ancora e ci sentiamo liberi di gridare "Abbà, Padre". In questa invocazione a Dio ci rapportiamo con la familiarità del bambino nei confronti del papà, esprimendo ciò che realmente siamo Suoi figli adottivi.
«Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio».
Possiamo sentirci figli di Dio per l'azione conduttrice dello Spirito e sentiamo di esserlo ancora di più quando siamo uniti nella preghiera.
«E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se veramente prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria».
Il concetto figliolanza l’Apostolo lo sviluppa ancora di più. C'è un'eredità che ci aspetta e paradossalmente questa eredità consiste nella condivisione del destino di Cristo, crocifisso e glorificato. Il tema della sofferenza dell'uomo fedele acquista un colore nuovo alla luce della passione di Cristo. Il risultato finale è comunque la gloria, grazie alla Sua risurrezione.
«Ritengo infatti che le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi». L’apostolo in un’altra lettera aveva osservato che ”il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione, ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria (2Cor 4,17). Qui sottolinea che le sofferenze a cui i credenti sono sottoposti nella vita terrena non sono nulla di fronte alla gloria che Dio ha riservato per loro. Naturalmente questa gloria, che un giorno sarà rivelata in essi da Dio, appartiene a loro già fin d’ora, ma in modo ancora nascosto agli occhi della gente.
«L’ardente aspettativa della creazione, infatti, è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio»
In questi versetti troviamo il nocciolo della teologia di Paolo: la conseguenza logica di tutto il suo discorso teologico. Il tempo presente, dopo la morte e risurrezione di Cristo tutto il mondo è in attesa della rivelazione definitiva di quanti sono stati resi figli di Dio grazie alla fede.
“La creazione infatti è stata sottoposta alla caducità – non per sua volontà, ma per volontà di colui che l’ha sottoposta» L’apostolo intravede per tutte le creature non solo la liberazione dal peccato al quale sono state sottomesse, ma una vera e propria trasformazione, che le metterà in sintonia con la nuova condizione dei redenti. A diversità di tanti testi apocalittici non si parla di una nuova terra e di un nuovo cielo, ma del creato attuale. Il compimento delle promesse riguarda soprattutto l'umanità. La creazione è stata coinvolta nella situazione di peccato e perdizione dell'uomo. Il termine caducità indica il vuoto spirituale e l'insignificanza in cui l'adorazione degli idoli ha fatto sprofondare coloro che negano l'esistenza dell'unico vero Dio. Il cosmo è stato posto in questa situazione da Dio, in seguito alla disobbedienza di Adamo
«nella speranza che anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio».
Anche gli esseri privi di intelligenza umana (come gli animali) che compongono la creazione vengono associati a questa attesa dell'umanità. C'è una mancanza che accomuna tutti, la finitezza, la caducità che avrà fine solo quando tutti i figli di Dio saranno entrati nella gloria che li attende.
“Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi.”
C'è una situazione di sofferenza che dura sin dalla fondazione del mondo, ma non si tratta di una sofferenza sterile, ma di sofferenza che porta alla vita. E' come il dolore di una donna che sta per partorire, quindi porterà alla nascita di una vita nuova, sarà feconda di una nuova umanità.
“Non solo, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo”.
Coloro che hanno aderito a Cristo nella fede possiedono già le primizie dello Spirito, cioè un'anticipazione della gloria futura e questo li aiuta a vivere nel tempo presente con gioia e speranza. Nonostante ciò anch'essi gemono nella sofferenza. Anche loro dovranno passare attraverso la morte prima che questa presenza dello Spirito si manifesti completamente.
Nei successivi versetti (non riportati nel brano liturgico) «Nella speranza noi siamo stati salvati. Ora, ciò che si spera, se è visto, non è più oggetto di speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe sperarlo? Ma se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza (.vv. 24-25) Paolo vuole evidenziare che anche i credenti, come tutto il creato, sono stati salvati “nella speranza”. Il concetto stesso di speranza esige che quanto si spera non sia ancora visto, perché in questo caso non sarebbe più oggetto di speranza. Ma proprio perché si spera in ciò che non si vede, si è capaci di attenderlo con pazienza, cioè senza venir meno di fronte alle prove della vita.
Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra.
Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”.
Allora i giusti gli risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”. E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”.»
Poi dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: “Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato”.
Anch’essi allora risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?”. Allora egli risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me”.
E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna».
Mt 25, 31-46
Questo brano del Vangelo di Matteo riporta l’ultima settimana trascorsa da Gesù a Gerusalemme prima della passione. Gesù prima aveva raccontato la parabola delle dieci vergini, poi la parabola dei talenti, ed ora più che una parabola il brano inizia presentando una vera e propria profezia su quello che sarà il nostro incontro con Dio.
“Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria”.
La descrizione ricorda la teofania descritta da Zaccaria: Verrà allora il Signore mio Dio e con lui tutti i suoi santi. (Zc 14,5). Ma mentre nell’AT Dio non si faceva vedere da nessuno, Gesù al contrario apparirà visibilmente dinanzi a tutte le genti. Egli verrà per giudicare il mondo, avvolto dallo splendore della divinità (la “sua” gloria) e attorniato da tutti gli angeli, che costituiranno la Sua corte celeste. Gesù dunque si manifesterà come il Figlio dell’uomo, al quale Dio “diede potere, gloria e regno” (Dn 7,14) e sarà presentato con le Sue qualità di re e di pastore.
La venuta del giudice supremo dà inizio a una grande convocazione: Davanti a Lui verranno radunati tutti i popoli. ”Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra.”
Alla grandiosa manifestazione escatologica del Figlio dell’uomo sono chiamate tutte le genti e il giudizio non riguarderà le nazioni come collettività, bensì le singole persone che le compongono, le quali verranno giudicate secondo le loro opere.
La sentenza viene emessa in due parti, riguardanti rispettivamente i giusti e gli empi: Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo”,
Il regno, promesso da Gesù ai poveri, ai perseguitati, nel giorno del giudizio viene trasmesso da Cristo giudice con il conferimento della salvezza totale e definitiva a coloro che hanno usato misericordia verso i bisognosi.
Vengono poi date le motivazioni della sentenza: “perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”.
Alla sentenza del giudice, i giusti reagiscono con una certa sorpresa dicendo: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”
. E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”.
La risposta dimostra che anche dopo la glorificazione Gesù continua a manifestare la Sua presenza nelle persone più bisognose, mantenendo una comunione particolare con esse, perché prive d’ogni altro appoggio e d’ogni sicurezza terrena.
La condanna di quelli che stanno alla sinistra costituisce il risvolto negativo del giudizio che è la contrapposizione del dialogo con i giusti. Dio nell’Eden aveva maledetto il serpente ma non l’uomo, anche se venne assoggettato per punizione al lavoro faticoso. Ora la maledizione del Figlio dell’uomo segna la condanna definitiva dei malvagi e la privazione eterna della comunione con Dio. Gesù infatti dice: “Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato”.
Si può rivelare che, mentre nella parte precedente i giusti sono benedetti dal Padre, in questa il Padre non viene nominato come colui che maledice. Inoltre non si afferma che il fuoco sia stato preparato per l’uomo, bensì per il diavolo e per i suoi angeli. Quindi l’uomo, facendo buon uso della sua libertà, può sfuggire alla perdizione, ed essere così salvato.
La parabola termina con :”E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna”.
Le parole di Gesù sono severe e serene allo stesso tempo, ci invitano ad un impegno serio e faticoso, ma sono anche fonte di gioia e di speranza. Ci fanno capire che Gesù non è un re distante e impassibile, relegato alle dimore celesti, ma è vicino a noi, più di quanto noi possiamo sperare ed immaginare.
Le stupende parole di S.Agostino ce ne dipingono un po’ la Sua vera fisionomia:
“tu eri dentro di me e io fuori. Lì ti cercavo. Deforme, mi gettavo sulle belle forme delle tue creature. Eri con me, e non ero con te. Mi tenevano lontano da te le tue creature, inesistenti se non esistessero in te. Mi chiamasti, e il tuo grido sfondò la mia sordità; balenasti, e il tuo splendore dissipò la mia cecità; diffondesti la tua fragranza, e respirai e anelo verso di te, gustai e ho fame e sete; mi toccasti, e arsi di desiderio della tua pace” (Confessioni 27,38)
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LE PAROLE DI PAPA FRANCESCO
“Letture che abbiamo ascoltato suscitano in noi, in me, due parole: attesa e sorpresa.
Attesa esprime il senso della vita, perché viviamo nell’attesa dell’incontro: l’incontro con Dio, che è il motivo della nostra preghiera di intercessione oggi, specialmente per i Cardinali e i Vescovi defunti nel corso dell’ultimo anno, per i quali offriamo in suffragio questo Sacrificio eucaristico.
Tutti viviamo nell’attesa, nella speranza di sentirci rivolte un giorno quelle parole di Gesù: «Venite, benedetti dal Padre mio» (Mt 25,34). Siamo nella sala d’attesa del mondo per entrare in paradiso, per prendere parte a quel “banchetto per tutti i popoli” di cui ci ha parlato il profeta Isaia (cfr 25,6). Egli dice qualcosa che ci scalda il cuore perché porterà a compimento proprio le nostre attese più grandi: il Signore «eliminerà la morte per sempre» e «asciugherà le lacrime su ogni volto» (v. 8). È bello quando il Signore viene ad asciugare le lacrime! Ma è tanto brutto quando speriamo che sia qualcun altro, e non il Signore, ad asciugarle. E più brutto ancora, non avere lacrime. Allora noi potremo dire: «Questi è il Signore in cui abbiamo sperato – quello che asciuga le lacrime –; rallegriamoci, esultiamo per la sua salvezza» (v. 9). Sì, viviamo nell’attesa di ricevere beni così grandi e belli che nemmeno riusciamo a immaginarli, perché, come ci ha ricordato l’Apostolo Paolo, «siamo eredi di Dio, coeredi di Cristo» (Rm 8,17) e “aspettiamo di vivere per sempre, aspettiamo la redenzione del nostro corpo” (cfr v. 23).
Fratelli e sorelle, alimentiamo l’attesa del Cielo, esercitiamoci nel desiderio del paradiso. Ci fa bene oggi chiederci se i nostri desideri hanno a che fare con il Cielo. Perché rischiamo di aspirare continuamente a cose che passano, di confondere i desideri con i bisogni, di anteporre le aspettative del mondo all’attesa di Dio. Ma perdere di vista ciò che conta per inseguire il vento sarebbe lo sbaglio più grande della vita. Guardiamo in alto, perché siamo in cammino verso l’Alto, mentre le cose di quaggiù non andranno lassù: le migliori carriere, i più grandi successi, i titoli e i riconoscimenti più prestigiosi, le ricchezze accumulate e i guadagni terreni, tutto svanirà in un attimo, tutto. E rimarrà delusa per sempre ogni attesa riposta in esse. Eppure, quanto tempo, quante fatiche ed energie spendiamo preoccupandoci e rattristandoci per queste cose, lasciando che si affievolisca la tensione verso casa, perdendo di vista il senso del cammino, la meta del viaggio, l’infinito a cui tendiamo, la gioia per cui respiriamo! Chiediamoci: vivo quello che dico nel Credo, «aspetto – cioè – la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà»? E come va la mia attesa? Sono capace di andare all’essenziale o mi distraggo in tante cose superflue? Coltivo la speranza o vado avanti lamentoso, perché do troppo valore a tante cose che non contano e che poi passeranno?
Nell’attesa di domani, ci aiuta il Vangelo di oggi. E qui emerge la seconda parola che vorrei condividere con voi: sorpresa. Perché è grande la sorpresa ogni volta che ascoltiamo il capitolo 25 di Matteo. È simile a quella dei protagonisti, che dicono: «Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?» (vv. 37-39). Quando mai? Così si esprime la sorpresa di tutti, lo stupore dei giusti e lo sgomento degli ingiusti.
Quando mai? Lo potremmo dire anche noi: ci aspetteremmo che il giudizio sulla vita e sul mondo avvenga all’insegna della giustizia, davanti a un tribunale risolutore che, vagliando ogni elemento, faccia chiarezza per sempre sulle situazioni e sulle intenzioni. Invece, nel tribunale divino, l’unico capo di merito e di accusa è la misericordia verso i poveri e gli scartati: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me», sentenzia Gesù (v. 40). L’Altissimo sembra che stia nei più piccoli. Chi abita i cieli dimora tra i più insignificanti per il mondo. Che sorpresa! Ma il giudizio avverrà così perché a emetterlo sarà Gesù, il Dio dell’amore umile, Colui che, nato e morto povero, ha vissuto da servo. La sua misura è un amore che va oltre le nostre misure e il suo metro di giudizio è la gratuità. Allora, per prepararci sappiamo che cosa fare: amare gratuitamente e a fondo perduto, senza attendere contraccambio, chi rientra nella sua lista di preferenze, chi non può restituirci nulla, chi non ci attira, chi serve i più piccoli.
Questa mattina ho ricevuto una lettera da un cappellano di una casa di bambini, un cappellano protestante, luterano, in una casa di bambini in Ucraina. Bambini orfani di guerra, bambini soli, abbandonati. E lui diceva: “Questo è il mio servizio: accompagnare questi scartati, perché hanno perso i genitori, la guerra crudele li ha fatti rimanere soli”. Quest’uomo fa quello che Gesù gli chiede: curare i più piccoli della tragedia. E quando ho letto quella lettera, scritta con tanto dolore, mi sono commosso, perché ho detto: “Signore, si vede che tu continui a ispirare i veri valori del Regno”.
Quando mai?, dirà questo pastore quando incontrerà il Signore. Quel “quando” meravigliato, che ritorna ben quattro volte nelle domande che l’umanità rivolge al Signore (cfr vv. 37.38.39.44), arriva tardi, solo «quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria» (v. 31).
Fratelli, sorelle, non lasciamoci sorprendere anche noi. Stiamo ben attenti a non addolcire il sapore del Vangelo. Perché spesso, per convenienza o per comodità, tendiamo ad attenuare il messaggio di Gesù, ad annacquare le sue parole. Ammettiamolo, siamo diventati piuttosto bravi a fare compromessi con il Vangelo. Sempre fino a qui, fino a là… compromessi. Dare da mangiare agli affamati sì, ma la questione della fame è complessa, e non posso certo risolverla io! Aiutare i poveri sì, però poi le ingiustizie vanno affrontate in un certo modo e allora è meglio attendere, anche perché a impegnarsi poi si rischia di venire disturbati sempre e magari ci si accorge che si poteva fare meglio, meglio aspettare un po’. Stare vicini ai malati e ai carcerati sì, ma sulle prime pagine dei giornali e sui social ci sono altri problemi più urgenti e dunque perché proprio io devo interessarmi a loro? Accogliere i migranti sì, certo, però è una questione generale complicata, riguarda la politica… Io non mi mischio in queste cose… Sempre i compromessi: “sì, sì…”, ma “no, no”. Questi sono i compromessi che noi facciamo con il Vangelo. Tutto “sì” ma, alla fine, tutto “no”. E così, a forza di “ma” e di “però” –tante volte noi siamo uomini e donne di “ma” e di “però” – facciamo della vita un compromesso con il Vangelo. Da semplici discepoli del Maestro diventiamo maestri di complessità, che argomentano molto e fanno poco, che cercano risposte più davanti al computer che davanti al Crocifisso, in internet anziché negli occhi dei fratelli e delle sorelle; cristiani che commentano, dibattono ed espongono teorie, ma non conoscono per nome neanche un povero, non visitano un malato da mesi, non hanno mai sfamato o vestito qualcuno, non hanno mai stretto amicizia con un bisognoso, scordando che «il programma del cristiano è un cuore che vede» (Benedetto XVI, Deus caritas est, 31).
Quando mai? – la grande sorpresa: sorpresa dalla parte giusta e dalla parte ingiusta – Quando mai? Si chiedono sorpresi sia i giusti che gli ingiusti. La risposta è una sola: il quando è adesso, oggi, all’uscita di questa Eucaristia. Adesso, oggi. Sta nelle nostre mani, nelle nostre opere di misericordia: non nelle puntualizzazioni e nelle analisi raffinate, non nelle giustificazioni individuali o sociali. Nelle nostre mani, e noi siamo responsabili.
Oggi il Signore ci ricorda che la morte giunge a fare verità sulla vita e rimuove ogni attenuante alla misericordia. Fratelli, sorelle, non possiamo dire di non sapere. Non possiamo confondere la realtà della bellezza con il trucco fatto artificialmente. Il Vangelo spiega come vivere l’attesa: si va incontro a Dio amando perché Egli è amore. E, nel giorno del nostro congedo, la sorpresa sarà lieta se adesso ci lasciamo sorprendere dalla presenza di Dio, che ci aspetta tra i poveri e i feriti del mondo. Non abbiamo paura di questa sorpresa: andiamo avanti nelle cose che il Vangelo ci dice, per essere giudicati giusti alla fine. Dio attende di essere accarezzato non a parole, ma con i fatti.”
Omelia pronunciata da Papa Francesco nella Basilica di San Pietro - Altare della Cattedra
Mercoledì, 2 novembre 2022
La solennità di tutti i santi del calendario liturgico romano (in latino: Sollemnitas Omnium Sanctorum) cadeva il 1º novembre ed era una festa di precetto che prevedeva anche una vigilia e un’ottava nel calendario anteriore alla riforma liturgica voluta dal concilio ecumenico Vaticano II. Tale festa potrebbe derivare dalla dedicatio Sanctae Mariae ad Martyres, ovvero l’anniversario della trasformazione del Pantheon in chiesa dedicata alla Vergine e a tutti i martiri, avvenuta il 13 maggio del 609 o 610 da parte di Papa Bonifacio IV, che diede così un significato religioso alla festa pagana.
La festa di tutti i Santi il 1° novembre si diffuse nell’Europa latina nei secoli VIII-IX. ma la commemorazione di tutti i Santi la si deve a Papa Gregorio III (731-741) che scelse il 1^ novembre come data dell'anniversario della consacrazione di una cappella a San Pietro alle reliquie "dei santi apostoli e di tutti i santi…”. Venne poi decretata festa di precetto da parte del re franco Luigi il Pio nell'835 e il decreto fu emesso su richiesta di papa Gregorio IV (827-844) con il consenso di tutti i vescovi.
Festeggiare tutti i santi è guardare coloro che già posseggono l’eredità della gloria eterna. Quelli che hanno voluto vivere della loro grazia di figli adottivi, che hanno lasciato che la misericordia del Padre vivificasse ogni istante della loro vita, ogni fibra del loro cuore. I santi contemplano il volto di Dio e gioiscono appieno di questa visione. Sono i fratelli maggiori che la Chiesa ci propone come modelli perché, peccatori come ognuno di noi, tutti hanno accettato di lasciarsi incontrare da Gesù, attraverso i loro desideri, le loro debolezze, le loro sofferenze, e anche le loro tristezze. Questa beatitudine che dà loro il condividere in questo momento la vita stessa della Santa Trinità è un frutto di sovrabbondanza che il sangue di Cristo ha loro acquistato.
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Dal libro dell’Apocalisse di S.Giovanni Apostolo
Io, Giovanni, vidi salire dall’oriente un altro angelo, con il sigillo del Dio vivente. E gridò a gran voce ai quattro angeli, ai quali era stato concesso di devastare la terra e il mare: «Non devastate la terra né il mare né le piante, finché non avremo impresso il sigillo sulla fronte dei servi del nostro Dio».
E udii il numero di coloro che furono segnati con il sigillo: centoquarantaquattromila segnati, provenienti da ogni tribù dei figli d’Israele.
Dopo queste cose vidi: ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani. E gridavano a gran voce:
«La salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono, e all’Agnello».
E tutti gli angeli stavano attorno al trono e agli anziani e ai quattro esseri viventi, e si inchinarono con la faccia a terra davanti al trono e adorarono Dio dicendo: «Amen! Lode, gloria, sapienza, azione di grazie, onore, potenza e forza al nostro Dio nei secoli dei secoli. Amen».
Uno degli anziani allora si rivolse a me e disse: «Questi, che sono vestiti di bianco, chi sono e da dove vengono?». Gli risposi: «Signore mio, tu lo sai». E lui: «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello».
Ap 7,2-4.9-14
L‘Apocalisse di Giovanni, è l’ultimo libro del Nuovo Testamento, si compone di 22 capitoli, ed è uno dei testi più controversi e difficili da interpretare. Appartiene al gruppo di scritti neotestamentari noto come “letteratura giovannea“, in quanto redatta, intorno all’anno 95, verso la fine dell'impero di Domiziano, dai discepoli dell’apostolo che si sono ispirati al suo insegnamento.
I libri che hanno di più influenzato l'Apocalisse sono i libri dei Profeti, principalmente Daniele, Ezechiele, Isaia, Zaccaria e poi anche il Libro dei Salmi.
L'autore presenta se stesso come Giovanni, esiliato a Patmos, isola dell‘Egeo, a circa 70 km da Efeso, a causa della parola di Dio. Secondo alcuni studiosi, la stesura definitiva del libro, anche se iniziata durante l'esilio dell’autore, sarebbe avvenuta ad Efeso.
Questo brano costituisce l’intermezzo della sezione che va sotto il nome “i sette sigilli”. Essi vengono aperti dall’Agnello immolato, cioè da Gesù che si presenta così, per mezzo della Sua passione, come il rivelatore del disegno salvifico di Dio. Ad ogni apertura corrisponde la realizzazione progressiva dei decreti di Dio. Volta per volta vengono rivelati coloro che devono realizzare questi decreti: i quattro cavalieri, i martiri con il loro invito alla giustizia, il cosmo, gli Angeli e i Santi con le loro preghiere.
Prima dell'apertura del settimo sigillo vi è una pausa. Giovanni poi continua il racconto della sua visione:
“Io, Giovanni, vidi salire dall’oriente un altro angelo, con il sigillo del Dio vivente. E gridò a gran voce ai quattro angeli, ai quali era stato concesso di devastare la terra e il mare: «Non devastate la terra né il mare né le piante, finché non avremo impresso il sigillo sulla fronte dei servi del nostro Dio.”
Gli angeli vengono mandati sulla terra a mettere un segno per distinguere gli eletti di Dio. Questo segno pone gli eletti sotto la protezione di Dio, e grazie al Suo aiuto essi potranno resistere alle prove della persecuzione, non però saranno risparmiati dalla sofferenza e neppure dalla morte fisica, ma saranno preservati dalla distruzione totale e dall'annientamento.
“E udii il numero di coloro che furono segnati con il sigillo: centoquarantaquattromila segnati, provenienti da ogni tribù dei figli d’Israele”.
Questo è un numero figurativo, formato da 12 per 12 per 1000. Il numero 12, è il segno del tempo giunto a compimento, poiché nei 12 mesi dell’anno la terra compie il suo giro intorno al sole. Perciò il numero 12, qui abbinato al numero 1000, è considerato segno della perfezione e della completezza. Il numero 144.000, proveniente da ogni tribù dei figli d'Israele, è il prodotto di 12 (tribù d'Israele), per 12 (numero degli apostoli) per 1000 (numero di grandezza divina).
Giovanni poi vede la schiera dei beati che si trova già in cielo:
“Dopo queste cose vidi: ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani. E gridavano a gran voce: «La salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono, e all’Agnello».
I beati del cielo sono una folla immensa, non si può calcolare, non si può esprimere nemmeno con un numero simbolico. Provengono da tutte le parti del mondo. Essi stanno in piedi: atteggiamento dell'uomo vivo e libero. I vestiti bianchi sono simbolo della gloria del cielo e le palme sono simbolo di vittoria.
“Uno degli anziani allora si rivolse a me e disse: «Questi, che sono vestiti di bianco, chi sono e da dove vengono?». Gli risposi: «Signore mio, tu lo sai». E lui: «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello».
Uno degli anziani chiede a Giovanni chi siano queste persone e Giovanni a sua volta lo chiede all'anziano. Si tratta di coloro che hanno perseverato nel momento della prova. Essi hanno potuto resistere non grazie alle loro forze, ma grazie al sangue di Cristo, alla Sua redenzione, a cui hanno potuto accedere grazie alla fede e ai sacramenti.
Il canto che gli eletti elevano a Dio nella liturgia gloriosa del cielo riconosce che “La salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono, e all’Agnello”. C’è quindi un primato assoluto di Dio! Essere santi vuol dire accogliere un dono più che conquistarlo, ma una volta accolto, il dono deve essere a sua volta donato. E’ in questo che scatta l’impegno dell’uomo, la sua risposta d’amore, all’amore di Dio.
Questa grazia è luminosamente presente in tutti i santi, anche in quelli che espressamente non appartengono al cristianesimo, ma che certamente in modo misterioso e segreto sono legati a Dio e al Suo Figlio incarnato.
La santità nasce da un dialogo efficace in cui la prima battuta, quella che rompe il silenzio e crea la bellezza del discorso, è pronunziata da Dio. A questo punto è di vitale importanza rispondere, pronunciare il sì all’adesione piena e totale. Con questo impegno personale la vita è trasformata, divenendo un dialogo vivo e continuo con Dio, che è Amore e a questo amore si risponde solo amando.
Salmo 23/24 - Ecco la generazione che cerca il tuo volto, Signore.
Del Signore è la terra e quanto contiene:
il mondo, con i suoi abitanti.
È lui che l’ha fondato sui mari
e sui fiumi l’ha stabilito.
Chi potrà salire il monte del Signore?
Chi potrà stare nel suo luogo santo?
Chi ha mani innocenti e cuore puro,
chi non si rivolge agli idoli.
Egli otterrà benedizione dal Signore,
giustizia da Dio sua salvezza.
Ecco la generazione che lo cerca,
che cerca il tuo volto, Dio di Giacobbe.
Il salmo presenta il momento in cui Israele ritorna dell’esilio. Ora è consapevole, dopo la distruzione di Gerusalemme e del tempio, che per salire al tempio e per abitare alla sua ombra bisogna essere puri di cuore; il tempio non salva nessuno se non c’è la fedeltà alla legge.
Il Signore è di maestà infinita, e sua “è la terra e quanto contiene: il mondo, con i suoi abitanti”.
Dalla considerazione della grandezza e potenza di Dio parte l’esame delle qualità di chi andrà ad abitare all’ombra del tempio del Signore.
Il tempio è stato distrutto e un coro dice alle porte di ristabilire se stesse. Esse sono state distrutte, ma sono pure “eterne” (traduzione letterale), e perciò saranno rifatte.
Dalle porte del tempio, comprese quelle dell’atrio degli olocausti, entrerà il re della gloria a prendere dimora con la sua gloria nel tempio, nel santo dei santi.
E’ il Signore potente in battaglia, che vince i suoi nemici. “Il Signore degli eserciti” è il Signore delle schiere dei valorosi nella fede.
Il “sensus plenior" del salmo è per salire il monte santo, cioè giungere alla mensa Eucaristica, salire in un cammino d’iniziazione, alla partecipazione piena all’altare, e dimorare nella fede e nell’amore nella casa del Signore richiede rettitudine di vita. Occorre cercare colui che già si è fatto trovare; cercarlo per più conoscerlo e amarlo, in un tendere all’infinito a lui.
E i cieli sono aperti. Le porte del cielo ostruitesi per il peccato dell’uomo ora si sono riaperte. I cori angeli hanno proclamato: “Alzate, o porte, la vostra fronte, alzatevi soglie antiche, ed entri il re della gloria…”. Entri il “Signore valoroso in battaglia”, quella che ha condotto contro le tenebre lanciategli da Satana e i dolori della croce. “E’ il Signore degli eserciti il re della gloria”, il Signore delle schiere apostoliche della Chiesa, che porta la luce del vangelo ovunque.
Commento tratto da “Perfetta Letizia”
Dalla prima lettera di S.Giovanni Apostolo
Carissimi, vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui.
Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è.
Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro.
1Gv 3,1-3
La Prima lettera di Giovanni è una lettera tradizionalmente attribuita a Giovanni apostolo ed evangelista ed inclusa tra i libri del Nuovo Testamento (la quarta delle cosiddette “lettere cattoliche”). La lettera nella sua redazione finale dovrebbe essere stata scritta verso la fine del I secolo, probabilmente ad Efeso.
Nel II secolo, tra tutti gli scritti attribuiti a Giovanni, solo la "Prima lettera" era riconosciuta da tutte le chiese come "Sacra Scrittura“. I destinatari della lettera sono pagani delle comunità dell‘Asia Minore che si sono convertiti al Cristianesimo. Lo scopo che Giovanni si prefigge è quello di richiamare le comunità cristiane all’amore fraterno e di metterle in guardia verso i falsi maestri gnostici ed eretici, che negavano l’incarnazione di Gesù Cristo.
La seconda parte del capitolo 2 è dedicata agli ultimi tempi, che per l'autore della lettera sono ormai vicini. Egli parla di diversi anticristi, cioè di avversari del Signore che cercano di allontanare da Lui i Suoi fedeli. Essi però li hanno riconosciuti, alcuni facevano parte addirittura della loro comunità, e non sono caduti nei loro tranelli. Giovanni ricorda loro come distinguerli: negano che Gesù è il Cristo, negano che sia Figlio di Dio. I cristiani devono dunque rimanere fedeli a Lui e attendere con fiducia la sua parusia, cioè il suo ritorno nella gloria..
Questo brano, tratto dal 3^ capitolo, “Vivere da Figli di Dio”, leggiamo:
“Carissimi, vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui.”
Chi ha aderito al Vangelo non può vacillare nel momento della prova perché è stato il destinatario di un amore grandissimo. Siamo figli di Dio! Questo titolo per noi oggi probabilmente ha perso forse un po' di significato, ma rimane sempre un'affermazione forte. Anche noi come i cristiani di allora siamo “chiamati figli di Dio”, ma il mondo non ci riconosce come tali perché non ha riconosciuto Dio. E' il paradosso dell'amore di Dio, che lascia libere le persone di riconoscerlo come il Signore del mondo e della vita.
“Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è”.
In questo versetto c'è una tensione tra l'oggi e il futuro dei figli di Dio. Adesso è una situazione un po' nascosta, non si sa bene come saremo quando Cristo si manifesterà nella gloria. Una cosa sappiamo: saremo simili a Lui, ricolmi di gloria e di felicità perché lo vedremo faccia a faccia “così come egli è”. Questa anticipazione della gloria futura ci può bastare!
Il desiderio dei credenti è quello di vedere il Signore. La Sua gloria e la Sua bellezza ci investirà completamente e noi parteciperemo di questa Sua gloria.
Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo:
«Beati i poveri in spirito,
perché di essi è il regno dei cieli.
Beati quelli che sono nel pianto,
perché saranno consolati.
Beati i miti,
perché avranno in eredità la terra.
Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia,
perché saranno saziati.
Beati i misericordiosi,
perché troveranno misericordia.
Beati i puri di cuore
perché vedranno Dio.
Beati gli operatori di pace
perché saranno chiamati figli di Dio.
Beati i perseguitati per la giustizia,
perché di essi è il regno dei cieli.
Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia.
Rallegratevi ed esultate perché grande è la vostra ricompensa nei cieli.
Mt 5,1-12 a
L’evangelista Matteo riunisce in un primo grande discorso gli insegnamenti di Gesù , presentando così un catechismo di iniziazione cristiana, opposto all’ideale religioso giudaico. C’era la legge, cioè l’insieme delle esigenze morali, religiose, culturali, personali e collettive che valeva per tutto il popolo di Dio e tutto questo Mosè l’aveva ricevuto sul Sinai. D’ora in poi c’è la nuova legge che Gesù dà sulla montagna come su un nuovo Sinai. Non toglie nulla alla legge di Mosè, ma la completa andando alla radice dei comportamenti umani.
Gesù afferma che beati sono gli uomini e le donne poveri di spirito, beati i misericordiosi, gli afflitti, i miti, gli affamati di giustizia, i puri di cuore, i perseguitati a causa della giustizia ed anche coloro che sono insultati e perseguitati a causa del Suo nome.
Parole come queste non le aveva pronunciate mai nessuno e i discepoli certo non le avevano mai udite sino a quel momento. E anche a noi che le ascoltiamo oggi sembrano davvero molto lontane, si ha come l’impressione di vedere il mondo alla rovescia, quasi agli antipodi di ciò che pensiamo, diciamo e facciamo.
Le beatitudini però non sono delle cose da fare, ma frutti di una scelta di vita che non è sforzo solo nostro, ma conseguenza dell’opera dello Spirito in noi. Solo lo Spirito ci può rendere miti, pacifici, puri di cuore, misericordiosi … Il nostro sforzo deve consistere dunque nell’accogliere l’azione dello Spirito Santo in noi, di obbedire in tutto a Dio. Quanto riusciremo ad accogliere e seguire lo Spirito che elargisce i Suoi doni (fortezza, scienza, sapienza, intelletto, consiglio, pietà, timor di Dio) tanto saremo capaci di vivere le beatitudini. Capiremo così che le beatitudini sono la vita stessa di Gesù, Lui le ha vissute tutte!
Per questo, il nostro aderire ad esse, ci inserisce nella vita di Cristo, ci unisce più che mai a Lui e ci fa comprendere che il premio delle beatitudini è Dio stesso: è Lui la beatitudine vera, la felicità che non avrà mai fine.
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“Oggi festeggiamo tutti i Santi e potremmo avere un’impressione fuorviante: potremmo pensare di celebrare quelle sorelle e quei fratelli che in vita sono stati perfetti, sempre lineari, precisi, anzi “inamidati”. Invece, il Vangelo di oggi smentisce questa visione stereotipata, questa “santità da immaginetta”. Infatti, le Beatitudini di Gesù, che sono la carta d’identità dei santi, mostrano tutto l’opposto: parlano di una vita controcorrente, di una vita rivoluzionaria. I santi sono i veri rivoluzionari.
Prendiamo ad esempio una beatitudine, molto attuale: «Beati gli operatori di pace» (v. 9), e vediamo come la pace di Gesù sia molto diversa da quella che immaginiamo. Tutti desideriamo la pace, ma spesso quello che noi vogliamo non è proprio la pace, è stare in pace, essere lasciati in pace, non avere problemi ma tranquillità. Gesù, invece, non chiama beati i tranquilli, quelli che stanno in pace, ma quelli che fanno la pace e lottano per fare la pace, i costruttori, gli operatori di pace. Infatti, la pace va costruita e come ogni costruzione richiede impegno, collaborazione, pazienza. Noi vorremmo che la pace piovesse dall’alto, invece la Bibbia parla del «seme della pace» (Zc 8,12), perché essa germoglia dal terreno della vita, dal seme del nostro cuore; cresce nel silenzio, giorno dopo giorno, attraverso opere di giustizia e di misericordia, come ci mostrano i testimoni luminosi che festeggiamo oggi. Ancora, noi siamo portati a credere che la pace arrivi con la forza e la potenza: per Gesù è il contrario. La sua vita e quella dei santi ci dicono che il seme della pace, per crescere e dare frutto, deve prima morire. La pace non si raggiunge conquistando o sconfiggendo qualcuno, non è mai violenta, non è mai armata. Stavo vedendo nel programma “A Sua Immagine”, tanti santi e sante che hanno lottato, hanno fatto la pace ma con il lavoro, dando la propria vita, offrendo la vita.
Come si fa allora a diventare operatori di pace? Prima di tutto occorre disarmare il cuore. Sì, perché siamo tutti equipaggiati con pensieri aggressivi, uno contro l’altro, con parole taglienti, e pensiamo di difenderci con i fili spinati della lamentela e con i muri di cemento dell’indifferenza; e fra lamentela e indifferenza ci difendiamo, ma questo non è pace, questo è guerra. Il seme della pace chiede di smilitarizzare il campo del cuore. Come va il tuo cuore? È smilitarizzato o è così con queste cose, con la lamentela e l’indifferenza, con l’aggressione? E come si smilitarizza il cuore? Aprendoci a Gesù, che è «la nostra pace» (Ef 2,14); stando davanti alla sua Croce, che è la cattedra della pace; ricevendo da Lui, nella Confessione, «il perdono e la pace». Da qui si comincia, perché essere operatori di pace, essere santi, non è capacità nostra, è dono suo, è grazia.
Fratelli e sorelle, guardiamoci dentro e chiediamoci: siamo costruttori di pace? Lì dove viviamo, studiamo e lavoriamo, portiamo tensione, parole che feriscono, chiacchiere che avvelenano, polemiche che dividono? Oppure apriamo la via della pace: perdoniamo chi ci ha offeso, ci prendiamo cura di chi si trova ai margini, risaniamo qualche ingiustizia aiutando chi ha di meno? Questo si chiama costruire la pace.
Può sorgere però un’ultima domanda, che vale per ogni beatitudine: conviene vivere così? Non è perdente? È Gesù a darci la risposta: gli operatori di pace «saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5,9): nel mondo sembrano fuori posto, perché non cedono alla logica del potere e del prevalere, in Cielo saranno i più vicini a Dio, i più simili a Lui. Ma, in realtà, anche qui chi prevarica resta a mani vuote, mentre chi ama tutti e non ferisce nessuno vince: come dice il Salmo, “l’uomo di pace avrà una discendenza” (cfr Sal 37,37).
La Vergine Maria, Regina di tutti i santi, ci aiuti a essere costruttori di pace nella vita di ogni giorno.”
Papa Francesco
Parte dell’Angelus del 1 novembre 2022
La liturgia di questa domenica ci aiuta a comprendere meglio come Dio non ama l’ipocrisia di chi dice subito si e non fa la Sua volontà. La misura del valore autentico e nascosto di ogni persona è in ultima istanza solo nelle mani di Dio che vede nei cuori e non giudica mai per sentito dire!
Nella prima lettura, tratta dal Libro del profeta Ezechiele, ci porta a considerare che ogni uomo è arbitro della propria salvezza in quanto il Signore è pronto a perdonare sia il giusto che il peccatore che pentendosi si converte
Nella seconda lettura, nella sua lettera ai Filippesi, Paolo riporta l’inno di lode a Colui che eseguì in modo perfetto la missione affiedatagli al Padre Suo. Obbediente fino alla morte: per amore del Padre e per amore dell’uomo.
Nel Vangelo di Matteo, troviamo Gesù che presenta una parabola che è un vero e proprio quadretto di vita familiare, semplice, ma sempre attuale: un figlio apparentemente corretto che dice subito si alla richiesta del padre, ma poi non obbedisce, e l’altro figlio, il classico ribelle, che prima dice no, ma poi pentito fa la volontà del padre. Questo testo è un chiaro invito a infrangere i luoghi comuni nel giudicare gli uomini. Ogni creatura, infatti, ha sempre in sè la fiaccola dell’amore di Dio, anche quando è appannata dal peccato, e ai nostri occhi umani sembra sul punto di spegnersi. Gesù non ha mai spento nessuna fiaccola, anche la più flebile, ma vi ha sempre aggiunto nuovo olio perchè potesse ritornare a splendere.
Dal libro del profeta Ezechiele
Così dice il Signore: «Voi dite: “Non è retto il modo di agire del Signore”. Ascolta dunque, casa d’Israele: Non è retta la mia condotta o piuttosto non è retta la vostra?
Se il giusto si allontana dalla giustizia e commette il male e a causa di questo muore, egli muore appunto per il male che ha commesso.
E se il malvagio si converte dalla sua malvagità che ha commesso e compie ciò che è retto e giusto, egli fa vivere se stesso. Ha riflettuto, si è allontanato da tutte le colpe commesse: egli certo vivrà e non morirà».
Ez 18,25-28
Il profeta Ezechiele nacque intorno al 620 a.C. verso la fine del regno di Giuda. Fu deportato in Babilonia nel 597 a.C. assieme al re Ioiachin, stabilendosi nel villaggio di Tel Aviv sul fiume Chebar. Cinque anni più tardi ricevette la chiamata alla missione di profeta, con il compito di rincuorare i Giudei in esilio e quelli rimasti a Gerusalemme. Ezechiele anche se non fu un profeta all'altezza di Isaia o Geremia, ebbe una sua originalità, che in certi casi può averlo fatto apparire ingenuo. Usò immagini di grande potenza evocativa, specie negli oracoli di condanna, ebbe toni ed espressioni particolarmente duri ed efficaci.
Nella parte precedente questo brano, che la liturgia ci propone, Ezechiele aveva messo in discussione, come aveva già fatto Geremia (cfr. Ger 31,29), il proverbio secondo cui «i padri hanno mangiato l'uva acerba e i denti dei figli si sono allegati» ed esordisce affermando, a nome di Dio, che questo proverbio non deve essere più ripetuto, ed indica quali sono le condizioni perché un uomo possa vivere .
In questo brano il profeta immagina che gli israeliti criticano il comportamento di Dio per cui pronto il Signore risponde: “Ascolta dunque, popolo d'Israele: Non è retta la mia condotta o piuttosto non è retta la vostra?” Il pensiero di scontare la pena di peccati commessi dai loro padri era per i giudei un comodo alibi per non responsabilizzarsi, mentre l’idea di una responsabilità personale li stimolava ad essere responsbaili delle loro azioni.
Dopo aver difeso il comportamento di Dio il profeta sintetizza il suo messaggio: in due ipotesi.
Nella prima dice: “Se il giusto si allontana dalla giustizia e commette il male e a causa di questo muore, egli muore appunto per il male che ha commesso.”
Nella seconda prospetta il caso opposto: “E se il malvagio si converte dalla sua malvagità che ha commesso e compie ciò che è retto e giusto, egli fa vivere se stesso. Ha riflettuto, si è allontanato da tutte le colpe commesse: egli certo vivrà e non morirà».
Dio mette davanti a Israele la vita e il bene, la morte e il male, e comanda che il popolo lo ami, minacciando in caso contrario i castighi più terribili (Dt 30,15-20). Ma Dio non è indifferente alle scelte delle Sue creature, Egli non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva .
La fede in un Dio amante della vita sta alla base della fede di Israele. Questa fede comporta l’osservanza dei comandamenti riguardanti la giustizia e la solidarietà con i più poveri. Se Dio vuole che il popolo gli sia fedele, l’unico motivo è che da questa fedeltà derivi al popolo la possibilità di essere prospero e felice.
In un’epoca in cui non si parlava ancora di una vita oltre la morte, sentirsi in comunione con Dio implicava anche un benessere materiale, che diventava però segno della benedizione divina solo se era condiviso con il bisognoso.
Salmo 24Ricòrdati, Signore, della tua misericordia.
Fammi conoscere, Signore, le tue vie,
insegnami i tuoi sentieri.
Guidami nella tua fedeltà e istruiscimi,
perché sei tu il Dio della mia salvezza;
io spero in te tutto il giorno.
Ricòrdati, Signore, della tua misericordia
e del tuo amore, che è da sempre.
I peccati della mia giovinezza
e le mie ribellioni, non li ricordare:
ricòrdati di me nella tua misericordia,
per la tua bontà, Signore.
Buono e retto è il Signore,
indica ai peccatori la via giusta;
guida i poveri secondo giustizia,
insegna ai poveri la sua via.
Il salmista è pieno d’umiltà al ricordo delle sue numerose colpe della sua giovinezza. E’ sgomento alla vista che tanti suoi amici lo hanno tradito per un nulla. Uno screzio è bastato perché si mettessero contro di lui. Egli, piegato dal peso dei suoi peccati, domanda che Dio guardi a lui e non a quanto ha fatto non osservando “la sua alleanza e i suoi precetti”. Si trova in grande difficoltà di fronte ad avversari che lo odiano in modo violento e lui non ha via di salvezza che quella del Signore. Gli errori passati sono il frutto del suo abbandono della “via giusta”. Ora sa che “tutti i sentieri del Signore sono amore e fedeltà”, cioè non portano a rovina, ma anzi danno prosperità, poiché la discendenza di chi teme il Signore “possederà la terra”. L’orante voleva affermarsi sugli altri agendo con spavalderia, con vie traverse, ed ecco che sconfessa tutto il suo passato, trattenendone però la lezione di umiltà, che gli ha dato. Egli sa che non andrà deluso perché ha deciso di essere protetto da "integrità e rettitudine”, cioè dall’osservanza dell’alleanza stabilita da Dio con Israele. L’orante non pensa solo a se stesso, si sente parte del popolo di Dio, e invoca la liberazione di Israele dalle angosce date dai nemici. La liberazione dell’Israele di Dio, la Chiesa, cioè l’Israele fondato sulla fede in Cristo, non escludendo nella sua carità quello etnico basato sulla carne e sul sangue, per il quale la pace passerà dall’accoglienza del Principe della pace.
Commento tratto da “Perfetta Letizia”
Dalla lettera di S.Paolo apostolo ai Filippesi
Fratelli, se c’è qualche consolazione in Cristo, se c’è qualche conforto, frutto della carità, se c’è qualche comunione di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di compassione, rendete piena la mia gioia con un medesimo sentire e con la stessa carità, rimanendo unanimi e concordi. Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso. Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri.
Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù
egli, pur essendo nella condizione di Dio,
non ritenne un privilegio l’essere come Dio,
ma svuotò se stesso
assumendo una condizione di servo,
diventando simile agli uomini.
Dall’aspetto riconosciuto come uomo,
umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte
e a una morte di croce.
Per questo Dio lo esaltò
e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome,
perché nel nome di Gesù
ogni ginocchio si pieghi nei cieli,
sulla terra e sotto terra,
e ogni lingua proclami:
«Gesù Cristo è Signore!»,
a gloria di Dio Padre.
Fil 2,1-11
Continuando la lettera ai Filippesi, che Paolo ha scritto da Efeso durante il terzo viaggio missionario, dopo averli incoraggiati a “combattere unanimi per la fede del vangelo senza lasciarsi intimidire in nulla dagli avversari” provenienti dall’esterno (1,27-30), in questo brano liturgico egli li esorta all’unità, e all’impegno per la salvezza.
Paolo inizia la sua esortazione con quattro frasi poste al condizionale:
“se c’è qualche consolazione in Cristo, se c’è qualche conforto, frutto della carità, se c’è qualche comunione di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di compassione”, In questo modo egli mette in luce alcuni atteggiamenti che devono animare la vita della comunità. Questi atteggiamenti costruiscono la comunità stessa, la quale può raggiungere il suo scopo solo se tutti i suoi membri si lasciano impregnare da “sentimenti di amore e di compassione”.
Ma al tempo stesso Paolo sottolinea che questi atteggiamenti procurano anche a lui conforto e consolazione: “rendete piena la mia gioia con un medesimo sentire e con la stessa carità, rimanendo unanimi e concordi”. L’accenno alla gioia che gli procurano spinge l’apostolo a precisare meglio il suo pensiero: ciò che gli sta a cuore è il fatto che essi abbiano “un medesimo sentire e con la stessa carità”, Dunque ciò che gli sta soprattutto a cuore non è l’unità esteriore dell’agire, ma l’essere uniti nell’amore vicendevole e unanime nei pensieri, cioè nel modo di vedere e di valutare i valori fondamentali della vita.
Egli poi continua affermando: “ Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso. Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri”. Con queste parole egli esorta i filippesi a evitare lo spirito di rivalità e di concorrenza che rappresentano il rischio più grosso per la vita di una comunità.
Per evitare di cadere in una spirale di intolleranza reciproca è importante perseguire il bene, cercando sì il proprio interesse, ma sempre all’interno di un bene più grande, che è quello di tutti. Per ottenere ciò è necessaria una buona dose di umiltà, che consiste nel non ritenersi superiori agli altri, cioè nel non pensare di essere al centro di tutto e di far girare gli altri intorno a sé.
Infine queste esortazioni all’amore fraterno vengono condensate in un’unica richiesta:
“Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù” .
Paolo non si accontenta di proporre dei comportamenti, anche se sublimi, che però rischiano di rimanere astratti, senza effetto nella vita delle persone. Egli propone un modello da seguire, che è quello del loro Maestro, Gesù Cristo. Egli però non chiede di imitare quello che Lui ha fatto, ma piuttosto di avere gli stessi sentimenti che hanno ispirato la Sua vita. Ciò che conta non è il fare, ma il pensare, cioè l’adesione convinta e vissuta, i valori per i quali Gesù è vissuto ed è morto.
Per presentare concretamente quale sia stato il modo di pensare di Gesù, Paolo inserisce a questo punto l’inno cristologico, preso forse dalla liturgia di qualche comunità, che esprime tutta l’ampiezza del mistero di Cristo, che qui è celebrato in due grandi aspetti: discesa e risalita, che formano una curva le cui estremità si ricongiungono.
L’inno si apre con: “egli, pur essendo nella condizione di Dio”,
E continua con una frase in cui si spiega in che modo Gesù ha gestito il Suo essere nella condizione di Dio: “non ritenne un privilegio l’essere come Dio”,
Questa espressione è stata comunemente tradotta “l’essere uguale a Dio”, con riferimento alla natura divina di Cristo.
L’inno prosegue affermando che Cristo “svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini”. Perciò non solo non volle avvalersi del Suo privilegio, ma addirittura vi rinunciò, in quanto “svuotò se stesso”. Questo però non significa che Gesù ha cessato di essere uguale a Dio, ma che si è spogliato, nella Sua umanità, della gloria divina manifestata solo nella trasfigurazione (Mt 17,1-8) che poi riceve dal Padre.
E’ andato fino al più profondo dell’abbassamento “umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce”.
La precisazione “morte di croce” assume un significato speciale, in quanto la pena capitale della crocifissione richiamava alla mente dei filippesi, che vivevano in una città romana, l’umiliazione più degradante e più ignominiosa, il colmo dell’infamia: essi potevano così rendersi conto che Gesù aveva raggiunto il limite estremo dell’umiliazione sottoponendosi perfino al crudelissimo e terribile supplizio, della crocifissione.
“Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome”, il Padre lo glorifica, gli sottomette l’universo e gli dà la piena prerogativa del suo titolo regale e divino di Signore “perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: «Gesù Cristo è Signore!», a gloria di Dio Padre.”
Nel pensiero di Paolo forse qui emerge il ricordo dell’orgoglio di Adamo, che pretendeva di farsi uguale a Dio, per contrapporlo al dono di Cristo.
Ma l’inno soprattutto ricorda ancora più chiaramente i canti del Servo del Signore (Is 53) il cammino di umiliazione che ha portato Gesù, sulla linea del personaggio predetto da Isaia, alla sofferenza e alla morte. In altre parole, Egli diversamente da Adamo, non ha voluto condurre il Suo rapporto con Dio in termini di potere o di dominio, ma di amore e di servizio.
Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: «Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. Si rivolse al primo e disse: “Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna”. Ed egli rispose: “Non ne ho voglia”. Ma poi si pentì e vi andò. Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed egli rispose: “Sì, signore”. Ma non vi andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». Risposero: «Il primo». E Gesù disse loro: «In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli».
Mt 21, 28-32
Questo episodio che l’evangelista Matteo ci riporta, avviene dopo l’ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme, e la cacciata dal tempio dei venditori, perciò il contesto della parabola è quello del conflitto aperto tra Gesù e le autorità religiose e civili che governano Gerusalemme.
Matteo ci presenta cinque controversie che segnano la rottura tra Gesù e chi esercita il potere.
La prima in particolare riguarda l'autorità di Gesù. I capi, infatti, dopo che Gesù aveva scacciato i venditori dal Tempio, ingaggiano con lui una vera e propria battaglia che si concluderà con la Sua condanna. Gesù non si sottrae allo scontro, anzi desidera confrontarsi e chiama i suoi interlocutori ad esporsi e a prendere posizione.
Gesù qui racconta che un uomo che aveva due figli, chiede al primo di andare a lavorare nella vigna. Questi risponde di sì, ma poi non ci va. Poi chiede la stessa cosa al secondo, che risponde di no, ma poi, pentitosi, ci va. Dal testo appare in modo abbastanza evidente che i destinatari della parabola sono i gran sacerdoti e gli anziani, menzionati nella controversia precedente quella su quale autorità Gesù agisse (v. 23), mentre il simbolo della vigna si riferisce al popolo d'Israele (Is 5,1-7) .
L'invito del padre ai due figli evidenzia la sua premura per la vigna, mentre la risposta dei figli sottolinea la loro libertà nei confronti del padre ed esprime teologicamente la risposta di fede o d'incredulità alla parola di Dio.
Al termine di questo breve racconto Gesù provoca il giudizio dei suoi interlocutori chiedendo: “Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?”. E quando questi non possono fare a meno di rispondere: “Il primo”, Gesù allora afferma: “In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio.” C’è da tenere presente che nell’ambiente giudaico questa affermazione è sorprendente e quanto mai provocatoria perché la conversione di queste due categorie di persone era ritenuta quasi impossibile!
Gesù poi prosegue: “Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli”. Matteo con questo versetti intende agganciare la parabola alla funzione del Battista, oggetto della disputa precedente tra Gesù e le autorità giudaiche.
La “via della giustizia” è un'espressione sapienziale (V. Pr 8,20; 16,31), che indica qui la fedeltà del Precursore alla missione affidatagli da Dio, considerata da Matteo parallela a quella del Messia
Questa parabola è tipica della predicazione di Gesù, il quale, proprio per sottolineare l’iniziativa salvifica di Dio a vantaggio di tutti, mette in primo piano gli ultimi, presentandoli come l’oggetto privilegiato dell’indulgenza divina.
Gesù non ha mai giudicato gli uomini per categorie, per cui i pubblicani e le prostitute andranno in paradiso, non in quanto pubblicani e prostitute, ma perché, pur essendo vissuti nel peccato, hanno poi accolto l’annuncio del regno, abbracciando la fede e le sue opere, come gli operai dell’ultima ora.
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“Con la sua predicazione sul Regno di Dio, Gesù si oppone a una religiosità che non coinvolge la vita umana, che non interpella la coscienza e la sua responsabilità di fronte al bene e al male. Lo dimostra anche con la parabola dei due figli, che viene proposta nel Vangelo di Matteo. All’invito del padre ad andare a lavorare nella vigna, il primo figlio risponde impulsivamente “no, non ci vado”, ma poi si pente e ci va; invece il secondo figlio, che subito risponde “sì, sì papà”, in realtà non lo fa, non ci va. L’obbedienza non consiste nel dire “sì” o “no”, ma sempre nell’agire, nel coltivare la vigna, nel realizzare il Regno di Dio, nel fare del bene. Con questo semplice esempio, Gesù vuole superare una religione intesa solo come pratica esteriore e abitudinaria, che non incide sulla vita e sugli atteggiamenti delle persone, una religiosità superficiale, soltanto “rituale”, nel brutto senso della parola.
Gli esponenti di questa religiosità “di facciata”, che Gesù disapprova, erano in quel tempo «i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo» (Mt 21,23) i quali, secondo l’ammonizione del Signore, nel Regno di Dio saranno sorpassati dai pubblicani e dalle prostitute (cfr v. 31). Gesù dice loro: “Saranno i pubblicani, cioè i peccatori, e le prostitute a precedervi nel Regno dei cieli”. Questa affermazione non deve indurre a pensare che fanno bene quanti non seguono i comandamenti di Dio, quelli che non seguono la morale, e dicono: «Tanto, quelli che vanno in Chiesa sono peggio di noi!». No, non è questo l’insegnamento di Gesù. Gesù non addita i pubblicani e le prostitute come modelli di vita, ma come “privilegiati della Grazia”. E vorrei sottolineare questa parola “grazia”, la grazia, perché la conversione sempre è una grazia. Una grazia che Dio offre a chiunque si apre e si converte a Lui. Infatti queste persone, ascoltando la sua predicazione, si sono pentite e hanno cambiato vita. Pensiamo a Matteo, ad esempio, San Matteo, che era un pubblicano, un traditore alla sua patria.
Nel Vangelo di oggi, chi fa la migliore figura è il primo fratello, non perché ha detto «no» a suo padre, ma perché dopo il “no” si è convertito al “sì”, si è pentito. Dio è paziente con ognuno di noi: non si stanca, non desiste dopo il nostro «no»; ci lascia liberi anche di allontanarci da Lui e di sbagliare. Pensare alla pazienza di Dio è meraviglioso! Come il Signore ci aspetta sempre; sempre accanto a noi per aiutarci; ma rispetta la nostra libertà. E attende trepidante il nostro “sì”, per accoglierci nuovamente tra le sue braccia paterne e colmarci della sua misericordia senza limiti. La fede in Dio chiede di rinnovare ogni giorno la scelta del bene rispetto al male, la scelta della verità rispetto alla menzogna, la scelta dell’amore del prossimo rispetto all’egoismo. Chi si converte a questa scelta, dopo aver sperimentato il peccato, troverà i primi posti nel Regno dei cieli, dove c’è più gioia per un solo peccatore che si converte che per novantanove giusti (cfr Lc 15,7).
Ma la conversione, cambiare il cuore, è un processo, un processo che ci purifica dalle incrostazioni morali. E a volte è un processo doloroso, perché non c’è la strada della santità senza qualche rinuncia e senza il combattimento spirituale. Combattere per il bene, combattere per non cadere nella tentazione, fare da parte nostra quello che possiamo, per arrivare a vivere nella pace e nella gioia delle Beatitudini. Il Vangelo di oggi chiama in causa il modo di vivere la vita cristiana, che non è fatta di sogni e belle aspirazioni, ma di impegni concreti, per aprirci sempre alla volontà di Dio e all’amore verso i fratelli. Ma questo, anche il più piccolo impegno concreto, non si può fare senza la grazia. La conversione è una grazia che dobbiamo chiedere sempre: “Signore dammi la grazia di migliorare. Dammi la grazia di essere un buon cristiano”.
Maria Santissima ci aiuti ad essere docili all’azione dello Spirito Santo. Egli è Colui che scioglie la durezza dei cuori e li dispone al pentimento, per ottenere la vita e la salvezza promesse da Gesù.”
Papa Francesco
Parte dell’Angelus del 27 settembre 2020
Le letture che la liturgia di questa domenica ci porta a meditare, hanno come filo conduttore il simbolo delle chiavi e il suo profondo significato.
La prima lettura, tratta dal libro del profeta Isaia, riporta l’oracolo che annuncia che Dio metterà la chiave della casa di Davide nelle mani di Eliakim, personaggio che simboleggia Cristo, Colui che prenderà su di sé in modo definitivo la chiave di Israele.
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera ai Romani, San Paolo di fronte ai disegni meravigliosi e imperscrutabili della sapienza e della misericordia di Dio, invita tutti a contemplare e adorare il Creatore.
Nel Vangelo, San Matteo narra come alla professione di fede di Pietro, Gesù risponde con la dichiarazione che proprio su di lui, Pietro, edificherà la Sua Chiesa, e gli affiderà l’incarico del servizio dell’autorità e della guida nell’unità. Per fede Pietro ha ricevuto il dono delle chiavi del Regno dei cieli e con esse il potere di sciogliere e legare, così per fede noi, come Pietro, possiamo riconoscere in Gesù, il Figlio del Dio vivente.
Dal libro del profeta Isaia
Così dice il Signore a Sebna, maggiordomo del palazzo:
«Ti toglierò la carica, ti rovescerò dal tuo posto.
In quel giorno avverrà che io chiamerò il mio servo Eliakìm, figlio di Chelkìa;
lo rivestirò con la tua tunica, lo cingerò della tua cintura e metterò il tuo potere nelle sue mani.
Sarà un padre per gli abitanti di Gerusalemme
e per il casato di Giuda.
Gli porrò sulla spalla la chiave della casa di Davide:
se egli apre, nessuno chiuderà;
se egli chiude, nessuno potrà aprire.
Lo conficcherò come un piolo in luogo solido
e sarà un trono di gloria per la casa di suo padre».
Is 22,19-23
Il profeta Isaia iniziò la sua opera pubblica verso la fine del regno di Ozia, re di Giuda, attorno al 740 a.C. A quel tempo, l'intera regione siro-palestinese era minacciata dall'espansionismo assiro. Il suo libro si apre con una raccolta di oracoli anteriori alla guerra siro-efraimita (cc. 1-5), a cui fa seguito il “libro dell’Emmanuele”, che risale invece al periodo in cui questo evento ha avuto luogo (cc. 6-12). Dopo queste due parti troviamo una serie di oracoli contro le nazioni (cc. 13-23). Verso la fine di questa raccolta si trova, un oracolo contro Sebna, un personaggio della corte reale, maggiordomo del re. Si tratta di un oracolo, anteriore alla campagna di Sennacherib (701 a.C.): ed è l’unico in cui il profeta si interessa alle sorti di una singola persona. A Sebna il profeta preannunzia la destituzione e la sostituzione con un altro dignitario chiamato Eliakim.
Nella parte precedente questo brano, vengono riportate le ragioni della disgrazia di Sebna e si descrive in modo metaforico la sua caduta. Il profeta lo accusa di essersi fatto costruire un sepolcro sotterraneo seguendo l’uso dei notabili egizi, con lo scopo certamente di immortalare il suo nome e l’immagine usata per indicare la sua caduta in disgrazia è quella di una palla che DIO scaglia lontano e fa rotolare sopra un ampio terreno; in conclusione il profeta gli annunzia che morirà in un paese straniero
Nel brano liturgico viene preannunziata in modo esplicito la sostituzione di Sebna: Il Signore stesso interviene pronunciando questa sentenza : “Ti toglierò la carica, ti rovescerò dal tuo posto. …. È questo il primo passo della sua caduta. Il profeta però quasi a rendere più dura la sua disgrazia descrive il passaggio del suo incarico ad un altro personaggio della corte:
In quel giorno avverrà che io chiamerò il mio servo Eliakìm, figlio di Chelkìa;
La sostituzione di Sebna con Eliakim viene descritta mediante due azioni rituali, il rivestimento del secondo con gli abiti del primo e il conferimento della chiave. Eliakim verrà rivestito della tunica e cinto con la sciarpa che erano appartenute a Sebna.
Ciò significa che gli sarà conferito il potere che questi prima deteneva: questa umiliazione sarà tanto più cocente in quanto il nuovo dignitario “ Sarà un padre per gli abitanti di Gerusalemme e per il casato di Giuda”. “Padre” era un titolo o un ufficio di corte (cfr. Is 9,5): al di là del suo significato formale questo vuol forse dire che Eliakim gestirà la sua carica in modo tale da riscuotere non solo l’approvazione del re, ma anche il favore della gente comune. Forse proprio questo non era riuscito a Sebna, e ciò era stato uno dei motivi della sua rimozione.
Inoltre a Eliakim verrà consegnata la chiave della casa di Davide. Con questa chiave egli potrà aprire e chiudere, senza che nessuno possa ostacolarlo: “se egli apre, nessuno chiuderà; se egli chiude, nessuno potrà aprire”. La chiave della casa di Davide rappresenta il potere decisionale in tutti gli affari riguardanti il governo della nazione.
Infine si dice che Eliakim sarà come un paletto conficcato in un” luogo solido” e “sarà un trono di gloria per la casa di suo padre”.
Con l’immagine del paletto conficcato in luogo solido si vuole dunque significare la stabilità dell’incarico conferito. Il “trono di gloria” indica il suo successo, che porterà onore e potenza a tutta la sua famiglia.
L’importanza di questo testo è dovuta anche al fatto che viene ripreso nell’Apocalisse “Così parla il Santo, il Verace,Colui che ha la chiave di Davide: quando egli apre nessuno chiude, e quando chiude nessuno apre” (3,7) e anche Matteo ci fa riferimento nel suo Vangelo “A te darò le chiavi del regno dei cieli:” (16,19) . Affidare le chiavi è rendere l’affidatario detentore di pieni poteri.
Nei versetti successivi, non riportati dal brano liturgico, leggiamo che proprio perché di Eliakim si sono approfittati tutti i suoi parenti,* egli sarà come un paletto che anche se conficcato in luogo solido, si spezzerà, cadrà e andrà in frantumi, coinvolgendo nella sua rovina tutto ciò che era stato appeso ad esso. Anche per Eliakim, nonostante le sue qualità, il potere sarà una realtà temporanea e provvisoria.
* situazione che si è sempre ripetuta … dice bene Qoèlet “Ciò che è stato sarà e ciò che si è fatto si rifarà;non c’è niente di nuovo sotto il sole” Qo 1,9)
Salmo 137 - Signore, il tuo amore è per sempre.
Ti rendo grazie, Signore, con tutto il cuore:
hai ascoltato le parole della mia bocca.
Non agli dèi, ma a te voglio cantare,
mi prostro verso il tuo tempio santo.
Rendo grazie al tuo nome
per il tuo amore e la tua fedeltà:
hai reso la tua promessa più grande del tuo nome.
Nel giorno in cui ti ho invocato, mi hai risposto,
hai accresciuto in me la forza.
Perché eccelso è il Signore,
ma guarda verso l’umile;
il superbo invece lo riconosce da lontano.
Signore, il tuo amore è per sempre:
non abbandonare l’opera delle tue mani.
Il salmista ringrazia Dio per avere ascoltato la sua preghiera e avergli usato misericordia. La tradizione parla del re Davide, ma più probabilmente si tratta di Ezechia dopo la clamorosa liberazione di Gerusalemme dall'assedio degli Assiri (2Re 19,35): “Hai reso la tua promessa più grande del tuo nome”.
Egli vuole cantare la sua lode al cospetto di Dio, rifiutando ogni adesione agli idoli: "Non agli dèi, ma a te voglio cantare".
Dio ha risposto alla sua supplica rendendolo più forte di fronte ai sui nemici: “Hai accresciuto in me la forza”.
Il salmista professa la sua fede nel futuro messianico che vedrà “tutti i re della terra” lodare il Signore. Sarà quando “ascolteranno le parole della tua bocca”, dove per “bocca” si deve intendere il futuro Messia.
I re, i popoli, celebreranno le vie del Signore annunciate dal Messia.
Il salmista ha grande fiducia in Dio, affinché la sua missione di re abbia successo: "Il Signore farà tutto per me". Il salmista termina invocando: “Non abbandonare l'opera delle tue mani”, cioè la dinastia di Davide.
Noi crediamo che giungerà il tempo della “civiltà dell'amore”, quando i popoli e i potenti che li governano, si apriranno a Cristo. Ogni cristiano deve adoperarsi per questo tempo con la forza (“hai accresciuto in me la forza”) che sgorga dalla partecipazione Eucaristica.
La nostra battaglia non è contro nemici fatti di carne e sangue, come ci dice san Paolo (Ef 6,12), ma “contro i Principati e le Potenze, contro i dominatori di questo mondo tenebroso, contro gli spiriti del male”, cioè contro i demoni.
Commento tratto da “Perfetta Letizia”
Dalla lettera di S.Paolo apostolo ai Romani
O profondità della ricchezza, della sapienza
e della conoscenza di Dio! Quanto insondabili sono i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!
Infatti, chi mai ha conosciuto il pensiero del Signore?
O chi mai è stato suo consigliere?O chi gli ha dato qualcosa per primo tanto da riceverne il contraccambio?
Poiché da lui, per mezzo di lui e per lui sono tutte le cose.
A lui la gloria nei secoli. Amen.
Rm 11,33-36
L’Apostolo Paolo dopo aver dato la sua spiegazione, ispirata alle Scritture, sul mistero di Israele, ha concluso che alla fine anche tutto il popolo eletto sarà salvato. Al termine di questa sua profonda riflessione Paolo eleva un inno di lode a Dio.
Il brano liturgico si apre con la lode che Paolo esprime con due esclamazioni: “O profondità della ricchezza, della sapienza e della conoscenza di Dio! Quanto insondabili sono i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!”. Egli esalta con la prima esclamazione la grandezza di Dio come creatore.
La profondità riguarda tre aspetti: la Sua “ricchezza”, che consiste nelle risorse inesauribili della Sua potenza, la Sua “sapienza”, che è l’attributo manifestato da Dio nella creazione, la Sua “scienza” che è la conoscenza intima e diretta che Dio ha di tutte le realtà create.
Con la seconda esclamazione Paolo esalta Dio come Colui che conduce gli esseri umani alla salvezza: i Suoi “giudizi” sono insondabili e le Sue “vie” cioè le Sue scelte, sono inaccessibili: l’uomo può vedere solo gli “effetti delle decisioni divine”, ma le Sue scelte profonde sono al di fuori della sua comprensione.
Paolo poi si pone tre domande che formula con le parole stesse della Scrittura. Per le prime due: “chi mai ha conosciuto il pensiero del Signore? O chi mai è stato suo consigliere?”
attinge ad un passo di Isaia e di Geremia (Is 40,13; Ger 23,18)
Per la terza domanda: “O chi gli ha dato qualcosa per primo tanto da riceverne il contraccambio?” Paolo attinge al libro di Giobbe (Gb 41,3). Anche qui si possono solo dare risposte negative perché nessuno può pensare neppure lontanamente di aver dato qualcosa a Dio e pretendere così che Dio sia debitore nei suoi confronti. Dio è totalmente al di sopra e al di fuori della portata di ogni Sua creatura!
Alle tre domande fa seguito una piccola professione di fede “Poiché da lui, per mezzo di lui e per lui sono tutte le cose”.
Paolo, qui si ispira alla teologia biblica della creazione in cui Dio è presentato come il principio supremo dal quale tutte le cose hanno origine. Dio è anche la causa strumentale, cioè Colui per mezzo del quale tutte le cose sono state fatte ed è anche la meta verso cui gli esseri umani devono orientarsi per trovare il significato della loro vita.
Il brano termine con la formula: “A lui la gloria nei secoli. Amen” con la quale a Dio solo viene attribuita la lode da parte di tutte le creature.
Dal Vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù, giunto nella regione di Cesarèa di Filippo, domandò ai suoi discepoli: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?». Risposero: «Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elìa, altri Geremìa o qualcuno dei profeti».
Disse loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Rispose Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente».
E Gesù gli disse: «Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli».
Mt 16,13-19
In questo brano l’evangelista Matteo riferisce che Gesù, venendo nelle parti di Cesarea di Filippo, chiede ai suoi discepoli: “La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?”
Prima Matteo aveva riportato che i farisei e i sadducei avevano chiesto a Gesù un segno dal cielo e Lui aveva risposto: “nessun segno sarà dato se non il segno di Giona.” Nel passare però all’altra riva, ai discepoli che avevano dimenticato di prendere il pane,Gesù ricorda loro la moltiplicazione dei pani e alla fine li ammonisce a guardarsi dal lievito dei farisei e dei sadducei.
Ora giunti a Cesarea di Filippo presso le sorgenti del Giordano, è Gesù che comincia a fare domande iniziando con il chiedere cosa la gente dice del Figlio dell’uomo. La risposta dei discepoli viene espressa con le stesse parole riportate anche nel Vangelo di Marco: “Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elìa, altri Geremìa o qualcuno dei profeti”. Gesù viene così identificato, oltre che con il Battista, convinzione condivisa anche da Erode Antipa, con Elia, oppure con uno degli antichi profeti ritornato in vita. A questi personaggi Matteo aggiunge però anche Geremia, considerato un grande intercessore e difensore d’Israele.
Gesù non fa nessun commento a questa risposta, ma sembra più interessato a conoscere cosa i discepoli pensino di lui e incalza con la domanda che gli sta a cuore: “Ma voi, chi dite che io sia?”.
La risposta di Pietro è molto diretta: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. Matteo amplia la risposta asserita da Marco aggiungendo “il Figlio del Dio vivente”, come pure la risposta di Gesù a Pietro si trova solo in Matteo: “Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli”. Gesù così afferma che la conoscenza che Simone ha di lui non proviene da “carne e sangue”, cioè dalla sua intelligenza umana, ma da una rivelazione speciale del Padre
Gesù poi prosegue: "E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa”.
Il termine “Pietro”, è la traduzione greca dell’aramaico Kephas (roccia) e sta ad indicare una pietra staccata da un masso o un sasso. Nell’AT il titolo di “roccia” viene attribuito a Dio, in quanto saldo rifugio in cui l’orante trova protezione mentre nel NT l’appellativo di “pietra” è attribuito a Cristo (At 4,11; Rm 9,33; 1Pt 2,4-7). Simone era già stato chiamato precedentemente con questo nome (8,14; 10,2; 14,28; 15,15) ma secondo Matteo è in questo momento che Gesù glielo assegna ufficialmente.
Il cambiamento di nome significa nella Bibbia il conferimento di un compito che orienterà in modo nuovo la vita del prescelto. Per questo scopo Dio aveva cambiato il nome ad Abramo e a Giacobbe (Gen 17,5; 32,29).
Simone riceve il nome di Pietro perché su di lui, in quanto roccia, Gesù edificherà la Sua chiesa e contro la Chiesa fondata su Pietro le porte degli inferi non prevarranno. Con questa espressione Gesù non vuole certo dire che la Chiesa sarà preservata da tribolazioni, ma promette che non soccomberà agli assalti del Maligno
Infine Gesù promette ancora a Pietro: “A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli”.
Il conferimento delle “chiavi” poteva indicare nel linguaggio biblico la trasmissione del potere di governo: a Eliakim, nominato maggiordomo del re, è conferita la chiave della casa di Davide, con la quale egli potrà aprire e chiudere (Is 22,22). In senso analogo nell’Apocalisse, Cristo è chiamato “il Santo, il Verace, Colui che ha la chiave di David” (Ap 3,7), che ha “potere sopra la morte e sopra gli inferi.”(Ap 1,18).
A Pietro invece sono assegnate le chiavi del regno dei cieli, cioè un ruolo che viene precisato subito dopo con i verbi “legare” e “sciogliere”.
A Pietro viene dunque conferito il potere di interpretare in modo autorevole l’insegnamento di Gesù e la volontà di Dio da Lui rivelata. Ciò che egli proibirà o permetterà sarà ratificato in cielo, cioè le sue decisioni in campo dottrinale o disciplinare verranno confermate da Dio.
La missione di Pietro è anche quella di offrire il perdono di Dio (come ci ricorda continuamente Papa Francesco) e più ampiamente è quella di consolare, di ammonire, di esortare e di guidare il popolo di Dio.
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“Il Vangelo di questa domenica presenta il momento nel quale Pietro professa la sua fede in Gesù quale Messia e Figlio di Dio. Questa confessione dell’Apostolo è provocata da Gesù stesso, che vuole condurre i suoi discepoli a fare il passo decisivo nella loro relazione con Lui. Infatti, tutto il cammino di Gesù con quelli che lo seguono, specialmente con i Dodici, è un cammino di educazione della loro fede. Prima di tutto Egli chiede: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?» . Agli apostoli piaceva parlare della gente, come a tutti noi. Il pettegolezzo piace. Parlare degli altri non è tanto impegnativo, per questo, perché ci piace; anche “spellare” gli altri. In questo caso è già richiesta la prospettiva della fede e non il pettegolezzo, cioè chiede: “Che cosa dice la gente che io sia?”. E i discepoli sembrano fare a gara nel riferire le diverse opinioni, che forse in larga parte essi stessi condividevano. Loro stessi condividevano. In sostanza, Gesù di Nazaret era considerato un profeta.
Con la seconda domanda, Gesù li tocca sul vivo: «Ma voi, chi dite che io sia?» A questo punto, ci sembra di percepire qualche istante di silenzio, perché ciascuno dei presenti è chiamato a mettersi in gioco, manifestando il motivo per cui segue Gesù; per questo è più che legittima una certa esitazione. Anche se io adesso domandassi a voi: “Per te, chi è Gesù?”, ci sarà un po’ di esitazione. Li toglie d’imbarazzo Simone, che con slancio dichiara: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». Questa risposta, così piena e luminosa, non gli viene dal suo impulso, per quanto generoso – Pietro era generoso –, ma è frutto di una grazia particolare del Padre celeste. Gesù stesso infatti gli dice: «Né carne né sangue te lo hanno rivelato – cioè la cultura, quello che hai studiato – no, questo non te l’ha rivelato. Te lo ha rivelato il Padre mio che è nei cieli» .
Confessare Gesù è una grazia del Padre. Dire che Gesù è il Figlio di Dio vivo, che è il Redentore, è una grazia che noi dobbiamo chiedere: “Padre, dammi la grazia di confessare Gesù”. Nello stesso tempo, il Signore riconosce la pronta corrispondenza di Simone all’ispirazione della grazia e quindi aggiunge, in tono solenne: «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa». Con questa affermazione, Gesù fa capire a Simone il senso del nuovo nome che gli ha dato, “Pietro”: la fede che ha appena manifestato è la “pietra” incrollabile sulla quale il Figlio di Dio vuole costruire la sua Chiesa, cioè la Comunità. E la Chiesa va avanti sempre sulla fede di Pietro, su quella fede che Gesù riconosce [in Pietro] e lo fa capo della Chiesa.
Oggi, sentiamo rivolta a ciascuno di noi la domanda di Gesù: “E voi, chi dite che io sia?”. A ognuno di noi. E ognuno di noi deve dare una risposta non teorica, ma che coinvolge la fede, cioè la vita, perché la fede è vita! “Per me tu sei …”, e dire la confessione di Gesù. Una risposta che richiede anche a noi, come ai primi discepoli, l’ascolto interiore della voce del Padre e la consonanza con quello che la Chiesa, raccolta attorno a Pietro, continua a proclamare. Si tratta di capire chi è per noi Cristo: se Lui è il centro della nostra vita, se Lui è il fine di ogni nostro impegno nella Chiesa, del nostro impegno nella società. Chi è Gesù Cristo per me? Chi è Gesù Cristo per te, per te, per te… Una risposta che noi dovremmo dare ogni giorno.
Ma state attenti: è indispensabile e lodevole che la pastorale delle nostre comunità sia aperta alle tante povertà ed emergenze che sono dappertutto. La carità sempre è la via maestra del cammino di fede, della perfezione della fede. Ma è necessario che le opere di solidarietà, le opere di carità che noi facciamo, non distolgano dal contatto con il Signore Gesù. La carità cristiana non è semplice filantropia ma, da una parte, è guardare l’altro con gli occhi stessi di Gesù e, dall’altra parte, è vedere Gesù nel volto del povero. Questa è la strada vera della carità cristiana, con Gesù al centro, sempre. Maria Santissima, beata perché ha creduto, ci sia guida e modello nel cammino della fede in Cristo, e ci renda consapevoli che la fiducia in Lui dà senso pieno alla nostra carità e a tutta la nostra esistenza.”
Papa Francesco
Parte dell’Angelus del 23 agosto 2020
Le letture liturgiche di questa domenica, ci presentano il tema della persecuzione e della missione profetica
Nella prima lettura, tratta dal Libro del profeta Geremia, nelle pagine delle sue “confessioni”, il profeta denuncia le insidie dei suoi calunniatori che lo deridono mentre egli mette in guardia il suo popolo dalla sventura: la conquista di Gerusalemme e la deportazione in Babilonia. La fedeltà alla vocazione è per Geremia una conquista quotidiana che conosce dubbi e crisi e che talora pesa come una maledizione, soprattutto quando si sperimenta il silenzio di Dio.
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera di S.Paolo ai Romani, l’apostolo afferma che Cristo è l’uomo nuovo, l’iniziatore di una nuova umanità e fa risaltare questa verità contrapponendo l’opera di Cristo all’opera di Adamo
Nel brano tratto dal Vangelo secondo Matteo, Gesù parla ai suoi discepoli delle sofferenze che dovranno affrontare e lo fa con tale concretezza di particolari che sembra descrivere la Chiesa dei nostri tempi. Il centro dell’annuncio cristiano può portare derisione, persecuzione, tutto ciò comunque non deve stupire i discepoli del Signore, perchè anche i profeti hanno vissuto questo e Gesù stesso è passato attraverso l’incomprensione e la persecuzione.
La fede dei cristiani si fonda sul grande paradosso che anche quando per il mondo si è perdenti, nessuno è mai perduto da Dio.
Dal libro del profeta Geremìa
Sentivo la calunnia di molti:«Terrore all’intorno!Denunciatelo! Sì, lo denunceremo».
Tutti i miei amici aspettavano la mia caduta: «Forse si lascerà trarre in inganno,
così noi prevarremo su di lui,ci prenderemo la nostra vendetta».
Ma il Signore è al mio fianco come un prode valoroso,per questo i miei persecutori vacilleranno
e non potranno prevalere;arrossiranno perché non avranno successo,
sarà una vergogna eterna e incancellabile.
Signore degli eserciti, che provi il giusto,che vedi il cuore e la mente,
possa io vedere la tua vendetta su di loro,
poiché a te ho affidato la mia causa!
Cantate inni al Signore,lodate il Signore,
perché ha liberato la vita del povero dalle mani dei malfattori.
Ger 20,10-13
Nel libro del profeta Geremia troviamo raccontata in modo autobiografico la sua vita. Sappiamo così che la sua chiamata avvenne intorno al 626 a.C. quando ancora era un ragazzo e desiderava sposarsi con la sua Giuditta, ma Dio stesso glielo proibisce, ed è per questo che è stato l’unico profeta celibe dell’A.T. a differenza di tutti gli altri. Aveva un carattere mite e, all'inizio della sua missione, in cui era giovane inesperto, dovette affrontare il momento più difficile e decisivo della storia della nazione giudaica, quello che conduce all'esilio in Babilonia (587 a.C.). Egli tenta di tutto: scuote il torpore del popolo con una predicazione che chiede una radicale conversione; appoggia la riforma nazionalista e religiosa del re Giosia (622 a.C.); cerca di convincere tutti alla sottomissione al dominio di Babilonia dopo la morte del re (609 a.C.). Viene però accusato di pessimismo religioso e di disfattismo politico. Il momento più difficile sicuramente fu quando si sente tradito persino da Dio e cade in una crisi dolorosa che lo porta quasi a rifiutare la sua vocazione. Dio però, senza togliergli le sue sofferenze, anzi annunziandogliene di più grandi, gli rinnova la S ua chiamata, chiedendogli di abbandonarsi interamente a Lui.
In una drammatica e celebre “confessione” (20,7-18) che precede di qualche versetto questo brano, il profeta si lamenta con Dio con parole accorate: «Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre; mi hai fatto violenza e hai prevalso»….., di averlo attratto con l'inganno, affidandogli un annunzio di sventura che non si è attuato, e di averlo così abbandonato allo scherno dei suoi avversari (vv. 7-8). Egli afferma poi di aver voluto rinunziare a parlare in nome di DIO, «Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, trattenuto nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo». La sua reazione è quella di un innamorato che si riconosce impotente di fronte alla forza dell’amore
A questo punto inizia il brano liturgico in cui Geremia denunzia le macchinazioni che vengono fatte contro di lui. Anzitutto rivela che molti riprendono con sarcasmo il suo messaggio di minaccia:
«Terrore all’intorno! Denunciatelo! Sì, lo denunceremo”. La sventura che egli annunzia è l’imminente conquista di Gerusalemme da parte dei babilonesi e la sua distruzione, che egli presenta come castigo di DIO per i peccati del popolo.
Geremia immagina il pensiero dei suoi amici che spiano la sua caduta: ”Forse si lascerà trarre in inganno,
così noi prevarremo su di lui, ci prenderemo la nostra vendetta”. Se questi “amici” erano le persone di cui lui si fidava, cosa dovevano essere i nemici! Geremia sperimentò così anche l'offesa e il dolore atroce del tradimento. L’abbattimento morale del profeta dovette durare a lungo ed essere ben visibile ai suoi avversari, i quali osservano le sue sofferenze ma con l’intento di coglierlo in fallo, cioè di fargli dire qualcosa di compromettente per riferirlo poi alle autorità e così demolirlo definitivamente.
“Ma il Signore è al mio fianco come un prode valoroso, per questo i miei persecutori vacilleranno e non potranno prevalere; arrossiranno perché non avranno successo, sarà una vergogna eterna e incancellabile”.
Qui sembra che il cielo si spalanchi, il Signore appare accanto al suo profeta umiliato ed emarginato e gli offre la sua protezione quasi militare, lui che è il «prode» difensore dei deboli e dei poveri.
Geremia aveva certamente presente la promessa fattagli dal Signore al momento della sua vocazione
«Ti muoveranno guerra ma non ti vinceranno, perché io sono con te per salvarti” (1.19) e questo lo rende sicuro della sua vittoria. Egli sa che il Signore è giudice implacabile e inesorabile nei confronti di chi ha violato i diritti dei suoi assistiti. Guidato dalla sua incrollabile fiducia in Dio, Geremia fa una preghiera,
“Signore degli eserciti, che provi il giusto, che vedi il cuore e la mente, possa io vedere la tua vendetta su di loro, poiché a te ho affidato la mia causa!”
Il profeta sa che il Signore è “colui che prova il giusto e scruta il cuore e la mente” ( la prerogativa del Dio di Israele è precisamente quella di non fermarsi alle apparenze, ma di scrutare il cuore e la mente, cioè l’intimo dell’uomo) ed è certo di fare gli interessi di Dio e quindi non ha paura del Suo giudizio. A Dio egli chiede di poter vedere la sua vendetta sui suoi avversari, poiché a Lui ha affidato la sua causa. Egli non pensa di vendicarsi personalmente, ma attende da Dio la vendetta, cioè la giusta punizione dei suoi persecutori. E per di più chiede una vendetta che riguarda non lui personalmente, ma Dio. Egli si è talmente identificato con Lui da ritenere che la sua causa non è altro che la causa di Dio e la sua vendetta la vendetta di Dio!!. Qui è evidente che il profeta sembra avere un eccesso di zelo, in quanto dimentica che Dio non vuole arrivare alla vendetta, ma al perdono.
Il brano termina con un invito a cantare inni al Signore “perché ha liberato la vita del povero dalle mani dei malfattori”.
Ma subito dopo, nei versetti non riportati dalla liturgia, il profeta prorompe in una terribile maledizione, imprecando persino contro il giorno in cui è nato (vv. 14-18).
Questo brano è il più drammatico delle confessioni, perché vi appare il rifiuto non solo della vita, ma anche e soprattutto della vocazione profetica, che aveva ricevuto fin dal seno materno (1,5).
Le confessioni di Geremia mettono in luce la profonda umanità del profeta. Egli non è un uomo violento o aggressivo, se ne starebbe volentieri per proprio conto, non cerca notorietà o potere. Invece è coinvolto in una situazione drammatica, nella quale è costretto, per il bene dei suoi connazionali, ad annunziare una terribile sciagura che potrà essere evitata solo con un gesto che poteva sembrare un tradimento della patria: aprire le porte ai nemici.
La sofferenza più grande del profeta non è stata quella di essere incompreso e perseguitato, ma di vedere avvicinarsi la rovina del suo popolo senza poterla impedire.
Geremia si può dire che è il profeta del dolore e della misericordia, che preannuncia più di ogni altro la figura di Gesù. Quando si sente abbandonato sembra scorgere in lui il Cristo nell’orto del Getsemani. Egli rimane per il suo popolo, ed anche per tutti i cristiani, un testimone della speranza e fedeltà alla propria vocazione nonostante le sofferenze fisiche e morali.
Salmo 68 - Nella tua grande bontà rispondimi, o Dio.
Per te io sopporto l’insulto e la vergogna mi copre la faccia;
sono diventato un estraneo ai miei fratelli,
uno straniero per i figli di mia madre.
Perché mi divora lo zelo per la tua casa,
gli insulti di chi ti insulta ricadono su di me.
Ma io rivolgo a te la mia preghiera,
Signore, nel tempo della benevolenza.
O Dio, nella tua grande bontà, rispondimi,
nella fedeltà della tua salvezza.
Rispondimi, Signore, perché buono è il tuo amore;
volgiti a me nella tua grande tenerezza
Vedano i poveri e si rallegrino;
voi che cercate Dio, fatevi coraggio,
perché il Signore ascolta i miseri
non disprezza i suoi che sono prigionieri.
A lui cantino lode i cieli e la terra,
i mari e quanto brùlica in essi.
La lettura attenta del salmo porta a datarlo al tempo di Ezechia, dopo la campagna di Sennacherib contro la Giudea e il fallito assedio di Gerusalemme (ca. 701) a causa di un’epidemia nell’esercito (2Re 18,13s.35). L’azione militare di Sennacherib aveva devastato la Giudea. Gli annali di Sennacherib rivelano che furono espugnate 46 città. In questo contesto il pio giudeo del salmo si trova ad urtare contro coloro che guardano all’Egitto come soluzione dei mali nazionali mettendo in dubbio Dio, la fedeltà di Dio, e abbracciando il relativismo religioso. Il pio giudeo prega, digiuna, indossa un abito di sacco, segno penitenziale, e zela per la “casa del Signore”, cioè il tempio, e ciò che il tempio significa. Egli propone la conversione a Dio e ha un certo numero di persone che guardano a lui. E’ il tempo della benevolenza, cioè l’anno sabbatico, ed egli spera la pace nei cuori: “Ma io rivolgo a te la mia preghiera, Signore, nel tempo della benevolenza”. Per noi il tempo della benevolenza è quello che ha promulgato Cristo e che durerà sino alla fine del mondo (Cf. Mt 4,19). Il pio giudeo però è osteggiato e perseguitato da molti; proprio a causa della sua fede. Viene beffeggiato e deriso nella sua azione penitenziale, e quando entra a Gerusalemme quelli che mercanteggiano e sostano divertendosi alla porta, dalla quale passa per entrare in città, lo deridono, senza che alcuno si metta dalla sua parte: “Sparlavano di me quanti sedevano alla porta, gli ubriachi mi deridevano”. La sua situazione si presenta drammatica perché viene calunniato di furto: “Quanto non ho rubato, dovrei forse restituirlo?”. Tutto ciò gli ha creato il vuoto attorno: “Sono diventato un estraneo ai miei fratelli, un straniero per i figli di mia madre“. Egli avverte tutta la sua debolezza e invoca Dio affinché gli dia forza, poiché non vuole diventare una delusione per coloro che fanno riferimento a lui: “Per causa mia non si vergogni chi ti cerca, Dio d’Israele”. Le espressioni che usa per presentare a Dio la sua situazione sono di un’intensità pari alla drammaticità della sua situazione: “L’acqua mi giunge alla gola. Affondo in un abisso di fango, non ho nessun sostegno... Sono sfinito dal gridare, la mia gola è riarsa…”. Ma il pio giudeo non desiste dalla preghiera, dalla fiducia in Dio; ed è sostenuto dalla speranza che Dio continuerà a difendere Sion, e che le città di Giuda saranno riedificate: “Perché Dio salverà Sion, ricostruirà le città di Giuda”. Questa speranza rimarrà nel nucleo fervente d’Israele anche quando, a causa dei peccati e della loro mancata penitenza, Israele sperimenterà la distruzione di Gerusalemme e la deportazione a Babilonia. Riguardo la Chiesa, di cui Sion è una figura, risuonano queste parole di Gesù: (Mt 16,18) “Le potenze degli inferi non prevarranno su di essa”.
Questo salmo è ricco di profezia riguardo le sofferenze di Cristo (Cf. Gv 2,17; 15,25).
Commento tratto da “Perfetta Letizia”
Dalla lettera di S.Paolo Apostolo ai Romani
Fratelli, come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e, con il peccato, la morte, e così in tutti gli uomini si è propagata la morte, poiché tutti hanno peccato…
Fino alla Legge infatti c’era il peccato nel mondo e, anche se il peccato non può essere imputato quando manca la Legge, la morte regnò da Adamo fino a Mosè anche su quelli che non avevano peccato a somiglianza della trasgressione di Adamo, il quale è figura di colui che doveva venire.
Ma il dono di grazia non è come la caduta: se infatti per la caduta di uno solo tutti morirono, molto di più la grazia di Dio e il dono concesso in grazia del solo uomo Gesù Cristo si sono riversati in abbondanza su tutti.
Rm 5,12-15
Nei primi 4 capitoli della Lettera ai Romani, Paolo ha affrontato la giustificazione che si ottiene mediante la fede e non più attraverso l'osservanza della legge. Questo brano tratto dal capitolo 5 rappresenta l’ultimo anello della lunga esposizione riguardante la giustificazione mediante la fede che aveva avuto inizio al capitolo 1. In esso l’apostolo, dopo aver messo in luce la prospettiva escatologica della giustificazione (vv. 1-11), passa a trattare il tema della vittoria sul peccato che essa comporta (vv. 12-21). Egli aveva già affrontato questo secondo tema quando, dopo aver descritto la rivelazione dell’ira di Dio, causata appunto dal peccato dell’uomo, aveva presentato l’opera di Cristo come una redenzione e una espiazione (3,21-26). Ora lo riprende sottolineando come la liberazione dal peccato implichi il passaggio dell’uomo dalla solidarietà con l’umanità peccatrice (vv. 12-14) alla solidarietà con Cristo (vv. 15-19).
Il brano inizia con questa affermazione: “come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e, con il peccato, la morte, così in tutti gli uomini si è propagata la morte, poiché tutti hanno peccato”.
In questo versetto la situazione in cui si trovava l’umanità prima di Cristo viene descritta alla luce di quanto la Genesi dice di colui che è stato il primo peccatore. Il brano inizia con un “come” esemplificativo, mediante il quale Paolo ricollega quanto sta per dire al brano precedente, indicando così l’intenzione di dare ulteriori spiegazioni circa il ruolo svolto da Cristo nella riconciliazione dell’umanità con Dio. L’apostolo prosegue con un “così”, che introduce il confronto tra Adamo e Cristo.
Dopo aver qualificato Adamo come colui che ha introdotto il peccato e la morte nel mondo, Paolo prosegue con il secondo termine di paragone, cioè la figura e il ruolo di Cristo, ma approfondisce ulteriormente le conseguenze del gesto di Adamo. Il peccato di Adamo ha avuto effetti devastanti in quanto tutti gli uomini, con i loro peccati personali, si sono resi partecipi e corresponsabili di quella situazione di morte a cui egli ha dato inizio.
Dopo aver segnalato l’ingresso nel mondo del peccato e della morte, Paolo prosegue: “Fino alla Legge infatti c’era il peccato nel mondo e, anche se il peccato non può essere imputato quando manca la Legge, …La situazione di peccato e di morte determinata dal primo uomo si è protratta fino al momento in cui Dio ha conferito la legge a Israele.
Paolo pone però un’obiezione: come è possibile ciò “se il peccato non può essere imputato quando manca la legge?” Se non c’è una legge che proibisce una certa azione, il commetterla non può essere considerato come peccato, se si intende per peccato la trasgressione di un precetto. Ma per Paolo non esiste nessun essere umano che non abbia avuto, se non la legge mosaica, almeno qualcosa di simile: tutti infatti hanno conosciuto Dio, venendo così a conoscere quella legge morale che hanno trasgredito.
Perciò risponde all’obiezione osservando che “la morte regnò da Adamo fino a Mosè anche su quelli che non avevano peccato a somiglianza della trasgressione di Adamo”. Ossia siccome la morte, vista come un fatto non solo fisico ma anche spirituale, ha manifestato i suoi effetti devastanti anche su coloro che non avevano ricevuto come Adamo un precetto esplicito, ciò è sufficiente per dire che anch’essi non sono esenti dal peccato. Dopo aver nominato espressamente due volte il nome di Adamo, Paolo aggiunge che egli “è figura di colui che doveva venire”. Con queste parole riporta il discorso all’intenzione originaria, che era quella di confrontare Adamo con Cristo.
Tutti gli uomini si sono resi corresponsabili del peccato commesso dal primo uomo, cioè si sono lasciati liberamente coinvolgere nella situazione che da lui ha avuto origine.
Paolo sviluppa la sua dimostrazione mediante tre argomenti. Anzitutto egli afferma: “Ma il dono di grazia non è come la caduta: se infatti per la caduta di uno solo tutti morirono, molto di più la grazia di Dio, e il dono concesso in grazia del solo uomo Gesù Cristo, si sono riversati in abbondanza su tutti”.
La superiorità di Cristo su Adamo appare anzitutto dal fatto che “il dono di grazia” non è come la “caduta”: infatti se la caduta di uno solo ha fatto sì che “tutti” morissero, molto di più grazie a un solo uomo, Gesù Cristo, la grazia di Dio ha abbondato “su tutti”. In altre parole, proprio per la sua funzione di Uomo (Figlio dell’uomo, nuovo Adamo), Cristo ha portato a tutta l’umanità una realtà di grazie che supera immensamente la realtà di morte di cui è stato portatore Adamo.
Paolo non pensa dunque che il peccato di Adamo si trasmetta misteriosamente da lui a ognuno dei suoi discendenti, ma lo considera come l’inizio di una “situazione di peccato” in cui tutti, non senza loro colpa e con le debite eccezioni, sono coinvolti.
Circa Adamo e il suo peccato, Paolo riprende questa suggestiva immagine biblica per mostrare come Dio abbia inviato un nuovo Adamo, capostipite di un’umanità riconciliata, al quale ognuno è chiamato ad associarsi mediante la fede.
Riguardo al rapporto tra peccato e morte, Paolo non vuole certo affermare che, senza il peccato di Adamo, la morte in senso fisico non sarebbe esistita, al contrario egli ritiene che, a causa del peccato, la morte cambi profondamente significato: senza di esso l’uomo avrebbe terminato la sua esistenza terrena nella comunione con Dio e nella serena fiducia di una sopravvivenza in Lui; il peccato, invece, fa sì che la morte diventi il simbolo e il marchio del suo fallimento, trasformandola quindi in una realtà ostile, che l’uomo tende continuamente a rimuovere.
In questa sua opera, che lo accomuna al Servo del Signore, Gesù appare come il nuovo Adamo da cui ha origine un’umanità riconciliata con Dio.
Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù disse ai suoi apostoli: Non abbiate dunque paura di loro, poiché nulla vi è di nascosto che non sarà svelato né di segreto che non sarà conosciuto. Quello che io vi dico nelle tenebre voi ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio voi annunciatelo dalle terrazze.
E non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; abbiate paura piuttosto di colui che ha il potere di far perire nella Geènna e l’anima e il corpo. Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure nemmeno uno di essi cadrà a terra senza il volere del Padre vostro. Perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati. Non abbiate dunque paura:voi valete più di molti passeri!
Perciò chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli.“
Mt 10,26-33
Questo brano tratto dal capitolo 10 del Vangelo di Matteo continua il discorso missionario che Gesù fa ai suoi discepoli prima di inviarli in missione. Matteo raccoglie una serie di massime, che mettono in luce l’atteggiamento che il discepolo deve assumere di fronte alle pressioni che gli vengono dall’esterno.
Gesù inizia con l’invitare il discepolo a non temere coloro che lo perseguitano:
“Non abbiate dunque paura di loro, poiché nulla vi è di nascosto che non sarà svelato né di segreto che non sarà conosciuto”.
Dai termini usati possiamo capire che quanto viene detto si rifà al genere apocalittico: Dio rivela gli avvenimenti futuri al suo inviato, affinché li scriva in un libro che sarà letto quando staranno per avverarsi. La persecuzione degli apostoli, come è detto nel versetto precedente,(non riportato dalla liturgia) sarà inevitabile: “è sufficiente per il discepolo essere come il suo maestro e per il servo come il suo padrone. Se hanno chiamato Beelzebùl il padrone di casa, quanto più i suoi familiari!” (Mt 10,25).
Quello che si afferma in questo versetto è in sintonia con quanto detto nei versetti precedenti. Il discepolo deve raggiungere il livello del suo maestro, deve essere disponibile ad annunciare il vangelo con tutta franchezza, senza lasciarsi intimorire dalle minacce dei suoi oppositori.
Gesù fa un altro invito ai discepoli: “Quello che io vi dico nelle tenebre voi ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio voi annunciatelo dalle terrazze”.
L'insegnamento di Gesù ha sempre qualcosa di misterioso, qualcosa che Egli dice ai suoi discepoli e non alle folle (es. l'utilizzo delle parabole invece dei discorsi espliciti, Mt 13,10-11), ma questo messaggio Lui vuole che deve essere poi predicato dalle terrazze che fanno da tetto alle case della Palestina, cioè da luoghi alti e scoperti, in modo che tutti lo possano sentire.
Infine Gesù invita i discepoli a non avere “paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima”; ma piuttosto di “colui che ha il potere di far perire nella Geènna e l’anima e il corpo”.
Egli così prospetta loro la possibilità di una morte violenta, ma li esorta a non temere gli uomini che possono al massimo privarli della vita fisica. Devono temere piuttosto Dio che nel giudizio può condannarli alla dannazione eterna nell'inferno (= geenna). La vita terrena non è nulla in confronto alla vita imperitura che il Padre darà loro in cielo.
Benché Matteo distingua l'anima dal corpo, non prende in considerazione l'esistenza dell'anima separata dal corpo dopo la morte, cioè nel tempo intermedio prima della parusia di Gesù. Per il semita è inconcepibile la vita senza il corpo. Il detto si riferisce quindi alla totalità della vita dell'uomo, che può essere conservata da Dio anche dopo la morte.
L’esortazione si prolunga in un detto riguardante positivamente la fiducia.
Gesù afferma: “Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure nemmeno uno di essi cadrà a terra senza il volere del Padre vostro”
Il "soldo" è la moneta romana più piccola. Il passero, il piccolo uccello mangiato dai poveri, era il genere di carne meno cara che si poteva trovare sul mercato. Eppure la caduta a terra del passero, cioè la sua morte, non avverrà senza che Dio lo sappia e lo permetta. Se Dio si prende cura dei passeri, quanta maggiore cura avrà per gli uomini!
E prosegue “Perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati. Non abbiate dunque paura:voi valete più di molti passeri!
Gesù illustra con questi esempi la cura premurosa di Dio per i discepoli: essi non potranno subire alcun danno senza che egli lo permetta, e se lo permette ciò è certamente per poter attribuire loro un bene maggiore.
Gli ultimi due versetti contengono un parallelismo antitetico: “chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli.“
Il detto riguarda la confessione pubblica di Gesù, (quella che Pietro non aveva saputo fare al momento del processo), e nell’annunzio del vangelo. Si può notare che mentre nel detto precedente Gesù parlava di Dio come “Padre vostro”, ora lo definisce “Padre mio”. Il richiamo insistente del Padre richiama il motivo della paternità divina che rappresenta la novità centrale del messaggio evangelico: Gesù ha fatto per primo l’esperienza del rapporto speciale che Dio ha stabilito con l’umanità e l’ha comunicata ai suoi discepoli.
La bontà di Dio deve essere di conforto e di incoraggiamento nelle sofferenze e nella morte che aspettano i discepoli e con Dio nel cuore la paura non ha più ragione di essere.
È vero che Gesù accenna al timore che bisogna avere per “colui che ha il potere di far perire nella Geènna e l’anima e il corpo“, ma questo riferimento alla paura serve a sottolineare la responsabilità del discepolo e a fargli capire che il rinnegare può avere conseguenze negative sia per lui stesso che per gli altri. Non deve però essere la paura a motivare le sua scelte, ma la fiducia nel Padre e soprattutto la solidarietà con Gesù, il quale ha dimostrato che proprio attraverso la sofferenza si attua la salvezza.
In questo senso Gesù è il modello e la guida di tutti coloro che cercano Dio. Rinnegare Gesù, quando lo si è conosciuto, significa rifiutare il progetto divino di salvezza.
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“Nel Vangelo di questa domenica risuona l’invito che Gesù rivolge ai suoi discepoli a non avere paura, ad essere forti e fiduciosi di fronte alle sfide della vita, preavvisandoli delle avversità che li attendono.
Il brano odierno fa parte del discorso missionario, con cui il Maestro prepara gli Apostoli alla prima esperienza di annuncio del Regno di Dio. Gesù li esorta con insistenza a “non avere paura”. La paura è uno dei nemici più brutti della nostra vita cristiana. Gesù esorta: “Non abbiate paura”, “non abbiate paura”. E Gesù descrive tre situazioni concrete che essi si troveranno ad affrontare.
Anzitutto, la prima, l’ostilità di quanti vorrebbero zittire la Parola di Dio, edulcorandola, annacquandola, o mettendo a tacere chi la annuncia. In questo caso, Gesù incoraggia gli Apostoli a diffondere il messaggio di salvezza che Lui ha loro affidato. Per il momento, Lui lo ha trasmesso con cautela, quasi di nascosto, nel piccolo gruppo dei discepoli. Ma loro dovranno dire “nella luce”, cioè apertamente, e annunciare “dalle terrazze” – così dice Gesù – cioè pubblicamente, il suo Vangelo.
La seconda difficoltà che i missionari di Cristo incontreranno è la minaccia fisica contro di loro, cioè la persecuzione diretta contro le loro persone, fino all’uccisione. Questa profezia di Gesù si è realizzata in ogni tempo: è una realtà dolorosa, ma attesta la fedeltà dei testimoni. Quanti cristiani sono perseguitati anche oggi in tutto il mondo! Soffrono per il Vangelo con amore, sono i martiri dei nostri giorni. E possiamo dire con sicurezza che sono più dei martiri dei primi tempi: tanti martiri, soltanto per il fatto di essere cristiani. A questi discepoli di ieri e di oggi che patiscono la persecuzione, Gesù raccomanda: «Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima». Non bisogna lasciarsi spaventare da quanti cercano di spegnere la forza evangelizzatrice con l’arroganza e la violenza. Nulla, infatti, essi possono contro l’anima, cioè contro la comunione con Dio: questa, nessuno può toglierla ai discepoli, perché è un dono di Dio. La sola paura che il discepolo deve avere è quella di perdere questo dono divino, la vicinanza, l’amicizia con Dio, rinunciando a vivere secondo il Vangelo e procurandosi così la morte morale, che è l’effetto del peccato.
Il terzo tipo di prova che gli Apostoli si troveranno a fronteggiare, Gesù la indica nella sensazione, che alcuni potranno sperimentare, che Dio stesso li abbia abbandonati, restando distante e silenzioso. Anche qui esorta a non avere paura, perché, pur attraversando queste e altre insidie, la vita dei discepoli è saldamente nelle mani di Dio, che ci ama e ci custodisce. Sono come le tre tentazioni: edulcorare il Vangelo, annacquarlo; seconda, la persecuzione; e terza, la sensazione che Dio ci ha lasciati da soli. Anche Gesù ha sofferto questa prova nell’orto degli ulivi e sulla croce: “Padre, perché mi hai abbandonato?”, dice Gesù. Alle volte si sente questa aridità spirituale; non ne dobbiamo avere paura. Il Padre si prende cura di noi, perché grande è il nostro valore ai suoi occhi. Ciò che importa è la franchezza, è il coraggio della testimonianza, della testimonianza di fede: “riconoscere Gesù davanti agli uomini” e andare avanti facendo del bene.
Maria Santissima, modello di fiducia e di abbandono in Dio nell’ora dell’avversità e del pericolo, ci aiuti a non cedere mai allo sconforto, ma ad affidarci sempre a Lui e alla sua grazia, perché la grazia di Dio è sempre più potente del male.”
Papa Francesco
Parte dell’Angelus del 21 giugno 2020
Le letture che la liturgia di questa domenica ci presenta richiamano la missionarietà di tutta la Chiesa e non solo di alcuni suoi membri. L’invio in missione dei discepoli da parte di Gesù coinvolge oggi la Chiesa intera, non solo alcuni suoi membri: tutti possono essere missionari, tutti possono sentire quella chiamata di Gesù e andare avanti e annunciare il Regno!
Nella prima lettura, tratta dal Libro dell’Esodo, Dio tramite Mosè, ricorda al popolo i suoi benefici con un immagine suggestiva (ali d’aquila) per indicare il carattere straordinario e amoroso del Suo intervento Gli avvenimenti dell’Esodo e del Sinai servono soprattutto alla elezione del popolo e comportano una separazione che si attua in un particolare stile di vita che aiuta a testimoniare il disegno di Dio nell’uomo .
Nella seconda lettura, San Paolo nella sua lettera ai Romani vuole attrarre la nostra attenzione sul fatto che Gesù diede la sua vita per il bene degli esseri umani nonostante non ci fosse in loro nulla che meritasse un gesto simile. Il credente riconciliato con Dio attraverso Gesù Cristo non deve pensare che Dio possa dimenticarsi di lui, anzi l’apostolo Paolo si spinge oltre e ci dice che il credente deve gloriarsi in Dio, deve vantarsi della sua salvezza!
Nel Vangelo di Matteo colpisce subito come inizia il brano Gesù vedendo le folle ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite, come pecore senza pastore, e il commento “La messe è molta, ma gli operai sono pochi! Gesù sceglie i Suoi discepoli per inviarli in missione e questo invito lo rinnova oggi ad ognuno di noi anche a coloro che hanno ricevuto solo il primo sacramento il Battesimo
Dal libro dell’Esodo
In quei giorni, gli Israeliti, levate le tende da Refidim, giunsero al deserto del Sinai, dove si accamparono; Israele si accampò davanti al monte.
Mosè salì verso Dio e il Signore lo chiamò dal monte, dicendo: “Questo dirai alla casa di Giacobbe e annuncerai agli Israeliti: Voi stessi avete visto ciò che io ho fatto all’Egitto e come ho sollevato voi su ali di aquile e vi ho fatti venire fino a me. Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli; mia è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa.
Es 19,2-6
L'Esodo è il secondo libro della Bibbia cristiana e della Torah ebraica. È stato scritto in ebraico e, secondo l'ipotesi di molti studiosi, la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte. È composto da 40 capitoli, nei primi 14 descrive il soggiorno degli Ebrei in Egitto, la loro schiavitù e la miracolosa liberazione tramite Mosè, mentre nei restanti descrive il soggiorno degli Ebrei nel deserto del Sinai. Il periodo descritto si colloca intorno al 1300-1200 a.C.
Il libro è suddiviso in tre grandi sezioni, corrispondenti ai tre momenti della narrazione:
La prima, (capitoli 11,1-15,21), comprende il racconto dell'oppressione degli Ebrei in Egitto, la nascita di Mosè, la fuga di Mosè a Madian e la scelta divina, il suo ritorno in Egitto, le dieci piaghe e l'uscita dal paese.
La seconda sezione (15,22-18,27) narra del viaggio lungo la costa del Mar Rosso e nel deserto del Sinai.
La terza (19,1-40,38) riguarda l'incontro tra Dio e il popolo eletto, mediante le tappe fondamentali del decalogo e del codice dell'alleanza, seguito dall'episodio del vitello d'oro e dalla costruzione del Tabernacolo
Il brano che abbiamo, è tratto dalla terza sezione, in cui gli israeliti, levate le tende da Refidim, giunsero al deserto del Sinai, dove si accamparono;-
«Mosè salì verso Dio ,e il Signore lo chiamò dal monte, dicendo: “Questo dirai alla casa di Giacobbe e annuncerai agli Israeliti:» Lo scopo per cui Mosè salì verso Dio era quello di ricevere e trasmettere al popolo il Suo messaggio
Dio chiama anche oggi ognuno di noi, e ci invita a fermarci a fare memoria del passato, a riconoscere la sua presenza nella nostra storia.
« Voi stessi avete visto ciò che io ho fatto all’Egitto e come ho sollevato voi su ali di aquile e vi ho fatti venire fino a me» Viene espressa una metafora meravigliosa, usata per descrivere il significato della loro liberazione dalla condizione di schiavitù in cui si trovavano in Egitto, e la rapidità con cui furono trasportati in sicurezza tra le montagne (cfr Dr 32,11). Viene anche presentata un’immagine usata nell’Apocalisse (12,14), per simboleggiare la Chiesa cristiana come una donna portata nel deserto sulle ali di una grande aquila.
Personalmente possiamo percepire che Dio dice ora ad ognuno: Sono con te da sempre, ti ho accompagnato, sostenuto, aiutato… non è difficile percepire in queste parole un amore carico di premura e tenerezza.
Dio dopo aver ricordato al popolo i suoi benefici con immagini suggestivi che indicano il carattere straordinario e amoroso del Suo intervento, fa la sua proposta «Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli; mia è tutta la terra!»
Il Signore chiede semplicemente l’ascolto della sua voce, non chiede nulla in cambio, solamente una relazione basata sull’ascolto con volontà di custodire la sua alleanza, la sua amicizia.
«Voi sarete per me un regno di sacerdoti.».
Considerarsi un regno di sacerdoti vuol dire essere intermediari tra il Dio universale e tutti i popoli,
e una nazione santa –cioè impegnata a vivere sotto l’aspetto morale la propria consacrazione.
Per ognuno di noi Dio ha un progetto, che non sappiamo come si realizzerà ma che possiamo scoprire se ci affidiamo a Lui e ci mettiamo in ascolto
Salmo 99/100
Noi siamo suo popolo,gregge che egli guida.
Acclamate al Signore, voi tutti della terra,
servite il Signore nella gioia
presentatevi a lui con esultanza.
Riconoscete che solo il Signore è Dio:
egli ci ha fatti e noi siamo suoi,
suo popolo e gregge del suo pascolo.
Buono è il Signore,
il suo amore è per sempre,
la sua fedeltà di generazione in generazione.
Questo salmo è un invito a tutti i popoli della terra a riconoscere l'unico Dio e a servirlo, cioè obbedire al suo disegno, che ha come oggetto l'uomo stesso.
Il salmista invita a servirlo nella gioia, cioè con la gratitudine, l'esultanza di chi si riconosce amato e salvato da Dio. Il salmista desidera che i popoli della terra riconoscano l'identità d Israele per poterne partecipare: “Riconoscete che solo il Signore è Dio: egli ci ha fatti e noi siamo suoi, suo popolo e gregge del suo pascolo”. L'invito al tempio di Gerusalemme non ha confini. E' un invito espresso nell'attesa messianica, poiché a Gerusalemme, per mezzo del Messia, avverrà la ricomposizione dell'unità tra tutti i popoli. I popoli pagani sono invitati a orientarsi al Dio di Israele, al vero Dio, la cui gloria dimora nel tempio di Gerusalemme: “Varcate le sue porte con inni di grazie, i suoi atri con canti di lode...”. Tutti devono benedire la sua identità, (il suo nome), perché Dio è buono, misericordioso, fedele alla sua parola alle sue promesse.
Nel giorno della Pentecoste veramente si è avverato un andare a Gerusalemme di tanti e tanti, che, non Giudei, avevano abbracciato la religione di Israele (At 2,9s). A questi - i proseliti - vanno aggiunti i timorati di Dio, che non intendevano giungere al rito della circoncisione e alla pratica rituale della legge mosaica (At 10,2).
Noi in Cristo invitiamo i popoli ad accogliere il messaggio di Cristo, a riconoscere il vero Dio e a far parte col battesimo della Chiesa, le cui porte e atri sono aperte all'ingresso di tutti i popoli.
Commento tratto da “Perfetta Letizia»
Dalla lettera di S.Paolo apostolo ai Romani
Fratelli, quando noi eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito, Cristo morì per gli empi.
Ora, a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe per una persona buona Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi.
A maggior ragione ora, giustificati nel suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di lui. Se infatti, quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più, ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita. Non solo, ma ci gloriamo pure in Dio, per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo, grazie al quale ora abbiamo ricevuto la riconciliazione.
Rm 5,6-11
99/100
San Paolo scrisse la lettera ai Romani da Corinto probabilmente tra gli anni 58-59. La comunità dei cristiani di Roma era già ben formata e coordinata, ma lui ancora non la conosceva. Forse il primo annuncio fu portato a Roma da quei “Giudei di Roma”, presenti a Gerusalemme nel giorno della Pentecoste e che accolsero il messaggio di Pietro e il Battesimo da lui amministrato, diventando cristiani. Nacque subito la necessità di avere a Roma dei presbiteri e questi non poterono che essere istituiti a Gerusalemme.
La Lettera ai Romani è uno dei testi più alti e più impegnativi degli scritti di Paolo parchè affronta grandi temi teologici: l'universalità e la gratuità del dono della salvezza che si ottiene per mezzo della fede in Cristo; la fedeltà di Dio; i rapporti tra giudaismo e cristianesimo; la libertà di aderire alla legge dello Spirito che dà vita. Nei primi 4 capitoli Paolo ha affrontato la giustificazione che si ottiene mediante la fede e non più attraverso l'osservanza della legge e attraverso la fede e la giustificazione si ottiene la vita. .
In questo brano in particolare Paolo tratta la situazione nuova in cui noi ci troviamo grazie alla morte di Gesù Cristo e alla riconciliazione che Egli ci ha meritato proprio mediante la Sua morte e resurrezione.
Nel versetti precedenti dopo aver elencato una serie di virtù che si realizzavano in coloro che giustificati da Dio dovevano sopportare le avversità, e in particolare che la speranza non delude, perché fondata sull'amore di Dio e anche sullo Spirito Santo, presente nei cuori dei fedeli, prosegue affermando: .
«quando noi eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito, Cristo morì per gli empi».
Paolo ricorda gli elementi principali della nostra salvezza, per assicurare i suoi lettori della solidità della speranza a cui li esorta. Noi eravamo in una situazione di debolezza, in preda al male e al peccato e Cristo è morto per noi, che eravamo indegni, non interessati all'amore di Dio, all'osservanza della Sua legge. Questo è successo nel momento opportuno, cioè nella pienezza dei tempi, nel momento che Dio ha ritenuto più giusto realizzare questa liberazione.
«Ora, a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe per una persona buona»
Paolo sottolinea la straordinarietà di questo passo che Cristo ha compiuto in nostro favore. Già è difficile trovare qualcuno che sacrifichi la vita per una persona buona e giusta, figuriamoci se si trova qualcuno che muore per una persona cattiva. Eppure Cristo lo ha fatto!
«Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi».
Paolo ribadisce di nuovo il concetto. La nostra speranza è ben fondata, perché Dio ha dimostrato di amarci di un amore sconfinato attraverso la morte di Suo Figlio.!
«A maggior ragione ora, giustificati nel suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di lui»
Quindi ora possiamo stare sicuri, perché se Cristo ci ha amato così quando eravamo peccatori, certamente il Suo amore e la Sua protezione continueranno ora che siamo pienamente riconciliati con Lui, partecipi del Suo amore. E' il Suo sangue che ci ha resi giusti. Non solo, il Suo sangue è compimento del sangue dell'agnello che gli israeliti avevano cosparso sulle proprie porte, per evitare che l'angelo della morte uccidesse i loro primogeniti, in quella notte in cui riuscirono a fuggire dalla schiavitù d'Egitto. Se allora i credenti erano stati salvati dalla morte dei bambini e dalla schiavitù in Egitto, noi saremo salvati dall'ira del giudizio, per la conseguenza delle nostre colpe.
«Se infatti, quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più, ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita».
Paolo ricapitola quanto ha detto nei versetti precedenti. Eravamo nemici, Dio ci ha resi di nuovo amici e alleati, ci ha riconciliati grazie alla morte del Figlio. Egli che ci amava quando eravamo nemici, molto più ci amerà ora e ci donerà la salvezza, non più grazie alla morte del Figlio, ma grazie alla Sua vita, a cui partecipiamo in pienezza. E' questa la nostra condizione.
«Non solo, ma ci gloriamo pure in Dio, per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo, grazie al quale ora abbiamo ricevuto la riconciliazione».
E' una condizione davvero stupenda quella che ora viviamo, anche se non ne abbiamo nessun merito. Infatti il nostro gloriarci è per mezzo di Gesù Cristo che ci ha meritato questa pace con Dio, la riconciliazione, l'entrata in una vita davvero piena e libera.
Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù vedendo le folle ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite, come pecore senza pastore. Allora disse ai suoi discepoli: «La messe è molta, ma gli operai sono pochi! Pregate dunque il padrone della messe che mandi operai nella sua messe!».
Chiamati a sé i dodici discepoli, diede loro il potere di scacciare gli spiriti immondi e di guarire ogni sorta di malattie e d'infermità.
I nomi dei dodici apostoli sono: primo, Simone, chiamato Pietro, e Andrea, suo fratello; Giacomo di Zebedèo e Giovanni suo fratello, Filippo e Bartolomeo, Tommaso e Matteo il pubblicano, Giacomo di Alfeo e Taddeo, Simone il Cananeo e Giuda l'Iscariota, che poi lo tradì.
Questi sono i Dodici che Gesù inviò ordinando loro: «Non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei Samaritani; rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa d'Israele. Strada facendo, predicate, dicendo che il regno dei cieli è vicino. Guarite gli infermi, risuscitate i morti, purificate i lebbrosi, scacciate i demòni
Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date.
Mt 9,36-10,8
Questo brano segna una tappa importante nello sviluppo della narrazione di Matteo. Gesù dopo aver indicato lo scopo della sua missione (cfr9,13) e dimostrata la Sua autorevolezza (5,7) anche con le Sue opere (8,1-9,34) fa dono di tutto questo a coloro che ha scelto.
Il brano liturgico inizia con la reazione di Gesù davanti alla folla: «vedendo le folle ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite, come pecore senza pastore» rivolge perciò ai suoi discepoli questa esortazione: «La messe è molta, ma gli operai sono pochi! Pregate dunque il padrone della messe che mandi operai nella sua messe!».
La logica conseguenza dell’invito a pregare perché Dio mandi altri operai, è la scelta dei Dodici: «Chiamati a sé i dodici discepoli, diede loro il potere di scacciare gli spiriti immondi e di guarire ogni sorta di malattie e d'infermità.»
Questo brano si trova anche in Marco e Luca, ma mentre il primo lo colloca dopo le cinque controversie che formano il nucleo centrale dell’attività di Gesù in Galilea (Mc 3,13-19), Luca lo pone all’inizio del discorso della montagna (cfr. Lc 6,12-16) mentre Matteo lo inserisce nel contesto attuale perché vi vede un’ottima introduzione al discorso missionario.
Per Matteo è importante il numero dodici in quanto questo gruppo di discepoli dovrà costituire il nucleo germinale della comunità messianica, prefigurata dalle dodici tribù d’Israele.
Dopo aver accennato alla missione conferita ai Dodici, l’evangelista dà i loro nomi chiamandoli questa volta con l’appellativo di «dodici apostoli». Il termine «apostolo» significa inviato. Matteo dispone i loro nomi in gruppi di due, quasi a sottolineare il fatto che Gesù li ha inviati in missione due a due (cfr. Mc 6,7):). I primi quattro sono i discepoli della prima ora (cfr. Mt 4,18-22). Rispetto a Marco (3,18), il nome di Andrea è anticipato e fa coppia con quello del fratello Simone. Questi viene designato espressamente come il primo e accanto al suo nome originario viene menzionato quello di Pietro (cfr. Mt 16,18): nel corso del vangelo sarà designato ben ventitré volte con questo nome (di cui tre unito a Simone). Matteo è elencato dopo Tommaso ed è detto «il pubblicano». Taddeo è sostituito in Luca 6,16 (e At 1,13) con Giuda di Giacomo. Per ultimo viene menzionato Giuda l’Iscariota, designato espressamente come il «traditore». Il carattere diverso dei Dodici non è un ostacolo alla missione che è loro affidata ma piuttosto ne costituisce la forza: essi infatti rappresentano il nuovo Israele, nel quale c’è posto per tutti coloro che accettano il messaggio di Gesù, qualunque sia la loro estrazione religiosa, sociale e culturale.
Infine Matteo riporta le direttive date da Gesù ai Dodici: «Non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei Samaritani; rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa d'Israele.
Le sue istruzioni, riguardano l’ambito della missione e il programma. Nei versetti seguenti, non riportati nel brano, ci sono istruzioni per l’equipaggiamento: Non procuratevi oro, né argento, né moneta di rame nelle vostre cinture, né bisaccia da viaggio, né due tuniche, né sandali, né bastone, perché l’operaio ha diritto al suo nutrimento. (vv. 9-10);,
Per il metodo missionario In qualunque città o villaggio entriate, fatevi indicare se vi sia qualche persona degna, e lì rimanete fino alla vostra partenza. Entrando nella casa, rivolgetele il saluto. Se quella casa ne sarà degna, la vostra pace scenda sopra di essa; ma se non ne sarà degna, la vostra pace ritorni a voi. Se qualcuno poi non vi accoglierà e non darà ascolto alle vostre parole, uscite da quella casa o da quella città e scuotete la polvere dai vostri piedi. (vv. 11-14)
Infine una parola di condanna per coloro che non accettano gli inviati
In verità vi dico, nel giorno del giudizio il paese di Sòdoma e Gomorra avrà una sorte più sopportabile di quella città.(v. 15).
Questa delimitazione del campo d’azione dei discepoli si trova esclusivamente in Matteo. L’espressione «pecore perdute della casa d’Israele» riprende il tema del popolo d’Israele (cfr. Sal 74,1-2), paragonato ad un gregge di pecore sbandate, in pericolo di perdersi a causa delle loro guide (cf. 9,36; Ez 34; Zc 10,2). Sono esclusi non solo i pagani, ma anche i samaritani. Secondo Mt 15,24 Gesù stesso limitò la sua attività all’ambito del popolo giudaico. Ai giudei infatti erano state affidate le promesse della salvezza e perciò l’annuncio del vangelo era destinato esclusivamente a loro. La guarigione del servo del centurione (Mt 8,5-13) e della figlia della cananea (Mt 15,21-28) sono eccezioni che confermano la regola. Solo dopo la Sua risurrezione l’annunzio sarebbe stato rivolto a tutti (cfr. 28,19). Diverso è il pensiero di Marco, secondo il quale Gesù, avendo portato a termine la missione ai giudei, ha spezzato il pane della salvezza anche ai pagani (cfr. Mc 8,1-9).
Il programma missionario dei Dodici corrisponde esattamente a quello di Gesù: «Strada facendo, predicate, dicendo che il regno dei cieli è vicino. Guarite gli infermi, risuscitate i morti, purificate i lebbrosi, scacciate i demòni. Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date».
Queste istruzioni sono parallele a quelle riportate altrove da Luca (cfr. Lc 9,2; 10,9). Anche i Dodici devono annunciare l’avvicinarsi del regno di Dio, come aveva fatto il Battista e lo stesso Gesù (cfr. Mt 3,2; 4,17). Inoltre devono curare gli infermi, mondare i lebbrosi, scacciare i demoni. Le guarigioni rappresentavano un segno dell’avvento del regno e al tempo stesso ne chiarivano il significato (cfr. Is 35,5-6). Matteo accentua il compito taumaturgico dei discepoli in quanto riferisce che è loro conferito il potere non solo di scacciare i demoni, ma anche di compiere prodigi ancora più grandi, come la guarigione dei lebbrosi e la risurrezione di morti. La loro opera però dovrà essere totalmente gratuita: quello che hanno ricevuto gratuitamente, devono darlo altrettanto gratuitamente.
L’attività dei Dodici ha ancora una cerchia ristretta: come Gesù così anch’essi devono limitarsi ai loro connazionali. Questa rigida delimitazione del loro campo d’azione corrisponde all’intuizione originaria secondo cui le promesse contenute nelle Scritture erano rivolte al popolo di Israele. Gesù si presentava dunque come un riformatore religioso del Suo popolo, il cui scopo era quello di prepararlo all’evento finale della salvezza. Solo in un secondo tempo le altre nazioni si sarebbero aggregate all’Israele escatologico. Sia la predicazione di Gesù come quella dei primi discepoli non aveva dunque lo scopo di suscitare l’adesione a una nuova formazione religiosa. In seguito alla morte di Gesù le cose cambiano progressivamente: la resistenza opposta dalle istituzioni giudaiche, in patria e nella diaspora, alla predicazione messianica spingono i primi cristiani a formare comunità separate, aperte ai pagani. Questo nuovo orientamento sarà visto come espressione di un progetto divino in forza del quale la salvezza portata da Gesù è offerta a tutti.
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“La pagina evangelica del Vangelo di Luca presenta Gesù che invia in missione settantadue discepoli, in aggiunta ai dodici apostoli. Il numero settantadue indica probabilmente tutte le nazioni. Infatti nel libro della Genesi si menzionano settantadue nazioni diverse (cfr 10,1-32). Così questo invio prefigura la missione della Chiesa di annunciare il Vangelo a tutte le genti. A quei discepoli Gesù dice: «La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe perché mandi operai nella sua messe!»
Questa richiesta di Gesù è sempre valida. Sempre dobbiamo pregare il “padrone della messe”, cioè Dio Padre, perché mandi operai a lavorare nel suo campo che è il mondo. E ciascuno di noi lo deve fare con cuore aperto, con un atteggiamento missionario; la nostra preghiera non dev’essere limitata solo ai nostri bisogni, alle nostre necessità: una preghiera è veramente cristiana se ha anche una dimensione universale.
Nell’inviare i settantadue discepoli, Gesù dà loro istruzioni precise, che esprimono le caratteristiche della missione. La prima – abbiamo già visto –: pregate; la seconda: andate; e poi: non portate borsa né sacca…; dite: “Pace a questa casa”…restate in quella casa…Non passate da una casa all’altra; guarite i malati e dite loro: “è vicino a voi il Regno di Dio”; e, se non vi accolgono, uscite sulle piazze e congedatevi (cfr vv. 2-10). Questi imperativi mostrano che la missione si basa sulla preghiera; che è itinerante: non è ferma, è itinerante; che richiede distacco e povertà; che porta pace e guarigione, segni della vicinanza del Regno di Dio; che non è proselitismo ma annuncio e testimonianza; e che richiede anche la franchezza e la libertà evangelica di andarsene evidenziando la responsabilità di aver respinto il messaggio della salvezza, ma senza condanne e maledizioni.
Se vissuta in questi termini, la missione della Chiesa sarà caratterizzata dalla gioia. E come finisce questo passo? «I settantadue tornarono pieni di gioia» (v. 17). Non si tratta di una gioia effimera, che scaturisce dal successo della missione; al contrario, è una gioia radicata nella promessa che – dice Gesù – «i vostri nomi sono scritti nei cieli» (v. 20). Con questa espressione Egli intende la gioia interiore, la gioia indistruttibile che nasce dalla consapevolezza di essere chiamati da Dio a seguire il suo Figlio. Cioè la gioia di essere suoi discepoli. Oggi, per esempio, ognuno di noi, qui in Piazza, può pensare al nome che ha ricevuto nel giorno del Battesimo: quel nome è “scritto nei cieli”, nel cuore di Dio Padre. Ed è la gioia di questo dono che fa di ogni discepolo un missionario, uno che cammina in compagnia del Signore Gesù, che impara da Lui a spendersi senza riserve per gli altri, libero da sé stesso e dai propri averi.
Invochiamo insieme la materna protezione di Maria Santissima, perché sostenga in ogni luogo la missione dei discepoli di Cristo; la missione di annunciare a tutti che Dio ci ama, ci vuole salvare e ci chiama a far parte del suo Regno.”
Papa Francesco
Parte dell’Angelus del 7 luglio 2019
La festa del Corpus Domini, più propriamente chiamata solennità del santissimo Corpo e Sangue di Cristo, è una delle principali solennità dell'anno liturgico e la celebrazione, che chiudendo il ciclo delle feste del dopo Pasqua, vuole celebrare il mistero dell'Eucaristia. Questa festa è stata istituita nel lontano 11 agosto 1264, a seguito del miracolo eucaristico di Bolsena, da Papa Urbano IV, con la promulgazione della bolla “Transiturus de hoc mundo”.. Nello stesso anno il papa conferì l'incarico di scrivere l'officio per la solennità e per la relativa Messa a Tommaso d’Aquino, che compose, fra l'altro, il celebre inno eucaristico “Pange lingua”, le cui ultime due strofe (note come Tantum Ergo Sacramentum), sono attualmente cantate dai fedeli al termine di ogni celebrazione liturgica che si concluda con la benedizione eucaristica.
Nella prima lettura, tratta dal Libro del Deuteronomio, leggiamo che Dio ha messo alla prova Israele nel deserto, ma non lo ha abbandonato. La manna e l’acqua che sprizza dalla rupe durissima e arida per dissetare i figli d’Israele, sono segni della parola che “esce dalla bocca del Signore”.
Nella seconda lettura, tratta dalla prima lettera ai Corinzi, San Paolo raccogliendo le dichiarazioni di Gesù a Cafarnao, formula in modo chiaro e limpido il senso di ogni celebrazione eucaristica.
Nel Vangelo di Giovanni viene riportato il discorso tenuto da Gesù a Cafarnao davanti ad un gruppo di ebrei allibiti: …Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Attraverso l’eucaristia il credente entra in comunione col Cristo, è strappato al suo destino di morte ed inserito nel mistero della vita divina.
Dal libro del Deuteronomio
Mosè parlò al popolo dicendo:
«Ricòrdati di tutto il cammino che il Signore, tuo Dio, ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore, se tu avresti osservato o no i suoi comandi.
Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore.
Non dimenticare il Signore, tuo Dio, che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile; che ti ha condotto per questo deserto grande e spaventoso, luogo di serpenti velenosi e di scorpioni, terra assetata, senz’acqua; che ha fatto sgorgare per te l’acqua dalla roccia durissima; che nel deserto ti ha nutrito di manna sconosciuta ai tuoi padri».
Dt. 8,2-3.14b-16
Il Deuteronomio è il quinto e ultimo libro del Pentateuco e ha la funzione di concludere la storia delle origini di Israele, e di fornire una sintesi delle tradizioni di fede contenute nella Torah. È stato scritto in ebraico e, secondo l'ipotesi condivisa da molti studiosi, la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea , sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte È composto da 34 capitoli descriventi la storia degli Ebrei durante il loro soggiorno nel deserto del Sinai (circa 1200 a.C.) e contiene varie leggi religiose e sociali.
Dopo la Prima Legge, data da Dio sul Sinai, il Deuteronomio (Deuteros nomos) si presenta come la "Seconda Legge", la nuova Legge che Mosè consegna al popolo poco prima di morire e invita a tradurre l'amore per Dio nella vita sociale e familiare, non limitandosi dunque allo stretto compimento della Legge.
E’ uno dei libri più intensi di tutto l’Antico Testamento, e presenta una lettura teologica della storia del popolo eletto: Mosè, prima di morire, ricorda a Israele gli avvenimenti passati, mostrando come essi facciano parte di una economia salvifica che ha come punti centrali la promessa ai Padri, l’elezione d’Israele fra tutti i popoli della terra e l’alleanza sinaitica. Questa consapevolezza di appartenere a Dio, privilegio unico ed esclusivo, fa nascere nel popolo l’esigenza di una risposta decisa e libera a favore di Dio e della Sua legge.
Il brano che abbiamo inizia con un invito pressante rivolto da Mosè al popolo di Israele che si trova nelle steppe di Moab, pronto ad attraversare il Giordano e ad entrare nella terra promessa: “Ricordati di tutto il cammino …”La generazione uscita dall’Egitto è ormai scomparsa e davanti a Mosè si trovano soltanto quelli che sono nati nel deserto e che hanno fatto l’esperienza delle sofferenze che comportava il muoversi continuamente in un territorio inospitale. In realtà il discorso è rivolto a coloro che già si trovano nella terra di Canaan e rischiano di dimenticare le difficoltà che i loro progenitori hanno dovuto superare prima di prenderne possesso. Mosè attribuisce queste sofferenze a un’esplicita decisione di Dio, il quale anzitutto voleva non tanto “umiliare”, quanto, rendere umile” il popolo, spezzare il loro orgoglio e la loro presunzione di credere di poter attuare da soli la propria liberazione. Le difficoltà incontrate erano dunque un mezzo predisposto da Dio per verificare se essi in tali circostanze avrebbero avuto fiducia in Lui, senza lamentarsi e senza rimpiangere ”i comodi” che la schiavitù in Egitto forniva.
Nel versetto successivo si riprende lo stesso tema specificando meglio come Dio si è comportato con Israele: “Egli dunque ti ha umiliato, …. , ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore”. La manna e l’acqua che sprizza dalla rupe durissima e arida per dissetare i figli di Israele sono segni della parola che esce dalla bocca del Signore. Senza questo cibo l’uomo si svuota interiormente e si irrigidisce nella morte dell’indifferenza e della superficialità. La manna è quindi il simbolo della parola di Dio e mangiare la manna significa essere aperti alla parola di Dio, essere disposti a osservarla, fidarsi di Lui e delle benedizioni contenute nell’alleanza. Nella manna è dunque simboleggiata la forza che Dio dà a chi crede in Lui, in modo che non gli manchi né il pane materiale né quello spirituale.
In mezzo alla civiltà dei consumi e del benessere che offusca la coscienza risuona l’appello del Deuteronomio, (e mai come in questo tempo che dopo la pandemia sentiamo gli echi degli orrori della guerra giunge così opportuno) a ritrovare la fame e la sede del deserto spirituale, cioè il desiderio della parola di Dio.
Il profeta Amos aveva annunziato «Ecco, verranno giorni,- dice il Signore Dio -in cui manderò la fame nel paese, non fame di pane, né sete di acqua, ma d’ascoltare la parola del Signore».(8,11)
Salmo 147 - Loda il Signore, Gerusalemme.
Celebra il Signore, Gerusalemme,
loda il tuo Dio, Sion,
perché ha rinforzato le sbarre delle tue porte,
in mezzo a te ha benedetto i tuoi figli
Egli mette pace nei tuoi confini
e ti sazia con fiore di frumento.
Manda sulla terra il suo messaggio:
la sua parola corre veloce.
Annuncia a Giacobbe la sua parola,
i suoi decreti e i suoi giudizi a Israele.
Così non ha fatto con nessun’altra nazione,
non ha fatto conoscere loro i suoi giudizi.
Il salmo è postesilico, ed è un invito a Gerusalemme (Sion è usato come sinonimo) a glorificare, a lodare, Dio.
Gerusalemme riedificata ha visto consolidata la sua sicurezza di fronte ai popoli confinanti che ora la temono e hanno sospeso le ostilità contro di essa: “Ha rinforzato le sbarre delle tue porte (...). Egli mette pace nei tuoi confini”.
Dio ha benedetto i gli abitanti di Gerusalemme - “in mezzo a te” - e di riverbero tutti gli abitanti di Giuda. Non manca per questo la prosperità materiale: “Ti sazia con fiore di frumento”, cioè con la miglior qualità di farina.
Egli invia la sua Parola a Israele per mezzo dei profeti postesilici, ed essa si diffonde velocemente.
Ma la sua Parola oltre che essere luce per gli uomini è anche creatrice. E' per la sua parola creatrice che viene il freddo, scende la neve, la grandine, la brina, ma segue però il caldo, lo scioglimento delle nevi, lo scorrere delle acque dai nevai. Inverno, temporali, bel tempo sono sotto il comando della sua Parola. La natura non è lasciata a se stessa, ma governata da Dio a favore dell'uomo (Cf. At 14,17).
“Annuncia a Giacobbe la sua parola”; il salmista riprende il tema della parola data ad Israele per mezzo dei profeti. La legge di Mosè e i suoi decreti sono ripresentati con forza dai profeti e dai sacerdoti.
“Così non ha fatto con nessun'altra nazione...”; Israele è oggetto di un'elezione divina, che lo costituisce segno di Dio in mezzo ai popoli.
La Chiesa è invitata a lodare Dio, a glorificarlo, perché ha inviato e dato il suo Figlio, la sua Parola perfetta. Egli l'assiste fortificandola con la forza dello Spirito Santo, e la nutre con fior di frumento, cioè con il pane che non è più pane, se non nelle apparenze, essendo realmente diventato il Corpo del Signore.
Commento tratto da “Perfetta Letizia”i
Dalla prima lettera di S.Paolo apostolo ai Corinzi
Fratelli, il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo?
Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane.
1Cor 10,16-17
La Prima lettera ai Corinzi, che Paolo scrisse da Efeso nel 53-54, è una delle più lunghe fra quelle scritte da Paolo, paragonabile a quella dei Romani, ambedue infatti sono suddivise in 16 capitoli.
La lettera si contraddistingue per la molteplicità dei temi che Paolo vi affronta per chiarire dubbi o difficoltà della comunità e per correggere abusi e deviazioni. In essa l’apostolo dovrà prendere posizioni anche piuttosto critiche, che potrebbero compromettergli la simpatia dei destinatari.
Nel capitolo 10, dal quale è stato tratto questo brano, Paolo illustra con grande chiarezza e profondità il significato dell’Eucaristia, e così affronta il problema delle carni sacrificate agli idoli, e che poi venivano vendute al mercato. I cristiani più intelligenti e maturi le mangiavano senza farsi troppi problemi. Le persone più semplici se ne facevano scrupolo e si scandalizzavano davanti al comportamento più disinvolto dei primi.
Paolo raccomanda ai Corinzi di avere a cuore queste persone più deboli e di non dare loro scandalo facendosi vedere a mangiare queste carni. Il principio che offre è quello della comunione. Chi mangia la carne sacrificata agli idoli entra in comunione con essi e con chi offre loro i sacrifici. Chi mangia la carne e il sangue di Cristo entra in comunione con Lui e con tutti coloro che mangiano insieme. Così risolvendo un problema della comunità di Corinto, Paolo ci ha lasciato una delle più belle descrizioni dell'Eucarestia.
“Fratelli, il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? “
Le domande che Paolo pone sono in forma retorica, perché il suo intento è di sottolineare le proprie affermazioni. Il calice della benedizione è il calice dell'Eucarestia. La benedizione era stata utilizzata da Gesù stesso nell'ultima Cena e proveniva dalle benedizioni previste per i pasti del popolo di Israele. Il termine comunione traduce la parola greca koinonìa, che indica propriamente la condivisione, la comunanza di un bene tra un certo numero di persone. Quindi ciò significa soprattutto la comunione tra i credenti che bevono allo stesso calice e mangiano lo stesso pane, il corpo e il sangue di Cristo. Gli elementi eucaristici non sono presentati come il corpo e il sangue di Cristo, ma come dei segni che hanno il potere, nel contesto del rito che commemora la morte e la resurrezione di Cristo, di stabilire un vero rapporto di comunione con Lui. Non sono dunque simboli vuoti, ma strumenti efficaci della presenza di Cristo stesso.
“ Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane”.
Paolo ci dà una chiave di interpretazione molto importante e formula in modo limpido il senso di ogni celebrazione eucaristica: da quella che si svolgeva nella città di Corinto in Grecia a quella che oggi si compirà nelle nostre città o nei nostri piccoli centri. Attraverso il calice e il pane posti sull’altare, Cristo comunica con noi il Suo corpo, cioè la Sua vita, il Suo amore e la Sua gloria.
Dal vangelo secondo Giovanni
In quel tempo Gesù disse alla folla:
«Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».
Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?».
Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda.
Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno».
Gv 6,51-58
In questo brano, Gesù sviluppa il discorso eucaristico iniziato dopo il miracolo della moltiplicazione dei pani. Sta parlando nella sinagoga di Cafarnao e afferma che per mezzo del Figlio dell’uomo il Padre dà il vero pane dal cielo, nel quale si concretizza in modo simbolico la salvezza promessa dai profeti. In seguito alla domanda posta dai presenti, Gesù prosegue affermando che questo pane non è qualcosa di separato da Lui, ma si identifica con la Sua stessa persona; Egli infatti è stato mandato dal Padre a portare la vita a chi crede in Lui.
In seguito alle ulteriori mormorazioni dei giudei, Gesù sottolinea che per mezzo di Lui si attua l’attesa di un insegnamento conferito direttamente da Dio e infine, con chiaro riferimento all’episodio biblico della manna, Gesù si presenta nuovamente come il pane della vita. E’ con le Sue parole che ha inizio il brano che lo rende più radicale affermando: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».
Il pane che Gesù darà non solo si identifica con la Sua persona, ma è la Sua stessa carne che deve essere mangiata perché possa comunicare la vita.
Nel linguaggio biblico la carne non è altro che la persona umana, vista però in tutta la sua limitatezza e fragilità. In Gesù, Figlio di Dio e Figlio dell’uomo, il Verbo si è fatto carne, e ora dà la Sua carne in cibo all’umanità. L’identificazione del pane della vita con la “carne” di Gesù ci porta a pensare all’ultima cena in cui Gesù darà ai Suoi discepoli il pane e il vino come segno del Suo corpo.
Il brano prosegue riportando che i giudei esprimono di nuovo la loro incredulità chiedendosi: “Come può costui darci la sua carne da mangiare?”. Gesù non risponde alla loro domanda, ma prosegue il Suo discorso: “In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. “
Con queste parole Gesù, invece di chiarire il significato dell’affermazione precedente, evidenzia ancora di più la sua realtà sottolineando come per avere la vita sia necessario non solo mangiare la Sua carne ma anche bere il Suo sangue. Poi Gesù ancora precisa: : “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda.”
Con queste espressioni Egli non fa altro che ribadire quanto affermato precedentemente, sottolineando che la Sua carne è “vero” cibo e il Suo sangue è “vera” bevanda: l’effetto di questo mangiare e bere è la vita eterna che appare come una realtà già presente e al tempo stesso futura, in quanto coincide con la risurrezione che avrà luogo “nell’ultimo giorno”
Il significato della vita promessa a chi mangia la Sua carne e beve il Suo sangue viene ulteriormente specificato da Gesù con queste parole:. “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me”.
Tra Gesù e colui che mangia il Suo corpo e beve il Suo sangue, si instaura dunque un’intima comunione di vita, che si modella su quella che unisce Gesù al Padre, anzi ne è la conseguenza e lo sviluppo logico: come il Figlio, che è stato mandato dal Padre, attinge da Lui tutta la Sua vita, così chi si nutre del Figlio attinge da Lui quella stessa vita che Egli ha ricevuto dal Padre.
Gesù giunge alla fine del Suo discorso dicendo: “Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno”.
Con queste parole Gesù, riprendendo espressioni già usate precedentemente, afferma di essere Lui il pane disceso dal cielo, perché, diversamente dalla manna, Lui dà una vita che dura in eterno.
Non è difficile immaginare cosa avranno pensato i suoi uditori ….certo questo rabbi ha detto e fatto cose mai sentite e viste prima …ma ora cosa propone?!
Sono passati secoli e tante cose più razionali e scientifiche hanno fatto il loro tempo, ma quello scandalo predicato nella sinagoga di Cafarnao non cessa di essere vivo.
La persona di Gesù Cristo, donata sulla croce per la salvezza di tutta l’umanità e rappresentata nei segni eucaristici del pane e del vino, è sempre il nutrimento dei tempi escatologici, dal quale scaturisce la vita piena nella comunione con il Padre.
Il credente è invitato alla comunione con la Sapienza divina e con Cristo attraverso l’Eucaristia. Non è una comunione automatica, superficiale come purtroppo spesso avviene nelle nostre celebrazioni eucaristiche distratte, abitudinarie, tradizionali, deve essere invece una comunione che è dialogo e reciprocità.
Ricordiamolo sempre: la comunione eucaristica trasforma il credente, lo rende inno di lode, lo rende Corpo di Cristo e Sua Parola vivente :“Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui”, queste Sue parole sono scolpite nel nostro intimo più profondo, non le possiamo cancellare!
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“Oggi, in Italia e in altre Nazioni, si celebra la solennità del Corpo e Sangue di Cristo, il Corpus Domini.
Nella seconda Lettura della liturgia odierna, San Paolo risveglia la nostra fede in questo mistero di comunione . Egli sottolinea due effetti del calice condiviso e del pane spezzato: l’effetto mistico e l’effetto comunitario.
Dapprima l’Apostolo afferma: «?» Il calice della benedizione che noi benediciamo non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo non è forse comunione con il corpo di Cristo. Queste parole esprimono l’effetto mistico o possiamo dire l’effetto spirituale dell’Eucaristia: esso riguarda l’unione con Cristo, che nel pane e nel vino si offre per la salvezza di tutti. Gesù è presente nel sacramento dell’Eucaristia per essere il nostro nutrimento, per essere assimilato e diventare in noi quella forza rinnovatrice che ridona energia e ridona voglia di rimettersi in cammino, dopo ogni sosta o dopo ogni caduta. Ma questo richiede il nostro assenso, la nostra disponibilità a lasciar trasformare noi stessi, il nostro modo di pensare e di agire; altrimenti le celebrazioni eucaristiche a cui partecipiamo si riducono a dei riti vuoti e formali. Tante volte qualcuno va a messa perché si deve andare, come un atto sociale, rispettoso, ma sociale. Ma il mistero è un’altra cosa: è Gesù presente che viene per nutrirci.
Il secondo effetto è quello comunitario ed è espresso da San Paolo con queste parole: «Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo». Si tratta della comunione reciproca di quanti partecipano all’Eucaristia, al punto da diventare tra loro un corpo solo, come unico è il pane che si spezza e si distribuisce. Siamo comunità, nutriti dal corpo e dal sangue di Cristo. La comunione al corpo di Cristo è segno efficace di unità, di comunione, di condivisione. Non si può partecipare all’Eucaristia senza impegnarsi in una fraternità vicendevole, che sia sincera. Ma il Signore sa bene che le nostre sole forze umane non bastano per questo. Anzi, sa che tra i suoi discepoli ci sarà sempre la tentazione della rivalità, dell’invidia, del pregiudizio, della divisione... Tutti conosciamo queste cose. Anche per questo ci ha lasciato il Sacramento della sua Presenza reale, concreta e permanente, così che, rimanendo uniti a Lui, noi possiamo ricevere sempre il dono dell’amore fraterno. «Rimanete nel mio amore» , ha detto Gesù; ed è possibile grazie all’Eucaristia. Rimanere nell’amicizia, nell’amore.
Questo duplice frutto dell’Eucaristia: il primo, l’unione con Cristo e il secondo, la comunione tra quanti si nutrono di Lui, genera e rinnova continuamente la comunità cristiana. È la Chiesa che fa l’Eucaristia, ma è più fondamentale che l’Eucaristia fa la Chiesa, e le permette di essere la sua missione, prima ancora di compierla. Questo è il mistero della comunione, dell’Eucaristia: ricevere Gesù perché ci trasformi da dentro e ricevere Gesù perché faccia di noi l’unità e non la divisione.
La Vergine Santa ci aiuti ad accogliere sempre con stupore e gratitudine il grande dono che Gesù ci ha fatto lasciandoci il Sacramento del suo Corpo e del suo Sangue.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus 14 giugno 2020
Le letture della liturgia di questa domenica della Santissima Trinità, la prima dopo Pentecoste, ci fanno intravedere il volto di Dio invisibile, misericordioso e pietoso, il cui mistero è da cercare nell’infinita sua luce che si esprime nell’amore.
Nella prima lettura, tratta dal libro dell’Esodo, troviamo l’antico credo che il Signore stesso insegna a Mosè nella cornice del Sinai: “il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà». Il primato di Dio non è quello della giustizia che punisce, ma quello dell’amore che perdona.
Nella seconda lettura, tratta dalla seconda lettera ai Corinzi, S. Paolo conclude la lettera con un saluto trinitario “La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi”, che è divenuto il saluto d’ingresso della celebrazione. La Trinità entra nell’esistenza del credente offrendo la grazia di Cristo, l’amore del Padre e la comunione dello Spirito Santo.
Nel Vangelo, Giovanni ci presenta il dialogo notturno tra Gesù e Nicodemo, simbolo dell’uomo che cerca Dio con cuore sincero. A lui Gesù dice: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio, unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna...”
C’è un dono del Padre e un dono del Figlio, ma entrambi hanno lo scopo di liberare l’uomo dal male. E’ in questa luce che la divinità penetra nella vicenda umana, in quella di ogni uomo, offrendo la grazia del Cristo, l’amore del Padre e la comunione dello Spirito Santo.
Dal libro dell’Esodo
In quei giorni, Mosè si alzò di buon mattino e salì sul monte Sinai, come il Signore gli aveva comandato, con le due tavole di pietra in mano.
Allora il Signore scese nella nube, si fermò là presso di lui e proclamò il nome del Signore. Il Signore passò davanti a lui, proclamando: «Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà».
Mosè si curvò in fretta fino a terra e si prostrò. Disse: «Se ho trovato grazia ai tuoi occhi, Signore, che il Signore cammini in mezzo a noi. Sì, è un popolo di dura cervìce, ma tu perdona la nostra colpa e il nostro peccato: fa’ di noi la tua eredità».
Es 34,4b-6, 8-9
L'Esodo è il secondo libro della Bibbia e della Torah ebraica. È stato scritto in ebraico e, secondo l'ipotesi di molti studiosi, la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte. È composto da 40 capitoli; nei primi 14 descrive il soggiorno degli Ebrei in Egitto, la loro schiavitù e la miracolosa liberazione tramite Mosè, mentre nei restanti descrive il soggiorno degli Ebrei nel deserto del Sinai. Il periodo descritto si colloca intorno al 1300-1200 a.C.
Il libro dell'Esodo è suddiviso in tre grandi sezioni, corrispondenti ai tre momenti della narrazione:
La prima, (capitoli 11,1-15,21), comprende il racconto dell'oppressione degli Ebrei in Egitto, la nascita di Mosè, la fuga di Mosè a Madian e la scelta divina, il suo ritorno in Egitto, le dieci piaghe e l'uscita dal paese.
La seconda sezione (15,22-18,27) narra del viaggio lungo la costa del Mar Rosso e nel deserto del Sinai.
La terza (19,1-40,38) riguarda l'incontro tra Dio e il popolo eletto, mediante le tappe fondamentali del decalogo e del codice dell'alleanza, seguito dall'episodio del vitello d'oro e dalla costruzione del Tabernacolo
Nel brano che abbiamo, tratto dalla terza sezione, vediamo Mosè, che volendo ricomporre l’alleanza tra il popolo e Dio, “si alzò di buon mattino e salì sul monte Sinai, come il Signore gli aveva comandato, con le due tavole di pietra in mano”, perché Dio gli ridoni la legge. In questo episodio, che la Liturgia ci presenta, possiamo avere la prova che Dio è veramente un Dio di misericordia.
Nei versetti precedenti avevamo visto che per la seconda volta Dio chiama Mosè sul monte per stabilire un’alleanza con il popolo d’Israele. Quando scese dal monte la prima volta, Mosè trovò che il suo popolo si era fabbricato un vitello d’oro al quale offriva sacrifici.
L’alleanza che Dio aveva stipulato con il popolo d’Israele sul monte diceva così: “Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa.”.(Es 19:5–6) Il popolo d’Israele non aveva avuto fede in Dio durante la traversata del Mar Rosso, nel deserto si era lamentato di Lui e adesso quest’atto di ribellione del vitello d’oro avrebbe dovuto far perdere definitivamente la pazienza a Dio.
Ma Dio non solo non perde la pazienza con questo popolo caparbio, ma è disposto ad incontrare di nuovo Mosè e rinnovare la Sua alleanza. Il contenuto di questo messaggio lo troviamo nel brano di oggi:
“Allora il Signore scese nella nube, si fermò là presso di lui e proclamò il nome del Signore”.
Dio proclama il Suo nome: "Yahweh! Yahweh!“ il nome irripetibile, e spiega poi il significato di quel nome “Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà....”. Sono parole di una insuperabile dolcezza che non trova eguali neanche nel Nuovo Testamento!.
DIO è “misericordioso”, cioè è dotato di quella dolcezza e tenerezza di cui è simbolo il seno materno (rehem); egli è “disposto a far grazia” , cioè a donare gratuitamente la Sua benevolenza; è “lento all’ira” (paziente), in quanto non si adira facilmente contro i Suoi eletti, anche quando essi vengono meno ai loro doveri verso di Lui; Egli è ricco di “fedeltà”, ossia è fermo nella Sua fedeltà verso coloro che ha scelto e la conserva per mille generazioni, cioè senza limiti di tempo.
E’ proprio facendo appello alla Misericordia di Dio, che Mosè curvandosi fino a terra disse:
«Se ho trovato grazia ai tuoi occhi, Signore, che il Signore cammini in mezzo a noi. Sì, è un popolo di dura cervìce, ma tu perdona la nostra colpa e il nostro peccato: fa’ di noi la tua eredità». Lo prega per il popolo di Israele, che è si gente di “dura cervice”, ma è sempre la sua gente, e di continuare a camminare ed abitare con il Suo popolo e fare di loro la Sua eredità.
Ciò che appare in primo piano è la bontà e misericordia, di Dio che Lo rende simile a una madre che tratta con tenerezza i suoi figli. Questo aspetto è trattato anche da Osea (11,1-4) che parla dell’amore di Dio per il suo popolo con note di affetto durevole, di una passione inquieta e di una tenerezza profonda. Anche secondo l'autore del libro profetico di Giona, troviamo un Dio così pietoso capace di ricredersi dei castighi minacciati alla città di Ninive., la città empia e sanguinaria di Assiria
Anche Gesù nella parabola del Figliol prodigo dipinge a parole la misericordia di Dio nella figura del padre pietoso che aspetta il figlio degenere , lo accoglie, lo riveste della dignità persa, riportandolo alla dignità di "figlio"
Salmo Dn 3
Benedetto sei tu, Signore, Dio dei padri nostri.
A te la lode e la gloria nei secoli.
Benedetto il tuo nome glorioso e santo.
A te la lode e la gloria nei secoli.
Benedetto sei tu nel tuo tempio santo, glorioso.
A te la lode e la gloria nei secoli.
Benedetto sei tu sul trono del tuo regno.
A te la lode e la gloria nei secoli.
Benedetto sei tu che penetri con lo sguardo
gli abissi e siedi sui cherubini.
A te la lode e la gloria nei secoli.
Benedetto sei tu nel firmamento del cielo.
A te la lode e la gloria nei secoli
Questo salmo è "Il Cantico, tradizionalmente chiamato "dei tre giovani". E’ simile ad una fiaccola che rischiara l'oscurità del tempo dell'oppressione e della persecuzione, un tempo che spesso si è ripetuto nella storia di Israele e nella stessa storia del cristianesimo".
Con queste parole Giovanni Paolo II ha commentato il Cantico Dn 3, 52-57 "Ogni creatura lodi il Signore" - delle Lodi di domenica della 4ª settimana - durante l'udienza generale di mercoledì 19 febbraio 2003, nell'Aula Paolo VI. Dopo la proclamazione dei versetti 3, 52-57, il Papa ha svolto la seguente catechesi:
1. "Quei tre giovani, a una sola voce, si misero a lodare, a glorificare, a benedire Dio nella fornace" (Dn 3, 51). Questa frase introduce al celebre Cantico che ora abbiamo ascoltato in un suo frammento fondamentale. Esso si trova all'interno del Libro di Daniele, nella parte giunta a noi solo in lingua greca, ed è intonato da testimoni coraggiosi della fede, che non hanno voluto piegarsi all'adorazione della statua del re e hanno preferito affrontare una morte tragica, il martirio nella fornace ardente.
Sono tre giovani ebrei, collocati dall'autore sacro nel contesto storico del regno di Nabucodonosor, il tremendo sovrano babilonese che annientò la città santa di Gerusalemme nel 586 a.C. e deportò gli Israeliti "lungo i fiumi di Babilonia" (cfr Sal 136). Pur nel pericolo estremo, quando le fiamme ormai lambiscono i loro corpi, essi trovano la forza di "lodare, glorificare e benedire Dio", certi che il Signore del cosmo e della storia non li abbandonerà alla morte e al nulla.
2. L'autore biblico, che scriveva qualche secolo dopo, evoca questo eroico evento per stimolare i suoi contemporanei a tenere alto il vessillo della fede durante le persecuzioni dei re siro-ellenistici del secondo secolo a.C. Proprio allora si registra la coraggiosa reazione dei Maccabei, combattenti per la libertà della fede e della tradizione ebraica. Il Cantico, tradizionalmente chiamato "dei tre giovani", è simile ad una fiaccola che rischiara l'oscurità del tempo dell'oppressione e della persecuzione, un tempo che spesso si è ripetuto nella storia di Israele e nella stessa storia del cristianesimo. E noi sappiamo che il persecutore non assume sempre il volto violento e macabro dell'oppressore, ma spesso si compiace d'isolare il giusto, con la beffa e l'ironia, chiedendogli con sarcasmo: "Dov'è il tuo Dio?" (Sal 41, 4.11).
3. Nella benedizione che i tre giovani fanno salire dal crogiolo della loro prova al Signore Onnipotente sono coinvolte tutte le creature. Essi intessono una sorta di arazzo multicolore dove brillano gli astri, scorrono le stagioni, si muovono gli animali, si affacciano gli angeli e soprattutto cantano i "servi del Signore", i "pii" e gli "umili di cuore" (cfr Dn 3, 85.87).
Il brano che è stato prima proclamato precede questa magnifica evocazione di tutte le creature. Costituisce la prima parte del Cantico, la quale evoca invece la presenza gloriosa del Signore, trascendente eppure vicina. Sì, perché Dio è nei cieli, dove "penetra con lo sguardo gli abissi" (cfr 3, 55), ma è anche "nel tempio santo glorioso" di Sion (cfr 3, 53). Egli è assiso sul "trono del suo regno" eterno e infinito (cfr 3, 54), ma è anche colui che "siede sui cherubini" (cfr 3, 55), nell'arca dell'alleanza collocata nel Santo dei Santi del tempio di Gerusalemme.
4. Un Dio al di sopra di noi, capace di salvarci con la sua potenza; ma anche un Dio vicino al suo popolo, in mezzo al quale Egli ha voluto abitare nel suo "tempio santo glorioso", manifestando così il suo amore. Un amore che Egli rivelerà in pienezza nel far "abitare in mezzo a noi" il Figlio suo Gesù Cristo "pieno di grazia e di verità" (cfr Gv 1, 14). Egli rivelerà in pienezza il suo amore nel mandare in mezzo a noi il Figlio a condividere in tutto, fuorché nel peccato, la nostra condizione segnata da prove, oppressioni, solitudine e morte.
La lode dei tre giovani al Dio Salvatore continua in modo vario nella Chiesa. Per esempio, san Clemente Romano, al termine della sua Lettera ai Corinzi, inserisce una lunga preghiera di lode e di fiducia, tutta intessuta di reminiscenze bibliche e forse riecheggiante l'antica liturgia romana. È una preghiera di gratitudine al Signore che, nonostante l'apparente trionfo del male, guida a buon fine la storia.
5. Eccone un passaggio:
"Tu apristi gli occhi del nostro cuore (cfr Ef 1, 18) perché conoscessimo te il solo (cfr Gv 17, 3) altissimo nell'altissimo dei cieli il Santo che riposi tra i santi che umìli la violenza dei superbi (cfr Is 13, 11) che sciogli i disegni dei popoli (cfr Sal 32, 10) che esalti gli umili e abbassi i superbi (cfr Gb 5, 11). Tu che arricchisci e impoverisci che uccidi e dai la vita (cfr Dt 32, 39) il solo benefattore degli spiriti e Dio di ogni carne che scruti gli abissi (cfr Dn 3, 55) che osservi le opere umane che soccorri quelli che sono in pericolo e salvi i disperati (cfr Gdt 9, 11) creatore e custode di ogni spirito che moltiplichi i popoli sulla terra e che fra tutti scegliesti quelli che ti amano per mezzo di Gesù Cristo l'amatissimo tuo Figlio mediante il quale ci hai educato, ci hai santificato e ci hai onorato"
(Clemente Romano, Lettera ai Corinzi, 59, 3: I Padri Apostolici, Roma 1976, pp. 88-89).
Dalla seconda lettera di S.Paolo apostolo ai Corinzi
Fratelli, siate gioiosi, tendete alla perfezione, fatevi coraggio a vicenda, abbiate gli stessi sentimenti, vivete in pace e il Dio dell’amore e della pace sarà con voi. Salutatevi a vicenda con il bacio santo. Tutti i santi vi salutano.
La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi.
2Cor 13,11-13
Paolo scrive la seconda lettera al Corinzi, (si può pensare intorno agli anni 56-57) spinto dai gravi avvenimenti che avevano scosso la comunità di Corinto. Nell’anno 56 Paolo si trovava ad Efeso (At 19) e venne a sapere che alcuni contestatori giudeo-cristiani stavano sollevando la comunità contro di lui. Vi fa una breve visita, ma è ricevuto freddamente, stanco e forse implicato troppo personalmente nel conflitto, non riesce ad aggiustare nulla, anzi la sua visita accresce piuttosto il disordine, si ripromette allora di ritornare in seguito, prendendo tutto il tempo necessario.
Mentre aspetta è pubblicamente offeso, probabilmente da uno dei suoi più vicini collaboratori (parla di un offensore e di un offeso (2,5;7,12). Sotto la spinta dell’emozione invia una lettera, che sarà giudicata troppo severa (2,3-4;8-12), in cui esige che sia riparata una tale offesa.
Meno ricca della prima in insegnamenti dottrinali, la seconda lettera ai Corinzi ha però il grande merito di introdurci nella vita interiore dell’Apostolo, nella sua mistica. E’ in questi capitoli che si può entrare nella psicologia e nel carattere appassionato di Paolo e si può affermare che per comprenderlo meglio ci si deve rifare sempre a questa lettera che può essere considerata come il suo diario intimo, le sue “confessioni”. In nessun altro scritto traspare tanto la sua personalità, caratterizzata da un contrasto di forza e di debolezza, di audacia e di riserbo, di impetuosità e di tenerezza. Lo scopriamo organizzatore e missionario, fondatore e pastore, mistico e uomo d’azione, con una coscienza profonda della sua missione apostolica.
Il brano che la liturgia ci presenta riporta gli ultimi tre versetti della lettera ed è stato scelto per la particolare benedizione finale, in cui compaiono le persone della Trinità e le loro particolari attribuzioni (la grazia, l'amore, la comunione).
“Fratelli, siate gioiosi, tendete alla perfezione, fatevi coraggio a vicenda, abbiate gli stessi sentimenti, vivete in pace e il Dio dell’amore e della pace sarà con voi”.
Dopo averli prima ammoniti severamente, Paolo esorta ora i Corinzi alla gioia, una gioia speciale che deriva dall'appartenere a Cristo indirizzandoli ad una adesione vera e sincera.
La gioia è quindi un atteggiamento di fondo che continua anche davanti alle persecuzioni e alla perdita dell'entusiasmo iniziale. Li esorta anche alla perfezione, nel senso di ritornare sulla retta via dato che essi si erano lasciati sviare da chi aveva denigrato Paolo.
E’ da notare che li invita a farsi coraggio con il verbo parakaleo, (da cui deriva anche il termine Paraclito, attribuito soprattutto allo Spirito), in cui si possono trovare anche i significati di incoraggiare, esortare.
Paolo continua invitando i Corinzi alla concordia, alla pace, ricordando con una formula liturgia (e il Dio dell'amore e della pace sarà con voi) che Dio ama coloro che vivono nella concordia e nella pace.
Paolo scrive la seconda lettera al Corinzi, (si può pensare intorno agli anni 56-57) spinto dai gravi avvenimenti che avevano scosso la comunità di Corinto. Nell’anno 56 Paolo si trovava ad Efeso (At 19) e venne a sapere che alcuni contestatori giudeo-cristiani stavano sollevando la comunità contro di lui. Vi fa una breve visita, ma è ricevuto freddamente, stanco e forse implicato troppo personalmente nel conflitto, non riesce ad aggiustare nulla, anzi la sua visita accresce piuttosto il disordine, si ripromette allora di ritornare in seguito, prendendo tutto il tempo necessario.
Mentre aspetta è pubblicamente offeso, probabilmente da uno dei suoi più vicini collaboratori (parla di un offensore e di un offeso (2,5;7,12). Sotto la spinta dell’emozione invia una lettera, che sarà giudicata troppo severa (2,3-4;8-12), in cui esige che sia riparata una tale offesa.
Meno ricca della prima in insegnamenti dottrinali, la seconda lettera ai Corinzi ha però il grande merito di introdurci nella vita interiore dell’Apostolo, nella sua mistica. E’ in questi capitoli che si può entrare nella psicologia e nel carattere appassionato di Paolo e si può affermare che per comprenderlo meglio ci si deve rifare sempre a questa lettera che può essere considerata come il suo diario intimo, le sue “confessioni”. In nessun altro scritto traspare tanto la sua personalità, caratterizzata da un contrasto di forza e di debolezza, di audacia e di riserbo, di impetuosità e di tenerezza. Lo scopriamo organizzatore e missionario, fondatore e pastore, mistico e uomo d’azione, con una coscienza profonda della sua missione apostolica.
Il brano che la liturgia ci presenta riporta gli ultimi tre versetti della lettera ed è stato scelto per la particolare benedizione finale, in cui compaiono le persone della Trinità e le loro particolari attribuzioni (la grazia, l'amore, la comunione).
“Fratelli, siate gioiosi, tendete alla perfezione, fatevi coraggio a vicenda, abbiate gli stessi sentimenti, vivete in pace e il Dio dell’amore e della pace sarà con voi”.
Dopo averli prima ammoniti severamente, Paolo esorta ora i Corinzi alla gioia, una gioia speciale che deriva dall'appartenere a Cristo indirizzandoli ad una adesione vera e sincera.
La gioia è quindi un atteggiamento di fondo che continua anche davanti alle persecuzioni e alla perdita dell'entusiasmo iniziale. Li esorta anche alla perfezione, nel senso di ritornare sulla retta via dato che essi si erano lasciati sviare da chi aveva denigrato Paolo.
E’ da notare che li invita a farsi coraggio con il verbo parakaleo, (da cui deriva anche il termine Paraclito, attribuito soprattutto allo Spirito), in cui si possono trovare anche i significati di incoraggiare, esortare.
Paolo continua invitando i Corinzi alla concordia, alla pace, ricordando con una formula liturgia (e il Dio dell'amore e della pace sarà con voi) che Dio ama coloro che vivono nella concordia e nella pace.
Dal vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, disse Gesù a Nicodèmo:
«Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio, unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna.
Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui.
Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio».
Gv 3:,16-18
In questo brano del Vangelo di Giovanni, incontriamo per la prima volta Nicodemo, un dottore della Legge, fariseo e membro del Sinedrio.. Lo troveremo ancora quando interviene in difesa di Gesù allorquando i Farisei lo volevano arrestare (7,45.51) e quando insieme a Giuseppe d’Arimatea contribuisce alla deposizione di Gesù dopo la crocifissione e lo aiuta a deporne il corpo nella tomba (19,39-42)
Nicodemo è simbolo dell’uomo che cerca Dio con cuore sincero, è incuriosito da Gesù, ne è affascinato. Sappiamo che è un uomo retto, un uomo di Legge, ma ha paura, teme il giudizio impietoso dei suoi amici farisei del Sinedrio, per cui va da Gesù di notte. Gesù lo accoglie ugualmente e lo invita a riflettere: per cambiare deve avere il coraggio di rinascere dall'alto, deve avere il coraggio di cambiare mentalità.
Cosa avrà provato Nicodemo quando Gesù gli disse:”Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio, unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna....”
C’è il verbo del dono che emerge “dare” e sarà ripreso nel Vangelo per descrivere il darsi di Gesù nella morte di croce. C’è quindi, un dono del Padre e un dono del Figlio, ma entrambi hanno come fine la liberazione dell’uomo dal male.
“Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui “
Questo versetto precisa meglio la motivazione dell'invio del Figlio nel mondo: la salvezza del mondo. Quindi si passa dai credenti che devono avere la vita eterna, al mondo intero, perché sia salvato..
«Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio».
Il messaggio di Gesù non è un messaggio qualunque: richiede una presa di posizione da parte dell'uomo. Chi non si decide a favore di Dio della Sua luce, del Suo amore, si condanna da solo. Chi non accoglie la Sua luce rimane nelle tenebre.
Sicuramente anche Nicodemo, come i discepoli e come noi oggi, ha fatto fatica a percepire l'inaudita novità di un Dio Uno e Trino. Gesù ci rivela il Padre. È l'unico che può farlo veramente; lo leggiamo nel prologo di questo vangelo: «In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio..»: è il Figlio che svela il Padre, il Risorto che toglie il velo che ci impedisce di vedere e di percepire la realtà divina di tre Persone la cui relazione d'amore coinvolge tutti noi che formiamo la Chiesa e siamo destinatari della stessa relazione d'amore divina che ci travolge e ci porta ad una prospettiva che ci riempie di speranza gioiosa: la vita eterna!
Karl Rahner (teologo gesuita uno dei maggiori protagonisti del rinnovamento della Chiesa che portò al Concilio Vaticano II) dà un immagine suggestiva per descrivere la presenza segreta ed efficace della Trinità nella storia e nella vita umana, “La nostra esistenza è come un rivolo che serpeggia in un deserto fatto di banalità, di male, di egoismi. C’è il rischio che quella steppa riesca ad essiccarlo. Ma dietro le dune grigie dei nostri giorni, sentiamo l’eco di un mare immenso. Il nostro ruscello, anche se lentamente, è destinato ad approdare nelle onde infinite di Dio. Il Cristo stesso ci estrae dalle secche, ci aiuta ad uscire dal deserto del peccato e ci fa discendere nel grande mare della pace e della luce di Dio.”
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“Il Vangelo di oggi , festa della Santissima Trinità, mostra – col linguaggio sintetico dell’apostolo Giovanni – il mistero dell’amore di Dio per il mondo, sua creazione.
Nel breve dialogo con Nicodemo, Gesù si presenta come Colui che porta a compimento il piano di salvezza del Padre in favore del mondo. Egli afferma: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito». Queste parole stanno a indicare che l’azione delle tre Persone divine – Padre, Figlio e Spirito Santo – è tutta un unico disegno d’amore che salva l’umanità e il mondo, è un disegno di salvezza per noi.
Dio ha creato il mondo buono, bello, ma dopo il peccato il mondo è segnato dal male e dalla corruzione. Noi uomini e donne siamo peccatori, tutti, pertanto Dio potrebbe intervenire per giudicare il mondo, per distruggere il male e castigare i peccatori. Invece, Egli ama il mondo, nonostante i suoi peccati; Dio ama ciascuno di noi anche quando sbagliamo e ci allontaniamo da Lui. Dio Padre ama talmente il mondo che, per salvarlo, dona ciò che ha di più prezioso: il suo Figlio unigenito, il quale dà la sua vita per gli uomini, risorge, torna al Padre e insieme a Lui manda lo Spirito Santo. La Trinità è dunque Amore, tutta al servizio del mondo, che vuole salvare e ricreare.
Oggi, pensando a Dio Padre e Figlio e Spirito Santo, pensiamo all’amore di Dio! E sarebbe bello che noi ci sentissimo amati. “Dio mi ama”: questo è il sentimento di oggi.
Quando Gesù afferma che il Padre ha dato il suo Figlio unigenito, ci viene spontaneo pensare ad Abramo e alla sua offerta del figlio Isacco, di cui parla il libro della Genesi (cfr 22,1-14): ecco la “misura senza misura” dell’amore di Dio. E pensiamo anche a come Dio si rivela a Mosè: pieno di tenerezza, misericordioso, pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e di fedeltà (cfr Es 34,6). L’incontro con questo Dio ha incoraggiato Mosè, il quale, come narra il libro dell’Esodo, non ebbe paura di frapporsi tra il popolo e il Signore, dicendogli: «Sì, è un popolo di dura cervice, ma tu perdona la nostra colpa e il nostro peccato: fa’ di noi la tua eredità». E così ha fatto Dio inviando il suo Figlio. Noi siamo figli nel Figlio con la forza dello Spirito Santo! Noi siamo l’eredità di Dio!
Cari fratelli e sorelle, la festa di oggi ci invita a lasciarci nuovamente affascinare dalla bellezza di Dio; bellezza, bontà e verità inesauribile. Ma anche bellezza, bontà e verità umile, vicina, che si è fatta carne per entrare nella nostra vita, nella nostra storia, nella mia storia, nella storia di ciascuno di noi, perché ogni uomo e donna possa incontrarla e avere la vita eterna. E questo è la fede: accogliere Dio-Amore, accogliere questo Dio-Amore che si dona in Cristo, che ci fa muovere nello Spirito Santo; lasciarsi incontrare da Lui e confidare in Lui. Questa è la vita cristiana. Amare, incontrare Dio, cercare Dio; e Lui ci cerca per primo, Lui ci incontra per primo.
La Vergine Maria, dimora della Trinità, ci aiuti ad accogliere con cuore aperto l’amore di Dio, che ci riempie di gioia e dà senso al nostro cammino in questo mondo, orientandolo sempre alla meta che è il Cielo.”
Papa Francesco
Parte dell’Angelus del 7 giugno 2020
L'umanità è una grande e immensa famiglia ... Troviamo la dimostrazione di ciò da quello che ci sentiamo nei nostri cuori a Natale.
(Papa Giovanni XXIII)