Le letture liturgiche di questa domenica hanno come filo conduttore una festa di nozze e ci guidano con semplicità e chiarezza verso il centro del messaggio cristiano: la nostra vita spirituale si nutre dell’amore di Dio per noi e del nostro amore per il prossimo che raffigura l’amore per Dio.
Nella prima lettura, tratta dal libro del profeta Isaia, Dio è presentato come uno sposo “come un giovane sposa una vergine, … come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te” e Israele è paragonato ad una sposa, alla quale Dio non rinnega mai il Suo amore, nonostante le sue infedeltà.
Nella seconda lettura, San Paolo nella sua lettera ai Corinzi afferma che la Chiesa generata dallo Spirito Santo è una umanità unificata, nella quale ciascuno ha un compito e un carisma in vista del bene comune
Nel Vangelo, Giovanni racconta come Gesù si sia rivelato fin dagli inizi ai suoi discepoli attraverso un segno tutto particolare: l’acqua mutata in vino in un banchetto di nozze. La festa di Cana, alla quale Gesù partecipa con Sua Madre e con i Suoi discepoli, manifesta molteplici aspetti della Sua presenza tra noi. C’è una chiara allusione al banchetto finale al quale Dio chiama, attraverso di Lui, tutti i popoli della terra. L’immagine delle nozze è frequente nell’Antico Testamento per indicare l’amore di Dio verso la comunità che Egli ha scelto.
Il miracolo (o segno) di Cana di Galilea è il primo “segno” col quale Gesù si manifesta agli uomini nella sua gloria divina, e ci esorta a ricordare che Lui è il centro di ogni festa, il centro della nostra vita, Colui che proprio con tali segni vuole mostrarci la strada per realizzare ed attualizzare la nostra salvezza.
Dal libro del profeta Isaìa
Per amore di Sion non tacerò,
per amore di Gerusalemme non mi concederò riposo,
finché non sorga come aurora la sua giustizia
e la sua salvezza non risplenda come lampada.
Allora le genti vedranno la tua giustizia,
tutti i re la tua gloria;
sarai chiamata con un nome nuovo,
che la bocca del Signore indicherà.
Sarai una magnifica corona nella mano del Signore,
un diadema regale nella palma del tuo Dio.
Nessuno ti chiamerà più Abbandonata,
né la tua terra sarà più detta Devastata,
ma sarai chiamata Mia Gioia
e la tua terra Sposata,
perché il Signore troverà in te la sua delizia
e la tua terra avrà uno sposo.
Sì, come un giovane sposa una vergine,
così ti sposeranno i tuoi figli;
come gioisce lo sposo per la sposa,
così il tuo Dio gioirà per te.
Is 62,1-5
Questo brano, come quello dell’Epifania, appartiene al "Terzo Isaia" (TritoIsaia capitoli 56-66), il profeta della situazione successiva al ritorno dall'esilio che si rivolge non più agli esiliati, ma ai giudei ritornati da Babilonia in Gerusalemme. Il suo centro di interesse non è più il nuovo esodo, bensì il ristabilimento delle istituzioni teocratiche, le quali sono minacciate non da agenti esterni, ma dalla infedeltà del popolo.
Il brano inizia con un’esternazione del profeta, il quale attende con impazienza che Gerusalemme, oggetto del suo più grande amore, ritorni al suo primitivo splendore:
“Per amore di Sion non tacerò, per amore di Gerusalemme non mi concederò riposo, finché non sorga come aurora la sua giustizia e la sua salvezza non risplenda come lampada”.
Il profeta è preoccupato per Gerusalemme e anticipa con il pensiero il momento in cui essa sarà restaurata. Egli la sogna come una città in cui la “giustizia” sorge come aurora e la salvezza risplende come una fiaccola.
Prosegue descrivendo poi il futuro di Gerusalemme a cui sarà affidato una missione universale:
“Allora le genti vedranno la tua giustizia, tutti i re la tua gloria; sarai chiamata con un nome nuovo, che la bocca del Signore indicherà”.
Ricevendo in sé la salvezza che consiste nella giustizia, questa diventerà visibile a tutte le nazioni, che ne trarranno luce e orientamento di vita.. La città manifesterà dunque la sua grandezza nella giustizia, e non nella potenza delle armi, nel benessere materiale o nella bellezza dei suoi edifici.
In forza della giustizia Gerusalemme acquisterà un nuovo rapporto con DIO “Sarai una magnifica corona nella mano del Signore, un diadema regale nella palma del tuo Dio.”
La gloria della nuova Gerusalemme viene poi ulteriormente spiegata mediante un cambiamento di nome: nessuno la chiamerà più “Abbandonata”, e la sua terra non sarà più detta “Devastata”, ma sarà chiamata “Mia Gioia” e la sua terra “Sposata”, perché DIO troverà in essa la sua delizia e la sua terra avrà uno sposo. Il cambiamento di nome che indica una svolta nella vita di una persona, era stato già adottato da Osea per indicare prima la rottura e poi la riconciliazione di Israele con DIO (V: Os 1-2).
Per terminare il profeta riprende quest’ultimo concetto:
“come un giovane sposa una vergine, così ti sposeranno i tuoi figli; come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te. “. La ricostituzione del rapporto privilegiato di DIO con Israele (Os 2,21-25) è dunque all’origine del nuovo splendore della città santa.
La gloria della Gerusalemme futura viene identificata con la piena assunzione di un rapporto interno improntato alla giustizia, una virtù che evoca rapporti leali e sinceri. La cosa più importante per il progresso di una nazione consiste appunto in un rapporto sincero con Dio, basato sul compimento della Sua volontà, e in un rapporto sociale in cui i diritti di tutti, specialmente degli ultimi, siano rispettati.
Salmo 95 (96) - Annunciate a tutti i popoli le meraviglie del Signore.
Cantate al Signore un canto nuovo,
cantate al Signore, uomini di tutta la terra.
Cantate al Signore, benedite il suo nome.
Annunciate di giorno in giorno la sua salvezza.
In mezzo alle genti narrate la sua gloria,
a tutti i popoli dite le sue meraviglie.
Date al Signore, o famiglie dei popoli,
date al Signore gloria e potenza,
date al Signore la gloria del suo nome.
Prostratevi al Signore nel suo atrio santo.
Tremi davanti a lui tutta la terra.
Dite tra le genti: «Il Signore regna!».
Egli giudica i popoli con rettitudine.
Il salmo è un invito all'assemblea dei popoli a riconoscere la grandezza di Dio. L'universalismo del salmo ha come base l'unicità di Dio, e la consapevolezza che tutti i popoli della terra hanno un'origine comune, e che, allontanatisi da Dio, ne hanno in qualche misura un ricordo nelle loro concezioni religiose, infettate di politeismo e di idolatria. Ora Dio chiama a raccolta tutte le famiglie dei popoli a ritornare a lui (Cf. Ps 21,28), che ha formato un popolo quale suo testimone, radunato attorno al tempio di Gerusalemme. ….
L'annuncio di Israele ai popoli deve affermare la regalità di Dio su di loro: “Dite tra le genti: ”.
Egli è colui che con la sua provvidenza regge il mondo, e agisce con giustizia sui popoli: “È stabile il mondo, non potrà vacillare! Egli giudica i popoli con rettitudine”.
Il Signore “viene a giudicare la terra”; questo avverrà con la venuta di Cristo, re di giustizia e di pace il quale affermerà la giustizia (Cf. Ps 93). “Viene”, dice il salmista. Ora è venuto il Cristo, il Figlio di Dio incarnatosi nel grembo verginale di Maria. Egli viene continuamente con la sua grazia (Ap 1,8); poi, alla fine del mondo, verrà per il giudizio finale: “Giudicherà il mondo con giustizia e nella sua fedeltà i popoli”. “Nella sua fedeltà”, cioè per dare la risurrezione gloriosa a coloro che lo hanno accolto.
Difficile poter dire la data di composizione del salmo; probabilmente è stato scritto in un tempo di grande compattezza di Israele, poco dopo la costruzione del tempio di Salomone, prima che avvenisse lo scisma delle tribù del nord (1Re 11,26s).
Commento tratto da Perfetta Letizia
Dalla lettera di S.Paolo apostolo ai Corìnzi
Fratelli, vi sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diverse attività, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti.
A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune: a uno infatti, per mezzo dello Spirito, viene dato il linguaggio di sapienza; a un altro invece, dallo stesso Spirito, il linguaggio di conoscenza; a uno, nello stesso Spirito, la fede; a un altro, nell’unico Spirito, il dono delle guarigioni; a uno il potere dei miracoli; a un altro il dono della profezia; a un altro il dono di discernere gli spiriti; a un altro la varietà delle lingue; a un altro l’interpretazione delle lingue.
Ma tutte queste cose le opera l’unico e medesimo Spirito, distribuendole a ciascuno come vuole.
1 Cor 12,4-11
La Prima lettera ai Corinzi, che Paolo scrisse da Efeso negli anni 53-57, è una delle più lunghe fra quelle da lui scritte, paragonabile a quella dei Romani, ambedue infatti sono suddivise in 16 capitoli.
Paolo tra il 50 e 51 aveva gettato le fondamenta della Comunità di Corinto, formata soprattutto di pagani di modesta condizione (At.18, 1-18). Due anni dopo, mentre era ad Efeso, Paolo apprende che erano sorte delle divisioni che agitavano la comunità, e questo glielo confermano anche alcuni cristiani di Corinto che erano andati da lui per esporre questi problemi. Questa è la ragione che lo spinge a scrivere questa lettera che noi conosciamo come prima, ma che è stata sicuramente preceduta da un’altra che è andata perduta (questo lo si deduce da quanto scrive al v.5,9)
La lettera si contraddistingue per la molteplicità dei temi che Paolo vi affronta per chiarire dubbi o difficoltà della comunità e per correggere abusi e deviazioni. In essa l’apostolo dovrà prendere posizioni anche piuttosto critiche, ma facendosi prendere dalle situazioni vissute ci permette anche di gettare uno sguardo sulla crescita di una giovane Chiesa con tutto il suo dinamismo, ma anche le sue crisi.
Malgrado i pericoli che deve denunciare, e le sofferenze che come conseguenza ne avrà, (v.2 Cor), Paolo comunque sarà sempre fiero di questa comunità che ha fondato in pieno ambiente pagano.
Il capitolo 12, da dove è tratto il brano liturgico, è dedicato ai doni dello Spirito. Paolo aveva riscontrato che nel mondo greco, oltre ad esserci qualche elemento di rimpianto per le pratiche pagane, c'era anche in alcuni il tentativo di attribuirsi maggiore capacità rispetto agli altri per il possesso di alcune doti straordinarie. Così regnava una notevole confusione a causa dei molti "carismi" che i cristiani manifestavano nella loro vita privata e nella comunità. Anzi, a causa di questi doni, spesso, sorgevano invidie, gelosie, discussioni, confronti.
Così, Paolo sviluppa una sua riflessione e in questo brano afferma:
“Fratelli, vi sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diverse attività, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti.”
Paolo cerca di ridimensionare il problema affermando che carismi, doni di grazia, provengono tutti dall’’amore gratuito di Dio. Questi doni, anche se si differenziano, provengono tutti dallo Spirito. Ci sono diversi ministeri, cioè servizi, ma anche questi ministeri provengono da un solo Signore, cioè da Gesù Cristo figlio di Dio. Ancora ci sono diverse attività ma vanno tutte ricondotte a Dio Padre, il primo ad operare tutto in tutti.
La Chiesa è un organismo che ha bisogno di diverse attività, ma tutte hanno come fonte Dio e sono volte al bene di tutti i credenti
“A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune: a uno infatti, per mezzo dello Spirito, viene dato il linguaggio di sapienza;”
La misura per valutare qualsiasi dono è l'utilità all'interno della comunità cristiana.
Paolo enumera questi doni di cui i Corinzi erano dotati, ma ad ogni dono ribadisce che l'unica fonte da cui esso proviene è lo Spirito.
Egli fa un esempio esemplificativo, senza voler completare l’immensa varietà dei doni
“a un altro invece, dallo stesso Spirito, il linguaggio di conoscenza; a uno, nello stesso Spirito, la fede; a un altro, nell’unico Spirito, il dono delle guarigioni; a uno il potere dei miracoli;”
Per fede qui Paolo non intende certamente l'adesione all'annuncio evangelico, che è un dono dato a tutti i credenti. Si tratta piuttosto della fede taumaturgica, capace di spostare le montagne (v. 1Cor 13,3). Un carisma molto simile è il dono delle guarigioni e quello di fare miracoli.
“a un altro il dono della profezia; a un altro il dono di discernere gli spiriti; a un altro la varietà delle lingue; a un altro l’interpretazione delle lingue”.
La profezia non è la previsione del futuro, piuttosto si tratta di una parola capace di scuotere, provocare pentimenti, appassionare l'ascoltatore.
Era importante discernere la vera profezia dalle sue imitazioni, mosse da spiriti malvagi, perciò tra i doni vi è anche quello di discernere gli spiriti.
Alla fine vi è la varietà delle lingue ossia la glossolalia, carisma preferito dai Corinzi, in quanto manifestazione spettacolare. Non era sicuramente molto amata da Paolo per la sua poca utilità all’interno della comunità, destinata a rimanere sconcertata di fronte a voci incomprensibili. Ecco perché la glossolalia viene subito affiancata dal dono di interpretare le lingue, per rendere comprensibili e utili queste manifestazioni dello Spirito.
Di questi aspetti Paolo parlerà diffusamente nel capitolo 14.
“Ma tutte queste cose le opera l’unico e medesimo Spirito, distribuendole a ciascuno come vuole”.
Tutti questi doni dunque provengono dalla medesima fonte, lo Spirito di Dio, il quale liberamente e sovranamente li elargisce a ciascuno come meglio crede. E' quindi escluso qualsiasi privilegio, qualsiasi merito che renda qualcuno superiore agli altri.
Dal Vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli. Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno vino». E Gesù le rispose: «Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora». Sua madre disse ai servitori: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela».
Vi erano là sei anfore di pietra per la purificazione rituale dei Giudei, contenenti ciascuna da ottanta a centoventi litri. E Gesù disse loro: «Riempite d’acqua le anfore»; e le riempirono fino all’orlo. Disse loro di nuovo: «Ora prendetene e portatene a colui che dirige il banchetto». Ed essi gliene portarono.
Come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, colui che dirigeva il banchetto – il quale non sapeva da dove venisse, ma lo sapevano i servitori che avevano preso l’acqua – chiamò lo sposo e gli disse: «Tutti mettono in tavola il vino buono all’inizio e, quando si è già bevuto molto, quello meno buono. Tu invece hai tenuto da parte il vino buono finora».
Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui.
Gv 2,1-12
Il racconto delle nozze di Cana, che è riportato solamente nel Vangelo di Giovanni, chiude il ciclo delle manifestazioni di Gesù: a Betlemme, nel mistero della carne, si rivela ai Magi; nelle acque del Giordano è proclamato Figlio, l’amato del Padre; a Cana, con il primo segno (o miracolo) Gesù comincia a rivelarsi ai suoi discepoli e al mondo come vero Dio.
Giovanni, raccontando le nozze di Cana, ha detto esplicitamente quale sia il significato di questo racconto, perché l’ultimo versetto dice che questo “fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui”. Il racconto ha, decisamente un’importanza notevole: non è un caso che Giovanni lo ha messo come primo dei segni di Gesù. E “primo” non si riferisce solo all’ordine cronologico, ma vuol dire l’inizio, il modello; tutti gli altri segni che Gesù farà saranno simili a questo e se uno capisce questo potrebbe anche capire il mistero stesso di Gesù.
Il brano inizia riportando che “vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea”
Nell'Antico Testamento, la festa delle nozze era un simbolo dell'amore di Dio verso il Suo popolo. Il tema delle nozze richiama subito alla mente un’immagine biblica, divenuta tradizionale a partire dall’esperienza coniugale del profeta Osea fino al Cantico dei Cantici e a Gesù stesso, che ha presentato il regno dei cieli come un banchetto di nozze. La festa umana più importante, quella che rappresenta l’amore dell’uomo e della donna è servita da metafora per esprimere l’alleanza di Dio con il Suo popolo, e più particolarmente la Sua realizzazione finale, allorché Dio la stringerà non solo con Israele ma col mondo intero.
“e c’era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli. Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno vino»”
La Madre di Gesù si trovava nella festa, mentre Gesù ed i suoi discepoli erano invitati. Colpisce subito l’attenzione che Maria ha per le cose semplici e molto umane di questi sposi, forse neanche loro si erano accorti di quanto stava succedendo. Ma dopo l’attenzione amorevole di Maria, lascia un po’ perplessi la risposta asciutta che le dà Gesù: «Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora».
È una frase dura e decisa. Gesù si sottrae inizialmente alla richiesta di Maria solo per indicare la condizione indispensabile del Suo intervento, quella della sua “ora” non ancora giunta, non vuole fare prodigi spettacolari, neppure per accontentare Sua madre né per venire incontro a una difficoltà concreta quotidiana. Egli desidera nei suoi atti, anche potenti e straordinari, offrire solo rivelazioni del Suo mistero divino. E’ in questa luce che Maria, senza esitazione, comprende il senso vero di quella risposta di Gesù apparentemente negativa e dice ai servi: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela». Anche se Maria non ha compreso del tutto quali siano esattamente le intenzioni del Figlio, si rimette totalmente alla volontà di Lui, e trasmette ai servi questa sua fede aperta al mistero. L’evangelista riporta le parole, ma possiamo anche pensare che il dialogo tra Gesù e la Madre non è terminato; anzi le sue più importanti parole non furono mai pronunziate con le labbra, ma solo trasmesse da sguardo a sguardo.
“Vi erano là sei anfore di pietra per la purificazione rituale dei Giudei, contenenti ciascuna da ottanta a centoventi litri.” L'indicazione del numero delle anfore è un dettaglio piccolo ma significativo. "6 anfore": vuol indicare l’imperfezione mentre il 7 è il numero della perfezione, del completamento, della maturità, Un altro particolare da notare: le anfore sono di pietra. Cosa strano per l’epoca perché di solito erano in terracotta o in altri materiali più leggeri e questo ci può far pensare alla pietra dove è stata scritta la legge di Dio. Inoltre le anfore di solito erano sempre piene, soprattutto durante una festa, ma qui sono vuote. Le possiamo considerare un esempio dell'antica alleanza, della legge di Mosè, svuotata della dimensione più vera e ridotta a riti esteriori, convenzionali.
“E Gesù disse loro: «Riempite d’acqua le anfore»; e le riempirono fino all’orlo”.
Solo Gesù può immettere vino nuovo nel tentativo umano di giungere ad un'esistenza più autentica.
“Ora prendetene e portatene a colui che dirige il banchetto». Ed essi gliene portarono.”
Come nella moltiplicazione dei pani, anche a Cana Gesù sollecita e quasi attende la collaborazione umana, ma che è sempre sproporzionata rispetto all‘azione divina. Certo Gesù avrebbe potuto riempire direttamente di vino le sei anfore senza chiedere nulla a nessuno; ma egli desidera che i discepoli ricordino la loro responsabilità e la vivano con generosa fedeltà: toccherà a loro “riempire, attingere e portare” la bevanda della salvezza.
“Come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, colui che dirigeva il banchetto – il quale non sapeva da dove venisse, ma lo sapevano i servitori che avevano preso l’acqua –
Colui che dirige il banchetto non sa da dove il vino venga, ma lo sanno solo i servi. Lo sanno i servi perché obbedendo alle parole della Madre di Gesù hanno fatto quello che Gesù ha detto loro di fare.
Questo fa parte della rivelazione di Gesù, in quanto nel vangelo di Giovanni quando si parla dei doni divini, che Gesù porta agli uomini, si sottolinea il fatto che questi doni hanno una origine misteriosa, come misterioso è il Donatore. E se uno vuole comprendere Gesù, deve mettere Gesù in relazione con Dio, deve sapere che viene da Dio e che ritorna a Dio: la Sua origine e la Sua destinazione sono misteriose. Quindi come è misterioso Gesù, così sono misteriosi i suoi doni.
“chiamò lo sposo e gli disse: « Tutti mettono in tavola il vino buono all’inizio e, quando si è già bevuto molto, quello meno buono. Tu invece hai tenuto da parte il vino buono finora»..
In questi versetti Giovanni usa un po’ di ironia nel riportare che il maestro di tavola attribuisce il buon vino allo sposo, e non a Gesù.
Ci sono una infinità di spunti da trarre da questo racconto, ma il messaggio più forte, quello che il “segno “ delle nozze di Cana ci vuole comunicare è il messaggio teologico: Cristo è il “vino buono” e “ultimo”, cioè il dono perfetto del Padre. Ed è proprio Maria, la donna” perfetta, la mediatrice di ogni grazia, il ponte di congiungimento tra la terra e il cielo, che ci presenta il Cristo nella sua missione di salvezza, nella sua “ora” solenne, fonte di gioia e di liberazione da ogni paura.
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" Domenica scorsa, con la festa del Battesimo del Signore, abbiamo iniziato il cammino del tempo liturgico chiamato “ordinario”: il tempo in cui seguire Gesù nella sua vita pubblica, nella missione per la quale il Padre lo ha inviato nel mondo. Nel Vangelo di oggi troviamo il racconto del primo dei miracoli di Gesù. Il primo di questi segni prodigiosi si compie nel villaggio di Cana, in Galilea, durante la festa di un matrimonio. Non è casuale che all’inizio della vita pubblica di Gesù si collochi una cerimonia nuziale, perché in Lui Dio ha sposato l’umanità: è questa la buona notizia, anche se quelli che l’hanno invitato non sanno ancora che alla loro tavola è seduto il Figlio di Dio e che il vero sposo è Lui. In effetti, tutto il mistero del segno di Cana si fonda sulla presenza di questo sposo divino, Gesù, che comincia a rivelarsi. Gesù si manifesta come lo sposo del popolo di Dio, annunciato dai profeti, e ci svela la profondità della relazione che ci unisce a Lui: è una nuova Alleanza di amore.
Nel contesto dell’Alleanza si comprende pienamente il senso del simbolo del vino, che è al centro di questo miracolo. Proprio quando la festa è al culmine, il vino è finito; la Madonna se ne accorge e dice a Gesù: «Non hanno vino». Perché sarebbe stato brutto continuare la festa con l’acqua! Una figuraccia, per quella gente. La Madonna se ne accorge e, siccome è madre, va subito da Gesù. Le Scritture, specialmente i Profeti, indicavano il vino come elemento tipico del banchetto messianico (cfr Am 9,13-14; Gl 2,24; Is 25,6). L’acqua è necessaria per vivere, ma il vino esprime l’abbondanza del banchetto e la gioia della festa. Una festa senza vino? Non so… Trasformando in vino l’acqua delle anfore utilizzate «per la purificazione rituale dei Giudei» – era l’abitudine: prima di entrare in casa, purificarsi –, Gesù compie un segno eloquente: trasforma la Legge di Mosè in Vangelo, portatore di gioia.
E poi, guardiamo Maria: le parole che Maria rivolge ai servitori vengono a coronare il quadro sponsale di Cana: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela». Anche oggi la Madonna dice a noi tutti: “Qualsiasi cosa vi dica, fatela”. Queste parole sono una preziosa eredità che la nostra Madre ci ha lasciato. E in effetti a Cana i servitori ubbidiscono. «Gesù disse loro: Riempite d’acqua le anfore. E le riempirono fino all’orlo. Disse loro di nuovo: Ora prendetene e portatene a colui che dirige il banchetto. Ed essi gliene portarono». In queste nozze, davvero viene stipulata una Nuova Alleanza e ai servitori del Signore, cioè a tutta la Chiesa, è affidata la nuova missione: “Qualsiasi cosa vi dica, fatela”. Servire il Signore significa ascoltare e mettere in pratica la sua parola. È la raccomandazione semplice, essenziale della Madre di Gesù, è il programma di vita del cristiano.
Vorrei sottolineare un’esperienza che sicuramente tanti di noi abbiamo avuto nella vita. Quando siamo in situazioni difficili, quando avvengono problemi che noi non sappiamo come risolvere, quando sentiamo tante volte ansia e angoscia, quando ci manca la gioia, andare dalla Madonna e dire: “Non abbiamo vino. E’ finito il vino: guarda come sto, guarda il mio cuore, guarda la mia anima”. Dirlo alla Madre. E lei andrà da Gesù a dire: “Guarda questo, guarda questa: non ha vino”. E poi, tornerà da noi e ci dirà: “Qualsiasi cosa vi dica, fatela”.
Per ognuno di noi, attingere dall’anfora equivale ad affidarsi alla Parola e ai Sacramenti per sperimentare la grazia di Dio nella nostra vita. Allora anche noi, come il maestro di tavola che ha assaggiato l’acqua diventata vino, possiamo esclamare: «Tu hai tenuto da parte il vino buono finora» . Sempre Gesù ci sorprende. Parliamo alla Madre perché parli al Figlio, e Lui ci sorprenderà.
Che Lei, la Vergine Santa ci aiuti a seguire il suo invito: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela», affinché possiamo aprirci pienamente a Gesù, riconoscendo nella vita di tutti i giorni i segni della sua presenza vivificante.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 20 gennaio 2019