Le letture liturgiche di questa domenica ci aiutano a porre la nostra attenzione sulla sequela di Gesù: seguire il Signore è percorrere la sua stessa strada.
La prima lettura, tratta dal primo dei Re, il profeta Elia gettando il suo mantello sulle spalle del discepolo Eliseo, lo invita a seguirlo e lo riveste del suo stesso ministero profetico. Eliseo accetta e per lui si aprirà per sempre l’orizzonte nuovo, luminoso, ma anche tormentato della missione profetica.
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera ai Galati, San Paolo afferma che con Cristo siamo stati chiamati a libertà, e la libertà del cristiano dà la capacità di portare a compimento la legge e di mettersi al servizio del prossimo. Tutta la Legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: «Amerai il tuo prossimo come te stesso».
Nel Vangelo, San Luca ci fa comprendere che chi intende mettersi alla sequela di Gesù non deve più guardare al passato, ma è chiamato a mettersi al servizio di Dio, in un cammino di libertà perché sotto l’azione dello Spirito si diventa forti e capaci di prendere su di sé ogni giorno la propria croce, come ha fatto Gesù.
Dal primo libro dei Re
In quei giorni, il Signore disse a Elìa: «Ungerai Eliseo, figlio di Safat, di Abel-Mecolà, come profeta al tuo posto».
Partito di lì, Elìa trovò Eliseo, figlio di Safat. Costui arava con dodici paia di buoi davanti a sé, mentre egli stesso guidava il dodicesimo. Elìa, passandogli vicino, gli gettò addosso il suo mantello. Quello lasciò i buoi e corse dietro a Elìa, dicendogli: «Andrò a baciare mio padre e mia madre, poi ti seguirò». Elìa disse: «Va’ e torna, perché sai che cosa ho fatto per te». Allontanatosi da lui, Eliseo prese un paio di buoi e li uccise; con la legna del giogo dei buoi fece cuocere la carne e la diede al popolo, perché la mangiasse. Quindi si alzò e seguì Elìa, entrando al suo servizio.
1Re19,16b, 19-21
Il primo libro dei re, come il secondo, è un testo contenuto sia nella Bibbia ebraica (Tanakh, dove sono contati come un testo unico) che in quella cristiana. Sono stati scritti entrambi in ebraico e secondo molti esperti, la loro redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte, in particolare della cosiddetta fonte deuteronomista del VII secolo a.C., integrata da tradizioni successive. E’ composto da 22 capitoli descriventi la morte di Davide, Salomone, la scissione del Regno di Israele dal Regno di Giuda, il ministero del Profeta Elia (nel nord) e i vari re di Israele e Giuda, eventi datati attorno al 970-850 a.C..
Il ciclo di Elia (1Re 17,1 - 22,54; 2Re 1) rappresenta, insieme a quello di Eliseo, il nucleo centrale dei due libri dei Re, di cui mette chiaramente in luce il carattere profetico.
Riepilogando l’antefatto del brano che la liturgia ci propone, sappiamo che dopo il sacrificio del Carmelo (1Re 18,16-46), il profeta Elia, perseguitato da Gezabele, moglie di Acab, si reca al monte Oreb. Durante il cammino nel deserto è sostenuto da Dio, come Israele al tempo dell’esodo, con un pane e un’acqua miracolosi (1Re 19,1-8). Dopo aver camminato quaranta giorni e quaranta notti nel deserto, egli giunge al monte della rivelazione, dove Dio gli appare non nell’uragano, nel terremoto o nei lampi, ma “nel mormorio di un vento leggero” e questo significa che anche Elia, come Mosè, riceve la parola di Dio, non però mediante i fenomeni esterni della teofania, bensì nell’intimo del suo cuore, “pieno di zelo per il Signore”.
Sul monte Oreb Dio affida ad Elia tre compiti il cui scopo è quello di preparare le persone che scateneranno il castigo divino sul popolo peccatore (1Re 19,15-16). Per prima cosa dovrà consacrare Cazael come re di Damasco (2Re 8,7-15); in seguito dovrà ungere Ieu come re di Israele (2Re 9,1-13); infine dovrà ungere come suo successore Eliseo figlio di Safat (1Re 19,19-21). Elia non sarà dunque solo nella sua adesione incondizionata a DIO. Di ritorno dall’Oreb, Elia adempie per primo il terzo dei compiti che gli erano stati affidato, la chiamata di Eliseo.
Il testo liturgico si apre con l’ordine dato da DIO sull’Oreb: “Ungerai Eliseo, figlio di Safat, di Abel-Mecolà, come profeta al tuo posto”. La scena dell’incontro di Elia con Eliseo si svolge probabilmente nel villaggio stesso in cui viveva Eliseo, Abel-Mecola. Eliseo è intento a un impegnativo lavoro agricolo, infatti: “arava con dodici paia di buoi davanti a sé, mentre egli stesso guidava il dodicesimo”. Al vederlo, “Elìa, gli gettò addosso il suo mantello”.
La sacralità del mantello di Elia apparirà in seguito, nella scena del congedo di Elia da Eliseo (2Re 2,8.l3-14), dove sono attribuite a esso proprietà miracolose. Il gesto di Elia però non ha un carattere miracoloso, e neppure indica un passaggio di poteri da Elia al nuovo discepolo. Questi due significati del mantello appariranno in occasione della dipartita di Elia. Qui invece si tratta di un segno di appropriazione, con il quale Dio prende possesso di un uomo per conferirgli una missione. Eliseo comprende immediatamente il significato del gesto di Elia infatti lascia subito i buoi e corre dietro a Elìa, dicendogli: «Andrò a baciare mio padre e mia madre, poi ti seguirò». Elìa gli risponde: «Va’ e torna, perché sai che cosa ho fatto per te».
Da quel momento la vita di Eliseo, contadino di Abel-Mecolà, villaggio della Transgiordania, è stravolta. Gli è stato consentito solo il congedo ufficiale dal suo nucleo familiare attraverso un pasto d’addio cotto proprio con gli attrezzi dell’aratro, che erano il simbolo della sua antica professione. Poi per Eliseo, si aprirà per sempre l’orizzonte nuovo, luminoso, ma anche tormentato della missione profetica
La chiamata di Eliseo dà un’idea dell’origine e della radicalità della vocazione profetica. Infatti non è Eliseo che si mette a disposizione di Dio e neppure Elia che decide di chiamarlo al suo servizio, ma è Dio stesso che dà a Elia il compito di andarlo a cercare e di coinvolgerlo nella missione di guida spirituale del popolo.
Salmo 15 - Sei tu, Signore, l’ unico mio bene.
Proteggimi, o Dio: in te mi rifugio.
Ho detto al Signore: «Il mio Signore sei tu».
Il Signore è mia parte di eredità e mio calice:
nelle tue mani è la mia vita.
Benedico il Signore che mi ha dato consiglio;
anche di notte il mio animo mi istruisce.
Io pongo sempre davanti a me il Signore,
sta alla mia destra, non potrò vacillare.
Per questo gioisce il mio cuore
ed esulta la mia anima;
anche il mio corpo riposa al sicuro,
perché non abbandonerai la mia vita negli inferi,
né lascerai che il tuo fedele veda la fossa.
Mi indicherai il sentiero della vita,
gioia piena alla tua presenza,
dolcezza senza fine alla tua destra.
L’intimità goduta con Dio dal sacerdote, autore certamente di questo carme, durante il culto del tempio di Gerusalemme, non può spegnersi con la morte. Nonostante le esitazioni della teologia dell’Antico Testamento, qui abbiamo, sia pure attraverso il ricorso a una simbologia spaziale (la via), una professione di fede nel destino glorioso del fedele. Sembra quasi che il salmista anticipi la speranza che pervade il cristiano il quale ha ascoltato le parole di Gesù: “Io vado a prepararvi un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perchè siate anche voi dove sono io” (Gv 14,2-3)
Commento tratto da “Il Salmi” di Gianfranco Ravasi
Dalla lettera di S.Paolo Apostolo ai Galati
Fratelli, Cristo ci ha liberati per la libertà! State dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù. Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Che questa libertà non divenga però un pretesto per la carne; mediante l’amore siate invece a servizio gli uni degli altri. Tutta la Legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: «Amerai il tuo prossimo come te stesso».
Ma se vi mordete e vi divorate a vicenda, badate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri! Vi dico dunque: camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare il desiderio della carne. La carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste. Ma se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete sotto la Legge.
Gal 5,1. 13-18
Paolo, scrive la lettera ai Galati tra il 50 e il 57 durante il suo terzo viaggio, probabilmente da Efeso o da Macedonia, per controbattere ad una predicazione fatta, dopo che l'apostolo aveva lasciato la comunità, da alcuni ebrei cristiani, che avevano convinto alcuni Galati che l'insegnamento di Paolo era incompleto e che la salvezza richiedeva il rispetto della Legge di Mosè, in particolare della circoncisione. Paolo condanna tale orientamento, proclamando la libertà dei credenti e la salvezza per mezzo della fede.
La lettera è importante anche perché si trovano delle informazioni storiche sulla vita di Paolo prima della conversione, sulla sua conversione, sugli anni successivi, i suoi rapporti con Pietro, con Gerusalemme, con Barnaba.
Nel brano non riportato dalla liturgia (vv. 2-12) Paolo aveva messo in guardia i galati nei confronti della circoncisione e di tutto ciò che essa comporta, cioè la pratica di tutta la legge. Coloro che cercano di imporla vogliono separarli da Cristo, e così facendo li pongono su una strada sbagliata. Essi devono dunque decidere se stare dalla sua parte o da quella dei suoi avversari. Ma devono anche sapere che nel primo caso scelgono la libertà, mentre nel secondo, pur pensando di fare proprie le prerogative del popolo eletto, scelgono in realtà un regime di schiavitù che svuota il vangelo del suo contenuto essenziale: la croce di Cristo. Il punto che l’apostolo vuole fare capire con chiarezza è uno solo: se egli si contrappone ai giudaizzanti, non è per difendere la sua autorità di apostolo, ma per garantire la verità e l’autenticità del vangelo. I galati possono rifiutare le sue direttive, ma così facendo abbandonano Cristo e rinunziano alla sua grazia. Tutta la legge si riassume infatti nel precetto che impone di amare il prossimo come se stessi. Paolo non predica dunque l’abolizione della legge in quanto tale, ma solo la liberazione da una legge concepita come una norma oggettiva da praticare con le proprie forze.
In questo brano Paolo inizia la sua esortazione con una frase che è tutto un programma: “Cristo ci ha liberati per la libertà! State dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù”
Nel brano precedente Paolo aveva parlato dell'adesione alla Legge in termini di schiavitù. Cristo invece con il suo sacrificio sulla croce ha liberato i credenti. Questa liberazione è per la libertà, non perché si torni alla situazione di sottomissione precedente.
«Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Che questa libertà non divenga però un pretesto per la carne; mediante l’amore siate invece a servizio gli uni degli altri".
Qui si riprende il discorso sulla libertà ottenuta grazie a Cristo. Qui Paolo per libertà intende innanzitutto la libertà dal legalismo giudaico ma si tratta anche della libertà dal peccato, dall'egoismo. Infatti nella seconda parte di questo versetto si parla della carne. Con questo termine si intende la dimensione umana, sempre bisognosa e fragile. La carne per Paolo è anche la dimensione umana più incline a lasciarsi possedere dal peccato, dall'egoismo.
«Tutta la Legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: «Amerai il tuo prossimo come te stesso». Ecco il vero significato che sta alla base di tutta la legge: l'amore verso il prossimo. La libertà cristiana si esprime dunque in un servizio reciproco reso per amore, non oppressivo. E' una libertà da se stessi, che non ci rende più schiavi del peccato, ma ci mette a servizio gli uni degli altri.
Questo versetto sottolinea il contrasto tra l'amarsi gli uni gli altri e il divorarsi. Se non vi è amore reciproco, se ognuno vive la propria libertà per seguire il proprio interesse è ovvio che poi arriverà a voler distruggere gli altri che vengono visti solo come un ostacolo al soddisfacimento dei propri bisogni.
«Vi dico dunque: camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare il desiderio della carne.»
Invece la libertà cristiana si lascia guidare dallo Spirito, si prende le sue responsabilità, non si lascia trascinare dal potere assoluto dei propri bisogni e desideri. Paolo mette in antitesi lo Spirito e la carne. Sono due dinamiche che definiscono l'agire della persona e spesso sono in contrasto tra di loro.
“La carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste. ”.
Con il termine “carne” Paolo questa volta qualifica l’uomo peccatore nel senso che ponendo se stesso egoisticamente al centro di tutte le cose, trasgredisce anche il comandamento del Decalogo “non desiderare” che rappresenta anch’esso, come il comandamento dell’amore, la sintesi di tutti i precetti divini.
Paolo infine conclude: “Ma se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete sotto la Legge.” Colui che si lascia guidare dallo Spirito non ha più desideri mondani. La vittoria sul desiderio mondano, e quindi la possibilità di amare i fratelli, dipende dunque essenzialmente dal dono dello Spirito.
In questo testo Paolo mette con forza l’accento sulla libertà in quanto dono che viene fatto da Cristo al credente che consiste fondamentalmente nell’eliminazione di un rapporto servile con la legge. Paolo sottolinea però con chiarezza che questa libertà non consiste nel fare i propri comodi, ma nell’osservare il precetto fondamentale dell’amore, in cui tutta la legge è riassunta
La pratica dell’amore però non è una cosa che competa all’uomo se prima non ha accettato in se stesso il dono dello Spirito. Solo lo Spirito infatti è capace di sostituire i desideri del mondo con altri desideri che portano all’amore e al dono di sé (V. Rm 5,5; 8,1-4). Questo dono ha origine soprattutto dall’esempio di Cristo, dalla Sua totale dedizione al Padre e ai fratelli.
Solo chi assume lo Spirito di Gesù, che è anche lo Spirito di Dio, può essere veramente libero nella pratica dell’amore verso i fratelli.
Dal vangelo secondo Luca
Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, Gesù prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme e mandò messaggeri davanti a sé.
Questi si incamminarono ed entrarono in un villaggio di Samaritani per preparargli l’ingresso. Ma essi non vollero riceverlo, perché era chiaramente in cammino verso Gerusalemme. Quando videro ciò, i discepoli Giacomo e Giovanni dissero: «Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?». Si voltò e li rimproverò. E si misero in cammino verso un altro villaggio.
Mentre camminavano per la strada, un tale gli disse: «Ti seguirò dovunque tu vada». E Gesù gli rispose: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo».
A un altro disse: «Seguimi». E costui rispose: «Signore, permettimi di andare prima a seppellire mio padre». Gli replicò: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu invece va’ e annuncia il regno di Dio».
Un altro disse: «Ti seguirò, Signore; prima però lascia che io mi congedi da quelli di casa mia». Ma Gesù gli rispose: «Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio».
Lc 9, 51-62
Luca presenta l’inizio del viaggio di Gesù con una frase emblematica: «Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, Gesù prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme» e precisa che Gesù “mandò messaggeri davanti a sé”. C’è un riferimento a Malachia (Ml 3,1) dove Dio invia un angelo a preparare la Sua venuta nel tempio di Gerusalemme e Luca interpreta questo incarico come l’invio di messaggeri ufficiali davanti al Messia per preparargli la strada verso Gerusalemme, dove avrebbe portato a termine la Sua missione.
Gli inviati “si incamminarono ed entrarono in un villaggio di Samaritani per preparargli l’ingresso. Ma essi non vollero riceverlo, perché era chiaramente in cammino verso Gerusalemme.” I samaritani erano i nemici tradizionali dei giudei e spesso ne ostacolavano il passaggio nella loro regione, per questo di solito i giudei evitavano di passare nel loro territorio. L’atteggiamento dei samaritani suscita la reazione dei discepoli Giacomo e Giovanni che reagiscono dicendo “«Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?». Si voltò e li rimproverò. E si misero in cammino verso un altro villaggio.” Gesù li rimprovera aspramente, e da questo episodio, che rivela il carattere impulsivo e vendicativo dei figli di Zebedeo, può far comprendere perché Gesù diede loro il soprannome di Boanèrghes, cioè figli del tuono.
Dopo l’episodio dei samaritani Luca inserisce tre scene di vocazione.
Nella prima scena, a un certo punto si presenta a Gesù un tale che gli dichiara la sua ferma decisione di seguirlo dovunque egli vada. La risposta di Gesù è emblematica: ”Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo”. Prima di decidersi a seguire Gesù bisogna riflettere seriamente, perché si tratta di una scelta che implica privazioni, rischi, mancanza di sicurezze terrene. Una vita comoda e tranquilla non si addice a chi intende mettersi al suo seguito.
Nella seconda scena è Gesù che rivolgendosi ad un altro dice : «Seguimi!». E costui rispose: «Signore, permettimi di andare prima a seppellire mio padre». C’è da tenere presente che nella società ebraica non c’era solo il compito di adempiere a tutti i doveri connessi con la sepoltura del padre, ma anche di assisterlo nell’ultimo periodo della sua vita.
Tutte queste incombenze erano rese obbligatorie dal quarto comandamento, che prescrive di onorare il padre e la madre. A questo riguardo Gesù esprime il suo pensiero con un’affermazione paradossale, formulata in perfetto stile semitico, uno stile che usa colori accesi e dichiarazioni esplosive: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu invece va’ e annuncia il regno di Dio».
Mettendosi al seguito di Gesù il discepolo ha scelto la “vita” e non deve più immischiarsi in faccende che riguardano coloro che sono ancora spiritualmente “morti”. Gesù considera quindi la sequela come un impegno talmente decisivo e radicale da far passare in secondo ordine persino gli obblighi più importanti e i legami familiari più stretti.
L’ultima scena riguarda un tale che prendendo lui stesso l’iniziativa si rivolge a Gesù dicendogli: «Ti seguirò, Signore; prima però lascia che io mi congedi da quelli di casa mia». Costui si impegna a seguirlo, ma prima chiede di potersi accomiatare da quelli di casa sua. Ma Gesù risponde: «Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio».
L’aratro, simbolo del lavoro abbandonato da Eliseo, diventa segno del nuovo lavoro dell’apostolo “coltivatore” (chiamando i primi discepoli Gesù aveva parlato di pescatori di uomini). Ma c’è un’altra differenza più rilevante, tra queste scene di vocazione: nella chiamata per il Regno proposta da Cristo non c’è spazio per il “congedo da quelli di casa”.
Chi intende mettersi alla sequela di Gesù non guarda più al passato, è chiamato ad occuparsi di nuova vita; taglia i legami con le idee vecchie e con gli interessi individuali; deve essere disposto ad avventurarsi nel territorio del rinnovamento e della perfezione, deve essere disposto ad affrontare il rischio della novità, amare l’azzardo della libertà. Deve tenere in mente le parole di Gesù «Chi vorrà salvare la propria vita la perderà, ma chi perderò la propria vita per me la salverà»
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“Il Vangelo di questa domenica mostra un passaggio molto importante nella vita di Cristo: il momento in cui – come scrive san Luca – «Gesù prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme». Gerusalemme è la meta finale, dove Gesù, nella sua ultima Pasqua, deve morire e risorgere, e così portare a compimento la sua missione di salvezza.
Da quel momento, dopo quella “ferma decisione”, Gesù punta dritto al traguardo, e anche alle persone che incontra e che gli chiedono di seguirlo, dice chiaramente quali sono le condizioni: non avere una dimora stabile; sapersi distaccare dagli affetti umani; non cedere alla nostalgia del passato.
Ma Gesù dice anche ai suoi discepoli, incaricati di precederlo sulla via verso Gerusalemme per annunciare il suo passaggio, di non imporre nulla: se non troveranno disponibilità ad accoglierlo, si proceda oltre, si vada avanti. Gesù non impone mai, Gesù è umile, Gesù invita. Se tu vuoi, vieni. L’umiltà di Gesù è così: Lui invita sempre, non impone.
Tutto questo ci fa pensare. Ci dice, ad esempio, l’importanza che, anche per Gesù, ha avuto la coscienza: l’ascoltare nel suo cuore la voce del Padre e seguirla. Gesù, nella sua esistenza terrena, non era, per così dire, “telecomandato”: era il Verbo incarnato, il Figlio di Dio fatto uomo, e a un certo punto ha preso la ferma decisione di salire a Gerusalemme per l’ultima volta; una decisione presa nella sua coscienza, ma non da solo: insieme al Padre, in piena unione con Lui! Ha deciso in obbedienza al Padre, in ascolto profondo, intimo della sua volontà. E per questo la decisione era ferma, perché presa insieme con il Padre. E nel Padre Gesù trovava la forza e la luce per il suo cammino. E Gesù era libero, in quella decisione era libero. Gesù vuole noi cristiani liberi come Lui, con quella libertà che viene da questo dialogo con il Padre, da questo dialogo con Dio. Gesù non vuole né cristiani egoisti, che seguono il proprio io, non parlano con Dio; né cristiani deboli, cristiani, che non hanno volontà, cristiani «telecomandati», incapaci di creatività, che cercano sempre di collegarsi con la volontà di un altro e non sono liberi. Gesù ci vuole liberi e questa libertà dove si fa? Si fa nel dialogo con Dio nella propria coscienza. Se un cristiano non sa parlare con Dio, non sa sentire Dio nella propria coscienza, non è libero, non è libero.
Per questo dobbiamo imparare ad ascoltare di più la nostra coscienza. Ma attenzione! Questo non significa seguire il proprio io, fare quello che mi interessa, che mi conviene, che mi piace... Non è questo! La coscienza è lo spazio interiore dell’ascolto della verità, del bene, dell’ascolto di Dio; è il luogo interiore della mia relazione con Lui, che parla al mio cuore e mi aiuta a discernere, a comprendere la strada che devo percorrere, e una volta presa la decisione, ad andare avanti, a rimanere fedele.
Noi abbiamo avuto un esempio meraviglioso di come è questo rapporto con Dio nella propria coscienza, un recente esempio meraviglioso. Il Papa Benedetto XVI ci ha dato questo grande esempio quando il Signore gli ha fatto capire, nella preghiera, quale era il passo che doveva compiere. Ha seguito, con grande senso di discernimento e coraggio, la sua coscienza, cioè la volontà di Dio che parlava al suo cuore. E questo esempio del nostro Padre fa tanto bene a tutti noi, come un esempio da seguire.
La Madonna, con grande semplicità, ascoltava e meditava nell’intimo di se stessa la Parola di Dio e ciò che accadeva a Gesù. Seguì il suo Figlio con intima convinzione, con ferma speranza. Ci aiuti Maria a diventare sempre più uomini e donne di coscienza, liberi nella coscienza, perché è nella coscienza che si dà dialogo con Dio; uomini e donne, capaci di ascoltare la voce di Dio e di seguirla con decisione capaci di ascoltare la voce di Dio e di seguirla con decisione.”
Papa Francesco Parte dell’ Angelus del 30 giugno 2013