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Ago 31, 2022

XXIII Domenica - Anno C - "Una scelta radicale senza compromessi" - 4 settembre 2022

Le letture liturgiche di questa domenica, ci fanno meditare su come agire per giungere al regno di Dio.
La prima lettura, tratta dal libro della Sapienza, ci presenta la ricerca dell’uomo che si interroga sul pensiero di Dio “Quale uomo può conoscere il volere di Dio?” Solo l’ascolto, la meditazione della Parola di Dio e la preghiera, attireranno su di noi il Suo Santo Spirito, e ci insegneranno la vera sapienza.
Nella seconda lettura, l’apostolo Paolo scrive al suo amico Filèmone intercedendo per lo schiavo Onèsimo affinché venga da lui accolto non più come schiavo, ma come fratello carissimo. Paolo aveva già affrontato in altri suoi scritti la questione della schiavitù, affermando l’uguaglianza di tutti gli uomini davanti a Dio, perché tutti peccatori e tutti bisognosi di salvezza. In questo scritto non suggerisce una soluzione paternalistica, ma radicale: la trasformazione dello schiavo e dell’oppresso in fratello.
Nel Vangelo di Luca, Gesù ci dice che per essere figli di Dio e Suoi discepoli dobbiamo riuscire a non farci condizionare né dalle abitudini, né dai desideri, né dai legami familiari,né dai rapporti professionali, e ancor meno dalla bramosia di possesso dei beni terreni, che sebbene allettanti, sono tutti sempre passeggeri! Gesù chiedendoci di metterlo al primo posto, non entra certo in concorrenza con i vari amori umani: per i genitori, il coniuge, i figli e i fratelli. Cristo non è un "rivale in amore" di nessuno, anzi ponendo Lui al primo posto impareremo a purificare il nostro modo umano, a volte sbagliato, di amare, perché amando gli altri come Lui ci ama, saremo in grado di amare di un amore che non si può fermare di fronte a nessuna difficoltà.

Dal libro della Sapienza
Quale uomo può conoscere il volere di Dio?
Chi può immaginare che cosa vuole il Signore?
I ragionamenti dei mortali sono timidi
e incerte le nostre riflessioni,
perché un corpo corruttibile appesantisce l'anima
e la tenda d'argilla opprime una mente piena
di preoccupazioni.
A stento immaginiamo le cose della terra,
scopriamo con fatica quelle a portata di mano;
ma chi ha investigato le cose del cielo?
Chi avrebbe conosciuto il tuo volere,
se tu non gli avessi dato la sapienza
e dall’alto non gli avessi inviato il tuo santo spirito?
Così vennero raddrizzati i sentieri di chi è sulla terra;
gli uomini furono istruiti in ciò che ti è gradito;
e furono salvati per mezzo della sapienza.
Sap 9,13-18

Il Libro della Sapienza è stato utilizzato dai Padri fin dal II secolo d.C. e, nonostante esitazioni e alcune opposizioni, è stato riconosciuto come ispirato allo stesso titolo dei libri del canone ebraico. E’ stato scritto in greco, caso unico in tutto l’Antico Testamento, ad Alessandria d’Egitto tra il 20 a.C. e il 38 d.C. probabilmente da Filone o da un suo discepolo. Si presenta come opera di Salomone (in greco infatti il testo si intitola “Sapienza di Salomone”) ed è composto da 19 capitoli. L'autore si esprime come un re e si rivolge ai re come suoi pari. Si tratta però di un espediente letterario, per mettere questo scritto, come del resto il Qoelet o il Cantico dei Cantici, sotto il nome di Salomone il più grande saggio d’Israele.
Questo brano riporta l’ultima parte della preghiera di Salomone che considera come la sapienza sia inaccessibile: Il primo versetto contiene due domande parallele: «Quale uomo può conoscere il volere di Dio? Chi può immaginare che cosa vuole il Signore?»
Dal caso particolare di Salomone, si passa all'universalità della natura umana e alla sua condizione, sulla possibilità di conoscere la volontà di Dio, “che cosa vuole il Signore”, cioè la Sua volontà, espressa nella legge. L'uomo è troppo limitato nelle sue possibilità per essere in grado di penetrare il mistero di Dio, e poterne scoprire e comprendere i disegni, anche dopo che sono stati rivelati.
Il versetto successivo contiene invece affermazioni parallele: ”I ragionamenti dei mortali sono timidi e incerte le nostre riflessioni”. L’autore qui considera nulle le nostre possibilità di conoscere la verità nell'ambito morale perché l'uomo, abbandonato a se stesso, cammina nelle tenebre dell'ignoranza e dell'insicurezza a motivo della sua limitatezza umana: “perché un corpo corruttibile appesantisce l'anima e la tenda d'argilla opprime una mente piena di preoccupazioni”.
Il termine “tenda” è una metafora ed è tratta dalla vita nomade per indicare ciò che è passeggero, e dunque adatta al corpo corruttibile (2Cor 5,4; 2Pt 1,13-14), mentre l’aggettivo “d’argilla” è un'allusione all'origine del corpo secondo Gen 2,7 per cui il corpo, radicato nella terra, solidale con i beni puramente terreni, temporali, transitori, frena il volo della mente verso ciò che è spirituale, celeste, immortale.
Il limite della creatura umana si manifesta nella sua incapacità di conoscere: “A stento immaginiamo le cose della terra, scopriamo con fatica quelle a portata di mano; ma chi ha investigato le cose del cielo?” L’espressione “le cose della terra” indica ciò che accadendo sulla terra, l'uomo può verificare e controllare, indica le cose che sono a portata di mano, tangibili, sperimentabili direttamente, visibili, ossia ciò che non supera la normale capacità dell'uomo terreno, tutto ciò che dovrebbe essere trasparente e ovvio per lui. Tutte queste cose dovrebbero perciò essere comprese facilmente.
Tuttavia, non è così: solo con notevole sforzo riusciamo ad appropriarci delle cose, governandole appena con le nostre imperfette capacità.
La domanda finale del versetto mette in luce l’impossibilità di investigare per conoscere “le cose del cielo”. Nel linguaggio biblico il cielo è metaforicamente la dimora di Dio per questo le cose del cielo sarebbero dunque quelle che appartengono all’ambito divino.
Alla debolezza umana però Dio supplisce mandando la sapienza: “Chi avrebbe conosciuto il tuo volere, se tu non gli avessi dato la sapienza e dall’alto non gli avessi inviato il tuo santo spirito?”
In questo versetto, in cui si riassumano quasi tutti i temi toccati dall'autore durante la preghiera, si trovano tre dei grandi temi trattati dal giudaismo postesilico: la volontà di Dio, la sapienza e lo spirito.
Il volere di Dio non è altro che la volontà divina, ciò che Dio vuole relativamente all'uomo, e che si può conoscere soltanto se Dio liberamente si rivela o manifesta.
Al termine l'autore proclama più solennemente, che oltre alla sapienza richiede il “santo spirito del Signore” ed è la prima e l'unica volta che nella preghiera di Salomone appare questa espressione.
Il brano termina con un versetto che si collega con quello precedente e con l’inizio della preghiera di Salomone: “Così vennero raddrizzati i sentieri di chi è sulla terra; gli uomini furono istruiti in ciò che ti è gradito; e furono salvati per mezzo della sapienza”.
E’ evidente che l’autore di questo brano concepisce l’uomo, alla luce della filosofia greca, come un composto di anima e corpo. È al corpo soprattutto che attribuisce il suo limite e la sua incapacità di conoscere le cose di Dio. L’anima, identificata con la ragione, è invece il principio spirituale che dà vita al corpo e si eleva spontaneamente al mondo superiore.
Questa è certamente una visione pessimistica dell’uomo, ma che non esclude però un messaggio di speranza, che deriva dal fatto che, nonostante la debolezza dell’uomo, Dio manda su di lui la sapienza, che gli indica il giusto cammino o il modo di vivere conforme alla Sua volontà. È quindi mediante la sapienza che si compie nella storia il piano salvifico di Dio.

Salmo 89- Signore, sei stato per noi un rifugio di generazione in generazione
Tu fai ritornare l'uomo in polvere,
Quando dici: “Ritornate, figli dell'uomo”.
Mille anni ai tuoi occhi
sono come il giorno di ieri che è passato,
come un turno di veglia nella notte.

Tu li sommergi:
sono come un sogno al mattino:
come l’erba che germoglia
al mattino fiorisce, germoglia,
alla sera è falciata e secca.

Insegnaci a contare i nostri giorni
e acquisteremo un cuore saggio.
Ritorna, Signore; fino a quando?
Abbi pietà dei tuoi servi.

Saziaci al mattino con il tuo amore:
esulteremo e gioiremo per tutti i nostri giorni.
Sia su di noi la dolcezza del Signore, nostro Dio:
rendi salda per noi l'opera delle nostre mani,
l'opera delle nostre mani rendi salda

Il salmo illustra la condizione precaria della vita dell'uomo esposta alle sofferenze del quotidiano unitamente a quelle dei rivolgimenti storici causati per le lotte di potere. Il salmista procede con un tono sapienziale, rischiarato dalla consapevolezza della brevità dei giorni dell'uomo. Questa consapevolezza è tanto importante che egli la invoca per tutti gli uomini: “Insegnaci a contare i nostri giorni e acquisteremo un cuore saggio”.
La composizione del salmo molto probabilmente è avvenuta nel tempo di pace relativa quando Antioco V ridiede la libertà religiosa ad Israele (163 a.C.).
Il salmista si rivolge a Dio come rifugio di Israele. Rifugio certo, perché Dio non è una creazione dell'uomo, egli, infatti, da sempre esiste: “Prima che nascessero i monti e la terra e il mondo fossero generati, da sempre e per sempre tu sei, o Dio”; "Mille anni, ai tuoi occhi, sono come il giorno di ieri che è passato".
Il salmista ha il vivo ricordo di tracotanti superbi entrati nel tempio di Gerusalemme credendo di affermarsi su Dio: Tolomeo III e Tolomeo IV erano entrati nel tempio offrendo sacrifici ai loro dei (ca. 220-221 a.C.); Antioco IV Epifane lo saccheggiò e vi fece sacrifici a Giove (ca. 169-167 a.C).
Ma l'uomo è un nulla di fronte a Dio, che per l'antico peccato lo fa ritornare polvere (Gn 3,19): “Tu fai ritornare l'uomo in polvere”. L'ira di Dio travolge i superbi: “Tu li sommergi: sono come un sogno al mattino, come l'erba che germoglia; al mattino fiorisce e germoglia, alla sera è falciata e secca”; “Sì, siamo distrutti dalla tua ira”; “Tutti i nostri giorni svaniscono per la tua collera”.
L'ira di Dio è rivolta a portare l'uomo al ravvedimento. E' saggezza sapere che la collera di Dio non è una finta, ma una realtà dura che incombe sui ribelli. E' saggezza temere la collera di Dio e non sfidarla, come già fece il faraone (Es 9,30): “Chi conosce l'impeto della tua ira e, nel timore di te, la tua collera?”.
Il salmista si colloca tra tutti gli uomini, ma anche presenta fin dall'inizio la sua appartenenza ad Israele: “Signore, tu sei stato per noi un rifugio...”; e per Israele invoca pace e gioia dopo giorni e anni di afflizione: “Ritorna, Signore: fino a quando? Abbi pietà dei tuoi servi!...Rendici la gioia per i giorni in cui ci hai afflitti".
Commento tratto da “Perfetta Letizia”

Dalla lettera di S.Paolo apostolo a Filèmone
Carissimo, ti esorto, io Paolo, così come sono, vecchio, e ora anche prigioniero di Cristo Gesù. Ti prego per Onèsimo, figlio mio,che ho generato nelle catene. Te lo rimando, lui, che mi sta tanto a cuore.
Avrei voluto tenerlo con me perché mi assistesse al posto tuo ora che sono in catene per il vangelo. Ma non ho voluto fare nulla senza il tuo parere, perché il bene che fai non sia forzato ma volontario. Per questo forse è stato separato da te per un momento perché tu lo riavessi per sempre; non più però come schiavo, ma molto più che schiavo, come fratello carissimo, in primo luogo per me, ma ancora più per te, sia come uomo sia come fratello nel Signore.
Se dunque tu mi consideri amico, accoglilo come me stesso.
Fil 9b-10, 12-17

La Lettera a Filèmone è uno dei testi più brevi delle lettere di Paolo, in quanto composta solamente di 25 versetti. Si può dire che è un biglietto personalissimo “scritto interamente di suo pugno” dall’apostolo, che è prigioniero (probabilmente ad Efeso più che a Cesarea o a Roma ) .
Paolo scrive a Filèmone, suo carissimo amico e collaboratore, ad Appia, che era probabilmente la moglie, e ad un altro amico Archippo, citato anche nella lettera ai Colossesi (4,17), questo biglietto, ed usa parole calde e coinvolgenti per invitarlo a riaccogliere lo schiavo Onèsimo, che era fuggito dalla sua casa e si era rifugiato presso di lui.
“Carissimo, ti esorto, io Paolo, così come sono, vecchio, e ora anche prigioniero di Cristo Gesù. Ti prego per Onèsimo, figlio mio, che ho generato nelle catene. Te lo rimando, lui, che mi sta tanto a cuore.”
Sin dalle prime parole è chiaro l'atteggiamento di Paolo. Egli, in forza dell'autorità apostolica potrebbe chiedere a un credente il compimento di un dovere cristiano, cioè la liberazione di uno schiavo. Eppure Paolo, vuole da Filèmone un gesto libero e generoso e quindi lo esorta in nome non solo dell’amicizia, che li unisce, ma anche della carità. Definisce Onèsimo, “figlio mio” e il riferimento alla generazione nelle catene fa pensare che Paolo abbia convertito Onèsimo alla fede e lo abbia battezzato egli stesso. Paolo qui dimostra di rispettare la legge e rimanda lo schiavo al suo padrone, anche se ormai gli è divenuto caro, come un figlio devoto capace di impegnarsi per la diffusione del Vangelo.
“Avrei voluto tenerlo con me perché mi assistesse al posto tuo ora che sono in catene per il vangelo. Ma non ho voluto fare nulla senza il tuo parere, perché il bene che fai non sia forzato ma volontario”.
Qui Paolo manifesta chiaramente le sue intenzioni. Con un velo di ironia sembra persino affermare che Filèmone non lo stia aiutando molto in questo frangente della sua prigionia, e avrebbe avuto dunque il diritto di trattenersi Onèsimo. Egli però si rimette al cuore di Filèmone, perché compia il bene non per forza, ma con un atto libero e di sua volontà.
“Per questo forse è stato separato da te per un momento perché tu lo riavessi per sempre; non più però come schiavo, ma molto più che schiavo, come fratello carissimo, in primo luogo per me, ma ancora più per te, sia come uomo sia come fratello nel Signore.”
Quindi Paolo esorta Filèmone a non trattare più Onèsimo come uno schiavo ma come un fratello nel Signore. Solo così dimostrerà di essere davvero un cristiano. Egli deve concedere la libertà al suo schiavo e lasciargli la facoltà di andare da Paolo per servire il Vangelo.
“Se dunque tu mi consideri amico, accoglilo come me stesso”. Dunque Filèmone, in forza dell'amicizia che lo lega a Paolo dovrà accogliere Onèsimo come Paolo stesso.
Paolo non chiede certo poco. Gli schiavi non erano considerati come persone, ma come oggetti o come animali. Erano proprietà del loro padrone ed egli li poteva trattare come voleva. Non avevano alcun diritto, anche se Filèmone era cristiano non è detto che trattasse bene i propri schiavi. Forse Onèsimo aveva sentito parlare con venerazione di Paolo nella casa del suo padrone, e sentendosi braccato, s’era precipitato dall’apostolo in cerca di rifugio e di protezione. Paolo l’aveva accolto con amore e l’aveva convertito al cristianesimo nascondendolo presso di sé. Paolo ora cerca di riaprirgli la via del ritorno a casa dell’amico Filèmone e lo fa con particolare finezza ma rivelando anche l’estrema originalità delle scelte sociali cristiane rispetto al mondo pagano circostante.
Finora Paolo aveva affrontato la questione della schiavitù solo in modo indiretto, affermando l’uguaglianza di tutti gli uomini davanti a Dio perché tutti peccatori e tutti bisognosi della salvezza (v.1Corinzi 7,20-24; Efesini 6,5-9; Colossesi 3,22;4,1) . Ma anche in questi passi si intuiva la carica rivoluzionaria del cristianesimo nei confronti della dignità umana: tutte le frontiere devono essere abolite perché «in Cristo non c’è più schiavo né libero» Galati (3,28) e «l’amore fraterno deve tutti legare in mutuo affetto» (Romani 12,10). Questo impegno della novità cristiana nella lettera a Filemone viene attutato.
Paolo non suggerisce una soluzione paternalistica ma radicale: la trasformazione dello schiavo e dell’oppresso in fratello.
Tenendo in mente l’insegnamento di Paolo noi cristiani, anche oggi, dobbiamo allora essere in prima fila nella difesa della libertà, dei diritti, della dignità di ogni uomo, perché consapevoli che in causa c’è sempre un fratello.

Nota: Onèsimo tornò da Filemone dal quale fu accolto benissimo e fu affrancato. Venne poi rimandato nuovamente a Paolo per aiutarlo, tanto che Paolo se ne servirà per inviare la sua Lettera ai Colossesi (4,7) ove è citato come latore. Dopo aver contribuito alla diffusione del cristianesimo in Asia Minore, Onèsimo morì attorno al 90. La sua memoria liturgica ricorre il 15 febbraio.
Fino alla revisione del Martirologio romano del 1970, Onèsimo servitore di Paolo è stato erroneamente assimilato al martire Onèsimo, secondo vescovo di Efeso, lapidato a Roma nel 109, durante la persecuzione di Traiano

Dal vangelo secondo Luca
In quel tempo, una folla numerosa andava con Gesù . Egli si voltò e disse loro: “Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo.
Chi di voi, volendo costruire una torre, non si siede prima a calcolarne la spesa, se ha i mezzi per portarla a termine? Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro.
Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l'altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere la pace. Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo”.
Lc 14, 25-33

Questo brano del Vangelo di Luca fa parte della sezione del grande viaggio di Gesù verso Gerusalemme dove vengono presentate le esigenze del regno di Dio sullo sfondo della morte di Gesù.
Il brano inizia riportando che una folla numerosa seguiva Gesù, ed Egli continua il Suo insegnamento parlando delle esigenze di fronte alle quali si trova il discepolo che vuole seguirlo.
“Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo”. E’ errato pensare che Gesù chiedendoci di metterlo al primo posto, entri in concorrenza con i vari amori umani: per i genitori, il coniuge, i figli e i fratelli. Cristo non è un "rivale in amore" di nessuno, anzi ponendo Lui al primo posto impareremo a purificare il nostro modo umano, a volte sbagliato, di amare, perché amando gli altri come Lui ci ama, saremo in grado di amare di un amore che non si può fermare di fronte a nessuna difficoltà.
Poi Gesù aggiunge: “Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo”.
Chi segue Gesù fino in fondo, deve mettere in conto anche la possibilità di perdere la propria vita, (sappiamo bene che anche recentemente molti cristiani hanno testimoniato con la vita la loro fede) e di accettare le prove quotidiane, piccole e grandi che siano, per amor Suo.
Gesù fa anche esempi pratici: “Chi di voi, volendo costruire una torre, non si siede prima a calcolarne la spesa, se ha i mezzi per portarla a termine?”
La domanda retorica chi di voi? introduce generalmente una similitudine, e chiama direttamente chi lo ascolta a giudicare: una spesa elevata esige certamente un’attenta riflessione. La citazione della torre ricorda l'esperienza biblica di Babele. Nella costruzione della torre di Babele, troviamo il simbolo della presunzione umana che pretende di arrivare a Dio e di “farsi un nome “solo con i propri mezzi (Gn 11,4) . Gesù usa proprio il simbolo della torre come elevazione dell'uomo verso Dio.
“Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro.”
Un lavoro incompiuto mette il responsabile in balìa degli scherni altrui e lo rende ridicolo. La previsione di una tale sgradevole situazione spinge a riflettere prima di iniziare. La reputazione era una realtà molto importante in Oriente.
“Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l'altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere la pace”.
La lezione della seconda parabola è simile alla prima, ma l'esempio viene dal mondo della politica. Per il re che vuole fare la guerra, la situazione sgradevole da evitare è la sconfitta. Meglio allora inviare un'ambasciata e chiedere la pace.
Alla fine Gesù rivolge nuovamente a chi vuole essere suo discepolo questa indicazione: “Così chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo”.
Gesù domanda la libertà di fronte ai propri beni, la disponibilità a condividerli con chi soffre, la gioia di servirlo in chiunque è bisognoso e umiliato, ossia il loro utilizzo non per sé stessi, ma in funzione del regno di Dio. In altre parole la rinunzia ai propri beni (che come la vita ci sono stati dati in prestito e dobbiamo restituire) consiste essenzialmente nel metterli al servizio di una realtà più grande.

 

*****

 

Le parole di Papa Francesco


“«Chi può immaginare che cosa vuole il Signore?» . Questo interrogativo del Libro della Sapienza, che abbiamo ascoltato nella prima lettura, ci presenta la nostra vita come un mistero, la cui chiave di interpretazione non è in nostro possesso. I protagonisti della storia sono sempre due: Dio da una parte e gli uomini dall’altra. Il nostro compito è quello di percepire la chiamata di Dio e poi accogliere la sua volontà. Ma per accoglierla senza esitazione chiediamoci: quale è la volontà di Dio?
Nello stesso brano sapienziale troviamo la risposta: «Gli uomini furono istruiti in ciò che ti è gradito». Per verificare la chiamata di Dio, dobbiamo domandarci e capire che cosa piace a Lui. Tante volte i profeti annunciano che cosa è gradito al Signore. Il loro messaggio trova una mirabile sintesi nell’espressione: «Misericordia io voglio e non sacrifici» (Os 6,6; Mt 9,13). A Dio è gradita ogni opera di misericordia, perché nel fratello che aiutiamo riconosciamo il volto di Dio che nessuno può vedere (cfr Gv 1,18). E ogni volta che ci chiniamo sulle necessità dei fratelli, noi abbiamo dato da mangiare e da bere a Gesù; abbiamo vestito, sostenuto, e visitato il Figlio di Dio (cfr Mt 25,40). Insomma, abbiamo toccato la carne di Cristo.
Siamo dunque chiamati a tradurre in concreto ciò che invochiamo nella preghiera e professiamo nella fede. Non esiste alternativa alla carità: quanti si pongono al servizio dei fratelli, benché non lo sappiano, sono coloro che amano Dio (cfr 1 Gv 3,16-18; Gc 2,14-18). La vita cristiana, tuttavia, non è un semplice aiuto che viene fornito nel momento del bisogno. Se fosse così sarebbe certo un bel sentimento di umana solidarietà che suscita un beneficio immediato, ma sarebbe sterile perché senza radici. L’impegno che il Signore chiede, al contrario, è quello di una vocazione alla carità con la quale ogni discepolo di Cristo mette al suo servizio la propria vita, per crescere ogni giorno nell’amore.
Abbiamo ascoltato nel Vangelo che: «una folla numerosa andava con Gesù». Oggi quella “folla numerosa” è rappresentata dal vasto mondo del volontariato, qui convenuto in occasione del Giubileo della Misericordia. Voi siete quella folla che segue il Maestro e che rende visibile il suo amore concreto per ogni persona. Vi ripeto le parole dell’apostolo Paolo: «La tua carità è stata per me motivo di grande gioia e consolazione, poiché il cuore dei credenti è stato confortato per opera tua» (Fm 7). Quanti cuori i volontari confortano! Quante mani sostengono; quante lacrime asciugano; quanto amore è riversato nel servizio nascosto, umile e disinteressato! Questo lodevole servizio dà voce alla fede - dà voce alla fede! - ed esprime la misericordia del Padre che si fa vicino a quanti sono nel bisogno.
La sequela di Gesù è un impegno serio e al tempo stesso gioioso; richiede radicalità e coraggio per riconoscere il Maestro divino nel più povero e scartato della vita e mettersi al suo servizio. Per questo, i volontari che servono gli ultimi e i bisognosi per amore di Gesù non si aspettano alcun ringraziamento e nessuna gratifica, ma rinunciano a tutto questo perché hanno scoperto il vero amore. E ognuno di noi può dire: “Come il Signore mi è venuto incontro e si è chinato su di me nel momento del bisogno, così anch’io vado incontro a Lui e mi chino su quanti hanno perso la fede o vivono come se Dio non esistesse, sui giovani senza valori e ideali, sulle famiglie in crisi, sugli ammalati e i carcerati, sui profughi e immigrati, sui deboli e indifesi nel corpo e nello spirito, sui minori abbandonati a sé stessi, così come sugli anziani lasciati soli. Dovunque ci sia una mano tesa che chiede aiuto per rimettersi in piedi, lì deve esserci la nostra presenza e la presenza della Chiesa che sostiene e dona speranza”. E, questo, farlo con la viva memoria della mano tesa del Signore su di me quando ero a terra.
Madre Teresa, in tutta la sua esistenza, è stata generosa dispensatrice della misericordia divina, rendendosi a tutti disponibile attraverso l’accoglienza e la difesa della vita umana, quella non nata e quella abbandonata e scartata. Si è impegnata in difesa della vita proclamando incessantemente che «chi non è ancora nato è il più debole, il più piccolo, il più misero». Si è chinata sulle persone sfinite, lasciate morire ai margini delle strade, riconoscendo la dignità che Dio aveva loro dato; ha fatto sentire la sua voce ai potenti della terra, perché riconoscessero le loro colpe dinanzi ai crimini – dinanzi ai crimini! - della povertà creata da loro stessi. La misericordia è stata per lei il “sale” che dava sapore a ogni sua opera, e la “luce” che rischiarava le tenebre di quanti non avevano più neppure lacrime per piangere la loro povertà e sofferenza.
La sua missione nelle periferie delle città e nelle periferie esistenziali permane ai nostri giorni come testimonianza eloquente della vicinanza di Dio ai più poveri tra i poveri. Oggi consegno questa emblematica figura di donna e di consacrata a tutto il mondo del volontariato: lei sia il vostro modello di santità! Penso che, forse, avremo un po’ di difficoltà nel chiamarla Santa Teresa: la sua santità è tanto vicina a noi, tanto tenera e feconda che spontaneamente continueremo a dirle “Madre Teresa”. Questa instancabile operatrice di misericordia ci aiuti a capire sempre più che l’unico nostro criterio di azione è l’amore gratuito, libero da ogni ideologia e da ogni vincolo e riversato verso tutti senza distinzione di lingua, cultura, razza o religione. Madre Teresa amava dire: «Forse non parlo la loro lingua, ma posso sorridere». Portiamo nel cuore il suo sorriso e doniamolo a quanti incontriamo nel nostro cammino, specialmente a quanti soffrono. Apriremo così orizzonti di gioia e di speranza a tanta umanità sfiduciata e bisognosa di comprensione e di tenerezza.

Papa Francesco

Parte dell’Omelia del 4 settembre 2016 per la canonizzazione della Beata Madre Teresa di Calcutta e Giubileo degli Operatori e dei volontari della Misericordia

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Pro Memoria

L'umanità è una grande e  immensa famiglia ... Troviamo la dimostrazione di ciò da quello che ci sentiamo nei nostri cuori a Natale.
(Papa Giovanni XXIII)

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