La solennità di tutti i santi del calendario liturgico romano (in latino: Sollemnitas Omnium Sanctorum) cadeva il 1º novembre ed era una festa di precetto che prevedeva anche una vigilia e un’ottava nel calendario anteriore alla riforma liturgica voluta dal concilio ecumenico Vaticano II. Tale festa potrebbe derivare dalla dedicatio Sanctae Mariae ad Martyres, ovvero l’anniversario della trasformazione del Pantheon in chiesa dedicata alla Vergine e a tutti i martiri, avvenuta il 13 maggio del 609 o 610 da parte di Papa Bonifacio IV, che diede così un significato religioso alla festa pagana.
La festa di tutti i Santi il 1° novembre si diffuse nell’Europa latina nei secoli VIII-IX. ma la commemorazione di tutti i Santi la si deve a Papa Gregorio III (731-741) che scelse il 1^ novembre come data dell'anniversario della consacrazione di una cappella a San Pietro alle reliquie "dei santi apostoli e di tutti i santi…”. Venne poi decretata festa di precetto da parte del re franco Luigi il Pio nell'835 e il decreto fu emesso su richiesta di papa Gregorio IV (827-844) con il consenso di tutti i vescovi.
Festeggiare tutti i santi è guardare coloro che già posseggono l’eredità della gloria eterna. Quelli che hanno voluto vivere della loro grazia di figli adottivi, che hanno lasciato che la misericordia del Padre vivificasse ogni istante della loro vita, ogni fibra del loro cuore. I santi contemplano il volto di Dio e gioiscono appieno di questa visione. Sono i fratelli maggiori che la Chiesa ci propone come modelli perché, peccatori come ognuno di noi, tutti hanno accettato di lasciarsi incontrare da Gesù, attraverso i loro desideri, le loro debolezze, le loro sofferenze, e anche le loro tristezze. Questa beatitudine che dà loro il condividere in questo momento la vita stessa della Santa Trinità è un frutto di sovrabbondanza che il sangue di Cristo ha loro acquistato.
************************
Dal libro dell’Apocalisse di S.Giovanni Apostolo
Io, Giovanni, vidi salire dall’oriente un altro angelo, con il sigillo del Dio vivente. E gridò a gran voce ai quattro angeli, ai quali era stato concesso di devastare la terra e il mare: «Non devastate la terra né il mare né le piante, finché non avremo impresso il sigillo sulla fronte dei servi del nostro Dio».
E udii il numero di coloro che furono segnati con il sigillo: centoquarantaquattromila segnati, provenienti da ogni tribù dei figli d’Israele.
Dopo queste cose vidi: ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani. E gridavano a gran voce:
«La salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono, e all’Agnello».
E tutti gli angeli stavano attorno al trono e agli anziani e ai quattro esseri viventi, e si inchinarono con la faccia a terra davanti al trono e adorarono Dio dicendo: «Amen! Lode, gloria, sapienza, azione di grazie, onore, potenza e forza al nostro Dio nei secoli dei secoli. Amen».
Uno degli anziani allora si rivolse a me e disse: «Questi, che sono vestiti di bianco, chi sono e da dove vengono?». Gli risposi: «Signore mio, tu lo sai». E lui: «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello».
Ap 7,2-4.9-14
L‘Apocalisse di Giovanni, è l’ultimo libro del Nuovo Testamento, si compone di 22 capitoli, ed è uno dei testi più controversi e difficili da interpretare. Appartiene al gruppo di scritti neotestamentari noto come “letteratura giovannea“, in quanto redatta, intorno all’anno 95, verso la fine dell'impero di Domiziano, dai discepoli dell’apostolo che si sono ispirati al suo insegnamento.
I libri che hanno di più influenzato l'Apocalisse sono i libri dei Profeti, principalmente Daniele, Ezechiele, Isaia, Zaccaria e poi anche il Libro dei Salmi.
L'autore presenta se stesso come Giovanni, esiliato a Patmos, isola dell‘Egeo, a circa 70 km da Efeso, a causa della parola di Dio. Secondo alcuni studiosi, la stesura definitiva del libro, anche se iniziata durante l'esilio dell’autore, sarebbe avvenuta ad Efeso.
Questo brano costituisce l’intermezzo della sezione che va sotto il nome “i sette sigilli”. Essi vengono aperti dall’Agnello immolato, cioè da Gesù che si presenta così, per mezzo della Sua passione, come il rivelatore del disegno salvifico di Dio. Ad ogni apertura corrisponde la realizzazione progressiva dei decreti di Dio. Volta per volta vengono rivelati coloro che devono realizzare questi decreti: i quattro cavalieri, i martiri con il loro invito alla giustizia, il cosmo, gli Angeli e i Santi con le loro preghiere.
Prima dell'apertura del settimo sigillo vi è una pausa. Giovanni poi continua il racconto della sua visione:
“Io, Giovanni, vidi salire dall’oriente un altro angelo, con il sigillo del Dio vivente. E gridò a gran voce ai quattro angeli, ai quali era stato concesso di devastare la terra e il mare: «Non devastate la terra né il mare né le piante, finché non avremo impresso il sigillo sulla fronte dei servi del nostro Dio.”
Gli angeli vengono mandati sulla terra a mettere un segno per distinguere gli eletti di Dio. Questo segno pone gli eletti sotto la protezione di Dio, e grazie al Suo aiuto essi potranno resistere alle prove della persecuzione, non però saranno risparmiati dalla sofferenza e neppure dalla morte fisica, ma saranno preservati dalla distruzione totale e dall'annientamento.
“E udii il numero di coloro che furono segnati con il sigillo: centoquarantaquattromila segnati, provenienti da ogni tribù dei figli d’Israele”.
Questo è un numero figurativo, formato da 12 per 12 per 1000. Il numero 12, è il segno del tempo giunto a compimento, poiché nei 12 mesi dell’anno la terra compie il suo giro intorno al sole. Perciò il numero 12, qui abbinato al numero 1000, è considerato segno della perfezione e della completezza. Il numero 144.000, proveniente da ogni tribù dei figli d'Israele, è il prodotto di 12 (tribù d'Israele), per 12 (numero degli apostoli) per 1000 (numero di grandezza divina).
Giovanni poi vede la schiera dei beati che si trova già in cielo:
“Dopo queste cose vidi: ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani. E gridavano a gran voce: «La salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono, e all’Agnello».
I beati del cielo sono una folla immensa, non si può calcolare, non si può esprimere nemmeno con un numero simbolico. Provengono da tutte le parti del mondo. Essi stanno in piedi: atteggiamento dell'uomo vivo e libero. I vestiti bianchi sono simbolo della gloria del cielo e le palme sono simbolo di vittoria.
“Uno degli anziani allora si rivolse a me e disse: «Questi, che sono vestiti di bianco, chi sono e da dove vengono?». Gli risposi: «Signore mio, tu lo sai». E lui: «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello».
Uno degli anziani chiede a Giovanni chi siano queste persone e Giovanni a sua volta lo chiede all'anziano. Si tratta di coloro che hanno perseverato nel momento della prova. Essi hanno potuto resistere non grazie alle loro forze, ma grazie al sangue di Cristo, alla Sua redenzione, a cui hanno potuto accedere grazie alla fede e ai sacramenti.
Il canto che gli eletti elevano a Dio nella liturgia gloriosa del cielo riconosce che “La salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono, e all’Agnello”. C’è quindi un primato assoluto di Dio! Essere santi vuol dire accogliere un dono più che conquistarlo, ma una volta accolto, il dono deve essere a sua volta donato. E’ in questo che scatta l’impegno dell’uomo, la sua risposta d’amore, all’amore di Dio.
Questa grazia è luminosamente presente in tutti i santi, anche in quelli che espressamente non appartengono al cristianesimo, ma che certamente in modo misterioso e segreto sono legati a Dio e al Suo Figlio incarnato.
La santità nasce da un dialogo efficace in cui la prima battuta, quella che rompe il silenzio e crea la bellezza del discorso, è pronunziata da Dio. A questo punto è di vitale importanza rispondere, pronunciare il sì all’adesione piena e totale. Con questo impegno personale la vita è trasformata, divenendo un dialogo vivo e continuo con Dio, che è Amore e a questo amore si risponde solo amando.
Salmo 23/24 - Ecco la generazione che cerca il tuo volto, Signore.
Del Signore è la terra e quanto contiene:
il mondo, con i suoi abitanti.
È lui che l’ha fondato sui mari
e sui fiumi l’ha stabilito.
Chi potrà salire il monte del Signore?
Chi potrà stare nel suo luogo santo?
Chi ha mani innocenti e cuore puro,
chi non si rivolge agli idoli.
Egli otterrà benedizione dal Signore,
giustizia da Dio sua salvezza.
Ecco la generazione che lo cerca,
che cerca il tuo volto, Dio di Giacobbe.
Il salmo presenta il momento in cui Israele ritorna dell’esilio. Ora è consapevole, dopo la distruzione di Gerusalemme e del tempio, che per salire al tempio e per abitare alla sua ombra bisogna essere puri di cuore; il tempio non salva nessuno se non c’è la fedeltà alla legge.
Il Signore è di maestà infinita, e sua “è la terra e quanto contiene: il mondo, con i suoi abitanti”.
Dalla considerazione della grandezza e potenza di Dio parte l’esame delle qualità di chi andrà ad abitare all’ombra del tempio del Signore.
Il tempio è stato distrutto e un coro dice alle porte di ristabilire se stesse. Esse sono state distrutte, ma sono pure “eterne” (traduzione letterale), e perciò saranno rifatte.
Dalle porte del tempio, comprese quelle dell’atrio degli olocausti, entrerà il re della gloria a prendere dimora con la sua gloria nel tempio, nel santo dei santi.
E’ il Signore potente in battaglia, che vince i suoi nemici. “Il Signore degli eserciti” è il Signore delle schiere dei valorosi nella fede.
Il “sensus plenior" del salmo è per salire il monte santo, cioè giungere alla mensa Eucaristica, salire in un cammino d’iniziazione, alla partecipazione piena all’altare, e dimorare nella fede e nell’amore nella casa del Signore richiede rettitudine di vita. Occorre cercare colui che già si è fatto trovare; cercarlo per più conoscerlo e amarlo, in un tendere all’infinito a lui.
E i cieli sono aperti. Le porte del cielo ostruitesi per il peccato dell’uomo ora si sono riaperte. I cori angeli hanno proclamato: “Alzate, o porte, la vostra fronte, alzatevi soglie antiche, ed entri il re della gloria…”. Entri il “Signore valoroso in battaglia”, quella che ha condotto contro le tenebre lanciategli da Satana e i dolori della croce. “E’ il Signore degli eserciti il re della gloria”, il Signore delle schiere apostoliche della Chiesa, che porta la luce del vangelo ovunque.
Commento tratto da “Perfetta Letizia”
Dalla prima lettera di S.Giovanni Apostolo
Carissimi, vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui.
Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è.
Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro.
1Gv 3,1-3
La Prima lettera di Giovanni è una lettera tradizionalmente attribuita a Giovanni apostolo ed evangelista ed inclusa tra i libri del Nuovo Testamento (la quarta delle cosiddette “lettere cattoliche”). La lettera nella sua redazione finale dovrebbe essere stata scritta verso la fine del I secolo, probabilmente ad Efeso.
Nel II secolo, tra tutti gli scritti attribuiti a Giovanni, solo la "Prima lettera" era riconosciuta da tutte le chiese come "Sacra Scrittura“. I destinatari della lettera sono pagani delle comunità dell‘Asia Minore che si sono convertiti al Cristianesimo. Lo scopo che Giovanni si prefigge è quello di richiamare le comunità cristiane all’amore fraterno e di metterle in guardia verso i falsi maestri gnostici ed eretici, che negavano l’incarnazione di Gesù Cristo.
La seconda parte del capitolo 2 è dedicata agli ultimi tempi, che per l'autore della lettera sono ormai vicini. Egli parla di diversi anticristi, cioè di avversari del Signore che cercano di allontanare da Lui i Suoi fedeli. Essi però li hanno riconosciuti, alcuni facevano parte addirittura della loro comunità, e non sono caduti nei loro tranelli. Giovanni ricorda loro come distinguerli: negano che Gesù è il Cristo, negano che sia Figlio di Dio. I cristiani devono dunque rimanere fedeli a Lui e attendere con fiducia la sua parusia, cioè il suo ritorno nella gloria..
Questo brano, tratto dal 3^ capitolo, “Vivere da Figli di Dio”, leggiamo:
“Carissimi, vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui.”
Chi ha aderito al Vangelo non può vacillare nel momento della prova perché è stato il destinatario di un amore grandissimo. Siamo figli di Dio! Questo titolo per noi oggi probabilmente ha perso forse un po' di significato, ma rimane sempre un'affermazione forte. Anche noi come i cristiani di allora siamo “chiamati figli di Dio”, ma il mondo non ci riconosce come tali perché non ha riconosciuto Dio. E' il paradosso dell'amore di Dio, che lascia libere le persone di riconoscerlo come il Signore del mondo e della vita.
“Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è”.
In questo versetto c'è una tensione tra l'oggi e il futuro dei figli di Dio. Adesso è una situazione un po' nascosta, non si sa bene come saremo quando Cristo si manifesterà nella gloria. Una cosa sappiamo: saremo simili a Lui, ricolmi di gloria e di felicità perché lo vedremo faccia a faccia “così come egli è”. Questa anticipazione della gloria futura ci può bastare!
Il desiderio dei credenti è quello di vedere il Signore. La Sua gloria e la Sua bellezza ci investirà completamente e noi parteciperemo di questa Sua gloria.
Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo:
«Beati i poveri in spirito,
perché di essi è il regno dei cieli.
Beati quelli che sono nel pianto,
perché saranno consolati.
Beati i miti,
perché avranno in eredità la terra.
Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia,
perché saranno saziati.
Beati i misericordiosi,
perché troveranno misericordia.
Beati i puri di cuore
perché vedranno Dio.
Beati gli operatori di pace
perché saranno chiamati figli di Dio.
Beati i perseguitati per la giustizia,
perché di essi è il regno dei cieli.
Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia.
Rallegratevi ed esultate perché grande è la vostra ricompensa nei cieli.
Mt 5,1-12 a
L’evangelista Matteo riunisce in un primo grande discorso gli insegnamenti di Gesù , presentando così un catechismo di iniziazione cristiana, opposto all’ideale religioso giudaico. C’era la legge, cioè l’insieme delle esigenze morali, religiose, culturali, personali e collettive che valeva per tutto il popolo di Dio e tutto questo Mosè l’aveva ricevuto sul Sinai. D’ora in poi c’è la nuova legge che Gesù dà sulla montagna come su un nuovo Sinai. Non toglie nulla alla legge di Mosè, ma la completa andando alla radice dei comportamenti umani.
Gesù afferma che beati sono gli uomini e le donne poveri di spirito, beati i misericordiosi, gli afflitti, i miti, gli affamati di giustizia, i puri di cuore, i perseguitati a causa della giustizia ed anche coloro che sono insultati e perseguitati a causa del Suo nome.
Parole come queste non le aveva pronunciate mai nessuno e i discepoli certo non le avevano mai udite sino a quel momento. E anche a noi che le ascoltiamo oggi sembrano davvero molto lontane, si ha come l’impressione di vedere il mondo alla rovescia, quasi agli antipodi di ciò che pensiamo, diciamo e facciamo.
Le beatitudini però non sono delle cose da fare, ma frutti di una scelta di vita che non è sforzo solo nostro, ma conseguenza dell’opera dello Spirito in noi. Solo lo Spirito ci può rendere miti, pacifici, puri di cuore, misericordiosi … Il nostro sforzo deve consistere dunque nell’accogliere l’azione dello Spirito Santo in noi, di obbedire in tutto a Dio. Quanto riusciremo ad accogliere e seguire lo Spirito che elargisce i Suoi doni (fortezza, scienza, sapienza, intelletto, consiglio, pietà, timor di Dio) tanto saremo capaci di vivere le beatitudini. Capiremo così che le beatitudini sono la vita stessa di Gesù, Lui le ha vissute tutte!
Per questo, il nostro aderire ad esse, ci inserisce nella vita di Cristo, ci unisce più che mai a Lui e ci fa comprendere che il premio delle beatitudini è Dio stesso: è Lui la beatitudine vera, la felicità che non avrà mai fine.
*****
“Oggi festeggiamo tutti i Santi e potremmo avere un’impressione fuorviante: potremmo pensare di celebrare quelle sorelle e quei fratelli che in vita sono stati perfetti, sempre lineari, precisi, anzi “inamidati”. Invece, il Vangelo di oggi smentisce questa visione stereotipata, questa “santità da immaginetta”. Infatti, le Beatitudini di Gesù, che sono la carta d’identità dei santi, mostrano tutto l’opposto: parlano di una vita controcorrente, di una vita rivoluzionaria. I santi sono i veri rivoluzionari.
Prendiamo ad esempio una beatitudine, molto attuale: «Beati gli operatori di pace» (v. 9), e vediamo come la pace di Gesù sia molto diversa da quella che immaginiamo. Tutti desideriamo la pace, ma spesso quello che noi vogliamo non è proprio la pace, è stare in pace, essere lasciati in pace, non avere problemi ma tranquillità. Gesù, invece, non chiama beati i tranquilli, quelli che stanno in pace, ma quelli che fanno la pace e lottano per fare la pace, i costruttori, gli operatori di pace. Infatti, la pace va costruita e come ogni costruzione richiede impegno, collaborazione, pazienza. Noi vorremmo che la pace piovesse dall’alto, invece la Bibbia parla del «seme della pace» (Zc 8,12), perché essa germoglia dal terreno della vita, dal seme del nostro cuore; cresce nel silenzio, giorno dopo giorno, attraverso opere di giustizia e di misericordia, come ci mostrano i testimoni luminosi che festeggiamo oggi. Ancora, noi siamo portati a credere che la pace arrivi con la forza e la potenza: per Gesù è il contrario. La sua vita e quella dei santi ci dicono che il seme della pace, per crescere e dare frutto, deve prima morire. La pace non si raggiunge conquistando o sconfiggendo qualcuno, non è mai violenta, non è mai armata. Stavo vedendo nel programma “A Sua Immagine”, tanti santi e sante che hanno lottato, hanno fatto la pace ma con il lavoro, dando la propria vita, offrendo la vita.
Come si fa allora a diventare operatori di pace? Prima di tutto occorre disarmare il cuore. Sì, perché siamo tutti equipaggiati con pensieri aggressivi, uno contro l’altro, con parole taglienti, e pensiamo di difenderci con i fili spinati della lamentela e con i muri di cemento dell’indifferenza; e fra lamentela e indifferenza ci difendiamo, ma questo non è pace, questo è guerra. Il seme della pace chiede di smilitarizzare il campo del cuore. Come va il tuo cuore? È smilitarizzato o è così con queste cose, con la lamentela e l’indifferenza, con l’aggressione? E come si smilitarizza il cuore? Aprendoci a Gesù, che è «la nostra pace» (Ef 2,14); stando davanti alla sua Croce, che è la cattedra della pace; ricevendo da Lui, nella Confessione, «il perdono e la pace». Da qui si comincia, perché essere operatori di pace, essere santi, non è capacità nostra, è dono suo, è grazia.
Fratelli e sorelle, guardiamoci dentro e chiediamoci: siamo costruttori di pace? Lì dove viviamo, studiamo e lavoriamo, portiamo tensione, parole che feriscono, chiacchiere che avvelenano, polemiche che dividono? Oppure apriamo la via della pace: perdoniamo chi ci ha offeso, ci prendiamo cura di chi si trova ai margini, risaniamo qualche ingiustizia aiutando chi ha di meno? Questo si chiama costruire la pace.
Può sorgere però un’ultima domanda, che vale per ogni beatitudine: conviene vivere così? Non è perdente? È Gesù a darci la risposta: gli operatori di pace «saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5,9): nel mondo sembrano fuori posto, perché non cedono alla logica del potere e del prevalere, in Cielo saranno i più vicini a Dio, i più simili a Lui. Ma, in realtà, anche qui chi prevarica resta a mani vuote, mentre chi ama tutti e non ferisce nessuno vince: come dice il Salmo, “l’uomo di pace avrà una discendenza” (cfr Sal 37,37).
La Vergine Maria, Regina di tutti i santi, ci aiuti a essere costruttori di pace nella vita di ogni giorno.”
Papa Francesco
Parte dell’Angelus del 1 novembre 2022