La Liturgia di questa domenica ci esorta a contemplare la missione salvifica di Gesù con gli occhi di Dio, altrimenti non potremo essere in grado di seguire il Maestro che cammina verso Gerusalemme incontro ad un destino di sofferenza e di morte.
Nella prima lettura, facciamo l’incontro con un profeta minore, Zaccaria, che annunzia a Israele che Dio consolerà e salverà il suo popolo sofferente dopo che avrà conosciuto “colui che hanno trafitto” l’agnello sacrificale in cui si prefigura Cristo. La sofferenza, più che la vittoria sarà sorgente di salvezza.
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera ai Galati, San Paolo, afferma che la salvezza è solo in Cristo Gesù che mediante il battesimo ci unisce al suo mistero di morte e vita. La nostra conformità a Cristo ci rende figli di Dio e fratelli in Cristo e annulla ogni diversità e discriminazione.
Nel Vangelo, San Luca ci presenta Gesù che sembra voler fare un’inchiesta su come la gente pensa di Lui e alla fine, ricevute le risposte vaghe sull’opinione degli altri, la domanda la pone direttamente ai suoi discepoli: Ma voi chi dite che io sia?” A questa domanda risponde Pietro «Il Cristo di Dio», ma con la sua risposta raggiunge solo in parte la verità. La sua è una definizione esatta ma ancora incompleta; è una prima luce gettata nel mistero di Gesù. Questa domanda è sempre attuale e Gesù la pone ad ognuno di noi: Tu, chi dici che sono io? Lui che ci conosce più di quanto noi conosciamo noi stessi, conosce i nostri limiti, e sa che potremo solo balbettare il mistero che lo circonda, ma solo Lui può prenderci per mano e aiutarci nel nostro cammino, quando la luce che lo illumina si fa oscura.
Dal libro del profeta Zaccaria
Così dice il Signore: «Riverserò sopra la casa di Davide e sopra gli abitanti di Gerusalemme uno spirito di grazia e di consolazione: guarderanno a me, colui che hanno trafitto.
Ne faranno il lutto come si fa il lutto per un figlio unico, lo piangeranno come si piange il primogenito.
In quel giorno grande sarà il lamento a Gerusalemme, simile al lamento di Adad-Rimmon nella pianura di Meghiddo.
In quel giorno vi sarà per la casa di Davide e per gli abitanti di Gerusalemme una sorgente zampillante per lavare il peccato e l’impurità».
Zc 12,10-11;13,1
Il profeta Zaccaria, vissuto intorno al 500 a.C., undicesimo dei 12 profeti minori, i cui scritti chiudono l'Antico Testamento, si impegnò a sostenere con la parola di Dio gli Israeliti, rientrati a Gerusalemme dopo l'esilio di Babilonia, delusi per la mancanza di segni della benedizione divina per le dure prove sostenute.
Il Libro che porta il suo nome, è un testo contenuto anche nella Bibbia ebraica ed è composto di 14 capitoli. I primi otto contengono una serie di visioni concernenti il ritorno del popolo di Dio in Gerusalemme ed accompagnano la ricostruzione dopo l'esilio. I capitoli dal 9 al 14 hanno un'ambientazione diversa e contengono delle visioni relative alla venuta del Messia, gli ultimi giorni, la riunificazione di Israele, l'ultima grande guerra. Sono pagine tempestate di immagini, di simboli e di parole divenute celebri nella rilettura cristiana: si pensi all’azione simbolica del pastore giusto e di quello perverso, ai trenta sicli d’argento ricevuti come saldo per il gregge del pastore giusto, al re-messia umile e mansueto che cavalca un asino e porta al mondo la pace, all’acqua che sgorga dal tempio fecondando deserto e mare.
Il brano liturgico inizia con un oracolo in cui il Signore per mezzo del profeta, annunzia “Riverserò sopra la casa di Davide e sopra gli abitanti di Gerusalemme uno spirito di grazia e di consolazione” La parola “grazia”, indica il favore di Dio, cioè una manifestazione della benevolenza divina, non una disposizione dell’uomo. La parola “consolazione” (forse sarebbe meglio dire di pietà e di implorazione) indica sempre una disposizione dell’animo con cui l’uomo si rivolge a Dio per invocarlo, supplicarlo, pregarlo, compiere, insomma, un atto religioso. L’oracolo divino dunque annuncia che Dio, mediante l’effusione del suo Spirito, effettuerà nella comunità di Gerusalemme un cambiamento profondo. Si tratta quindi di un oracolo che riprende quelli di Gioele (Gl 3,1-5) e di Ezechiele (Ez 36), sulla linea del noto testo di Geremia sulla nuova alleanza (Ger 31,31-34).
Nei versetti: guarderanno a me, colui che hanno trafitto. Ne faranno il lutto come si fa il lutto per un figlio unico, lo piangeranno come si piange il primogenito”,appare un’immagine cara alla tradizione cristiana: è il pastore giusto trafitto, verso cui il gregge ribelle si rivolge e si converte. Questo cambiamento farà sì che gli abitanti di Gerusalemme si pentano guardando a “colui che hanno trafitto” e ne facciano un lutto grande come si fa per un primogenito. L’era della salvezza dipende dunque da una sofferenza e morte misteriosa, paragonabile a quella del Servo del Signore (Is 52,13-53,12).
Salmo 62 - Ha sete di te, Signore, l’anima mia.
O Dio, tu sei il mio Dio,
dall’aurora io ti cerco,
ha sete di te l’anima mia,
desidera te la mia carne
in terra arida, assetata, senz’acqua.
Così nel santuario ti ho contemplato,
guardando la tua potenza e la tua gloria.
Poiché il tuo amore vale più della vita,
le mie labbra canteranno la tua lode.
Così ti benedirò per tutta la vita:
nel tuo nome alzerò le mie mani.
Come saziato dai cibi migliori,
con labbra gioiose ti loderà la mia bocca.
Quando penso a te che sei stato il mio aiuto,
esulto di gioia all’ombra delle tue ali.
A te si stringe l’anima mia:
la tua destra mi sostiene.
Il salmo presenta un pio giudeo, che fin dal primissimo mattino si pone in orazione. Egli cerca Dio, perché gli si è rivelato a lui per mezzo del dono della fede e delle Scritture, e ora cerca l’unione con lui, l’intima conoscenza di lui, in un “cercare” in cui il “trovare” spinge ancor più a cercare.
L’orante è presentato come un assetato in mezzo ad un deserto. Ma l’assetato del salmo sa dov’è la fonte, non è disorientato; sa che la fonte della pace e della gioia è Dio: Dio stesso è questa fonte.
L’orante ha un punto di riferimento: il tempio; e così vi si reca per trarre ristoro nella contemplazione Dio: “Così nel santuario ti ho contemplato, guardando la tua potenza e la tua gloria”. L’orante cerca Dio, ama Dio, non tanto i benefici di Dio. Ama lui, e lo dichiara poiché dice che la comunione con lui (“il tuo amore") “vale più della vita”. Questa dolce consapevolezza è la molla della sua lode: “Le mie labbra canteranno la tua lode”; “Così ti benedirò per tutta la vita”. Egli, ritornato dal tempio alla sua dimora, probabilmente distante da Gerusalemme, ha come pensiero dolce e vivo Dio, e così “nelle veglie notturne”, quando il sonno è assente, non si agita, ma pensa a Dio, cerca Dio.
Ha tanti nemici che cercano di ucciderlo, che probabilmente sono con bande di predoni Idumei (Cf. Ps 58), ma ha la ferma speranza che i nemici non avranno vittoria e che il re trionferà e insieme a lui chi gli è fedele: “Chi giura per lui” (Cf. 1Sam 17,55; 25,2; 2Sam 11,11; 15,21; ecc.). Gli ultimi versetti, per le loro dure espressioni, non entrano nella recitazione cristiana.
Commento tratto da “Cantico dei Cantici” di P. Paolo Berti
Dalla lettera di S.Paolo Apostolo ai Galati
Fratelli, tutti voi siete figli di Dio mediante la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù. Se appartenete a Cristo, allora siete discendenza di Abramo, eredi secondo la promessa.
Gal 3,26-29
In questo brano della lettera ai Galati, Paolo vuole dimostrare che eredi di Abramo e delle promesse a lui conferite non si diventa mediante la legge, come i Galati erano portati a pensare. Per esprimere la liberazione dalla legge Paolo si rifà a un rito del battesimo:
“tutti voi siete figli di Dio mediante la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo.”
La dignità più alta conferita a chi crede in Cristo, Figlio di Dio, consiste nel diventare “figli di Dio”. La fede cristiana infatti non è un’adesione soltanto mentale al mistero di Cristo, ma coinvolge anche il corpo del credente, facendolo diventare membro del corpo di Cristo, unendolo al mistero della Sua morte e risurrezione (Rm 6,3-14). Diversamente dalla circoncisione, il battesimo non è un semplice rito, ma il segno di un rapporto esistenziale che si instaura tra due persone, quella del credente e quella di Cristo. Il battesimo però non opera soltanto un cambiamento di relazione, ma anche un cambiamento nell’essere, che Paolo esprime con il verbo “rivestire”. L’espressione “vi siete rivestiti di Cristo” potrebbe far pensare ad un cambiamento soltanto esterno, superficiale, ma qui la metafora del vestito è usata per esprimere l’idea di un cambiamento interiore. Il rivestirsi di Cristo implica dunque una trasformazione profonda che comporta conseguenze di ordine comunitario che Paolo esprime con:
“Non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù.”
Con queste parole egli proclama l’abolizione, in Cristo, di tre barriere che dividono gli esseri umani, sul piano religioso, tra giudeo e greco, sul piano civile, tra schiavo e uomo libero, sul piano sessuale, tra maschio e femmina. L’eliminazione di queste barriere, afferma Paolo, avvengono, “in Cristo Gesù”!.
È nel Cristo risorto, cioè nella comunità, che è corpo di Cristo, che queste distinzioni non hanno più motivo di esistere.
Dal vangelo secondo Luca
Un giorno Gesù si trovava in un luogo solitario a pregare. I discepoli erano con lui ed egli pose loro questa domanda: «Le folle, chi dicono che io sia?». Essi risposero: «Giovanni il Battista; altri dicono Elìa; altri uno degli antichi profeti che è risorto».
Allora domandò loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Pietro rispose: «Il Cristo di Dio». Egli ordinò loro severamente di non riferirlo ad alcuno. «Il Figlio dell’uomo – disse – deve soffrire molto, essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e risorgere il terzo giorno».
Poi, a tutti, diceva: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà».
Lc 9, 18-24
Dal Vangelo della Domenica scorsa (la XI) a questa, nel Vangelo di Luca c’è un notevole salto (quasi 70 vv) in cui c’è stato il discorso delle parabole, una serie di miracoli come la guarigione dell’indemoniato e di un’emorroissa, la risurrezione della figlia di Giairo, l’invio dei dodici in missione, la moltiplicazione dei pani. Ora viene proposto questo episodio denominato la professione di fede di Pietro.
Il brano inizia riportando che Gesù era in un luogo appartato in preghiera e ai discepoli che erano con Lui pone una domanda: “Le folle, chi dicono che io sia?”. ed essi risposero: “Giovanni il Battista; altri dicono Elìa; altri uno degli antichi profeti che è risorto”.
Poi arriva la domanda diretta, esplicita: “Ma voi chi dite che io sia?” preceduta da un “ma”, come se i discepoli appartenessero ad un'altra logica. Gesù non vuol avere una risposta compiacente, ma vuole sapere ciò che in realtà già conosce, cioè chi lo ascolta e lo segue ha capito chi è, quale sia la sua missione?
La risposta non è affatto immediata, anzi quando arriva è vaga, perché il mistero è grande. Pietro rispondendo “Il Cristo di Dio”, raggiunge solo in parte la verità. La sua è una definizione esatta ma ancora incompleta; è una luce gettata nel mistero di Gesù, ma una luce ancora striata da ombre. Infatti il titolo “Cristo”, che letteralmente significa “il consacrato”, era la versione greca dell’ebraico “messia”, pur sempre una creatura umana. Per questo la risposta di Pietro è ancora incompleta: Gesù non è solo “Cristo”, ma è anche “Figlio di Dio”, come precisa Matteo nel suo Vangelo con le parole che mette in bocca a Pietro “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”.
Poi c’è un secondo momento in cui Gesù impone il silenzio attorno alla professione di fede di Pietro perchè Egli la vuole illuminare di una strana sconcertante luce. Certo, Egli è il messia Salvatore; ma un Salvatore che non imbocca la strada del trionfo umano, bensì quella della donazione della stessa vita per la salvezza delle persone amate, un messia che attua la sua opera gloriosa consacrandosi nel sangue e nella morte più infamante, la morte di croce. Un profeta perfetto e definitivo che è totalmente rifiutato dai responsabili e dalle autorità del popolo. Si apre allora, nelle parole di Gesù, segnate dalla passione, il terzo quadro, destinato direttamente ai discepoli, che devono comprendere quanto sia impegnativa quella professione di fede pronunziata con le labbra.
Ripensiamo alla domanda, preceduta dal “Ma”, che è sempre viva e attuale perchè Gesù continua a ripeterla ad ognuno di noi: “Ma Chi sono io per te?» Lui non aspetta la giusta definizione di chi sia veramente, perchè Dio non lo si potrà mai definire, ma quanto di Lui vive nell’esistenza di ognuno di noi Gesù ci educa alla fede attraverso domande, prove, non servono studi, letture, catechismi, ma fame di pane e di assoluto. Ognuno che ha Dio nel sangue, può dare la sua risposta.
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Ma voi chi dite che io sia?». La domanda di Gesù ai suoi discepoli raggiunge, dopo duemila anni, ciascuno di noi e pretende una risposta vissuta. Una risposta che non si trova nei libri come una formula ma nell’esperienza di chi segue davvero Gesù, con l’aiuto di un «grande lavoratore», lo Spirito Santo.
Papa Francesco
Dalla meditazione mattutina nella cappella della
domus sanctae marthae - 20 febbraio 2014