Le letture liturgiche di questa domenica ci aiutano a porre la nostra attenzione sulla sequela di Gesù: seguire il Signore è percorrere la sua stessa strada.
La prima lettura, tratta dal primo dei Re, il profeta Elia gettando il suo mantello sulle spalle del discepoli Eliseo, lo invita a seguirlo e lo riveste del suo stesso ministero profetico. Eliseo accetta e per lui si aprirà per sempre l’orizzonte nuovo, luminoso, ma anche tormentato della missione profetica.
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera ai Galati, San Paolo afferma che con Cristo siamo stati chiamati a libertà, e la libertà del cristiano dà la capacità di portare a compimento la legge e di mettersi al servizio del prossimo. Tutta la Legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: «Amerai il tuo prossimo come te stesso».
Nel Vangelo, San Luca ci fa comprendere che chi intende mettersi alla sequela di Gesù non deve più guardare al passato, ma è chiamato ad occuparsi di nuova vita. Deve perciò tagliare i legami con le idee vecchie e con gli interessi individuali, essere disposto a tutto, e avere il coraggio, di andare anche controcorrente.
Dal primo libro dei Re
In quei giorni, il Signore disse a Elìa: «Ungerai Eliseo, figlio di Safat, di Abel-Mecolà, come profeta al tuo posto».
Partito di lì, Elìa trovò Eliseo, figlio di Safat. Costui arava con dodici paia di buoi davanti a sé, mentre egli stesso guidava il dodicesimo. Elìa, passandogli vicino, gli gettò addosso il suo mantello. Quello lasciò i buoi e corse dietro a Elìa, dicendogli: «Andrò a baciare mio padre e mia madre, poi ti seguirò». Elìa disse: «Va’ e torna, perché sai che cosa ho fatto per te». Allontanatosi da lui, Eliseo prese un paio di buoi e li uccise; con la legna del giogo dei buoi fece cuocere la carne e la diede al popolo, perché la mangiasse. Quindi si alzò e seguì Elìa, entrando al suo servizio.
1Re19,16b, 19-21
Il primo libro dei re, come il secondo, è un testo contenuto sia nella Bibbia ebraica (Tanakh, dove sono contati come un testo unico) che in quella cristiana. Sono stati scritti entrambi in ebraico e secondo molti esperti, la loro redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte, in particolare della cosiddetta fonte deuteronomista del VII secolo a.C., integrata da tradizioni successive. E’ composto da 22 capitoli descriventi la morte di Davide, Salomone, la scissione del Regno di Israele dal Regno di Giuda, il ministero del Profeta Elia (nel nord) e i vari re di Israele e Giuda, eventi datati attorno al 970-850 a.C..
Il ciclo di Elia (1Re 17,1 - 22,54; 2Re 1) rappresenta, insieme a quello di Eliseo, il nucleo centrale dei due libri dei Re, di cui mette chiaramente in luce il carattere profetico.
Riepilogando l’antefatto del brano che la liturgia ci propone, sappiamo che dopo il sacrificio del Carmelo (1Re 18,16-46), il profeta Elia, perseguitato da Gezabele, moglie di Acab, si reca al monte Oreb. Durante il cammino nel deserto è sostenuto da Dio, come Israele al tempo dell’esodo, con un pane e un’acqua miracolosi (1Re 19,1-8). Dopo aver camminato quaranta giorni e quaranta notti nel deserto, egli giunge al monte della rivelazione, dove Dio gli appare non nell’uragano, nel terremoto o nei lampi, ma “nel mormorio di un vento leggero” e questo significa che anche Elia, come Mosè, riceve la parola di Dio, non però mediante i fenomeni esterni della teofania, bensì nell’intimo del suo cuore, “pieno di zelo per il Signore”.
Sul monte Oreb Dio affida ad Elia tre compiti il cui scopo è quello di preparare le persone che scateneranno il castigo divino sul popolo peccatore (1Re 19,15-16). Per prima cosa dovrà consacrare Cazael come re di Damasco (2Re 8,7-15); in seguito dovrà ungere Ieu come re di Israele (2Re 9,1-13); infine dovrà ungere come suo successore Eliseo figlio di Safat (1Re 19,19-21). Elia non sarà dunque solo nella sua adesione incondizionata a DIO. Di ritorno dall’Oreb, Elia adempie per primo il terzo dei compiti che gli erano stati affidato, la chiamata di Eliseo.
Il testo liturgico si apre con l’ordine dato da DIO sull’Oreb: “Ungerai Eliseo, figlio di Safat, di Abel-Mecolà, come profeta al tuo posto”. La scena dell’incontro di Elia con Eliseo si svolge probabilmente nel villaggio stesso in cui viveva Eliseo, Abel-Mecola. Eliseo è intento a un impegnativo lavoro agricolo, infatti: “arava con dodici paia di buoi davanti a sé, mentre egli stesso guidava il dodicesimo”. Al vederlo, “Elìa, gli gettò addosso il suo mantello”.
La sacralità del mantello di Elia apparirà in seguito, nella scena del congedo di Elia da Eliseo (2Re 2,8.l3-14), dove sono attribuite a esso proprietà miracolose. Il gesto di Elia però non ha un carattere miracoloso, e neppure indica un passaggio di poteri da Elia al nuovo discepolo. Questi due significati del mantello appariranno in occasione della dipartita di Elia. Qui invece si tratta di un segno di appropriazione, con il quale Dio prende possesso di un uomo per conferirgli una missione. Eliseo comprende immediatamente il significato del gesto di Elia infatti lascia subito i buoi e corre dietro a Elìa, dicendogli: “Andrò a baciare mio padre e mia madre, poi ti seguirò”. Elìa gli risponde: “Va’ e torna, perché sai che cosa ho fatto per te”.
Da quel momento la vita di Eliseo, contadino di Abel-Mecolà, villaggio della Transgiordania, è stravolta. Gli è stato consentito solo il congedo ufficiale dal suo nucleo familiare attraverso un pasto d’addio cotto proprio con gli attrezzi dell’aratro, che erano il simbolo della sua antica professione. Poi per Eliseo, si aprirà per sempre l’orizzonte nuovo, luminoso, ma anche tormentato della missione profetica
La chiamata di Eliseo dà un’idea dell’origine e della radicalità della vocazione profetica. Infatti non è Eliseo che si mette a disposizione di Dio e neppure Elia che decide di chiamarlo al suo servizio, ma è Dio stesso che dà a Elia il compito di andarlo a cercare e di coinvolgerlo nella missione di guida spirituale del popolo.
Salmo 15 - Sei tu, Signore, l’ unico mio bene.
Proteggimi, o Dio: in te mi rifugio.
Ho detto al Signore: «Il mio Signore sei tu».
Il Signore è mia parte di eredità e mio calice:
nelle tue mani è la mia vita.
Benedico il Signore che mi ha dato consiglio;
anche di notte il mio animo mi istruisce.
Io pongo sempre davanti a me il Signore,
sta alla mia destra, non potrò vacillare.
Per questo gioisce il mio cuore
ed esulta la mia anima;
anche il mio corpo riposa al sicuro,
perché non abbandonerai la mia vita negli inferi,
né lascerai che il tuo fedele veda la fossa.
Mi indicherai il sentiero della vita,
gioia piena alla tua presenza,
dolcezza senza fine alla tua destra.
L’intimità goduta con Dio dal sacerdote, autore certamente di questo carme, durante il culto del tempio di Gerusalemme, non può spegnersi con la morte. Nonostante le esitazioni della teologia dell’Antico Testamento, qui abbiamo, sia pure attraverso il ricorso a una simbologia spaziale (la via), una professione di fede nel destino glorioso del fedele. Sembra quasi che il salmista anticipi la speranza che pervade il cristiano il quale ha ascoltato le parole di Gesù: “Io vado a prepararvi un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perchè siate anche voi dove sono io” (Gv 14,2-3)
Commento tratto da “Il Salmi” di Gianfranco Ravasi
Dalla lettera di S.Paolo Apostolo ai Galati
Fratelli, Cristo ci ha liberati per la libertà! State dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù. Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Che questa libertà non divenga però un pretesto per la carne; mediante l’amore siate invece a servizio gli uni degli altri. Tutta la Legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: «Amerai il tuo prossimo come te stesso».
Ma se vi mordete e vi divorate a vicenda, badate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri! Vi dico dunque: camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare il desiderio della carne. La carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste. Ma se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete sotto la Legge.
Gal 5,1. 13-18
Paolo inizia la sua esortazione con una frase che è tutto un programma: “Cristo ci ha liberati per la libertà! State dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù”
Dobbiamo tener presente che nel mondo ebraico la libertà era concepita come un dono di Dio, che dopo aver liberato il Suo popolo dalla schiavitù degli egiziani, lo aveva unito a sé mediante l’alleanza e gli aveva dato la Sua legge: lo scopo della legge infatti era quello di creare tra gli israeliti quello spirito di fratellanza e di solidarietà in forza del quale la libertà sarebbe diventata la prerogativa di tutti. In questa prospettiva essi consideravano il codice mosaico come il dono più grande che Dio aveva fatto al suo popolo e la chiamavano “legge di libertà”. Per Paolo è la liberazione ottenuta da Cristo che dà la libertà piena, infatti egli vede proprio nella liberazione dalla legge il punto di partenza di un cammino serio e impegnativo verso la libertà piena. Ciò si comprende solo ricordando che per lui il termine “legge”, designava un semplice elenco di precetti che l’uomo, con le sue sole forze, doveva compiere per rendersi gradito a Dio. In altre parole la legge, staccata dall’azione liberatrice di Dio, era diventata una pura norma incapace di dare la vita all’uomo peccatore, e come tale era paragonabile al pedagogo che controlla il bambino finché sopraggiunge il maestro (v.3,25) . Solo Cristo ha potuto togliere di mezzo la legge così intesa, in quanto ha liberato l’uomo dal suo peccato e lo ha fatto diventare figlio di Dio.
Nel brano non riportato dalla liturgia (vv. 2-12) Paolo aveva messo in guardia i galati nei confronti della circoncisione e di tutto ciò che essa comporta, cioè la pratica di tutta la legge. Coloro che cercano di imporla loro vogliono separarli da Cristo, e così facendo li pongono su una strada sbagliata. Essi devono dunque decidere se stare dalla sua parte o da quella dei suoi avversari. Ma devono anche sapere che nel primo caso scelgono la libertà, mentre nel secondo, pur pensando di fare proprie le prerogative del popolo eletto, scelgono in realtà un regime di schiavitù che svuota il vangelo del suo contenuto essenziale: la croce di Cristo. Il punto che l’apostolo vuole fare capire con chiarezza è uno solo: se egli si contrappone ai giudaizzanti, non è per difendere la sua autorità di apostolo, ma per garantire la verità e l’autenticità del vangelo. I galati possono rifiutare le sue direttive, ma così facendo abbandonano Cristo e rinunziano alla sua grazia.
Nel brano liturgico Paolo afferma: Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Che questa libertà non divenga però un pretesto per la carne; mediante l’amore siate invece a servizio gli uni degli altri. Tutta la Legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: «Amerai il tuo prossimo come te stesso”. I credenti non solo sono stati liberati, ma sono chiamati alla libertà: la libertà dunque non è solo un dono, ma anche un impegno. Questa libertà però non deve diventare un alibi per vivere secondo la carne, (cioè vivere senza regole e principi morali, in cui ogni cosa che si desidera è permessa), al contrario l’essere diventati liberi deve spingerli a mettersi a servizio gli uni degli altri nell’amore. Tutta la legge si riassume infatti nel precetto che impone di amare il prossimo come se stessi. Paolo non predica dunque l’abolizione della legge in quanto tale, ma solo la liberazione da una legge concepita come una norma oggettiva da praticare con le proprie forze. Purtroppo i galati non sono su questa strada, infatti l’apostolo li ammonisce dicendo: “Ma se vi mordete e vi divorate a vicenda, badate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri!“ Essi vorrebbero praticare la legge, ma intanto vengono meno proprio al suo comandamento fondamentale, e così facendo si distruggono a vicenda.
Paolo passa poi a spiegare come la libertà dalla legge diventi effettiva solo in forza dello Spirito:”Vi dico dunque: camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare il desiderio della carne.”
Per evitare di cedere ai desideri della carne, ossia ai desideri mondani, che sono all’origine di un comportamento peccaminoso, contrario alle esigenze della legge, il credente deve camminare secondo lo Spirito, cioè lasciarsi guidare dalla potenza di Dio che si manifesta nella sua azione. Questo concetto viene approfondito in questo modo: “La carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste”. Con il termine “carne” Paolo qualifica l’uomo peccatore nel senso che ponendo se stesso egoisticamente al centro di tutte le cose, trasgredisce anche il comandamento del Decalogo “non desiderare” che rappresenta anch’esso, come il comandamento dell’amore, la sintesi di tutti i precetti divini.
Paolo infine conclude: “Ma se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete sotto la Legge.” Colui che si lascia guidare dallo Spirito non ha più desideri mondani. La vittoria sul desiderio mondano, e quindi la possibilità di amare i fratelli, dipende dunque essenzialmente dal dono dello Spirito.
In questo testo Paolo mette con forza l’accento sulla libertà in quanto dono che viene fatto da Cristo al credente. Questa consiste fondamentalmente nell’eliminazione di un rapporto servile con la legge.
Paolo sottolinea però con chiarezza che questa libertà non consiste nel fare i propri comodi, ma nell’osservare il precetto fondamentale dell’amore, in cui tutta la legge è riassunta
Ma la pratica dell’amore non è una cosa che competa all’uomo se prima non ha accettato in se stesso il dono dello Spirito. Solo lo Spirito infatti è capace di sostituire i desideri del mondo con altri desideri che portano all’amore e al dono di sé (V. Rm 5,5; 8,1-4). Questo dono ha origine fondamentalmente dall’esempio di Cristo, dalla Sua totale dedizione al Padre e ai fratelli.
Solo chi assume lo Spirito di Gesù, che è anche lo Spirito di Dio, può essere veramente libero nella pratica dell’amore verso i fratelli.
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Dal vangelo secondo Luca
Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, Gesù prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme e mandò messaggeri davanti a sé. Questi si incamminarono ed entrarono in un villaggio di Samaritani per preparargli l’ingresso. Ma essi non vollero riceverlo, perché era chiaramente in cammino verso Gerusalemme. Quando videro ciò, i discepoli Giacomo e Giovanni dissero: «Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?». Si voltò e li rimproverò. E si misero in cammino verso un altro villaggio.
Mentre camminavano per la strada, un tale gli disse: «Ti seguirò dovunque tu vada». E Gesù gli rispose: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo».
A un altro disse: «Seguimi». E costui rispose: «Signore, permettimi di andare prima a seppellire mio padre». Gli replicò: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu invece va’ e annuncia il regno di Dio».
Un altro disse: «Ti seguirò, Signore; prima però lascia che io mi congedi da quelli di casa mia». Ma Gesù gli rispose: «Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio».
Lc 9, 51-62
Luca presenta l’inizio del viaggio di Gesù con una frase emblematica: Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, Gesù prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme e precisa che Gesù “mandò messaggeri davanti a sé”. C’è un riferimento a Malachia (Ml 3,1) dove Dio invia un angelo a preparare la sua venuta nel tempio di Gerusalemme e Luca interpreta questo incarico come l’invio di messaggeri ufficiali davanti al Messia per preparargli la strada verso Gerusalemme, dove avrebbe portato a termine la Sua missione.
Gli inviati “si incamminarono ed entrarono in un villaggio di Samaritani per preparargli l’ingresso. Ma essi non vollero riceverlo, perché era chiaramente in cammino verso Gerusalemme.” I samaritani erano i nemici tradizionali dei giudei e spesso ne ostacolavano il passaggio nella loro regione, per questo di solito i giudei evitavano di passare nel loro territorio. L’atteggiamento dei samaritani suscita la reazione dei discepoli Giacomo e Giovanni che reagiscono dicendo “«Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?». Si voltò e li rimproverò. E si misero in cammino verso un altro villaggio.” Gesù li rimprovera aspramente, e da questo episodio, che rivela il carattere impulsivo e vendicativo dei figli di Zebedeo, può far comprendere perchè Gesù diede loro il soprannome di Boanèrghes, cioè figli del tuono.
Dopo l’episodio dei samaritani Luca inserisce tre scene di vocazione.
Nella prima scena, a un certo punto si presenta a Gesù un tale che gli dichiara la sua ferma decisione di seguirlo dovunque egli vada. La risposta di Gesù è emblematica:”Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo”. Prima di decidersi a seguire Gesù bisogna riflettere seriamente, perché si tratta di una scelta che implica privazioni, rischi, mancanza di sicurezze terrene. Una vita comoda e tranquilla non si addice a chi intende mettersi al suo seguito.
Nella seconda scena è Gesù che rivolgendosi ad un altro dice : «Seguimi!». E costui rispose: «Signore, permettimi di andare prima a seppellire mio padre». C’è da tenere presente che nella società ebraica non c’era solo il compito di adempiere a tutti i doveri connessi con la sepoltura del padre, ma anche di assisterlo nell’ultimo periodo della sua vita.
Tutte queste incombenze erano rese obbligatorie dal quarto comandamento, che prescrive di onorare il padre e la madre. A questo riguardo Gesù esprime il suo pensiero con un’affermazione paradossale, formulata in perfetto stile semitico, uno stile che usa colori accesi e dichiarazioni esplosive: Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu invece va’ e annuncia il regno di Dio».
Mettendosi al seguito di Gesù il discepolo ha scelto la “vita” e non deve più immischiarsi in faccende che riguardano coloro che sono ancora spiritualmente “morti”. Gesù considera quindi la sequela come un impegno talmente decisivo e radicale da far passare in secondo ordine persino gli obblighi più importanti e i legami familiari più stretti.
L’ultima scena riguarda un tale che prendendo lui stesso l’iniziativa si rivolge a Gesù dicendogli: Ti seguirò, Signore; prima però lascia che io mi congedi da quelli di casa mia». Costui si impegna a seguirlo, ma prima chiede di potersi accomiatare da quelli di casa sua. Ma Gesù risponde: «Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio».
L’aratro, simbolo del lavoro abbandonato da Eliseo, diventa segno del nuovo lavoro dell’apostolo “coltivatore” (chiamando i primi discepoli Gesù aveva parlato di pescatore) di uomini. Ma c’è un’altra differenza più rilevante, tra queste scene di vocazione: nella chiamata per il Regno proposta da Cristo non c’è spazio per il “congedo da quelli di casa”.
Chi intende mettersi alla sequela di Gesù non guarda più al passato, è chiamato ad occuparsi di nuova vita; taglia i legami con le idee vecchie e con gli interessi individuali; deve essere mobile, disposto ad avventurarsi nel territorio del rinnovamento e della perfezione, affronta il rischio della novità, ama l’azzardo della libertà, il cui conseguimento è per lui fondamento di uno spirito di servizio e di solidarietà.
Facendo riferimento alla parole del Vangelo di questa domenica, nell’Angelus del 30 giugno 2013, Papa Francesco ha precisato che nel decidere di andare a Gerusalemme Gesù sa di andare verso la meta finale.
“Alle persone che incontra e che gli chiedono di seguirlo, dice chiaramente quali sono le condizioni: non avere una dimora stabile; sapersi distaccare dagli affetti umani; non cedere alla nostalgia del passato”.
Lui fa la volontà del padre e chiede ai suoi discepoli di annunciare senza imporre nulla “Gesù non impone mai, Gesù è umile, Gesù invita. Se tu vuoi, vieni. L’umiltà di Gesù è così: Lui invita sempre, non impone”.
In questo contesto, il papa Francesco ha spiegato che Gesù ha un grande rispetto della coscienza di ognuno. Lui non è telecomandato, ha preso la decisione insieme al Padre. “Tutto questo ci fa pensare. Ci dice, ad esempio, l’importanza che, anche per Gesù, ha avuto la coscienza: l’ascoltare nel suo cuore la voce del Padre e seguirla. “E nel Padre Gesù trovava la forza e la luce per il suo cammino”.
“In quella decisione Gesù era libero” – ha sottolineato il Papa ed ha aggiunto “Gesù vuole noi cristiani liberi come Lui”.
“Gesù ci vuole liberi e questa libertà dove si fa? Si fa nel dialogo con Dio nella propria coscienza. Se un cristiano non sa parlare con Dio, non sa sentire Dio nella propria coscienza, non è libero, non è libero.”