Dove siamo:
Vedi sulla carta
S.Messe (settimana)
9:00  18:30

KRZYZ

Visualizza articoli per tag: liturgia domenicale

Le letture liturgiche di questa domenica ci parlano dell’ascolto della Parola di Dio che si trasforma in preghiera. Si può dire che sono la rappresentazione di un rito comunitario che si rinnova nel tempo e di cui anche noi siamo chiamati ad essere interpreti: quello della santa Messa.
La prima lettura, tratta dal libro di Neemia, ci narra che dopo l’amara esperienza dell’esilio e la ricostruzione di Gerusalemme, davanti al popolo avviene la benedizione del Signore e una solenne liturgia della Parola: la lettura del libro della Legge, la spiegazione del senso e la comprensione del testo. Da questo triplice momento sbocciano tre atteggiamenti: le lacrime della conversione, segno del perdono divino, l’invito ad aprire le labbra al sorriso, a canti di gioia, a indire banchetti, poiché “questo giorno è consacrato al Signore…”, l’esortazione a mandare porzioni di cibo a quelli che nulla hanno di preparato.
Nella seconda lettura, Paolo, nella sua lettera ai Corinzi ci dice che la varietà dei doni dello Spirito nella Chiesa, corpo ministico di Cristo, è destinata a comporre una unità organica e a promuovere nei cristiani una amorosa solidarietà e unità
Il brano del Vangelo di Luca ci parla di una lettura della Parola di Dio fatta dallo stesso Gesù quando nella sinagoga di Nazareth legge il passo di Isaia, annuncio di salvezza e di liberazione. E al termine Gesù annuncia che quella scrittura si stava realizzando davanti agli occhi dei presenti: tutta la speranza annunziata da Isaia in Gesù stava diventando realtà.

Dal libro di Neemìa
In quei giorni, il sacerdote Esdra portò la legge davanti all’assemblea degli uomini, delle donne e di quanti erano capaci di intendere.
Lesse il libro sulla piazza davanti alla porta delle Acque, dallo spuntare della luce fino a mezzogiorno, in presenza degli uomini, delle donne e di quelli che erano capaci d’intendere; tutto il popolo tendeva l’orecchio al libro della legge. Lo scriba Esdra stava sopra una tribuna di legno, che avevano costruito per l’occorrenza.
Esdra aprì il libro in presenza di tutto il popolo, poiché stava più in alto di tutti; come ebbe aperto il libro, tutto il popolo si alzò in piedi. Esdra benedisse il Signore, Dio grande, e tutto il popolo rispose: «Amen, amen», alzando le mani; si inginocchiarono e si prostrarono con la faccia a terra dinanzi al Signore.
I levìti leggevano il libro della legge di Dio a brani distinti e spiegavano il senso, e così facevano comprendere la lettura. Neemìa, che era il governatore, Esdra, sacerdote e scriba, e i leviti che ammaestravano il popolo dissero a tutto il popolo: «Questo giorno è consacrato al Signore, vostro Dio; non fate lutto e non piangete!». Infatti tutto il popolo piangeva, mentre ascoltava le parole della legge.
Poi Neemìa disse loro: «Andate, mangiate carni grasse e bevete vini dolci e mandate porzioni a quelli che nulla hanno di preparato, perché questo giorno è consacrato al Signore nostro; non vi rattristate, perché la gioia del Signore è la vostra forza».
Ne 8,2-4a.5-6.8-10

Il Libro di Neemia è un testo contenuto sia nella bibbia cristiana che in quella ebraica, dove è contato come un testo unico con il libro di Esdra. E’ stato scritto in ebraico e si ipotizza che la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, sia tra la fine del periodo persiano e l’inizio di quello greco, quindi più o meno tra il 330 e il 250 a.C. o forse, secondo alcuni studiosi, anche più tardi.
E’composto da 13 capitoli descriventi l'attività riformatrice di Neemia a Gerusalemme, dopo il ritorno dall'esilio babilonese, in particolare la ricostruzione delle mura della città .
Storicamente il libro di Neemia è l’ultimo colpo d'occhio che l'Antico Testamento ci permette di gettare sul popolo d'Israele. Gli avvenimenti che riferisce cominciano circa trent'anni dopo quelli che il libro di Ester riferisce e tredici anni dopo il ritorno di Esdra.
Questo brano che parla della promulgazione della legge fatta da Esdra, sacerdote e scriba, verso l’anno 444 a.C., ci permette di cogliere persino nei dettagli lo svolgersi di una liturgia della parola. Questo brano, inizia presentando Esdra, sacerdote e scriba, sopra una tribuna di legno, che avevano costruito per l’occorrenza, che porta il libro della legge di Mosè, che il Signore aveva dato a Israele e lo apre “davanti all’assemblea degli uomini, delle donne e di quanti erano capaci di intendere”. Si suppone che l’esistenza del libro fosse già conosciuta, ma non il suo contenuto. Certamente si tratta del Pentateuco, ma di sicuro non come è giunto fino a noi.
“Esdra aprì il libro in presenza di tutto il popolo, poiché stava più in alto di tutti; come ebbe aperto il libro, tutto il popolo si alzò in piedi. Esdra benedisse il Signore, Dio grande, e tutto il popolo rispose: «Amen, amen», alzando le mani; si inginocchiarono e si prostrarono con la faccia a terra dinanzi al Signore”.
Viene poi menzionato (nei versetti non riportati dal brano) il nome di coloro che, insieme ai leviti spiegavano la legge al popolo mentre il popolo stava in piedi. Essi leggevano il libro della legge di Dio a brani distinti e spiegavano il senso, e così facevano comprendere la lettura.
Il metodo di lettura e di spiegazione non è molto chiaro. È possibile che sia questo un primo esempio di targum, cioè di traduzione in aramaico del testo scritto in ebraico. Siccome i presenti non capivano più la lingua antica di Israele, il testo veniva letto e poi un incaricato, (chiamato meturgheman), dava la traduzione aramaica che conteneva spesso aggiunte e spiegazioni (midraš).
Infine “Neemìa, che era il governatore, Esdra, sacerdote e scriba, e i leviti che ammaestravano il popolo dissero a tutto il popolo: «Questo giorno è consacrato al Signore, vostro Dio; non fate lutto e non piangete!». Infatti tutto il popolo piangeva, mentre ascoltava le parole della legge.”
E’ il segno vivo del pentimento, il cuore è pervaso dal rimorso, il passato con il suo carico di peccati si ripresenta alla coscienza con tutto il suo peso.
Poi Neemia invita tutti i presenti a mangiare carni grasse e bere vini dolci e dice loro di mandare porzioni a quelli che nulla hanno di preparato, e ne dà il motivo: perché questo giorno è consacrato al Signore nostro; non vi rattristate, perché la gioia del Signore è la vostra forza».
Il governatore Neemia , rappresenta l’ultima parola di Dio, che non è quella del giudizio bensì la promessa del perdono. E allora le labbra si devono aprire al sorriso, le case si riempiono di canti di gioia e di banchetti festosi.

Salmo 18 Le tue parole, Signore, sono spirito e vita.

La legge del Signore è perfetta,
rinfranca l'anima;
la testimonianza del Signore è stabile,
rende saggio il semplice.

I precetti del Signore sono retti,
fanno gioire il cuore;
il comando del Signore è limpido,
illumina gli occhi
Il timore del Signore è puro,
rimane per sempre;
i giudizi del Signore sono fedeli,
sono tutti giusti.

Ti siano gradite le parole della mia bocca,
davanti a te i pensieri del mio cuore,
Signore, mia roccia e mio redentore.

Qui c’è la seconda parte del salmo 19(18) e si parla della Torah ….
Vediamo la comparazione della torah con i metalli preziosi (oro raffinato) e coi cibi deliziosi (il “favo stillante” di miele); l’homoecomomicus non potrà mai con i suoi immensi capitali contrattare la parola di Dio e la sapienza. Esse sono un dono offerto da Dio a chi ha il cuore puro e chi le possiede riesce a capire che ricchezze e prosperità sono solo una manciata di fango o di polvere; rispetto alla felicità, alla pace, che la comunione con Dio offre.
Commento tratto da “I Salmi” di Gianfranco Ravasi

Dalla prima lettera di S.Paolo apostolo ai Corinzi
Fratelli, come il corpo è uno solo e ha molte membra, e tutte le membra del corpo, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche il Cristo. Infatti noi tutti siamo stati battezzati mediante un solo Spirito in un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti siamo stati dissetati da un solo Spirito.
E infatti il corpo non è formato da un membro solo, ma da molte membra. Se il piede dicesse: «Poiché non sono mano, non appartengo al corpo», non per questo non farebbe parte del corpo. E se l’orecchio dicesse: «Poiché non sono occhio, non appartengo al corpo», non per questo non farebbe parte del corpo. Se tutto il corpo fosse occhio, dove sarebbe l’udito? Se tutto fosse udito, dove sarebbe l’odorato?
Ora, invece, Dio ha disposto le membra del corpo in modo distinto, come egli ha voluto. Se poi tutto fosse un membro solo, dove sarebbe il corpo? Invece molte sono le membra, ma uno solo è il corpo. Non può l’occhio dire alla mano: «Non ho bisogno di te»; oppure la testa ai piedi: «Non ho bisogno di voi». Anzi proprio le membra del corpo che sembrano più deboli sono le più necessarie; e le parti del corpo che riteniamo meno onorevoli le circondiamo di maggiore rispetto, e quelle indecorose sono trattate con maggiore decenza, mentre quelle decenti non ne hanno bisogno. Ma Dio ha disposto il corpo conferendo maggiore onore a ciò che non ne ha, perché nel corpo non vi sia divisione, ma anzi le varie membra abbiano cura le une delle altre. Quindi se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui.
[Ora voi siete corpo di Cristo e, ognuno secondo la propria parte, sue membra.] Alcuni perciò Dio li ha posti nella Chiesa in primo luogo come apostoli, in secondo luogo come profeti, in terzo luogo come maestri; poi ci sono i miracoli, quindi il dono delle guarigioni, di assistere, di governare, di parlare varie lingue. Sono forse tutti apostoli? Tutti profeti? Tutti maestri? Tutti fanno miracoli? Tutti possiedono il dono delle guarigioni? Tutti parlano lingue? Tutti le interpretano?
1Cor 12,12-30

Continuando il tema dei carismi iniziato nella II domenica, Paolo arriva al punto centrale intorno al quale si imposta tutta l’argomentazione del brano: “come il corpo è uno solo e ha molte membra, e tutte le membra del corpo, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche il Cristo”
La causa che dà consistenza e attività al “tutto” è la forza vitale che tocca ciascun membro e tutti gli elementi del corpo. Infatti, coinvolge tutto e tutti, in quella che possiamo indicare la dinamica dell’amore come l’ha insegnata Gesù .
Tale forza vitale, è lo Spirito Santo: “Infatti noi tutti siamo stati battezzati mediante un solo Spirito in un solo corpo”, in altre parole siamo stati immersi in una realtà che ci riempie e avvolge, in modo tale che, rispettando la diversità di ogni singola persona, tutte partecipano di questo elemento vitale e trovano in esso le condizioni per svilupparsi e crescere in comunione con altre diversità.
Ciò è dovuto al fatto che Dio, assumendo la condizione umana nella persona di Gesù, con il suo insegnamento e con il Suo sacrificio, ha rivelato, a chi confida in Lui, le condizioni affinché ciò si realizzi a favore di tutti. Infatti, lo Spirito, cui Paolo si riferisce, è anche, allo stesso tempo, lo Spirito di Cristo. È a questa realtà che il cristiano deve fare riferimento perché fa parte del patrimonio della propria fede in Gesù Cristo, in virtù della quale percepisce che sono abbattute tutte le barriere per formare uno stesso corpo: “Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti siamo stati dissetati da un solo Spirito.” Si tratta di una considerazione straordinaria e nello stesso tempo rivoluzionaria di Paolo, se consideriamo i tempi di allora, che è costata all’apostolo non poche sofferenze anche nell’ambito dei credenti.
“E infatti il corpo non è formato da un membro solo, ma da molte membra”.
Paolo sfrutta a fondo il paragone del corpo per confermare e completare l'esposizione sui carismi, che abbiamo visto la volta scorsa. Nel proseguire del discorso si sottolinea, all'interno dell'unità, una necessaria pluralità. Senza di questa non si può parlare di un corpo.
“Se il piede dicesse: «Poiché non sono mano, non appartengo al corpo», non per questo non farebbe parte del corpo. E se l'orecchio dicesse: «Poiché non sono occhio, non appartengo al corpo», non per questo non farebbe parte del corpo. Se tutto il corpo fosse occhio, dove sarebbe l'udito? Se tutto fosse udito, dove sarebbe l'odorato? Ora, invece, Dio ha disposto le membra del corpo in modo distinto, come egli ha voluto. “
All'interno del corpo c’è una pluralità, ma si tratta di una pluralità diversificata. Nella sua diversità ogni membro appartiene all'organismo umano. Non è per una casualità né per un capriccio che Dio abbia creato le diversità e le differenze, ma esse rispondono alla Sua volontà di portare la persona e l’umanità alla pienezza dell’esperienza dell’amore, come partecipazione della Sua stessa realtà.
“Se poi tutto fosse un membro solo, dove sarebbe il corpo? Invece molte sono le membra, ma uno solo è il corpo.”
L'assimilazione delle membra a un membro solo nega il corpo nella sua essenziale diversificazione. Dunque né un solo membro, né più membra identiche.
“Non può l'occhio dire alla mano: «Non ho bisogno di te»; oppure la testa ai piedi: «Non ho bisogno di voi».” Il paragone del corpo si presta ad ulteriori contenuti. La diversità delle membra non si riduce a una pura e semplice coesistenza delle une accanto alle altre, come parti in se stesse autosufficienti e autonome. Al contrario, le unisce in un reciproco bisogno. C'è una mutua dipendenza, una complementarietà delle diverse membra.
“Anzi proprio le membra del corpo che sembrano più deboli sono le più necessarie; e le parti del corpo che riteniamo meno onorevoli le circondiamo di maggiore rispetto, e quelle indecorose sono trattate con maggiore decenza, mentre quelle decenti non ne hanno bisogno .Ma Dio ha disposto il corpo conferendo maggiore onore a ciò che non ne ha”,
Paolo, rifacendosi alla cultura del suo tempo introduce qui una classificazione delle membra del corpo in deboli e forti, vili e nobili, indecenti e oneste. L'intento è di precisare che esiste una specie di compensazione all'inferiorità delle membra meno stimate. Infatti più una parte dell'organismo è vile e indecente e maggiore è il rispetto con cui il pudore la circonda e la protegge.
“perché nel corpo non vi sia divisione, ma anzi le varie membra abbiano cura le une delle altre. Quindi se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui.”
Nel corpo dunque esiste una legge fondamentale di mutua sollecitudine. Le membra si prendono cura le une delle altre e partecipano le une alle gioie e ai dolori delle altre.
“Ora voi siete corpo di Cristo e, ognuno secondo la propria parte, sue membra”
Non dobbiamo dimenticare che il vero soggetto di tutta questa descrizione è il corpo che rappresenta la Chiesa, noi siamo le sue membra, diversificate, con diversi compiti, che si prendono cura le une delle altre. Questo avviene grazie allo Spirito che non dona fenomeni straordinari e sovrumani, destinati a pochi, come credevano i Corinti. Al contrario è creatore e animatore di una comunità articolata e diversificata. L'alterità dei cristiani poggia sulla partecipazione ai suoi doni.
“Alcuni perciò Dio li ha posti nella Chiesa in primo luogo come apostoli, in secondo luogo come profeti, in terzo luogo come maestri; poi ci sono i miracoli, quindi il dono delle guarigioni, di assistere, di governare, di parlare varie lingue.”
Paolo enumera i principali carismi presenti nella Chiesa. Si tratta di carismi ugualmente necessari, nella loro diversità., ma c’è sempre una gerarchia. Al primo posto c'è l'apostolato. L'annuncio evangelico incentrato in Cristo è alla base di qualsiasi comunità cristiana. Al secondo posto vi sono i profeti, coloro che avevano il dono di una parola capace di scuotere, provocare ravvedimenti, coinvolgere l'ascoltatore. Poi troviamo i maestri, i catechisti, coloro che accompagnavano i neobattezzati alla conoscenza del mistero cristiano e delle esigenze morali richieste dalla vita di fede.
“Sono forse tutti apostoli? Tutti profeti? Tutti maestri? Tutti fanno miracoli? Tutti possiedono il dono delle guarigioni? Tutti parlano lingue? Tutti le interpretano? “
Con domande retoriche l'apostolo esclude che si possa pensare a un processo di riduzione e livellamento a un solo carisma, fosse pure quello supremo dell'apostolato.
Per riassumere si può ancora dire che il sentimento di appartenenza all’umanità considerata come il vivere in un solo corpo è quanto mai importante, ma è necessario che ad esso si accompagni anche il senso di responsabilità, che si rivela nel farsi carico del processo di crescita generale e nell’uso dei mezzi adeguati per conseguirlo. La Chiesa, unita e solidale a immagine del corpo fisico, forma realmente il corpo di Cristo, costituito dalla partecipazione al Suo corpo eucaristico e animato dalla vita dello Spirito.
E’ questa una delle grandi idee sul mistero della Chiesa che ha fatto di Paolo il grande apostolo

Dal vangelo secondo Luca
Poiché molti hanno cercato di raccontare con ordine gli avvenimenti che si sono compiuti in mezzo a noi, come ce li hanno trasmessi coloro che ne furono testimoni oculari fin da principio e divennero ministri della Parola, così anch’io ho deciso di fare ricerche accurate su ogni circostanza, fin dagli inizi, e di scriverne un resoconto ordinato per te, illustre Teòfilo, in modo che tu possa renderti conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto.
In quel tempo, Gesù ritornò in Galilea con la potenza dello Spirito e la sua fama si diffuse in tutta la regione.
Insegnava nelle loro sinagoghe e gli rendevano lode.
Venne a Nàzaret, dove era cresciuto, e secondo il suo solito, di sabato, entrò nella sinagoga e si alzò a leggere. Gli fu dato il rotolo del profeta Isaìa; aprì il rotolo e trovò il passo dove era scritto: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi e proclamare l’anno di grazia del Signore».
Riavvolse il rotolo, lo riconsegnò all’inserviente e sedette. Nella sinagoga, gli occhi di tutti erano fissi su di lui. Allora cominciò a dire loro: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato».
Lc 1:1-4; 4:14-21

L’evangelista Luca, per la stesura del suo vangelo ci dice sin dall’inizio di avere fatto le cose seriamente, interpellando testimoni diretti di quei fatti, e quanto raccolto di averlo riportato in modo ordinato. Chiarisce anche la motivazione della sua opera: far si che ogni amante di Dio, si renda personalmente conto della solidità della catechesi ricevuta. Si rivolge ad un “illustre Teofilo". Certamente questo Teofilo non è una sola persona particolare e il nome (Teo-filo significa amico di Dio) già rivela la dimensione simbolica che raggruppa tutti coloro che si sentono "amici di Dio".
Nel brano introduttivo Luca, racconta del ritorno di Gesù in Galilea, dove “insegnava nelle sinagoghe e tutti ne facevano grandi lodi”. Sullo sfondo di questa attività si situa la visita a Nazareth. L’evangelista osserva da una parte che Nazareth era il luogo in cui Gesù era cresciuto, e dall’altra che era sua consuetudine recarsi nella sinagoga: egli vuole così sottolineare che Gesù era un giudeo che praticava normalmente la sua religione. Il racconto prosegue: “Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; apertolo trovò il passo dove era scritto: Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio,a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi e proclamare l’anno di grazia del Signore”. Gesù legge il brano in piedi poi: “Riavvolse il rotolo, lo riconsegnò all’inserviente e sedette. Nella sinagoga, gli occhi di tutti erano fissi su di lui.”
Dietro invito del capo sinagoga, ogni adulto maschio poteva prendere la parola dopo aver letto il brano della Scrittura. Il gesto di sedersi, dopo aver consegnato il rotolo all’inserviente, manifesta l’intenzione di parlare; si crea così una suspense, provocata dall’attesa di quanto avrebbe detto. E Gesù pronuncia queste parole: “Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato”. La presenza stessa di Gesù rappresenta dunque l’evento che porta a compimento le promesse di Dio contenute non solo nel brano citato, ma in tutte le Scritture. Dio instaura il Suo regno rivolgendosi prima di tutto alle categorie più emarginate e oppresse attuando la loro piena liberazione. Con la sua parola Gesù non annunzia soltanto, ma attua la salvezza divina, contenuta nelle scritture profetiche. È la parola stessa di Gesù che diventa evento salvifico, vivo, attuale.
“Nel nostro tempo dispersivo e distratto – commentava questo passo Benedetto XVI - questo Vangelo ci invita ad interrogarci sulla nostra capacità di ascolto”. Prima di poter parlare “di Dio e con Dio”, bisogna infatti “ascoltarlo”, e la liturgia della Chiesa “è la scuola di questo ascolto del Signore che ci parla”.Soprattutto, il brano evangelico odierno “ci dice che ogni momento può diventare un «oggi» propizio per la nostra conversione”. È questo il “senso cristiano” del «carpe diem»: che “ogni giorno può diventare l’oggi salvifico, perché la salvezza è storia che continua per la Chiesa e per ciascun discepolo di Cristo”.

*****

“Nel Vangelo di oggi, l'evangelista Luca prima di presentare il discorso programmatico di Gesù a Nazaret, ne riassume brevemente l'attività evangelizzatrice. E’ un'attività che Egli compie con la potenza dello Spirito Santo: la sua parola è originale, perché rivela il senso delle Scritture; è una parola autorevole, perché comanda persino agli spiriti impuri e questi obbediscono.
Gesù è diverso dai maestri del suo tempo: per esempio, non ha aperto una scuola per lo studio della Legge, ma va in giro a predicare e insegna dappertutto: nelle sinagoghe, per le strade, nelle case, sempre in giro! Gesù è diverso anche da Giovanni Battista, il quale proclama il giudizio imminente di Dio, mentre Gesù annuncia il suo perdono di Padre.
Ed ora immaginiamo di entrare anche noi nella sinagoga di Nazaret, il villaggio dove Gesù è cresciuto fino a circa trent'anni. Ciò che vi accade è un avvenimento importante, che delinea la missione di Gesù. Egli si alza per leggere la Sacra Scrittura. Apre il rotolo del profeta Isaia e prende il passo dove è scritto: “lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l'unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio” . Poi, dopo un momento di silenzio pieno di attesa da parte di tutti, dice, tra lo stupore generale: “Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato”.
Evangelizzare i poveri: questa è la missione di Gesù, secondo quanto Lui dice; questa è anche la missione della Chiesa, e di ogni battezzato nella Chiesa. Essere cristiano ed essere missionario è la stessa cosa. Annunciare il Vangelo, con la parola e, prima ancora, con la vita, è la finalità principale della comunità cristiana e di ogni suo membro.
Si nota qui che Gesù indirizza la Buona Novella a tutti, senza escludere nessuno, anzi privilegiando i più lontani, i sofferenti, gli ammalati, gli scartati della società.
Domandiamoci: che cosa significa evangelizzare i poveri? Significa anzitutto avvicinarli, significa avere la gioia di servirli, di liberarli dalla loro oppressione, e tutto questo nel nome e con lo Spirito di Cristo, perché è Lui il Vangelo di Dio, è Lui la Misericordia di Dio, è Lui la liberazione di Dio, è Lui chi si è fatto povero per arricchirci con la sua povertà. Il testo di lsaia, rafforzato da piccoli adattamenti introdotti da Gesù, indica che l'annuncio messianico del Regno di Dio venuto in mezzo a noi si rivolge in modo preferenziale agli emarginati, ai prigionieri, agli oppressi.
Probabilmente al tempo di Gesù queste persone non erano al centro della comunità di fede. Possiamo domandarci: oggi, nelle nostre comunità parrocchiali, nelle associazioni, nei movimenti, siamo fedeli al programma di Cristo? L'evangelizzazione dei poveri, portare loro il lieto annuncio, è la priorità? Attenzione: non si tratta solo di fare assistenza sociale, tanto meno attività politica. Si tratta di offrire la forza del Vangelo di Dio, che converte i cuori, risana le ferite, trasforma i rapporti umani e sociali secondo la logica dell'amore. I poveri, infatti, sono al centro del Vangelo.
La Vergine Maria, Madre degli evangelizzatori, ci aiuti a sentire fortemente la fame e la sete del Vangelo che c’è nel mondo, specialmente nel cuore e nella carne dei poveri. E ottenga ad ognuno di noi e ad ogni comunità cristiana di testimoniare concretamente la misericordia, la grande misericordia che Cristo ci ha donato.”
Papa Francesco
Parte dell’Angelus del 24 gennaio 2016

Pubblicato in Liturgia

Le letture liturgiche di questa domenica hanno come filo conduttore una festa di nozze e ci guidano con semplicità e chiarezza verso il centro del messaggio cristiano: la nostra vita spirituale si nutre dell’amore di Dio per noi e del nostro amore per il prossimo che raffigura l’amore per Dio.
Nella prima lettura, tratta dal libro del profeta Isaia, Dio è presentato come uno sposo “come un giovane sposa una vergine, … come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te” e Israele è paragonato ad una sposa, alla quale Dio non rinnega mai il Suo amore, nonostante le sue infedeltà.
Nella seconda lettura, San Paolo nella sua lettera ai Corinzi afferma che la Chiesa generata dallo Spirito Santo è una umanità unificata, nella quale ciascuno ha un compito e un carisma in vista del bene comune
Nel Vangelo, Giovanni racconta come Gesù si sia rivelato fin dagli inizi ai suoi discepoli attraverso un segno tutto particolare: l’acqua mutata in vino in un banchetto di nozze. La festa di Cana, alla quale Gesù partecipa con Sua Madre e con i Suoi discepoli, manifesta molteplici aspetti della Sua presenza tra noi. C’è una chiara allusione al banchetto finale al quale Dio chiama, attraverso di Lui, tutti i popoli della terra. L’immagine delle nozze è frequente nell’Antico Testamento per indicare l’amore di Dio verso la comunità che Egli ha scelto.
Il miracolo (o segno) di Cana di Galilea è il primo “segno” col quale Gesù si manifesta agli uomini nella sua gloria divina, e ci esorta a ricordare che Lui è il centro di ogni festa, il centro della nostra vita, Colui che proprio con tali segni vuole mostrarci la strada per realizzare ed attualizzare la nostra salvezza.

Dal libro del profeta Isaìa
Per amore di Sion non tacerò,
per amore di Gerusalemme non mi concederò riposo,
finché non sorga come aurora la sua giustizia
e la sua salvezza non risplenda come lampada.
Allora le genti vedranno la tua giustizia,
tutti i re la tua gloria;
sarai chiamata con un nome nuovo,
che la bocca del Signore indicherà.
Sarai una magnifica corona nella mano del Signore,
un diadema regale nella palma del tuo Dio.
Nessuno ti chiamerà più Abbandonata,
né la tua terra sarà più detta Devastata,
ma sarai chiamata Mia Gioia
e la tua terra Sposata,
perché il Signore troverà in te la sua delizia
e la tua terra avrà uno sposo.
Sì, come un giovane sposa una vergine,
così ti sposeranno i tuoi figli;
come gioisce lo sposo per la sposa,
così il tuo Dio gioirà per te.
Is 62,1-5

Questo brano, come quello dell’Epifania, appartiene al "Terzo Isaia" (TritoIsaia capitoli 56-66), il profeta della situazione successiva al ritorno dall'esilio che si rivolge non più agli esiliati, ma ai giudei ritornati da Babilonia in Gerusalemme. Il suo centro di interesse non è più il nuovo esodo, bensì il ristabilimento delle istituzioni teocratiche, le quali sono minacciate non da agenti esterni, ma dalla infedeltà del popolo.
Il brano inizia con un’esternazione del profeta, il quale attende con impazienza che Gerusalemme, oggetto del suo più grande amore, ritorni al suo primitivo splendore:
“Per amore di Sion non tacerò, per amore di Gerusalemme non mi concederò riposo, finché non sorga come aurora la sua giustizia e la sua salvezza non risplenda come lampada”.
Il profeta è preoccupato per Gerusalemme e anticipa con il pensiero il momento in cui essa sarà restaurata. Egli la sogna come una città in cui la “giustizia” sorge come aurora e la salvezza risplende come una fiaccola.
Prosegue descrivendo poi il futuro di Gerusalemme a cui sarà affidato una missione universale:
“Allora le genti vedranno la tua giustizia, tutti i re la tua gloria; sarai chiamata con un nome nuovo, che la bocca del Signore indicherà”.
Ricevendo in sé la salvezza che consiste nella giustizia, questa diventerà visibile a tutte le nazioni, che ne trarranno luce e orientamento di vita.. La città manifesterà dunque la sua grandezza nella giustizia, e non nella potenza delle armi, nel benessere materiale o nella bellezza dei suoi edifici.
In forza della giustizia Gerusalemme acquisterà un nuovo rapporto con DIO “Sarai una magnifica corona nella mano del Signore, un diadema regale nella palma del tuo Dio.”
La gloria della nuova Gerusalemme viene poi ulteriormente spiegata mediante un cambiamento di nome: nessuno la chiamerà più “Abbandonata”, e la sua terra non sarà più detta “Devastata”, ma sarà chiamata “Mia Gioia” e la sua terra “Sposata”, perché DIO troverà in essa la sua delizia e la sua terra avrà uno sposo. Il cambiamento di nome che indica una svolta nella vita di una persona, era stato già adottato da Osea per indicare prima la rottura e poi la riconciliazione di Israele con DIO (V: Os 1-2).
Per terminare il profeta riprende quest’ultimo concetto:
“come un giovane sposa una vergine, così ti sposeranno i tuoi figli; come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te. “. La ricostituzione del rapporto privilegiato di DIO con Israele (Os 2,21-25) è dunque all’origine del nuovo splendore della città santa.
La gloria della Gerusalemme futura viene identificata con la piena assunzione di un rapporto interno improntato alla giustizia, una virtù che evoca rapporti leali e sinceri. La cosa più importante per il progresso di una nazione consiste appunto in un rapporto sincero con Dio, basato sul compimento della Sua volontà, e in un rapporto sociale in cui i diritti di tutti, specialmente degli ultimi, siano rispettati.

Salmo 95 (96) - Annunciate a tutti i popoli le meraviglie del Signore.

Cantate al Signore un canto nuovo,
cantate al Signore, uomini di tutta la terra.
Cantate al Signore, benedite il suo nome.
Annunciate di giorno in giorno la sua salvezza.
In mezzo alle genti narrate la sua gloria,
a tutti i popoli dite le sue meraviglie.
Date al Signore, o famiglie dei popoli,
date al Signore gloria e potenza,
date al Signore la gloria del suo nome.
Prostratevi al Signore nel suo atrio santo.
Tremi davanti a lui tutta la terra.
Dite tra le genti: «Il Signore regna!».
Egli giudica i popoli con rettitudine.

Il salmo è un invito all'assemblea dei popoli a riconoscere la grandezza di Dio. L'universalismo del salmo ha come base l'unicità di Dio, e la consapevolezza che tutti i popoli della terra hanno un'origine comune, e che, allontanatisi da Dio, ne hanno in qualche misura un ricordo nelle loro concezioni religiose, infettate di politeismo e di idolatria. Ora Dio chiama a raccolta tutte le famiglie dei popoli a ritornare a lui (Cf. Ps 21,28), che ha formato un popolo quale suo testimone, radunato attorno al tempio di Gerusalemme. ….
L'annuncio di Israele ai popoli deve affermare la regalità di Dio su di loro: “Dite tra le genti: ”.
Egli è colui che con la sua provvidenza regge il mondo, e agisce con giustizia sui popoli: “È stabile il mondo, non potrà vacillare! Egli giudica i popoli con rettitudine”.
Il Signore “viene a giudicare la terra”; questo avverrà con la venuta di Cristo, re di giustizia e di pace il quale affermerà la giustizia (Cf. Ps 93). “Viene”, dice il salmista. Ora è venuto il Cristo, il Figlio di Dio incarnatosi nel grembo verginale di Maria. Egli viene continuamente con la sua grazia (Ap 1,8); poi, alla fine del mondo, verrà per il giudizio finale: “Giudicherà il mondo con giustizia e nella sua fedeltà i popoli”. “Nella sua fedeltà”, cioè per dare la risurrezione gloriosa a coloro che lo hanno accolto.
Difficile poter dire la data di composizione del salmo; probabilmente è stato scritto in un tempo di grande compattezza di Israele, poco dopo la costruzione del tempio di Salomone, prima che avvenisse lo scisma delle tribù del nord (1Re 11,26s).
Commento tratto da Perfetta Letizia

Dalla lettera di S.Paolo apostolo ai Corìnzi
Fratelli, vi sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diverse attività, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti.
A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune: a uno infatti, per mezzo dello Spirito, viene dato il linguaggio di sapienza; a un altro invece, dallo stesso Spirito, il linguaggio di conoscenza; a uno, nello stesso Spirito, la fede; a un altro, nell’unico Spirito, il dono delle guarigioni; a uno il potere dei miracoli; a un altro il dono della profezia; a un altro il dono di discernere gli spiriti; a un altro la varietà delle lingue; a un altro l’interpretazione delle lingue.
Ma tutte queste cose le opera l’unico e medesimo Spirito, distribuendole a ciascuno come vuole.
1 Cor 12,4-11

La Prima lettera ai Corinzi, che Paolo scrisse da Efeso negli anni 53-57, è una delle più lunghe fra quelle da lui scritte, paragonabile a quella dei Romani, ambedue infatti sono suddivise in 16 capitoli.
Paolo tra il 50 e 51 aveva gettato le fondamenta della Comunità di Corinto, formata soprattutto di pagani di modesta condizione (At.18, 1-18). Due anni dopo, mentre era ad Efeso, Paolo apprende che erano sorte delle divisioni che agitavano la comunità, e questo glielo confermano anche alcuni cristiani di Corinto che erano andati da lui per esporre questi problemi. Questa è la ragione che lo spinge a scrivere questa lettera che noi conosciamo come prima, ma che è stata sicuramente preceduta da un’altra che è andata perduta (questo lo si deduce da quanto scrive al v.5,9)
La lettera si contraddistingue per la molteplicità dei temi che Paolo vi affronta per chiarire dubbi o difficoltà della comunità e per correggere abusi e deviazioni. In essa l’apostolo dovrà prendere posizioni anche piuttosto critiche, ma facendosi prendere dalle situazioni vissute ci permette anche di gettare uno sguardo sulla crescita di una giovane Chiesa con tutto il suo dinamismo, ma anche le sue crisi.
Malgrado i pericoli che deve denunciare, e le sofferenze che come conseguenza ne avrà, (v.2 Cor), Paolo comunque sarà sempre fiero di questa comunità che ha fondato in pieno ambiente pagano.
Il capitolo 12, da dove è tratto il brano liturgico, è dedicato ai doni dello Spirito. Paolo aveva riscontrato che nel mondo greco, oltre ad esserci qualche elemento di rimpianto per le pratiche pagane, c'era anche in alcuni il tentativo di attribuirsi maggiore capacità rispetto agli altri per il possesso di alcune doti straordinarie. Così regnava una notevole confusione a causa dei molti "carismi" che i cristiani manifestavano nella loro vita privata e nella comunità. Anzi, a causa di questi doni, spesso, sorgevano invidie, gelosie, discussioni, confronti.
Così, Paolo sviluppa una sua riflessione e in questo brano afferma:
“Fratelli, vi sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diverse attività, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti.”
Paolo cerca di ridimensionare il problema affermando che carismi, doni di grazia, provengono tutti dall’’amore gratuito di Dio. Questi doni, anche se si differenziano, provengono tutti dallo Spirito. Ci sono diversi ministeri, cioè servizi, ma anche questi ministeri provengono da un solo Signore, cioè da Gesù Cristo figlio di Dio. Ancora ci sono diverse attività ma vanno tutte ricondotte a Dio Padre, il primo ad operare tutto in tutti.
La Chiesa è un organismo che ha bisogno di diverse attività, ma tutte hanno come fonte Dio e sono volte al bene di tutti i credenti
“A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune: a uno infatti, per mezzo dello Spirito, viene dato il linguaggio di sapienza;”
La misura per valutare qualsiasi dono è l'utilità all'interno della comunità cristiana.
Paolo enumera questi doni di cui i Corinzi erano dotati, ma ad ogni dono ribadisce che l'unica fonte da cui esso proviene è lo Spirito.
Egli fa un esempio esemplificativo, senza voler completare l’immensa varietà dei doni
“a un altro invece, dallo stesso Spirito, il linguaggio di conoscenza; a uno, nello stesso Spirito, la fede; a un altro, nell’unico Spirito, il dono delle guarigioni; a uno il potere dei miracoli;”
Per fede qui Paolo non intende certamente l'adesione all'annuncio evangelico, che è un dono dato a tutti i credenti. Si tratta piuttosto della fede taumaturgica, capace di spostare le montagne (v. 1Cor 13,3). Un carisma molto simile è il dono delle guarigioni e quello di fare miracoli.
“a un altro il dono della profezia; a un altro il dono di discernere gli spiriti; a un altro la varietà delle lingue; a un altro l’interpretazione delle lingue”.
La profezia non è la previsione del futuro, piuttosto si tratta di una parola capace di scuotere, provocare pentimenti, appassionare l'ascoltatore.
Era importante discernere la vera profezia dalle sue imitazioni, mosse da spiriti malvagi, perciò tra i doni vi è anche quello di discernere gli spiriti.
Alla fine vi è la varietà delle lingue ossia la glossolalia, carisma preferito dai Corinzi, in quanto manifestazione spettacolare. Non era sicuramente molto amata da Paolo per la sua poca utilità all’interno della comunità, destinata a rimanere sconcertata di fronte a voci incomprensibili. Ecco perché la glossolalia viene subito affiancata dal dono di interpretare le lingue, per rendere comprensibili e utili queste manifestazioni dello Spirito.
Di questi aspetti Paolo parlerà diffusamente nel capitolo 14.
“Ma tutte queste cose le opera l’unico e medesimo Spirito, distribuendole a ciascuno come vuole”.
Tutti questi doni dunque provengono dalla medesima fonte, lo Spirito di Dio, il quale liberamente e sovranamente li elargisce a ciascuno come meglio crede. E' quindi escluso qualsiasi privilegio, qualsiasi merito che renda qualcuno superiore agli altri.

Dal Vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli. Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno vino». E Gesù le rispose: «Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora». Sua madre disse ai servitori: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela».
Vi erano là sei anfore di pietra per la purificazione rituale dei Giudei, contenenti ciascuna da ottanta a centoventi litri. E Gesù disse loro: «Riempite d’acqua le anfore»; e le riempirono fino all’orlo. Disse loro di nuovo: «Ora prendetene e portatene a colui che dirige il banchetto». Ed essi gliene portarono.
Come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, colui che dirigeva il banchetto – il quale non sapeva da dove venisse, ma lo sapevano i servitori che avevano preso l’acqua – chiamò lo sposo e gli disse: «Tutti mettono in tavola il vino buono all’inizio e, quando si è già bevuto molto, quello meno buono. Tu invece hai tenuto da parte il vino buono finora».
Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui.
Gv 2,1-12

Il racconto delle nozze di Cana, che è riportato solamente nel Vangelo di Giovanni, chiude il ciclo delle manifestazioni di Gesù: a Betlemme, nel mistero della carne, si rivela ai Magi; nelle acque del Giordano è proclamato Figlio, l’amato del Padre; a Cana, con il primo segno (o miracolo) Gesù comincia a rivelarsi ai suoi discepoli e al mondo come vero Dio.
Giovanni, raccontando le nozze di Cana, ha detto esplicitamente quale sia il significato di questo racconto, perché l’ultimo versetto dice che questo “fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui”. Il racconto ha, decisamente un’importanza notevole: non è un caso che Giovanni lo ha messo come primo dei segni di Gesù. E “primo” non si riferisce solo all’ordine cronologico, ma vuol dire l’inizio, il modello; tutti gli altri segni che Gesù farà saranno simili a questo e se uno capisce questo potrebbe anche capire il mistero stesso di Gesù.
Il brano inizia riportando che “vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea”
Nell'Antico Testamento, la festa delle nozze era un simbolo dell'amore di Dio verso il Suo popolo. Il tema delle nozze richiama subito alla mente un’immagine biblica, divenuta tradizionale a partire dall’esperienza coniugale del profeta Osea fino al Cantico dei Cantici e a Gesù stesso, che ha presentato il regno dei cieli come un banchetto di nozze. La festa umana più importante, quella che rappresenta l’amore dell’uomo e della donna è servita da metafora per esprimere l’alleanza di Dio con il Suo popolo, e più particolarmente la Sua realizzazione finale, allorché Dio la stringerà non solo con Israele ma col mondo intero.
“e c’era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli. Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno vino»”
La Madre di Gesù si trovava nella festa, mentre Gesù ed i suoi discepoli erano invitati. Colpisce subito l’attenzione che Maria ha per le cose semplici e molto umane di questi sposi, forse neanche loro si erano accorti di quanto stava succedendo. Ma dopo l’attenzione amorevole di Maria, lascia un po’ perplessi la risposta asciutta che le dà Gesù: «Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora».
È una frase dura e decisa. Gesù si sottrae inizialmente alla richiesta di Maria solo per indicare la condizione indispensabile del Suo intervento, quella della sua “ora” non ancora giunta, non vuole fare prodigi spettacolari, neppure per accontentare Sua madre né per venire incontro a una difficoltà concreta quotidiana. Egli desidera nei suoi atti, anche potenti e straordinari, offrire solo rivelazioni del Suo mistero divino. E’ in questa luce che Maria, senza esitazione, comprende il senso vero di quella risposta di Gesù apparentemente negativa e dice ai servi: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela». Anche se Maria non ha compreso del tutto quali siano esattamente le intenzioni del Figlio, si rimette totalmente alla volontà di Lui, e trasmette ai servi questa sua fede aperta al mistero. L’evangelista riporta le parole, ma possiamo anche pensare che il dialogo tra Gesù e la Madre non è terminato; anzi le sue più importanti parole non furono mai pronunziate con le labbra, ma solo trasmesse da sguardo a sguardo.

“Vi erano là sei anfore di pietra per la purificazione rituale dei Giudei, contenenti ciascuna da ottanta a centoventi litri.” L'indicazione del numero delle anfore è un dettaglio piccolo ma significativo. "6 anfore": vuol indicare l’imperfezione mentre il 7 è il numero della perfezione, del completamento, della maturità, Un altro particolare da notare: le anfore sono di pietra. Cosa strano per l’epoca perché di solito erano in terracotta o in altri materiali più leggeri e questo ci può far pensare alla pietra dove è stata scritta la legge di Dio. Inoltre le anfore di solito erano sempre piene, soprattutto durante una festa, ma qui sono vuote. Le possiamo considerare un esempio dell'antica alleanza, della legge di Mosè, svuotata della dimensione più vera e ridotta a riti esteriori, convenzionali.
“E Gesù disse loro: «Riempite d’acqua le anfore»; e le riempirono fino all’orlo”.
Solo Gesù può immettere vino nuovo nel tentativo umano di giungere ad un'esistenza più autentica.
“Ora prendetene e portatene a colui che dirige il banchetto». Ed essi gliene portarono.”
Come nella moltiplicazione dei pani, anche a Cana Gesù sollecita e quasi attende la collaborazione umana, ma che è sempre sproporzionata rispetto all‘azione divina. Certo Gesù avrebbe potuto riempire direttamente di vino le sei anfore senza chiedere nulla a nessuno; ma egli desidera che i discepoli ricordino la loro responsabilità e la vivano con generosa fedeltà: toccherà a loro “riempire, attingere e portare” la bevanda della salvezza.
“Come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, colui che dirigeva il banchetto – il quale non sapeva da dove venisse, ma lo sapevano i servitori che avevano preso l’acqua –
Colui che dirige il banchetto non sa da dove il vino venga, ma lo sanno solo i servi. Lo sanno i servi perché obbedendo alle parole della Madre di Gesù hanno fatto quello che Gesù ha detto loro di fare.
Questo fa parte della rivelazione di Gesù, in quanto nel vangelo di Giovanni quando si parla dei doni divini, che Gesù porta agli uomini, si sottolinea il fatto che questi doni hanno una origine misteriosa, come misterioso è il Donatore. E se uno vuole comprendere Gesù, deve mettere Gesù in relazione con Dio, deve sapere che viene da Dio e che ritorna a Dio: la Sua origine e la Sua destinazione sono misteriose. Quindi come è misterioso Gesù, così sono misteriosi i suoi doni.
“chiamò lo sposo e gli disse: « Tutti mettono in tavola il vino buono all’inizio e, quando si è già bevuto molto, quello meno buono. Tu invece hai tenuto da parte il vino buono finora»..
In questi versetti Giovanni usa un po’ di ironia nel riportare che il maestro di tavola attribuisce il buon vino allo sposo, e non a Gesù.
Ci sono una infinità di spunti da trarre da questo racconto, ma il messaggio più forte, quello che il “segno “ delle nozze di Cana ci vuole comunicare è il messaggio teologico: Cristo è il “vino buono” e “ultimo”, cioè il dono perfetto del Padre. Ed è proprio Maria, la donna” perfetta, la mediatrice di ogni grazia, il ponte di congiungimento tra la terra e il cielo, che ci presenta il Cristo nella sua missione di salvezza, nella sua “ora” solenne, fonte di gioia e di liberazione da ogni paura.

*****

" Domenica scorsa, con la festa del Battesimo del Signore, abbiamo iniziato il cammino del tempo liturgico chiamato “ordinario”: il tempo in cui seguire Gesù nella sua vita pubblica, nella missione per la quale il Padre lo ha inviato nel mondo. Nel Vangelo di oggi troviamo il racconto del primo dei miracoli di Gesù. Il primo di questi segni prodigiosi si compie nel villaggio di Cana, in Galilea, durante la festa di un matrimonio. Non è casuale che all’inizio della vita pubblica di Gesù si collochi una cerimonia nuziale, perché in Lui Dio ha sposato l’umanità: è questa la buona notizia, anche se quelli che l’hanno invitato non sanno ancora che alla loro tavola è seduto il Figlio di Dio e che il vero sposo è Lui. In effetti, tutto il mistero del segno di Cana si fonda sulla presenza di questo sposo divino, Gesù, che comincia a rivelarsi. Gesù si manifesta come lo sposo del popolo di Dio, annunciato dai profeti, e ci svela la profondità della relazione che ci unisce a Lui: è una nuova Alleanza di amore.
Nel contesto dell’Alleanza si comprende pienamente il senso del simbolo del vino, che è al centro di questo miracolo. Proprio quando la festa è al culmine, il vino è finito; la Madonna se ne accorge e dice a Gesù: «Non hanno vino». Perché sarebbe stato brutto continuare la festa con l’acqua! Una figuraccia, per quella gente. La Madonna se ne accorge e, siccome è madre, va subito da Gesù. Le Scritture, specialmente i Profeti, indicavano il vino come elemento tipico del banchetto messianico (cfr Am 9,13-14; Gl 2,24; Is 25,6). L’acqua è necessaria per vivere, ma il vino esprime l’abbondanza del banchetto e la gioia della festa. Una festa senza vino? Non so… Trasformando in vino l’acqua delle anfore utilizzate «per la purificazione rituale dei Giudei» – era l’abitudine: prima di entrare in casa, purificarsi –, Gesù compie un segno eloquente: trasforma la Legge di Mosè in Vangelo, portatore di gioia.
E poi, guardiamo Maria: le parole che Maria rivolge ai servitori vengono a coronare il quadro sponsale di Cana: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela». Anche oggi la Madonna dice a noi tutti: “Qualsiasi cosa vi dica, fatela”. Queste parole sono una preziosa eredità che la nostra Madre ci ha lasciato. E in effetti a Cana i servitori ubbidiscono. «Gesù disse loro: Riempite d’acqua le anfore. E le riempirono fino all’orlo. Disse loro di nuovo: Ora prendetene e portatene a colui che dirige il banchetto. Ed essi gliene portarono». In queste nozze, davvero viene stipulata una Nuova Alleanza e ai servitori del Signore, cioè a tutta la Chiesa, è affidata la nuova missione: “Qualsiasi cosa vi dica, fatela”. Servire il Signore significa ascoltare e mettere in pratica la sua parola. È la raccomandazione semplice, essenziale della Madre di Gesù, è il programma di vita del cristiano.
Vorrei sottolineare un’esperienza che sicuramente tanti di noi abbiamo avuto nella vita. Quando siamo in situazioni difficili, quando avvengono problemi che noi non sappiamo come risolvere, quando sentiamo tante volte ansia e angoscia, quando ci manca la gioia, andare dalla Madonna e dire: “Non abbiamo vino. E’ finito il vino: guarda come sto, guarda il mio cuore, guarda la mia anima”. Dirlo alla Madre. E lei andrà da Gesù a dire: “Guarda questo, guarda questa: non ha vino”. E poi, tornerà da noi e ci dirà: “Qualsiasi cosa vi dica, fatela”.
Per ognuno di noi, attingere dall’anfora equivale ad affidarsi alla Parola e ai Sacramenti per sperimentare la grazia di Dio nella nostra vita. Allora anche noi, come il maestro di tavola che ha assaggiato l’acqua diventata vino, possiamo esclamare: «Tu hai tenuto da parte il vino buono finora» . Sempre Gesù ci sorprende. Parliamo alla Madre perché parli al Figlio, e Lui ci sorprenderà.
Che Lei, la Vergine Santa ci aiuti a seguire il suo invito: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela», affinché possiamo aprirci pienamente a Gesù, riconoscendo nella vita di tutti i giorni i segni della sua presenza vivificante.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 20 gennaio 2019

Pubblicato in Liturgia

La liturgia, in questa domenica del Battesimo del Signore, chiamandoci a contemplare il mistero di Dio ci invita a fissare lo sguardo sul Figlio, per riconoscere in Lui la nostra più vera identità
Nella prima lettura, tratta dal libro del profeta Isaia, Dio attraverso il profeta parla al cuore del Suo popolo e lo consola e, attraverso le parole del profeta: “Nel deserto preparate la via del Signore”, che sono sempre vive e attuali, invita anche noi oggi a prendere coscienza dei nostri errori, e accendere il desiderio di una migliore condotta di vita.
Nella seconda lettura, San Paolo nella sua lettera a Tito delinea con poche parole l’opera salvifica di Dio: la nostra vita di fede ha origine dalla acque del battesimo, ed è costruita non su noi stessi, ma sulla grazia di Cristo. La salvezza è opera della misericordia di Dio Padre e si compie nella persona di Gesù Cristo.
Nel Vangelo di Luca assistiamo ad una grande Teofania, leggiamo infatti che il cielo si aprì e discese su Gesù nel Giordano, lo Spirito Santo in forma corporea di colomba, e si udì una voce, quella del Padre, che riconosce in Gesù il Figlio amato.
In Cristo noi siamo battezzati, liberati dal peccato e diventati una creatura nuova. Dipende da noi vivere il dono ricevuto: credere che siamo figli di Dio, amare e lasciarsi plasmare dallo Spirito Santo.

Dal libro del profeta Isaia
«Consolate, consolate il mio popolo – dice il vostro Dio –.
Parlate al cuore di Gerusalemme
e gridatele che la sua tribolazione è compiuta,
la sua colpa è scontata,
perché ha ricevuto dalla mano del Signore
il doppio per tutti i suoi peccati».
Una voce grida: «Nel deserto preparate la via al Signore,
spianate nella steppa la strada per il nostro Dio.
Ogni valle sia innalzata, ogni monte e ogni colle siano abbassati;
il terreno accidentato si trasformi in piano
e quello scosceso in vallata.
Allora si rivelerà la gloria del Signore e tutti gli uomini insieme la vedranno,
perché la bocca del Signore ha parlato».
Sali su un alto monte, tu che annunci liete notizie a Sion!
Alza la tua voce con forza, tu che annunci liete notizie a Gerusalemme.
Alza la voce, non temere; annuncia alle città di Giuda:
«Ecco il vostro Dio! Ecco, il Signore Dio viene con potenza,
il suo braccio esercita il dominio.
Ecco, egli ha con sé il premio e la sua ricompensa lo precede.
Come un pastore egli fa pascolare il gregge
e con il suo braccio lo raduna;
porta gli agnellini sul petto e conduce dolcemente le pecore madri».
Is 40,1-5, 9-11

Questo brano fa parte del Libro della Consolazione di Israele (capitoli 40-55) attribuiti ad un autore, rimasto anonimo, a cui è stato dato il nome di “Secondo Isaia ” o “deutero Isaia ”. Probabilmente era un lontano discepolo del primo Isaia che visse a Babilonia insieme agli esiliati che, dalla sue profezie prendono speranza. Infatti a partire dal 550 a.C. compare un nuovo popolo, non semitico, i Persiani, sotto il comando del loro re: Ciro. Egli in 10 anni sottomette l’oriente e agli occhi dei popoli oppressi, deportati dai Babilonesi, egli appare come un liberatore. Il Deuteroisaia non si limita a presentarlo come lo strumento scelto da Dio per portare a termine il suo piano in favore di Israele, ma gli attribuisce prerogative tipiche dei re di Giuda, ponendolo così in una prospettiva “messianica”.
Il brano che la liturgia ci propone si apre con un oracolo nel quale Dio stesso esorta a “consolare” il Suo popolo. Le prime parole sono ripetute con insistenza:
“Consolate, consolate il mio popolo”-
Il messaggio, che è un vero e proprio annuncio di gioia, è indirizzato direttamente a Gerusalemme, la città santa, personificazione del popolo giudaico. I messaggeri devono “parlare al cuore” di Gerusalemme per annunziarle che la sua esistenza è profondamente trasformata perché il Signore ha deciso di ripristinare quel legame d’amore che lo univa al Suo popolo. Il motivo della consolazione di Gerusalemme sta nel fatto che:
”la sua tribolazione è compiuta, la sua colpa è scontata, perché ha ricevuto dalla mano del Signore il doppio per tutti i suoi peccati”.
Il popolo che si era allontanato da Dio ha ormai scontato ampiamente la pena dovuta alla sua iniquità, ha ricevuto un doppio castigo per i suoi peccati, cioè in termini di sofferenza ha pagato un prezzo persino superiore alle sue colpe.
Il profeta comunica poi quanto dice “una voce”, cioè un anonimo messaggero di Dio, il quale ordina: “Nel deserto preparate la via al Signore, spianate nella steppa la strada per il nostro Dio….” Ciò significa che l’evento del ritorno richiederà un profondo cambiamento nella mentalità di tutti i giudei.
La fede di Israele in questo periodo è cambiata e dovrà ancora cambiare in profondità, coinvolgendo in questa trasformazione anche coloro che erano rimasti in patria e avevano continuato le attività dei loro padri. (Proprio l’incapacità da parte di costoro di accettare il nuovo, di cui i rimpatriati erano portatori, provocherà tutta una serie di tensioni che renderanno difficile la restaurazione del popolo di Dio).
Il ritorno degli esuli comporterà una meravigliosa rivelazione della gloria di Dio:
“Allora si rivelerà la gloria del Signore e tutti gli uomini insieme la vedranno, perché la bocca del Signore ha parlato”.
Il termine “gloria” indica il fulgore che nell’immaginazione popolare accompagna la manifestazione di Dio. Vedere la gloria del Signore significa sperimentare in prima persona gli effetti dell’intervento divino. Ora la rivelazione della gloria di Dio sarà disponibile non solo agli israeliti, ma a tutti gli uomini e secondo il profeta nell’evento del ritorno saranno coinvolti tutti i popoli.
Interviene ora nel racconto un araldo con un compito specifico: “Sali su un alto monte, tu che annunci liete notizie a Sion! Alza la tua voce con forza, tu che annunci liete notizie a Gerusalemme. Alza la voce, non temere; annuncia alle città di Giuda: “Ecco il vostro Dio!”
L’araldo, che deve annunziare a Gerusalemme e alle città di Giuda il ritorno del Signore alla testa degli esiliati, è descritto come “colui che annuncia liete notizie”. Da questa espressione tradotta in greco (euangelizomenos) “colui che evangelizza” deriverà il termine “vangelo”, con cui i primi cristiani designeranno la predicazione di Gesù.
Il Signore che ritorna è poi presentato con due immagini. La prima è quella del re potente e vittorioso, che ritorna dalla guerra portando con sé il bottino tolto ai nemici (e questo bottino è il popolo stesso che il Signore ha sottratto alla dominazione straniera). La seconda immagine è quella del pastore che fa pascolare il gregge (V.Sal 23; Ez 34), e con il suo braccio lo raduna; porta gli agnellini sul petto e conduce dolcemente le pecore madri».
Tutto il brano esprime meraviglia, gioia ed esaltazione per la svolta improvvisa che sta prendendo la storia della salvezza. Il messaggio fondamentale di questo carme è la fiducia nel Dio che dirige gli eventi della storia umana piegandoli a quelli che sono i Suoi piani di salvezza. Anche quando sembra che le vicende umane sfuggano al Suo controllo, Dio non rinunzia al Suo potere e non viene mai meno alle Sue promesse. L’importante per l’uomo è saper vedere la Sua gloria quando si manifesta.

Salmo 103 Benedici il Signore, anima mia

Sei tanto grande, Signore, mio Dio!
Sei rivestito di maestà e di splendore,
avvolto di luce come di un manto,
tu che distendi i cieli come una tenda.

Costruisci sulle acque le tue alte dimore,
fai delle nubi il tuo carro,
cammini sulle ali del vento,
fai dei venti i tuoi messaggeri
e dei fulmini i tuoi ministri.

Quante sono le tue opere, Signore!
Le hai fatte tutte con saggezza;
la terra è piena delle tue creature.
Ecco il mare spazioso e vasto:
là rettili e pesci senza numero,
animali piccoli e grandi.

Tutti da te aspettano
che tu dia loro cibo a tempo opportuno.
Tu lo provvedi, essi lo raccolgono;
apri la tua mano, si saziano di beni.

Il salmista esordisce con un invito a se stesso a benedire il Signore. Di fronte alla grandezza, alla bellezza, alla potenza della creazione esprime il suo stupore e la sua lode a Dio: “Sei tanto grande, Signore, mio Dio!”.
Egli contempla Dio nella sua sovranità universale, tratteggiandolo “avvolto di luce come di un manto”. Una luce gloriosa, non terrena, non degli astri, ma divina, con la quale illumina gli spiriti angelici, nel cielo.
Egli ha separato la luce dalla notte e con l'albeggiare stende il cielo “come una tenda”; cioè stende la calotta azzurra del cielo. Così, pure, stende le tenebre della notte: “Stendi le tenebre e viene la notte”. Sovrano del cielo e della terra, pone la sua dimora di re sulle acque, cioè sulle nuvole alte e bianche, là dove nessuno può fare una dimora. Sovrano difende i suoi sudditi fedeli dai nemici, facendo delle nuvole basse e buie il suo carro da guerra trainato dal vento visto come un essere alato: “Costruisci sulle acque le tue alte dimore, fai delle nubi il tuo carro, cammini sulle ali del vento”. I venti annunziano il suo arrivo nella tempesta, mentre le folgori presentano la sua potenza sulla terra: “Fai dei venti i tuoi messaggeri e dei fulmini i tuoi ministri”.
Il salmo, che segue l'ordine della prima narrazione della creazione (Gn 1,1s), continua presentando la primordiale situazione della terra, ora fermamente salda “sulle sue basi”, intendendo per basi niente di formalmente vincolante, ma solo un'immagine tratta dalle congetture dell'uomo.
L'onnipotenza divina viene presentata come dominatrice delle acque che coprivano la terra: “Al tuo rimprovero esse fuggirono, al fragore del tuo tuono rimasero atterrite”. Le acque si divisero in acque sotto il firmamento e in acque sopra il firmamento (le nubi, pensate ferme in alto per la presenza di una invisibile calotta detta firmamento), così cominciò il ciclo delle piogge e le acque “Salirono sui monti, discesero nelle valli, verso il luogo (mare) che avevi loro assegnato”. Dio provvede, nel tempo privo di piogge, al regime delle acque, e fa scaturire nelle alte valli montane acque sorgive che poi scendono lungo i canaloni tra i monti per dissetare gli animali. Gli uccelli trovano dimora nei luoghi alti e cantano tra le fronde degli alberi. Tutto è predisposto perché non manchi il cibo: “Con il frutto delle tue opere si sazia la terra. Tu fai crescere l'erba per il bestiame e le piante che l'uomo coltiva...”.
E anche gli alberi alti sono sazi per la pioggia “sono sazi gli alberi del Signore (cioè gli alberi altissimi: nell'ebraico il superlativo assoluto è reso con un riferimento a Dio), i cedri del Libano da lui piantati”. (I cedri del Libano raggiungono anche i 40 m. di altezza, con un diametro alla base di 2,5 m.)
Dio per segnare le stagioni ha fatto il sole e la luna. Ritirando a sera la luce stende “le tenebre e viene la notte”; e anche nella notte prosegue la vita: “si aggirano tutte le bestie della foresta; ruggiscono i giovani leoni in cerca di preda”. Con i loro ruggiti “chiedono a Dio il loro cibo”. Il salmo presenta che gli animali carnivori sono stati creati così da Dio. Il libro della Genesi (1,30) presenta un mondo animale che si cibava di erbe nella situazione Edenica; ma è un'immagine rivolta a presentare come all'inizio non ci fosse la ferocia tra gli animali, benché non mancassero animali carnivori, creati da Dio, come il nostro salmo presenta.
L'uomo comincia il suo lavoro col sorgere del sole: “Allora l'uomo esce per il suo lavoro, per la sua fatica fino a sera”.
Il salmista loda ancora il Signore per le sue opere.
Passa quindi a considerare le creature del mare; in particolare il Leviatan, nome col quale l'autore designa la balena.
Il mondo animale è oggetto pure esso dell'assistenza divina: “Nascondi il tuo volto: li assale il terrore; togli loro il respiro: muoiono, e ritornano nella loro polvere”. Se Dio ritrae la sua assistenza gli animali periscono, non hanno più l'alito delle narici “togli loro il respiro”. Ma se manda il suo Spirito creatore sono creati. Lo Spirito di Dio è all'origine della creazione: (Gn 1,2).
Il salmista chiede che sulla terra ci sia la pace tra gli uomini, affinché “gioisca il Signore delle sue opere”. “Scompaiano i peccatori dalla terra e i malvagi non esistano più” dice, augurandosi un tempo dove gli uomini cessino di combattersi. Questo sarà nel tempo di pace che abbraccerà tutta la terra, quando la Chiesa porterà Cristo a tutte le genti; sarà la società della verità e dell'amore. Noi dobbiamo incessantemente impegnarci con la preghiera e la testimonianza per questo tempo che invochiamo nel Padre Nostro dicendo: “Venga il tuo regno”.
Commento tratto da “Perfetta Letizia “

Dalla lettera di S.Paolo apostolo a Tito
Carissimo, è apparsa infatti la grazia di Dio, che porta salvezza a tutti gli uomini e ci insegna a rinnegare l’empietà e i desideri mondani e a vivere in questo mondo con sobrietà, con giustizia e con pietà, nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo. Egli ha dato se stesso per noi, per riscattarci da ogni iniquità e formare per sé un popolo puro che gli appartenga, pieno di zelo per le opere buone.
Ma quando apparvero la bontà di Dio, salvatore nostro, e il suo amore per gli uomini,egli ci ha salvati, non per opere giuste da noi compiute,ma per la sua misericordia,con un’acqua che rigenera e rinnova nello Spirito Santo,che Dio ha effuso su di noi in abbondanza per mezzo di Gesù Cristo, salvatore nostro, affinché, giustificati per la sua grazia,diventassimo, nella speranza, eredi della vita eterna
Tt 2,11-14; 3,4-7

Durante la sua prigionia a Roma attorno all’anno 66, è possibile che Paolo, o un suo discepolo qualche anno dopo, abbia scritto questa lettera a Tito, collaboratore di Paolo e da lui convertito. Tito fu presente alla grande assemblea di Gerusalemme (50 d.C.) e Paolo lo prepose alla comunità cristiana di Creta quale “vescovo”. La lettera è composta da 3 capitoli e fa parte del gruppo delle tre lettere "pastorali" (insieme alle due a Timoteo), così chiamate perché rivolte a dei capi responsabili di comunità. Più che delle lettere sembrano delle raccolte di norme per l'organizzazione della comunità, di consigli per le varie categorie di persone e suggerimenti generali per la vita pratica o la soluzione di problemi ecclesiali.
Il brano inizia affermando:
“è apparsa infatti la grazia di Dio, che porta salvezza a tutti gli uomini”
Questo versetto si lega al precedente, in cui chi scrive si allaccia ai consigli sul comportamento che le varie categorie di persone devono avere (Tt 2,1-10). I cristiani devono avere un certo stile perché la grazia di Dio è apparsa, si è manifestata e ha portato la salvezza a tutti.
“e ci insegna a rinnegare l’empietà e i desideri mondani e a vivere in questo mondo con sobrietà, con giustizia e con pietà,”
Si fa un accenno alla conversione come rottura con il passato di empietà e l'invito a una pratica rinnovata e corrispondente all'azione salvifica di Dio. Tutto questo si manifesta con le tre virtù della sobrietà, della giustizia e della pietà (ossia misericordia).
“nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo.”
Un tempo si è manifestata la grazia di Dio e questa grazia oggi ci invita ad avere un atteggiamento retto. Questo vivere si apre agli avvenimenti futuri, alla parusia, la manifestazione della gloria di Gesù Cristo che è Dio e salvatore.
“Egli ha dato se stesso per noi, per riscattarci da ogni iniquità e formare per sé un popolo puro che gli appartenga, pieno di zelo per le opere buone”.
Sobrietà, giustizia e pietà sono proposte di vita, comandamenti etici sempre rivoluzionari, che andavano e vanno soprattutto oggi, controcorrente. Dipende sempre dalla libera scelta dell’uomo farne cardini della propria vita.
“Ma quando apparvero la bontà di Dio, salvatore nostro, e il suo amore per gli uomini”
Vi è un prima con la situazione di malvagità, corruzione, odio in cui vivevano gli uomini. Vi è anche una situazione favorevole perchè si è manifestata la bontà di Dio, il Suo amore per gli uomini. E' proprio per questo amore che Dio interviene nella storia con l'incarnazione del Suo Figlio.
“egli ci ha salvati, non per opere giuste da noi compiute,ma per la sua misericordia, con un’acqua che rigenera e rinnova nello Spirito Santo”
Tramite questa manifestazione Egli ci ha salvati, non perché lo meritavamo, infatti il versetto non riporta alcun riferimento a opere giuste da noi compiute, ma ci ha salvati per la Sua misericordia. Questa salvezza è avvenuta tramite l'acqua del battesimo, che ha rigenerato l'umanità grazie allo Spirito Santo.
“che Dio ha effuso su di noi in abbondanza per mezzo di Gesù Cristo, salvatore nostro”
In questi versetti si può trovare un frammento della liturgia e della catechesi battesimale. Lo Spirito Santo è stato versato su di noi con l'acqua del battesimo per mezzo di Gesù Cristo, il quale è passato dalla morte alla vita e ci ha mandato lo Spirito Santo il giorno di Pentecoste.
“affinché, giustificati per la sua grazia,diventassimo, nella speranza, eredi della vita eterna”
E' questa azione di Dio che ci ha resi giusti, perchè noi con le nostre sole forze non lo potevamo certo essere. E' una giustificazione che ci apre ad un futuro di speranza per divenire “eredi della vita eterna”.

Dal vangelo secondo Luca
In quel tempo, poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano
in cuor loro se non fosse lui il Cristo, Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali.
Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco».
Ed ecco, mentre tutto il popolo veniva battezzato e Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì e discese sopra di lui lo Spirito Santo in forma corporea, come una colomba, e venne una voce dal cielo:
«Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento».
Lc 3,15-16.21-22

Il tempo di Natale si chiude col Battesimo del Signore, ma in realtà, nella storia di Gesù il tempo che passa tra la sua nascita e il battesimo al Giordano è di circa 30 anni e di questi decenni poco dicono i Vangeli, poco la tradizione. Col Battesimo inizia la "vita pubblica" di Gesù per le strade della Palestina fino a quel triduo di Pasqua, presumibilmente all'inizio di aprile dell'anno 30. I tre vangeli sinottici hanno in comune la narrazione del battesimo di Gesù, ma ogni evangelista legge quella solenne scena di apertura del mistero pubblico di Gesù da una prospettiva diversa cogliendo aspetti particolari.
Il vangelo di Luca a questo evento dedica solo due versetti, così la liturgia li fa precedere da una ripresa del discorso di Giovanni il Precursore sul battesimo in Spirito santo.
Il brano inizia affrontando il tema dell’identità di Giovanni:
“poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo”
Luca riporta in questo versetto l'opinione diffusa secondo cui Giovanni fosse il Messia atteso,
“Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco».
La risposta di Giovanni è rivolta a tutti forse per sottolineare la portata delle sue affermazioni riguardo al Messia, ma è evidente che non tutti gli Israeliti sono andati a farsi battezzare da lui (Luca usa spesso la parola tutto o tutti). L'affermazione di Giovanni si ritrova anche negli altri sinottici e dimostra la sua autenticità. Luca combina la formulazione di Marco, con altri dati che ha in comune con Matteo, ma con un piccolo accorgimento che fa apparire il suo battesimo come introduttivo a quello del Cristo. Giovanni battezza con acqua; ma l'altro battesimo sarà in Spirito santo e fuoco. Si può notare che Luca elimina le parole "dietro a me" che sono in Matteo (Mt 3,11) forse per evitare che si pensi a Gesù come a un discepolo di Giovanni. Questi due versetti servono quindi molto bene per introdurre quelli successivi che la liturgia ci propone, perché ci permettono di verificare l'avverarsi del battesimo in Spirito Santo e quindi il passaggio ad un altro tipo di battesimo.
“Ed ecco, mentre tutto il popolo veniva battezzato e Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì “.
Luca non sembra dare molto risalto al fatto che Gesù è stato battezzato, e il dato più evidente sembra essere l'atteggiamento di preghiera di Gesù.
Altro elemento è il legame tra preghiera e Spirito Santo che compare nel versetto successivo. Il battesimo sembra quindi il punto di arrivo dell'opera di Giovanni e il passaggio dal tempo dell'attesa a quello della novità.
“e discese sopra di lui lo Spirito Santo in forma corporea, come una colomba, e venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento».
Il centro del breve racconto è la teofania, caratterizzata da due elementi: lo Spirito Santo e la voce.
La scelta della colomba come simbolo dello Spirito può avere diverse spiegazioni, anche se non sembra essere un elemento importante per Luca. Si può trovare un riferimento in Gn 1,2, simbolo della nuova creazione, o alla colomba del diluvio, sempre Gn 8,8-12; la colomba del Cantico dei Cantici o un riferimento ad Isaia 60,8. E’ interessante anche ricordare che la colomba nell’A.T. era anche lo stemma nazionale d’Israele.(V. sal68,14 e Os 7,11) perciò nel battesimo di Cristo è presente, quasi in germe, il popolo messianico.
Come riflessione personale possiamo anche pensare che la colomba è un uccello molto comune, che possiamo vedere sempre, che ci è vicino, ed anche quando lo scacciamo subito ritorna, per questo lo possiamo immaginare come simbolo dello Spirito Santo che non ci abbandona mai.
L’altro elemento della teofania è la voce che viene dal cielo. Essa trova riferimento a due passi dell’A.T., “Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato.” (salmo 2,7 ). Il re e il messia ebraico, erano solo figli adottivi di Dio; Gesù, invece, è il Figlio prediletto, l’unigenito, in senso pieno di Dio. L’altro passo riferimento al Primo canto del servo del Signore “Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto di cui mi compiaccio.” (Is 42,1).
In Gesù converge, allora, non solo la speranza del messia-re, ma anche la figura del messia servo-sofferente presentato da Isaia.
Per concludere si può affermare che Luca scrive il vangelo pensando già al racconto degli Atti e presenta ai suoi lettori un modello per chi sta per ricevere il battesimo: Gesù stesso che in preghiera si prepara a questo avvenimento. In definitiva Luca ci presenta un racconto su Gesù in cui riporta un evento storico, ma è preoccupato soprattutto di dirci qualcosa sulla sua identità profonda e la sua missione e di ricordare ai suoi lettori che il battesimo fu un momento molto importante nella vita del Cristo.

*****

“Oggi, al termine del Tempo liturgico del Natale, celebriamo la festa del Battesimo del Signore. La liturgia ci chiama a conoscere più pienamente Gesù del quale, da poco, abbiamo celebrato la nascita; e per questo il Vangelo illustra due elementi importanti: il rapporto di Gesù con la gente e il rapporto di Gesù con il Padre.
Nel racconto del battesimo, conferito da Giovanni il Battista a Gesù nelle acque del Giordano, vediamo anzitutto il ruolo del popolo. Gesù è in mezzo al popolo. Esso non è solamente uno sfondo della scena, ma è una componente essenziale dell’evento. Prima di immergersi nell’acqua, Gesù si “immerge” nella folla, si unisce ad essa assumendo pienamente la condizione umana, condividendo tutto, eccetto il peccato. Nella sua santità divina, piena di grazia e di misericordia, il Figlio di Dio si è fatto carne proprio per prendere su di sé e togliere il peccato del mondo: prendere le nostre miserie, la nostra condizione umana. Perciò anche quella di oggi è una epifania, perché andando a farsi battezzare da Giovanni, in mezzo alla gente penitente del suo popolo, Gesù manifesta la logica e il senso della sua missione.
Unendosi al popolo che chiede a Giovanni il Battesimo di conversione, Gesù ne condivide anche il desiderio profondo di rinnovamento interiore. E lo Spirito Santo che discende sopra di Lui «in forma corporea, come una colomba» è il segno che con Gesù inizia un mondo nuovo, una “nuova creazione” di cui fanno parte tutti coloro che accolgono Cristo nella loro vita. Anche a ciascuno di noi, che siamo rinati con Cristo nel Battesimo, sono rivolte le parole del Padre: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento». Questo amore del Padre, che abbiamo ricevuto tutti noi nel giorno del nostro Battesimo, è una fiamma che è stata accesa nel nostro cuore, e richiede di essere alimentata mediante la preghiera e la carità.
Il secondo elemento sottolineato dall’evangelista Luca è che, dopo l’immersione nel popolo e nelle acque del Giordano, Gesù si “immerge” nella preghiera, cioè nella comunione col Padre. Il battesimo è l’inizio della vita pubblica di Gesù, della sua missione nel mondo come inviato del Padre per manifestare la sua bontà e il suo amore per gli uomini. Tale missione è compiuta in costante e perfetta unione con il Padre e con lo Spirito Santo. Anche la missione della Chiesa e quella di ognuno di noi, per essere fedele e fruttuosa, è chiamata ad “innestarsi” su quella di Gesù. Si tratta di rigenerare continuamente nella preghiera l’evangelizzazione e l’apostolato, per rendere una chiara testimonianza cristiana non secondo i progetti umani, ma secondo il piano e lo stile di Dio.
Cari fratelli e sorelle, la festa del Battesimo del Signore è una occasione propizia per rinnovare con gratitudine e convinzione le promesse del nostro Battesimo, impegnandoci a vivere quotidianamente in coerenza con esso.
È molto importante anche, come vi ho detto svariate volte, conoscere la data del nostro Battesimo. Io potrei domandare: “Chi di voi conosce la data del suo Battesimo?”. Non tutti, di sicuro. Se qualcuno di voi non la conosce, tornando a casa, la chieda ai propri genitori, ai nonni, agli zii, i padrini, agli amici di famiglia… Chieda: “In quale data sono stato battezzato, sono stata battezzata?”. E poi non dimenticarla: che sia una data custodita nel cuore per festeggiarla ogni anno.
Gesù, che ci ha salvati non per i nostri meriti ma per attuare la bontà immensa del Padre, ci renda misericordiosi verso tutti. La Vergine Maria, Madre di Misericordia, sia la nostra guida e il nostro modello.”
Papa Francesco Angelus del 13 gennaio 2019

Pubblicato in Liturgia

Questa domenica, la prima che viene tra il Natale e il primo dell'anno, la Chiesa ci invita a celebrare la festa della santa Famiglia di Nazareth, costituita da Giuseppe, Maria e Gesù: padre, madre e figlio. Questa non è una semplice festa di devozione, ma un “mistero della vita di Cristo”. Insieme con l’assunzione dell’umanità, infatti è anche assunto in Cristo tutto ciò che è umano e, in particolare, la famiglia, quale prima dimensione della sua esistenza terrena, appunto perché parte integrante del mistero dell’Incarnazione, diventa essa stessa, mistero, ossia fondamenta, e realtà umana assunta per essere purificata e santificata
Nella prima lettura, tratta dal primo libro di Samuele - Anna, che nella sua sterilità ha ricevuto in dono un figlio, Samuele, dopo due anni dalla nascita, adempie al suo voto conducendo il bambino al tempio, restituendolo così a Dio.
Nella seconda lettura, l’apostolo Giovanni nella sua prima lettera ci dice che in Gesù Cristo siamo figli di Dio. Nella misura in cui crediamo e ci amiamo reciprocamente, Dio ci dà il Suo Spirito, in forza del quale diventiamo Suoi figli.
Nel Vangelo, Luca descrive un momento di religiosità vissuto dalla santa Famiglia. L’episodio dello smarrimento e del ritrovamento di Gesù al Tempio è causa di preoccupazione e di angoscia per Maria e Giuseppe, i quali non comprendono né il comportamento né le parole di Gesù e la sua determinazione nel fare la volontà del Padre.

Dal primo libro di Samuele
Al finir dell’anno Anna concepì e partorì un figlio e lo chiamò Samuele, «perché – diceva – al Signore l’ho richiesto». Quando poi Elkanà andò con tutta la famiglia a offrire il sacrificio di ogni anno al Signore e a soddisfare il suo voto, Anna non andò, perché disse al marito: «Non verrò, finché il bambino non sia svezzato e io possa condurlo a vedere il volto del Signore; poi resterà là per sempre».
Dopo averlo svezzato, lo portò con sé, con un giovenco di tre anni, un’efa di farina e un otre di vino, e lo introdusse nel tempio del Signore a Silo: era ancora un fanciullo. Immolato il giovenco, presentarono il fanciullo a Eli e lei disse: «Perdona, mio signore. Per la tua vita, mio signore, io sono quella donna che era stata qui presso di te a pregare il Signore. Per questo fanciullo ho pregato e il Signore mi ha concesso la grazia che gli ho richiesto. Anch’io lascio che il Signore lo richieda: per tutti i giorni della sua vita egli è richiesto per il Signore». E si prostrarono là davanti al Signore.
1 Sam 1,20-22.24-28

Il Libro di Samuele, diviso in due parti solo parchè era troppo lungo (31 capitoli il primo e 24 capitoli il secondo) nella traduzione greca detta dei settanta (LXX) furono uniti ai due libri dei Re, tutti e quattro furono chiamati “libri dei Regni”.
Questi due libri prendono il nome da Samuele, ultimo giudice d’Israele, che visse attorno all’anno 1000 a.C. Fu lui che, come profeta di Dio, conferì l’unzione regale a Saul e, dopo di lui, a Davide. Samuele segna, dunque, il passaggio dalla fine del periodo dei giudici all'istituzione della monarchia.
Sono stati scritti in ebraico e secondo molti studiosi, la loro redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte.
Sia i libri di Samuele che quelli dei Re hanno come unico progetto, quello di tratteggiare la vicenda storica di Israele dalla fine dell'epoca dei Giudici fino alla fine della monarchia con l'invasione babilonese di Nabucodonosor: un arco di tempo che comprende ben sei secoli.
Il primo libro, da cui questo brano viene tratto, descrive l'abbandono dell'ordinamento giuridico dei Giudici, con cui spesso le tribù si governavano in modo indipendente l'una dall'altra, e la storia di due personaggi: il profeta Samuele e Saul, il primo re d’Israele ma anche l’ingresso nella narrazione di quello che sarà il re più importante del Regno a cui è dedicato tutto il secondo libro di Samuele: Davide.
In questo brano, nella prima parte troviamo il racconto della nascita di Samuele.
Anna, dopo tante preghiere e sofferenze “concepì e partorì un figlio e lo chiamò Samuele, che significa “il nome di Dio”, ma secondo il significato dato da Anna ”al Signore l’ho richiesto.“ Il racconto continua riportando che Elkanà, sposo di Anna, “andò con tutta la famiglia a offrire il sacrificio di ogni anno al Signore e a soddisfare il suo voto, ma Anna non andò, perché disse al marito: «Non verrò, finché il bambino non sia svezzato e io possa condurlo a vedere il volto del Signore; poi resterà là per sempre».
Nella seconda parte è evidenziato l’atteggiamento di Anna che, dopo aver nutrito e cresciuto il figlio per circa due anni, fedele alla promessa fatta al Signore, lo riporta al tempio. Il Signore le ha donato un figlio ed ella sente ora il bisogno di restituirglielo. Offre un sacrificio e poi incontra Eli e si presenta a lui dicendo: “io sono quella donna che era stata qui presso di te a pregare il Signore. Per questo fanciullo ho pregato e il Signore mi ha concesso la grazia che gli ho richiesto. Anch’io lascio che il Signore lo richieda: per tutti i giorni della sua vita egli è richiesto per il Signore”. L’espressione finale “egli è richiesto per il Signore” anticipa il cantico di Anna, (versetti non riportati dalla liturgia) che sono la sinesi i del comportamento paradossale di Dio nella storia della salvezza e straordinaria anticipazione del Magnificat pronunciato da Maria .

Salmo 83 - Beato chi abita nella tua casa, Signore
Quanto sono amabili le tue dimore,
Signore degli eserciti!
L’anima mia anela e desidera gli atri del Signore
Il mio cuore e la mia carne
esultano nel Dio vivente.

Beato chi abita nella tua casa;
senza fine canta le tue lodi
Beato l’uomo che trova in te il suo rifugio
E ha le tue vie nel suo cuore

Signore, Dio degli eserciti, ascolta la mia preghiera
Porgi l’orecchio, Dio di Giacobbe.
Guarda, o Dio, colui che è il nostro scudo
Guarda il volto del tuo consacrato

Il salmo è una celebrazione del pellegrinaggio al tempio di Gerusalemme. Il riferimento alla “prima pioggia” pone il pellegrinaggio in occasione della feste delle Capanne, che si svolgeva in autunno; le prime piogge toglievano l'aridità dell'estate e rilanciavano il verde anche nelle zone desertiche.
Il salmo è stato scritto in tempo di pace, prima delle invasioni Assire e Babilonesi, ma già in Israele vi sono “tende dei malvagi”, che al culto a Jahvéh uniscono quello agli idoli.
La scelta del salmista per gli “atri del Signore” è decisa, piena di frutti di pace e di letizia del cuore.
Egli guarda al tempio di Gerusalemme come luogo di refrigerio spirituale, come centro di irradiazione di pace. Egli nota che sotto i portici dei cortili le rondini fanno i loro nidi, rendendo delicatamente inserito nel creato il tempio; e la cosa è anche presso gli altri santuari di Dio nel paese.
Il pellegrino, dice il salmista, è beato quando “trova in te il suo rifugio e ha le tue vie nel suo cuore".
Il pellegrino passava per “la valle del pianto” (Gdc 2,5), che ricordava tristi calamità, ma che veniva trasformata dalla presenza orante dei pellegrini in “una sorgente”, cioè in un luogo di letizia; ne seguiva, regolare, la pioggia d'autunno. Tutto questo era segno della benevolenza di Dio.
Il salmista chiede a Dio di guardare “il volto del suo consacrato”, cioè di dare benedizioni al re, figura del futuro Re-Messia.
“Sole e scudo è Il Signore Dio” dice il salmista, poiché egli è fonte di vita ed è difesa del suo popolo. “Grazia e gloria” concede il Signore, cioè forza per rifiutare il male e perseguire il bene, e buon nome a chi gli è fedele, in attesa del premio perfetto ed eterno in cielo.
Commento tratto da “Perfetta Letizia”

Dalla prima lettera di S.Giovanni apostolo
Carissimi, Vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui. Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è.
Carissimi, se il nostro cuore non ci rimprovera nulla, abbiamo fiducia in Dio, qualunque cosa chiediamo, la riceviamo da lui, perché osserviamo i suoi comandamenti e facciamo quello che gli è gradito. Questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri, secondo il precetto che ci ha dato. Chi osserva i suoi comandamenti rimane in Dio e Dio in lui. In questo conosciamo che egli rimane in noi: dallo Spirito che ci ha dato.
1Gv 3,1-2.21-24

La Prima lettera di S. Giovanni è una lettera tradizionalmente attribuita a Giovanni apostolo ed evangelista ed inclusa tra i libri del Nuovo Testamento (la quarta delle cosiddette “lettere cattoliche”). La lettera nella sua redazione finale dovrebbe essere stata scritta verso la fine del I secolo, probabilmente ad Efeso.I destinatari della lettera sono pagani delle comunità dell‘Asia Minore che si sono convertiti al Cristianesimo. Lo scopo che Giovanni si prefigge è quello di richiamare le comunità cristiane all’amore fraterno e di metterle in guardia verso i falsi maestri gnostici ed eretici, che negavano l’incarnazione di Gesù Cristo.
La comunione con Dio e con Suo Figlio, che si realizza con la verità, l'obbedienza, la purezza, la fede e l'amore, è al centro della dottrina della prima lettera.
In questo capitolo da dove è stato tratto il brano liturgico, Giovanni esorta a vivere sin d’ora come figli ed inizia con questo invito:
“Carissimi,Vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui.”
Nel momento della prova chi ha aderito a Cristo è stato il destinatario di un amore grandissimo. Siamo figli di Dio e se questa espressione così forte per noi nel XXI secolo ha perso forse un po' di significato, resta sempre di vitale importanza e di sostegno nei momenti della prova, che non mancano per nessuno. Dio ci ha dato un grande dono, oltre al suo amore che non conosce limiti, ci ha dato anche il dono della libertà di accettare o rifiutare il suo amore. Questo è il paradosso dell'amore di Dio, che lascia libere le persone di riconoscerlo come il Signore del mondo e della vita.
“Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è.”
In questo passo si percepisce una certa tensione tra l'oggi e il futuro dei figli di Dio. Adesso è una situazione un po' nascosta. Non si sa bene come saremo quando Cristo si manifesterà nella gloria. Una cosa sappiamo: saremo simili a Lui, ricolmi di gloria e di felicità perché lo vedremo faccia a faccia. Questa anticipazione della gloria futura ci può bastare. Il desiderio dei credenti è quello di vedere il Signore. La sua gloria e la sua bellezza ci investirà completamente e noi parteciperemo di questa sua gloria.
Il brano non riporta i versetti in cui Giovanni presenta due condizione la prima di rompere con il peccato e la seconda di osservare i comandamenti, soprattutto quello della carità e cos i prosegue:
“Carissimi, se il nostro cuore non ci rimprovera nulla, abbiamo fiducia in Dio”
Quindi il cuore non può rimproverarci nulla se abbiamo amore verso gli altri. Questo ci libera dagli scrupoli e rafforza la fiducia in Dio. Siamo in comunione con Lui!
“qualunque cosa chiediamo, la riceviamo da lui, perché osserviamo i suoi comandamenti e facciamo quello che gli è gradito.
Se siamo in comunione con Dio, vivendo della sua stessa capacità di amore, possiamo chiedere qualsiasi cosa. Come i figli obbedienti siamo a Lui graditi perché compiamo la Sua volontà. Egli ci viene incontro nelle nostre richieste.
“Questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri, secondo il precetto che ci ha dato”.
Questi sono i suoi comandamenti. Il primo e più importante è quello di avere fede, di credere nel nome del suo Figlio. Sappiamo che nella mentalità orientale il nome è tutta quanta la persona, la sua forza, la sua vera natura. Credere nel nome è credere nella persona stessa. In quale nome dobbiamo credere? In quello del Figlio Gesù. L'altro comandamento è quello di amarci gli uni gli altri. Questo è uno dei motivi più importanti degli scritti di Giovanni.
“Chi osserva i suoi comandamenti rimane in Dio e Dio in lui. In questo conosciamo che egli rimane in noi: dallo Spirito che ci ha dato”.
Se si osservano questi comandamenti si rimane in comunione con Dio. C'è un'unità di intenti che ci aiuta a restare dentro questa comunione di amore. E' una comunione che si manifesta in una reciprocità: noi rimaniamo in Lui, Lui rimane in noi. In questa comunione reciproca c'è anche lo Spirito che ci permette di vivere e operare secondo la volontà di Dio.

Dal Vangelo secondo Luca
I genitori di Gesù si recavano ogni anno a Gerusalemme per la festa di Pasqua. Quando egli ebbe dodici anni, vi salirono secondo la consuetudine della festa. Ma, trascorsi i giorni, mentre riprendevano la via del ritorno, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero. Credendo che egli fosse nella comitiva, fecero una giornata di viaggio e poi si misero a cercarlo tra i parenti e i conoscenti; non avendolo trovato, tornarono in cerca di lui a Gerusalemme.
Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai maestri, mentre li ascoltava e li interrogava. E tutti quelli che l’udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte.
Al vederlo restarono stupiti, e sua madre gli disse: «Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo».
Ed egli rispose loro:
«Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?».
Ma essi non compresero ciò che aveva detto loro. Scese dunque con loro e venne a Nazareth e stava loro sottomesso. Sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore. E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini. e la grazia di Dio era su di lui.
Lc 2,41-52

Questo brano dell’evangelista Luca, che riporta l’unico episodio della vita di Gesù, tra la nascita e l’inizio della vita pubblica, si apre con una introduzione nella quale leggiamo che
“i genitori di Gesù si recavano tutti gli anni a Gerusalemme per la festa di Pasqua”.
Tre volte all'anno c'erano celebrazioni che richiamavano a Gerusalemme i pellegrini, secondo il comando del Signore riportato nel libro dell’Esodo: “Tre volte all’anno farai festa in mio onore: Osserverai la festa degli azzimi: mangerai azzimi durante sette giorni, come ti ho ordinato, nella ricorrenza del mese di Abib, perché in esso sei uscito dall’Egitto. Non si dovrà comparire davanti a me a mani vuote. Osserverai la festa della mietitura, delle primizie dei tuoi lavori, di ciò che semini nel campo; la festa del raccolto, al termine dell’anno, quando raccoglierai il frutto dei tuoi lavori nei campi. Tre volte all’anno ogni tuo maschio comparirà alla presenza del Signore Dio. (Es 23,14-17). La Santa Famiglia di Nazareth fece più di quanto esigeva la legge perchè anche Maria partecipa a questo pellegrinaggio, sebbene non fosse obbligatorio per le donne. Gesù viene dunque condotto a Gerusalemme affinché si abitui a osservare la Legge.
“Quando egli ebbe dodici anni, vi salirono secondo la consuetudine della festa. ” A dodici anni, Gesù ha l’età per partecipare alla cerimonia che si chiama Bar Mitzvah( (figlio del comandamento) che è la cerimonia della maturità religiosa; da quel momento il ragazzo, diventato religiosamente maggiorenne, può leggere la Parola di Dio nella sinagoga, solennemente, nelle riunioni della comunità di Israele.
“Ma, trascorsi i giorni, mentre riprendevano la via del ritorno, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero”. La festa pasquale durava sette giorni. La partenza avveniva solo dopo il secondo giorno festivo. Si viaggiava suddivisi in gruppi di parenti e conoscenti, e Gesù sottraendosi all'attenzione premurosa di Maria e Giuseppe si ferma nel tempio, nella casa di suo Padre.
“Credendo che egli fosse nella comitiva, fecero una giornata di viaggio e poi si misero a cercarlo tra i parenti e i conoscenti, non avendolo trovato, tornarono in cerca di lui a Gerusalemme. . Giuseppe e Maria non possono non pensare che Gesù sia nella comitiva. Per Maria questo episodio rappresenta il primo distacco da suo figlio, un distacco in cui pian piano il Bambino appare come colui che non appartiene a lei, alla madre, ma a Dio per compiere la sua missione nel mondo.
“Dopo tre giorni “Si può notare che Luca usa spesso l’espressione “tre giorni” o “terzo giorno” in relazione alla morte e resurrezione di Gesù. Poiché l’episodio di “Gesù tra i dottori” è ricco di riferimenti alla vita adulta di Gesù, è possibile intravedere nei tre giorni di ricerca di Gesù da parte di Maria e Giuseppe un riferimento alla scomparsa di Gesù per tre giorni nella morte e al suo ritrovamento nella risurrezione.
“ lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai maestri, mentre li ascoltava e li interrogava” Facendoci vedere Gesù giovinetto che sta seduto nel tempio ad insegnare, Luca anticipa il punto d’arrivo della missione di Gesù e il punto di partenza della missione della Chiesa. Gesù è trovato seduto in mezzo ai maestri, mentre li ascoltava e li interrogava. Gesù è un fanciullo sapiente e intelligente riguardo alle Sacre Scritture; in lui è nascosta e presente la volontà di Dio.
“E tutti quelli che l’udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte”. Il dialogo con i dottori del tempio, rappresenta il legame di continuità tra l’Antico e il Nuovo Testamento, e nello stesso tempo, però, lo stupore dei maestri di Gerusalemme “per la sua intelligenza e le sue risposte” mostra la superiorità della parola di Gesù e la sua conoscenza profonda della legge su quanto conosciuto dai maestri del tempio.
“Al vederlo restarono stupiti, e sua madre gli disse: «Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo».”Le parole di Maria sono l'espressione spontanea del dolore e dell'angoscia di una madre per quelle lunghe ore di affannosa ricerca. Maria da vera madre parla a Gesù come se fosse un bambino anche se è già un ragazzo. Comincia ad comporsi il mistero che circonda Gesù, di una coscienza che supera quella di ogni altro uomo.
“Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?”.
La prima parola che i vangeli riportano sulla bocca di Gesù è una parola che prova una profonda coscienza di sé. Gesù ha la coscienza di essere Figlio di Dio secondo la Scrittura, come è scritto nel Libro della Sapienza : “Proclama di possedere la conoscenza di Dio e si dichiara figlio del Signore” (Sap 2,13).
Gesù chiama Dio “Padre”, e in questo: “Padre mio”sembra incominciare a formarsi una forza di attrazione più grande che non la famiglia della casa di Nazareth, i suoi genitori.
“Ma essi non compresero ciò che aveva detto loro”. Maria e Giuseppe non compresero le parole del figlio. Maria è cresciuta nella conoscenza del Figlio, per mezzo dell'angelo, dei profeti e della Sacra Scrittura. Ma qui, nonostante tutto rimane per lei un enigma. Per Maria e Giuseppe, non comprendere l’agire del loro figlio equivale a non comprendere per noi l’agire di Dio.
Maria e Giuseppe sono per noi un modello perché si sono rimasti fedeli alla loro vocazione anche quando non comprendono.
“Scese dunque con loro e venne a Nazareth e stava loro sottomesso” Gesù ritorna a Nazareth e sta sottomesso i genitori; questi non sanno quale sia la missione di quel bambino; lui la conosce, sa quello che loro non sanno, però si sottomette a loro. Ma si sottomette a loro con una missione nuova e grande, quella missione che lo pone in un rapporto unico ed esclusivo con Dio.
“Sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore”. Maria capisce ora che anche per lei deve iniziare quel faticoso itinerario di fede che le farà scoprire il mistero del suo Figlio e che le farà perdere sempre più il Figlio come possesso per averlo come dono salvifico di Dio ai piedi della croce. Maria inizia a comprendere che il suo distacco dal Figlio non è segno di lontananza ma di vicinanza perché con la fede ella entra sempre più nel progetto di salvezza che il Cristo, suo Figlio sta attuando. Maria ha custodito e amato “queste cose” nel suo cuore e pian piano dentro di lei le hanno rivelato il disegno di Dio: il loro pieno e vero significato.
“Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini. e la grazia di Dio era su di lui”.
L'evangelista Luca usa per Gesù l'esperienza del giovane Samuele: “andava crescendo in statura e in bontà davanti al Signore e agli uomini.” (1Sam 2,26). Gesù però deve attendere che giunga la sua ora, l'ora in cui la crescita sarà compiuta; allora si presenterà come il profeta che supera tutti i profeti per la sapienza della Sua conoscenza di Dio.
Per concludere possiamo dire che l’atteggiamento di Maria esprime lo sviluppo della fede di chi vuole crescere e progredire per poter comprendere il mistero che circonda la vita di ogni essere umano.
Gesù rivela che l’obbedienza a Dio è la condizione essenziale per realizzarsi nella vita, per un cammino di condivisione nella famiglia e nelle comunità. L’obbedienza al Padre è ciò che ci rende fratelli e sorelle, c’insegna a obbedirci l’un l’altro, ad ascoltarci l’un l’altro e a riconoscere l’uno nell’altro il progetto di Dio. In questo clima si creano le condizioni per crescere “in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini” e camminare insieme..
Al vederlo restarono stupiti, e sua madre gli disse: «Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo».”Le parole di Maria sono l'espressione spontanea del dolore e dell'angoscia di una madre per quelle lunghe ore di affannosa ricerca. Maria da vera madre parla a Gesù come se fosse un bambino anche se è già un ragazzo. Comincia ad comporsi il mistero che circonda Gesù, di una coscienza che supera quella di ogni altro uomo.
“Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?”.
La prima parola che i vangeli riportano sulla bocca di Gesù è una parola che prova una profonda coscienza di sé. Gesù ha la coscienza di essere Figlio di Dio secondo la Scrittura, come è scritto nel Libro della Sapienza : “Proclama di possedere la conoscenza di Dio e si dichiara figlio del Signore” (Sap 2,13).
Gesù chiama Dio “Padre”, e in questo: “Padre mio”sembra incominciare a formarsi una forza di attrazione più grande che non la famiglia della casa di Nazareth, i suoi genitori.
“Ma essi non compresero ciò che aveva detto loro”. Maria e Giuseppe non compresero le parole del figlio. Maria è cresciuta nella conoscenza del Figlio, per mezzo dell'angelo, dei profeti e della Sacra Scrittura. Ma qui, nonostante tutto rimane per lei un enigma. Per Maria e Giuseppe, non comprendere l’agire del loro figlio equivale a non comprendere per noi l’agire di Dio.
Maria e Giuseppe sono per noi un modello perché si sono rimasti fedeli alla loro vocazione anche quando non comprendono.
“Scese dunque con loro e venne a Nazareth e stava loro sottomesso” Gesù ritorna a Nazareth e sta sottomesso i genitori; questi non sanno quale sia la missione di quel bambino; lui la conosce, sa quello che loro non sanno, però si sottomette a loro. Ma si sottomette a loro con una missione nuova e grande, quella missione che lo pone in un rapporto unico ed esclusivo con Dio.
“Sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore”. Maria capisce ora che anche per lei deve iniziare quel faticoso itinerario di fede che le farà scoprire il mistero del suo Figlio e che le farà perdere sempre più il Figlio come possesso per averlo come dono salvifico di Dio ai piedi della croce. Maria inizia a comprendere che il suo distacco dal Figlio non è segno di lontananza ma di vicinanza perché con la fede ella entra sempre più nel progetto di salvezza che il Cristo, suo Figlio sta attuando. Maria ha custodito e amato “queste cose” nel suo cuore e pian piano dentro di lei le hanno rivelato il disegno di Dio: il loro pieno e vero significato.
“Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini. e la grazia di Dio era su di lui”.
L'evangelista Luca usa per Gesù l'esperienza del giovane Samuele: “andava crescendo in statura e in bontà davanti al Signore e agli uomini.” (1Sam 2,26). Gesù però deve attendere che giunga la sua ora, l'ora in cui la crescita sarà compiuta; allora si presenterà come il profeta che supera tutti i profeti per la sapienza della Sua conoscenza di Dio.
Per concludere possiamo dire che l’atteggiamento di Maria esprime lo sviluppo della fede di chi vuole crescere e progredire per poter comprendere il mistero che circonda la vita di ogni essere umano.
Gesù rivela che l’obbedienza a Dio è la condizione essenziale per realizzarsi nella vita, per un cammino di condivisione nella famiglia e nelle comunità. L’obbedienza al Padre è ciò che ci rende fratelli e sorelle, c’insegna a obbedirci l’un l’altro, ad ascoltarci l’un l’altro e a riconoscere l’uno nell’altro il progetto di Dio. In questo clima si creano le condizioni per crescere “in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini” e camminare insieme..

*****

Le parole di Papa Francesco

Oggi celebriamo la festa della Santa Famiglia e la liturgia ci invita a riflettere sull’esperienza di Maria, Giuseppe e Gesù, uniti da un amore immenso e animati da grande fiducia in Dio. L’odierno brano evangelico racconta il viaggio della famiglia di Nazareth verso Gerusalemme, per la festa di Pasqua. Ma, nel viaggio di ritorno, i genitori si accorgono che il figlio dodicenne non è nella carovana. Dopo tre giorni di ricerca e di timore, lo trovano nel tempio, seduto tra i dottori, intento a discutere con essi. Alla vista del Figlio, Maria e Giuseppe «restarono stupiti» e la Madre gli manifestò la loro apprensione dicendo: «Tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo» .
Lo stupore – loro «restarono stupiti» – e l’angoscia – «tuo padre e io, angosciati» – sono i due elementi sui quali vorrei richiamare la vostra attenzione: stupore e angoscia.
Nella famiglia di Nazareth non è mai venuto meno lo stupore, neanche in un momento drammatico come lo smarrimento di Gesù: è la capacità di stupirsi di fronte alla graduale manifestazione del Figlio di Dio. È lo stesso stupore che colpisce anche i dottori del tempio, ammirati «per la sua intelligenza e le sue risposte». Ma cos’è lo stupore, cos’è stupirsi? Stupirsi e meravigliarsi è il contrario del dare tutto per scontato, è il contrario dell’interpretare la realtà che ci circonda e gli avvenimenti della storia solo secondo i nostri criteri. E una persona che fa questo non sa cosa sia la meraviglia, cosa sia lo stupore. Stupirsi è aprirsi agli altri, comprendere le ragioni degli altri: questo atteggiamento è importante per sanare i rapporti compromessi tra le persone, ed è indispensabile anche per guarire le ferite aperte nell’ambito familiare.
Quando ci sono dei problemi nelle famiglie, diamo per scontato che noi abbiamo ragione e chiudiamo la porta agli altri. Invece, bisogna pensare: “Ma che cos’ha di buono questa persona?”, e meravigliarsi per questo “buono”. E questo aiuta l’unità della famiglia. Se voi avete problemi nella famiglia, pensate alle cose buone che ha il famigliare con cui avete dei problemi, e meravigliatevi di questo. E questo aiuterà a guarire le ferite familiari.
Il secondo elemento che vorrei cogliere dal Vangelo è l’angoscia che sperimentarono Maria e Giuseppe quando non riuscivano a trovare Gesù. Questa angoscia manifesta la centralità di Gesù nella Santa Famiglia. La Vergine e il suo sposo avevano accolto quel Figlio, lo custodivano e lo vedevano crescere in età, sapienza e grazia in mezzo a loro, ma soprattutto Egli cresceva dentro il loro cuore; e, a poco a poco, aumentavano il loro affetto e la loro comprensione nei suoi confronti. Ecco perché la famiglia di Nazareth è santa: perché era centrata su Gesù, a Lui erano rivolte tutte le attenzioni e le sollecitudini di Maria e di Giuseppe.
Quell’angoscia che essi provarono nei tre giorni dello smarrimento di Gesù, dovrebbe essere anche la nostra angoscia quando siamo lontani da Lui, quando siamo lontani da Gesù. Dovremmo provare angoscia quando per più di tre giorni ci dimentichiamo di Gesù, senza pregare, senza leggere il Vangelo, senza sentire il bisogno della sua presenza e della sua consolante amicizia. E tante volte passano i giorni senza che io ricordi Gesù. Ma questo è brutto, questo è molto brutto.
Dovremmo sentire angoscia quando succedono queste cose. Maria e Giuseppe lo cercarono e lo trovarono nel tempio mentre insegnava: anche noi, è soprattutto nella casa di Dio che possiamo incontrare il divino Maestro e accogliere il suo messaggio di salvezza. Nella celebrazione eucaristica facciamo esperienza viva di Cristo; Egli ci parla, ci offre la sua Parola, ci illumina, illumina il nostro cammino, ci dona il suo Corpo nell’Eucaristia da cui attingiamo vigore per affrontare le difficoltà di ogni giorno.
E oggi torniamo a casa con queste due parole: stupore e angoscia. Io so avere stupore, quando vedo le cose buone degli altri, e così risolvere i problemi familiari? Io sento angoscia quando mi sono allontanato da Gesù?
Preghiamo per tutte le famiglie del mondo, specialmente quelle in cui, per vari motivi, mancano la pace e l’armonia. E le affidiamo alla protezione della Santa Famiglia di Nazareth.
Papa Francesco
Parte dell’Angelus del 30 dicembre 2018

*****
Gesù, Maria e Giuseppe

A voi, Santa Famiglia di Nazareth,
oggi, volgiamo lo sguardo con ammirazione e confidenza;
in voi contempliamola bellezza della comunione nell'amore vero;
a voi raccomandiamo tutte le nostre famiglie,
perché si rinnovino in esse le meraviglie della grazia.
Santa Famiglia di Nazareth,scuola attraente del santo Vangelo:
insegnaci a imitare le tue virtù con una saggia disciplina spirituale,
donaci lo sguardo limpido che sa riconoscere l'opera della Provvidenza
nelle realtà quotidiane della vita.
Santa Famiglia di Nazareth, custode fedele del mistero della salvezza:
fa' rinascere in noi la stima del silenzio,
rendi le nostre famiglie cenacoli di preghiera e trasformale
in piccole Chiese domestiche,
rinnova il desiderio della santità, sostieni la nobile fatica del lavoro, dell'educazione,
dell'ascolto, della reciproca comprensione e del perdono.
Santa Famiglia di Nazareth, ridesta nella nostra società la consapevolezza
del carattere sacro e inviolabile della famiglia, bene inestimabile e insostituibile.
Ogni famiglia sia dimora accogliente di bontà e di pace
per i bambini e per gli anziani, per chi è malato e solo,
per chi è povero e bisognoso.
Gesù, Maria e Giuseppe
voi con fiducia preghiamo, a voi con gioia ci affidiamo.

Preghiera di Papa Francesco per il Sinodo sulla Famiglia (27 ottobre 2013)

Pubblicato in Liturgia

Il Natale ormai vicino già illumina questa quarta domenica di Avvento. Infatti al centro delle letture si presentano le due figure fondamentali del grande evento di salvezza, Gesù e Maria.
Nella prima lettura, Michea, il profeta contadino, afferma che una partoriente, a Betlemme, piccolo villaggio di Giuda, sta per dare alla luce un nuovo Davide, re di pace e di gioia, fonte di una rinnovata armonia cosmica. Dio è fedele alle sue promesse.
Nella seconda lettura, l’autore della lettera gli Ebrei, afferma che Gesù Cristo si è offerto al Padre per compiere la Sua volontà: il valore della nostra esistenza, delle nostre preghiere, dei nostri sforzi si trova nel compiere questa volontà.
Nel Vangelo di Luca, si contempla l’incontro di Maria con la cugina Elisabetta. Il loro dialogo è un inno sull’accettazione della vita e del miracolo: è la celebrazione del miracolo della vita e dell’umiltà che aiuta ad individuarlo e difenderlo quotidianamente. L’incarnazione di Cristo è un miracolo, ma anche la nascita di ogni creatura umana è un miracolo, così come è un miracolo della grazia di Dio la rinascita di un’anima.

Dal libro del profeta Michèa
Così dice il Signore:
«E tu, Betlemme di Èfrata,
così piccola per essere fra i villaggi di Giuda,
da te uscirà per me
colui che deve essere il dominatore in Israele;
le sue origini sono dall’antichità,
dai giorni più remoti.
Perciò Dio li metterà in potere altrui
fino a quando partorirà colei che deve partorire;
e il resto dei tuoi fratelli ritornerà ai figli d’Israele.
Egli si leverà e pascerà con la forza del Signore,
con la maestà del nome del Signore, suo Dio.
Abiteranno sicuri, perché egli allora sarà grande
fino agli estremi confini della terra.
Egli stesso sarà la pace!».
Mic 5,1-4°

Il profeta Michea era originario di Moroset, un piccolo villaggio a circa 35 km a sudovest da Gerusalemme. Visse nell’VIII secolo a.C., quasi duecento anni dopo la scissione fra le dieci tribù del nord, guidate da Geroboamo, e le due del sud, rimaste fedeli alla casa del re Davide.
Mentre il regno di Giuda, a vicende alterne, continuava a servire il Signore nel tempio di Gerusalemme, il regno del Nord, con capitale Samaria, era invece diventato un centro di sacerdoti idolatri e di pratiche pagane. Michea svolse la sua attività di profeta durante i regni di Iotam, Acaz ed Ezechia tra il 727 a.C. ed il 690 a.C., cioè prima e dopo la presa di Samaria nel 721 e forse fino all’invasione di Sennàcherib nel 701 a.C., un’epoca che vide "in piena azione" un altro grande profeta, Isaia ed anche Osea. Per la sua origine contadina, Michea, vissuto nell’alone del grande Isaia, è più simile al profeta Amos, di cui divide l’avversione alle grandi città, il linguaggio concreto e talvolta brutale, il gusto delle immagini rapide e dei giochi di parole. Il libro che porta il suo nome, è composto da 7 capitoli e mostra che le parole del profeta sono articolate tra processo a Israele per le sue colpe (1,2-3,12) promesse a Sion (4,1-5,14), nuovo processo a Israele (6,1-7,7) e speranza finale che rimette nelle mani di Dio la salvezza (7,8-20). Michea, non si limita, ad accusare e condannare il peccato del popolo, ma si pone come tenace difensore della giustizia sociale e delle promesse di Dio.
La sicurezza in Dio, che mantiene le Sue promesse, apre gli occhi a un futuro di speranza. Questa speranza certa è legata al “resto” d’Israele che sopravvivrà alle possibili distruzioni umane.
Il messaggio di speranza che il profeta proclama è diretto all’annuncio del Messia, discendente di Davide, che dovrà nascere nella piccola e umile città di Betlemme (è il solo profeta che precisa il luogo della nascita e specifica Betlemme di Efrata in Giuda per distinguerla dall’altra Betlemme esistente ai suoi tempi)
Il brano che abbiamo riporta il celebre passo che è risuonato sette secoli dopo, che Michea le ha pronunciate, all’interno di un lussuoso palazzo di Gerusalemme, davanti ad un re ingiusto e violento, Erode: “E tu, Betlemme di Èfrata, così piccola per essere fra i villaggi di Giuda, da te uscirà per me colui che deve essere il dominatore in Israele”.
Il profeta in questo passo alludeva alla venuta del Messia e ai tempi messianici, in cui il "piccolo resto" d'Israele salvato da stragi e calamità dalla mano potente di Dio, tornerà là dove deve nascere l'Atteso delle genti: il Salvatore, e ciò avverrà quando “partorirà colei che deve partorire”
L’attenzione va posta innanzitutto su Betlemme (= città del pane) che il profeta riconosce tanto piccola, pur essendo tra i capoluoghi di Giuda. In questi versetti si può notare anche tratti di politica vera e propria. Il messia viene annunciato come nuovo dominatore in Israele, in opposizione ai capi politici e religiosi che a Gerusalemme si dimostrano incapaci di governare. Per di più, proprio questa città, così piccola e dunque di ben poca importanza, è messa in relazione con una donna: quella da cui dovrà nascere il Signore delle genti, Colui che pascerà con la forza del Signore, con la maestà del nome del Signore, suo Dio.
Questo oracolo ha avuto allora, un sapore nuovo, e soprattutto ai poveri, ai giusti, agli stranieri dal cuore puro come i Magi, ha aperto un orizzonte di luce e di speranza, quell’orizzonte che oggi celebriamo e da cui siamo avvolti.

Salmo 79 - Signore, fa’ splendere il tuo volto e noi saremo salvi.
Tu, pastore d’Israele, ascolta,
seduto sui cherubini, risplendi.
Risveglia la tua potenza
e vieni a salvarci

Dio degli eserciti, ritorna!
Guarda dal cielo e vedi
e visita questa vigna,
proteggi quello che la tua destra ha piantato,
il figlio dell’uomo che per te hai reso forte.

Sia la tua mano sull’uomo della tua destra,
sul figlio dell’uomo che per te hai reso forte.
Da te mai più ci allontaneremo,
facci rivivere e noi invocheremo il tuo nome.

Il salmo venne scritto quando ancora l’arca non era distrutta, il che avvenne con la distruzione di Gerusalemme. Probabilmente è stato scritto dopo la presa di Samaria da parte dell’Assiro Sargon (721), e dopo che Gerusalemme, assediata dall’Assiro Sennacherib dopo la devastazione della Giudea, rimase indenne (701). Questo evento fece risaltare la potenza di Dio nel suo tempio di Gerusalemme, e rese sensibile la Samaria verso Gerusalemme, cosa che permetterà l’azione riformista di Giosia (640-609) anche in territorio Samaritano. Il salmista è un pio Israelita delle tribù del nord (Samaria) che desidera che le tribù di Efraim, Beniamino e Manasse siano benedette da Dio, la cui gloria sta sui cherubini dell’arca, posta nel tempio di Gerusalemme; desidera la fine dello scisma samaritano: “Seduto sui cherubini, risplendi davanti a Efraim, Beniamino e Manasse. Risveglia la tua potenza e vieni a salvarci”.
A Dio, che guida Giuseppe “come un gregge”, il salmista chiede di manifestare nuovamente quella potenza che esercitò quando fece uscire “Giuseppe” dall’Egitto; intendendo per Giuseppe tutto Israele, finito in Egitto proprio a partire da lui (Gn 37,38).
Egli attraverso la bella immagine della vigna rievoca la storia di Israele: “Hai sradicato un vite dall’Egitto…”. Questa vite curata da lui ha esteso i suoi rami fino al Mediterraneo e fino al Libano: “La sua ombra copriva le montagne e i suoi rami i cedri più alti. Ha esteso i suoi tralci fino al mare, arrivavano al fiume i suoi germogli”. “Il fiume”, è l’Eufrate. Esso era lontano dalla Terra Promessa, ma indica fin dove giungeva l’influenza di Israele. …..….
Il salmista riconosce la dinastia di Davide e ha la speranza che il re di Gerusalemme saprà risollevare le sorti di Israele, costui al presente era Ezechia (716-687): “Sia la tua mano sull’uomo della tua destra, sul figlio dell’uomo che per te hai reso forte”, ma nel futuro sarà il Cristo. Quell’uomo reso forte è ora ogni pontefice, ogni vescovo, ogni sacerdote, ogni diacono, ogni fedele, che tutti sono uno, nell’uno che è la Chiesa, corpo mistico di Cristo, e che si adoperano per portare nel mondo la vera pace, cioè Cristo.
Commento tratto da Perfetta Letizia

Dalla lettera agli Ebrei
Fratelli, entrando nel mondo, Cristo dice:
Tu non hai voluto né sacrificio né offerta,
un corpo invece mi hai preparato.
Non hai gradito
né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: «Ecco, io vengo
– poiché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà».
Dopo aver detto: «Tu non hai voluto e non hai gradito né sacrifici né offerte, né olocausti né sacrifici per il peccato», cose che vengono offerte secondo la Legge, soggiunge: «Ecco, io vengo a fare la tua volontà».
Così egli abolisce il primo sacrificio per costituire quello nuovo. Mediante quella volontà siamo stati santificati per mezzo dell’offerta del corpo di Gesù Cristo, una volta per sempre.
Eb 10,5-10

L’autore della Lettera agli Ebrei è rimasto anonimo, anche se nei primi tempi si è pensato a Paolo di Tarzo, ma sia la critica antica che moderna, ha escluso quasi concordemente questa attribuzione.
L’autore è certamente di origine giudaica, perchè conosce perfettamente la Bibbia, ha una fede integra e profonda, una grande cultura, ma tutte le congetture fatte sul suo nome rimangono congetture, si può solo dedurre che nel cristianesimo primitivo ci furono notevoli personalità oltre agli apostoli, anche se rimaste sconosciute.
Quanto ai destinatari – ebrei – è certo che l’autore non si rivolge agli ebrei per invitarli a credere in Cristo, il suo scopo è invece quello di ravviare la fede e il coraggio ai convertiti di antica data, con tutta probabilità di origine giudaica. Infatti per discutere con essi, l’autore cita in continuazione la Scrittura e richiama incessantemente le idee e le realtà più importanti della religione giudaica ..
Questo brano inizia riportando una citazione: “Fratelli, entrando nel mondo, Cristo dice:
Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato”.
Per dare maggiore forza all’affermazione precedente in cui sosteneva che Cristo ha offerto se stesso in sacrificio una volta per sempre, rendendo inutile il sistema dei sacrifici nel Tempio, ora l’autore cita il salmo 40,6-8. Questo salmo è molto adatto a descrivere l'offerta di Cristo e nessun altro brano del Nuovo Testamento lo utilizza. In questo salmo si dice appunto che il Signore non ha gradito sacrificio, cioè l'immolazione di animali, né altre offerte. Invece di accettare questi doni, il Signore ha preparato un corpo per il Cristo.
“Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato”
I profeti si erano spesso scagliati contro un culto solo esteriore, con l'offerta di beni materiali, fatto solo per ottenere il perdono dei peccati. Il sacrificio di Cristo è superiore a tutti i sacrifici e inaugura un nuovo modo di mettersi in relazione con il Signore.
“Allora ho detto: «Ecco, io vengo – poiché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà»”.
Cristo ha risposto dando la sua piena disponibilità a compiere la volontà di Dio. Di Lui è scritto nel rotolo del libro, cioè nei testi profetici, che parlano del Messia.
“Dopo aver detto: «Tu non hai voluto e non hai gradito né sacrifici né offerte, né olocausti né sacrifici per il peccato», cose che vengono offerte secondo la Legge,”
In questi ultimi versetti si sottolinea ciò che è stato prima affermato. Il sacrificio degli animali e altre cose che venivano offerte, perché previste dalla Legge, non sono più gradite a Dio.
“soggiunge: «Ecco, io vengo a fare la tua volontà». Così egli abolisce il primo sacrificio per costituire quello nuovo”.
Cristo viene a fare la volontà di Dio. Questo provoca una svolta fondamentale, vi è una sostituzione nei tipi di sacrificio.
“Mediante quella volontà siamo stati santificati per mezzo dell’offerta del corpo di Gesù Cristo, una volta per sempre”.
La volontà di Dio ci rende santi, attraverso l'offerta del corpo di Gesù Cristo, che è il vero atto sacerdotale: tutta l’esistenza di Gesù, è il grande atto di offerta. Egli togliendo il peccato, ha ristabilito il legame con Dio nella propria persona, nella propria esperienza viva. Ha fondato l’alleanza nuova, il popolo nuovo che può accostarsi a Dio.

Dal Vangelo secondo Luca
In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda.
Entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto».
Lc 1,39-45

Luca in questo brano del suo vangelo riporta la visita di Maria ad Elisabetta e inizia con una indicazione di tempo ed altri segni che legano il concepimento di Giovanni e quello di Gesù.
“In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda. Entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta.”
Luca sottolinea la prontezza di Maria nel rispondere alle esigenze della Parola di Dio. Ella esce di casa, da Nazareth per percorrere le montagne della Giudea facendo più di 100 km, con i mezzi che potevano esserci allora . La fretta di Maria è piena di significato sotto tutti i punti di vista: quando si manifesta negli eventi l’opera di Dio non si può rimanere inerti o pigri. Così fa Abramo quando corre a preparare per i tre ospiti, così fa Zaccheo quando scende dal sicomoro, così fanno i pastori quando si affrettano a Betlemme. Nel caso di Maria, poi, ella sa, per le parole dell’angelo, che la gravidanza insperata di Elisabetta ha qualcosa a che fare con la sua, che il prodigio operato nella sua anziana parente fa parte dello stesso disegno divino in cui lei stessa è coinvolta. È naturale perciò che Maria corra verso la casa di Zaccaria per comprendere meglio il mistero che la riguarda. ”. Maria ed Elisabetta si conoscevano tutte e due. Erano parenti. Ma in questo incontro scoprono, l’una nell’altra, un mistero che non conoscevano ancora e che le riempie di gioia indescrivibile.
“Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo”!
La reazione del bambino precede quella della madre: egli sussultò nel suo grembo. L'evangelista utilizza per indicare la reazione del piccolo Giovanni il verbo greco della versione dei LXX di Gn 25,22-25 relativo ai figli di Rebecca, Esaù e Giacobbe, che si urtavano (così in ebraico) nel suo seno. Un segno di gioia che con lo Spirito santo di cui viene riempita Elisabetta, indica l'arrivo dei tempi messianici.
Il testo ci fa pensare anche che Giovanni ancor prima della nascita è profeta, perchè annuncia la presenza di Gesù (in questo caso alla madre), dimostrandosi suo precursore.
“ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo”
Finito il tempo del nascondimento, ora Elisabetta può gridare l’opera del Signore. Ogni maternità nella Bibbia è una benedizione, ma la maternità di Maria è unica e procura la più grande delle benedizioni. “Benedetta tu fra le donne...”. Per opera dello Spirito Santo Elisabetta comprende non solo che Maria è incinta, ma che il bambino che porta è fonte di benedizione. Maria è benedetta sopra tutte le altre donne a causa della benedizione che proviene dal frutto del suo grembo.
“A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me?”
E’ un onore per Elisabetta ricevere Maria. Tale dichiarazione è sorprendente se si pensa che Elisabetta è più anziana e moglie di un sacerdote, mentre Maria non possiede alcun rango sociale ed è molto più giovane di lei. La frase di Elisabetta trova la sua giustificazione nel fatto che riconosce in Maria la madre del Messia.
Il titolo di Signore, che Elisabetta usa per indicare il bambino che Maria ha in seno, è uno dei principali titoli messianici attribuiti a Gesù nel Nuovo Testamento,
“ Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo.”
Letteralmente la traduzione è “ha saltellato” di gioia. Nella Bibbia si parla più di danza che di sussulto. In questo versetto abbiamo una specie di danza che Giovanni Battista compie nel seno di sua madre. Sua madre l’ha interpretata così, l’ha sentita come una danza, come un movimento gioioso. Giovanni sta vivendo il primo incontro con Gesù e gli rende testimonianza.
“E beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto”.
Sono le parole di lode di Elisabetta che esaltano Maria a concludere questo brano. Maria è diventata la madre di Gesù perché ha obbedito alla parola di Dio. E quando una donna del popolo, rivolgendosi a Gesù, la proclamerà beata: "Beato il grembo che ti ha portato e il seno da cui hai preso il latte!", Gesù completerà l'espressione di lode, dicendo: "Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!" (Lc 11,27-28).
La prima beatitudine del vangelo di Luca è l'esaltazione della fede di Maria. La fede è la virtù che ha accompagnato Maria nel suo cammino e l'ha radicata profondamente nel progetto di salvezza di Dio.
Maria è beata non perché ha generato fisicamente il Cristo, come intendeva la donna della folla, ma, come ha replicato Gesù, è beata perché è la credente che ha ascoltato la Parola di Dio e l’ha messa in pratica.
Per questo Maria è figura dei credenti, dei cristiani, che sono beati perché credono alla parola di Dio che hanno ascoltato dalla bocca di Gesù. Ella infatti ha creduto e per questo è la vera madre del Signore.

*****

“La liturgia di questa quarta domenica di Avvento pone in primo piano la figura di Maria, la Vergine Madre, in attesa di dare alla luce Gesù, il Salvatore del mondo. Fissiamo lo sguardo su di lei, modello di fede e di carità; e possiamo chiederci: quali erano i suoi pensieri nei mesi dell’attesa? La risposta viene proprio dal brano evangelico di oggi, il racconto della visita di Maria alla sua anziana parente Elisabetta. L’angelo Gabriele le aveva svelato che Elisabetta aspettava un figlio ed era già al sesto mese. E allora la Vergine, che aveva appena concepito Gesù per opera di Dio, era partita in fretta da Nazareth, in Galilea, per raggiungere i monti della Giudea, e trovare sua cugina.
Dice il Vangelo: «Entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta». Sicuramente si felicitò con lei per la sua maternità, come a sua volta Elisabetta salutò Maria dicendo: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me?». E subito ne loda la fede: «E beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto» . È evidente il contrasto tra Maria, che ha avuto fede, e Zaccaria, il marito di Elisabetta, il quale aveva dubitato, e non aveva creduto alla promessa dell’angelo e per questo rimane muto fino alla nascita di Giovanni. È un contrasto.
Questo episodio ci aiuta a leggere con una luce del tutto particolare il mistero dell’incontro dell’uomo con Dio. Un incontro che non è all’insegna di strabilianti prodigi, ma piuttosto all’insegna della fede e della carità. Maria, infatti, è beata perché ha creduto: l’incontro con Dio è frutto della fede. Zaccaria invece, che ha dubitato e non ha creduto, è rimasto sordo e muto. Per crescere nella fede durante il lungo silenzio: senza fede si resta inevitabilmente sordi alla voce consolante di Dio; e si resta incapaci di pronunciare parole di consolazione e di speranza per i nostri fratelli. E noi lo vediamo tutti i giorni: la gente che non ha fede o che ha una fede molto piccola, quando deve avvicinarsi a una persona che soffre, le dice parole di circostanza, ma non riesce ad arrivare al cuore perché non ha forza. Non ha forza perché non ha fede, e se non ha fede non vengono le parole che arrivano al cuore altrui. La fede, a sua volta, si alimenta nella carità. L’evangelista racconta che «Maria si alzò e andò in fretta» da Elisabetta: in fretta, non in ansia, non ansiosa, ma in fretta, in pace. “Si alzò”: un gesto pieno di premura. Avrebbe potuto rimanere a casa per preparare la nascita di suo figlio, invece si preoccupa prima degli altri che di sé stessa, dimostrando nei fatti di essere già discepola di quel Signore che porta in grembo. L’evento della nascita di Gesù è cominciato così, con un semplice gesto di carità; del resto, la carità autentica è sempre frutto dell’amore di Dio.
Il Vangelo della visita di Maria ad Elisabetta, che abbiamo ascoltato oggi nella Messa, ci prepara a vivere bene il Natale, comunicandoci il dinamismo della fede e della carità. Questo dinamismo è opera dello Spirito Santo: lo Spirito d’Amore che fecondò il grembo verginale di Maria e che la spinse ad accorrere al servizio dell’anziana parente. Un dinamismo pieno di gioia, come si vede nell’incontro tra le due madri, che è tutto un inno di gioiosa esultanza nel Signore, che compie grandi cose con i piccoli che si fidano di Lui.
La Vergine Maria ci ottenga la grazia di vivere un Natale estroverso, ma non disperso: estroverso: al centro non ci sia il nostro “io”, ma il Tu di Gesù e il tu dei fratelli, specialmente di quelli che hanno bisogno di una mano. Allora lasceremo spazio all’Amore che, anche oggi, vuole farsi carne e venire ad abitare in mezzo a noi."
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 23 dicembre 2018

Pubblicato in Liturgia

Le Letture in questa terza domenica di Avvento, nota come domenica della gioia, più di tutte le altre, sono ricche di imperativi: gioite, esultate, rallegratevi, non temete, non lasciatevi cadere le braccia, cantate giulivi, non angustiatevi di nulla, esponete a Dio le vostre richieste… Sono imperativi di conforto, speranza e amore!
Nella prima lettura, il profeta Sofonia, vede nel futuro l’avvento della pace che è opera di Dio il Signore, re d’Israele: esorta Gerusalemme a rallegrarsi: la tristezza deve lasciare spazio alla gioia perchè il Signore interviene per liberare il Suo popolo. Nella Gerusalemme rinnovata si ritrovano, “come in un grembo fecondo”, il Signore e i giusti in un abbraccio di comunione e di pace.
Nella seconda lettura, nella sua lettera ai Filippesi, l’apostolo Paolo ci invita ad essere gioiosi nel Signore, a non angustiarci per nulla: il Signore è vicino tutto il resto non conta e come potrebbe contare se Lui è con noi!
Nel Vangelo di Luca, Giovanni Battista predica le esigenze di una radicale conversione e fa proposte semplici: cambiare vita e passare da una mentalità egoistica all’apertura agli altri. Egli annuncia che il Cristo viene a riconsacrare la vita di ogni uomo e a riconsacrare la storia e “battezzerà in Spirito Santo e fuoco” e “brucerà la pula” (ossia tutte le scorie della mondanità). Il rinnovamento cristiano richiede, dunque intelligenza e sacrificio, passione e mortificazione. Tuttavia, ci si deve preparare ad esso senza turbamento, perchè il Signore garantisce la salvezza e la pace. “E la pace di Dio” - ci ricorda l’Apostolo Paolo, supera ogni intelligenza” cancella ogni interrogativo e dubbio, e la pace, che scaturisce dalla buona volontà di cambiamento, è il cibo di una nuova intelligenza chiamata amore.

Dal libro del profeta Sofonia
Rallégrati, figlia di Sion,
grida di gioia, Israele,
esulta e acclama con tutto il cuore,
figlia di Gerusalemme!
Il Signore ha revocato la tua condanna,
ha disperso il tuo nemico.
Re d’Israele è il Signore in mezzo a te,
tu non temerai più alcuna sventura.
In quel giorno si dirà a Gerusalemme:
«Non temere, Sion, non lasciarti cadere le braccia!
Il Signore, tuo Dio, in mezzo a te
è un salvatore potente.
Gioirà per te,
ti rinnoverà con il suo amore,
esulterà per te con grida di gioia».
Sof 3,14-18a

L’attività del profeta Sofonia si svolse intorno agli anni 640 a.C., un po’ prima di quella di Geremia. Il re Gioisia, il grande riformatore, è ancora minorenne. Il piccolo stato di Giuda è in piena crisi: si sta manifestando una reazione contro la politica di alleanza con l’Assiria, da poco instaurata dal re Manasse (687-642 a.C.) una politica servile, umiliante per l’onore della nazione come pure fatale per la purezza religiosa. Del resto ora l’Assiria sta subendo una decadenza che permette la rinascita di speranze patriottiche e di progetti di una riforma religiosa. Il progetto di risanamento, che poi Giosia attuerà con forte determinazione, ha i suoi pionieri e Sofonia è uno di loro.
Il libro. che porta il nome del profeta, è stato scritto in ebraico presumibilmente tra il 630 ed il 609 a.C., come si può dedurre dai primi 4 versetti del libro, ove si dice che l'autore visse al tempo del re Giosia. È composto da 3 capitoli e contiene vari oracoli di restaurazione. Lo stile linguistico e i temi trattati richiamano le caratteristiche del profeta Geremia, che come lui avvertì il popolo, senza essere ascoltato, sul disastro morale e religioso che andava infiltrandosi in tutti gli ambiti della vita sociale, religiosa, politica.
Questo profeta di “sventure” fu anche, come Geremia, l’uomo della speranza. La sua attenzione si concentra particolarmente su quel “resto” che sfuggirà al giudizio e al quale sono riservate le promesse della salvezza. Sarà infatti un gruppo scelto di poveri, di fedeli, che al di sopra di ogni cosa, punteranno sull’amore di Dio che salva e con piena fiducia si metteranno a Sua disposizione. Tracciando questo ideale, Sofonia orienta già la religiosità del suo popolo verso una religione “in spirito e verità” che poi Gesù “dolce e umile di cuore” instaurerà. Un’espressione tipica di Sofonia è “Figlia di Sion”, che è una formulazione ebraica per designare il nome di una città (Sion) e il relativo popolo d’appartenenza, e Sion nella Bibbia rappresenta il luogo più alto di Gerusalemme, considerato dimora di Dio, dove i pellegrini salgono cantando i salmi.
Questo brano è un vero e proprio inno di gioia in cui traspare la dolcezza di un Dio che sembra arrendersi alla Sua stessa misericordia: “Rallégrati, figlia di Sion, grida di gioia, Israele, esulta e acclama con tutto il cuore, figlia di Gerusalemme! …Il motivo di tanta gioia è che “Il Signore ha revocato la tua condanna, ha disperso il tuo nemico”,
Egli abita in seno al suo popolo e combatte a suo favore, difatti il profeta si sente di affermare: “Re d’Israele è il Signore in mezzo a te, tu non temerai più alcuna sventura. In quel giorno si dirà a Gerusalemme: «Non temere, Sion, non lasciarti cadere le braccia!”, perché “Il Signore, tuo Dio, in mezzo a te è un salvatore potente”.
E' il Signore ad essere felice perché sarà Lui stesso a rinnovarti con il Suo amore ed “esulterà per te con grida di gioia».
Il Dio d'Israele non è un Dio impassibile, né una divinità indignata da rappacificare con sacrifici eccellenti, ma è lo sposo che prova vero amore per la sua diletta sposa.
Sarà proprio questa gioia del Signore per Gerusalemme che la convertirà all'amore autentico per Lui.
Dunque la gioia, a cui Gerusalemme è invitata a rallegrarsi, è la gioia di una città liberata dalla paura.

Salmo Is 12 - Canta ed esulta,perché grande in mezzo a te è il Santo d’Israele.

Ecco, Dio è la mia salvezza;
io avrò fiducia, non avrò timore,
perché mia forza e mio canto è il Signore;
egli è stato la mia salvezza».

Attingerete acqua con gioia
alle sorgenti della salvezza.
Rendete grazie al Signore e invocate il suo nome,
proclamate fra i popoli le sue opere,
fate ricordare che il suo nome è sublime.

Cantate inni al Signore,
perché ha fatto cose eccelse,
le conosca tutta la terra.
Canta ed esulta, tu che abiti in Sion,
perché grande in mezzo a te è il Santo d’Israele».

*****


Dalla lettera di S. Paolo apostolo ai Filippesi
Fratelli, siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti. La vostra amabilità sia nota a tutti. Il Signore è vicino!
Non angustiatevi per nulla, ma in ogni circostanza fate presenti a Dio le vostre richieste con preghiere, suppliche e ringraziamenti.
E la pace di Dio, che supera ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e le vostre menti in Cristo Gesù.
Fil 4,4-7

Paolo continuando la sua lettera ai Filippesi, in questo brano insiste sul tema della gioia
“Fratelli, siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti”
Anche prima Paolo aveva già esortato i Filippesi alla gioia (3,1a - 4,4), ma era per situazioni particolari. Ora li esorta in termini più generali e incalzanti. Cristo morto e risorto è lo spazio in cui i credenti vivono, agiscono e provano sentimenti. Non si tratta dunque di un ottimismo facile, ma di avere coscienza di essere uniti a Cristo e partecipi della Sua vita.
“La vostra amabilità sia nota a tutti. Il Signore è vicino!”
La gioia di chi crede in Dio deve essere chiara a tutti ed è la prima testimonianza del Vangelo. Inoltre la gioia che anima il credente non è dovuta solo a un evento passato, ma al fatto che il giorno del Signore si sta avvicinando. Anche se Paolo pensava al ritorno di Gesù nella gloria, che egli riteneva imminente, l'invito rimane valido per noi oggi, chiamati ad essere vigilanti nel prepararci all'appuntamento decisivo con il Signore.
“Non angustiatevi per nulla, ma in ogni circostanza fate presenti a Dio le vostre richieste con preghiere, suppliche e ringraziamenti”
In questo passo non si può fare a meno di ricordare il discorso della montagna (Mt 6,25.31.34), quando Gesù esorta i suoi uditori a confidare nella Provvidenza in caso di qualsiasi necessità. Siamo nelle mani di Dio, che è pronto ad esaudirci e a far scaturire dalle nostre labbra una preghiera di ringraziamento. Questo atteggiamento di fiducia affonda le sue radici in una incrollabile fede nel progetto salvifico di Dio sulla storia e nel Padre che si cura dei Suoi figli.
“E la pace di Dio, che supera ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e le vostre menti in Cristo Gesù.”
La pace vera proviene da Dio perché è Lui l’origine della pace, essendo Dio “il Dio della pace”. Si tratta però di una pace interiore, di più valore, perché custodisce i cuori e i nostri pensieri più reconditi. La pace di Dio tiene al sicuro la nostra mente (nella Bibbia il cuore è la sede dei pensieri) e i nostri pensieri, veglia come una sentinella preservandoci da turbamenti inutili.
È questo il meraviglioso dono, la “grazia”, che Gesù fa ai suoi discepoli. In un mondo spesso oscuro, chi è vero credente deve non aggiungere tristezza a tristezza. Egli sa essere testimone credibile di quella pace “che supera ogni intelligenza”, ovvero ogni intendimento umano, poiché è umanamente impossibile capire come si possa essere lieti e contenti anche in mezzo a persecuzioni, dolori e sofferenze.

Dal Vangelo secondo Luca
In quel tempo, le folle interrogavano Giovanni, dicendo: «Che cosa dobbiamo fare?». Rispondeva loro: «Chi ha due tuniche ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare faccia altrettanto».
Vennero anche dei pubblicani a farsi battezzare e gli chiesero: «Maestro, che cosa dobbiamo fare?». Ed egli disse loro: «Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato».
Lo interrogavano anche alcuni soldati: «E noi, che cosa dobbiamo fare?». Rispose loro: «Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno; accontentatevi delle vostre paghe».
Poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo, Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. Tiene in mano la pala per pulire la sua aia e per raccogliere il frumento nel suo granaio; ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile».
Con molte altre esortazioni Giovanni evangelizzava il popolo.
Lc 3, 10-1

In questo brano del Vangelo di Luca, che è la continuazione del vangelo di domenica scorsa, troviamo il contenuto della predicazione di Giovanni Battista, in particolare alcune indicazioni proprie di Luca e la dichiarazione del Battista riguardo il suo compito e il battesimo che egli amministra.
Il brano inizia riportando che: “le folle interrogavano Giovanni, dicendo: «Che cosa dobbiamo fare?».” La domanda: “Che cosa dobbiamo fare?”è molto simile a quella che ritroviamo negli Atti dopo la predicazione degli apostoli (v. At 2,37; 16,30; 22,10),E’ la domanda che ogni credente dovrebbe rivolgere alla propria coscienza perché il progetto di ogni vita aspetta una definizione, una vera conclusione. Giovanni, rispondendo alle folle propone tre regole:
“Chi ha due tuniche, ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare, faccia altrettanto”.
Questa si può dire è una regola d'oro, che da sola basterebbe a migliorare l’umanità intera.
La seconda regola la dà ai pubblicani che erano venuti per farsi battezzare:
“Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato”. Questa regola è così semplice da sembrare logica: essere onesti, perché la cupidigia del denaro è un vero e proprio idolo assoluto, radice di ogni corruzione, che porta a non rispettare le leggi e sfruttare le persone. Giovanni esorta dunque a ricominciare dalla legalità, ad essere onesti sempre, cominciando dalle cose più piccole .
La terza regola Giovanni la dà ai soldati, per chi ha ruoli di autorità e di forza, in tutti i campi: “Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato”. Non approfittate cioè del vostro ruolo per umiliare e commettere abusi.
La conversione che propone Giovanni non consiste quindi in atteggiamenti lontani dalla vita quotidiana e non riguarda solo alcune categorie di persone, poiché è il cuore che deve convertirsi e cambiare. Il frutto della conversione è indicato nella solidarietà, in una vita più umana e giusta: è il bisogno del prossimo a guidare il proprio comportamento.
Come si vede la predicazione di Giovanni è molto simile a quella di Gesù e presenta temi spesso ripresi in Luca, come la povertà; ciò non toglie la fondamentale fedeltà dell'evangelista al carattere proprio della predicazione del Battista, di cui lo storico Giuseppe Flavio ha lasciato scritto nelle sue Antichità Giudaiche: "Era un uomo buono, e diceva ai Giudei di esercitare la virtù, così come la giustizia gli uni nei confronti degli altri e la devozione verso Dio, e poi di venire al battesimo“.
Poi Giovanni, quando si sente chiedere dal popolo se fosse lui il Cristo, risponde: “Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco”.
L'evangelista precisa che la risposta di Giovanni è rivolta a tutti, forse per sottolineare l’importanza delle sue affermazioni riguardo al Messia, e la sua affermazione, comune ai sinottici, attesta la sua autenticità.
Il battesimo in Spirito Santo e fuoco ha un riferimento al giudizio escatologico e trova riferimento in Ez 36,25ss. Questo testo però ha avuto una interpretazione cristiana, per Luca infatti il più forte è Gesù Cristo e il fuoco ha il suo riferimento alla Pentecoste.
Questa espressione è ripresa dall'evangelista nel testo degli Atti (1,5 e 11,16) e attribuita a Gesù stesso. Anche per il battesimo Giovanni è quindi il suo precursore.
“Tiene in mano la pala per pulire la sua aia e per raccogliere il frumento nel suo granaio; ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile”. L’immagine della pulitura del grano mietuto è utilizzata anche da Ger 15; 51 e da Is 5; 47; Gl 2, 5; ed è un immagine familiare anche a noi. Nel passato non tanto lontano nelle nostre campagne accadeva sovente, che per separare il grano dalla pula si salisse sull’aia e si lanciasse in aria il frumento, lasciando al vento il compito di allontanare la parte più leggera, quella che poi veniva scartata. E’ suggestiva quest’idea del Signore che viene così! È come il vento che soffia, arriva e tu non te ne accorgi … ma poi ti sorprende e ti pulisce, ti alleggerisce. Ti rimprovera anche, e se anche soffia con forza, è pronto a sorreggerti per non farti cadere.
“Con molte altre esortazioni Giovanni evangelizzava il popolo”. Con questo versetto finale Luca conclude e riassume la predicazione del Battista.
Di questo brano possiamo fare nostra la domanda iniziale: “che cosa dobbiamo fare?”
E’ la domanda che ogni credente deve rivolgere alla sua coscienza; la decisione per la giustizia e l’amore non può essere rimandata all’infinito, il progetto della nostra vita aspetta una definizione, una vera conclusione.

*****

“In questa terza domenica di Avvento la liturgia ci invita alla gioia. Sentite bene: alla gioia. Il profeta Sofonia si rivolge con queste parole alla piccola porzione del popolo di Israele: «Rallegrati, figlia di Sion, grida di gioia, Israele, esulta e acclama con tutto il cuore, figlia di Gerusalemme!». Gridare di gioia, esultare, rallegrarsi: questo è l’invito di questa domenica. Gli abitanti della città santa sono chiamati a gioire perché il Signore ha revocato la sua condanna. Dio ha perdonato, non ha voluto punire! Di conseguenza per il popolo non c’è più motivo di tristezza, non c’è più motivo di sconforto, ma tutto porta a una gratitudine gioiosa verso Dio, che vuole sempre riscattare e salvare coloro che ama. E l’amore del Signore per il suo popolo è incessante, paragonabile alla tenerezza del padre per i figli, dello sposo per la sposa, come dice ancora Sofonia: «Gioirà per te, ti rinnoverà con il suo amore, esulterà per te con grida di gioia» . Questa è – così si chiama – la domenica della gioia: la terza domenica dell’Avvento, prima del Natale.
Questo appello del profeta è particolarmente appropriato nel tempo in cui ci prepariamo al Natale, perché si applica a Gesù, l’Emmanuele, il Dio-con-noi: la sua presenza è la sorgente della gioia. Infatti Sofonia proclama: «Re d’Israele è il Signore in mezzo a te»; e poco dopo ripete: «Il Signore, tuo Dio, in mezzo a te è un salvatore potente».
Questo messaggio trova il suo pieno significato nel momento dell’annunciazione a Maria, narrata dall’evangelista Luca. Le parole rivolte dall’angelo Gabriele alla Vergine sono come un’eco di quelle del profeta. Cosa dice l’arcangelo Gabriele? «Rallegrati, piena di grazia, il Signore è con te» . “Rallegrati”, dice alla Madonna. In un borgo sperduto della Galilea, nel cuore di una giovane donna ignota al mondo, Dio accende la scintilla della felicità per il mondo intero. E oggi lo stesso annuncio è rivolto alla Chiesa, chiamata ad accogliere il Vangelo perché diventi carne, vita concreta. Dice alla Chiesa, a tutti noi: “Rallegrati, piccola comunità cristiana, povera e umile ma bella ai miei occhi perché desideri ardentemente il mio Regno, hai fame e sete di giustizia, tessi con pazienza trame di pace, non insegui i potenti di turno ma rimani fedelmente accanto ai poveri. E così non hai paura di nulla ma il tuo cuore è nella gioia”. Se noi viviamo così, alla presenza del Signore, il nostro cuore sempre sarà nella gioia. La gioia “di alto livello”, quando c’è, piena, e la gioia umile di tutti i giorni, cioè la pace. La pace è la gioia più piccola, ma è gioia.
Anche san Paolo oggi ci esorta a non angustiarci, a non disperare per nulla, ma in ogni circostanza far presenti a Dio le nostre richieste, le nostre necessità, le nostre preoccupazioni «con preghiere e suppliche» (Fil 4,6). La consapevolezza che nelle difficoltà possiamo sempre rivolgerci al Signore, e che Egli non respinge mai le nostre invocazioni, è un grande motivo di gioia. Nessuna preoccupazione, nessuna paura riuscirà mai a toglierci la serenità che viene non da cose umane, dalle consolazioni umane, no, la serenità che viene da Dio, dal sapere che Dio guida amorevolmente la nostra vita, e lo fa sempre. Anche in mezzo ai problemi e alle sofferenze, questa certezza alimenta la speranza e il coraggio.
Ma per accogliere l’invito del Signore alla gioia, occorre essere persone disposte a mettersi in discussione. Cosa significa questo? Proprio come coloro che, dopo aver ascoltato la predicazione di Giovanni il Battista, gli chiedono: tu predichi così, e noi, «che cosa dobbiamo fare?». Io cosa devo fare? Questa domanda è il primo passo per la conversione che siamo invitati a compiere in questo tempo di Avvento. Ognuno di noi si domandi: cosa devo fare? Una cosa piccolina, ma “cosa devo fare?”. E la Vergine Maria, che è nostra madre, ci aiuti ad aprire il nostro cuore al Dio-che-viene, perché Egli inondi di gioia tutta la nostra vita.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 16 dicembre 2018

Pubblicato in Liturgia

Mentre le letture della prima domenica di Avvento ci esortavano a vegliare, le letture di questa domenica ci esortano “a preparare la via del Signore”.
Nella prima lettura, il profeta Baruc, con tono poetico canta la speranza di tutto un popolo perchè alla miseria e alla schiavitù subentreranno la bontà e la libertà, all’umiliazione e alla tristezza, la gioia. Baruc rincuora così il popolo in esilio mostrando la via del ritorno preparata da Dio per il suo popolo derelitto.
Nella seconda lettura san Paolo, scrivendo la sua lettera ai Filippesi, li ringrazia per la collaborazione alla diffusione del Vangelo, e li incoraggia a crescere nell’amore attivo e fedele “per il giorno di Cristo”.
Nel Vangelo di Luca, viene presentato Giovanni il Battista, che predica un battesimo di conversione per il perdono dei peccati, cioè un rito che apre il cuore e dispone la strada per la salvezza di Dio: Cristo suo Figlio e nostro unico salvatore. E’ Gesù che ci fa davvero lasciare le vesti del lutto, della tristezza e ci porta lo splendore della vita divina. Solo con Lui ogni uomo vedrà la salvezza di Dio.

Dal libro del Profeta Baruc
Deponi, o Gerusalemme, la veste del lutto e dell’afflizione,
rivèstiti dello splendore della gloria che ti viene da Dio per sempre.
Avvolgiti nel manto della giustizia di Dio,
metti sul tuo capo il diadema di gloria dell’Eterno,
perché Dio mostrerà il tuo splendore a ogni creatura sotto il cielo.
Sarai chiamata da Dio per sempre:
«Pace di giustizia» e «Gloria di pietà».
Sorgi, o Gerusalemme, sta’ in piedi sull’altura
e guarda verso oriente; vedi i tuoi figli riuniti,
dal tramonto del sole fino al suo sorgere,
alla parola del Santo, esultanti per il ricordo di Dio.
Si sono allontanati da te a piedi,
incalzati dai nemici;
ora Dio te li riconduce in trionfo, come sopra un trono regale.
Poiché Dio ha deciso di spianare ogni alta montagna e le rupi perenni,
di colmare le valli livellando il terreno,
perché Israele proceda sicuro sotto la gloria di Dio.
Anche le selve e ogni albero odoroso
hanno fatto ombra a Israele per comando di Dio.
Perché Dio ricondurrà Israele con gioia alla luce della sua gloria,
con la misericordia e la giustizia che vengono da lui.
Bar 5,1-9

Il Libro del profeta Baruc, che era stato segretario fedele del profeta Geremia,è contenuto nella Bibbia cristiana, ma non è stato accolto nella Bibbia ebraica. Il libro che è composto di 6 capitoli, (il sesto contiene una lettera di Geremia), sembra sia stato scritto direttamente in greco, e la seconda parte, forse, è stata ripresa da un originale in ebraico. Si ritiene comunque che il testo risalga agli anni 50 a.C, in un'epoca, comunque, di occupazione da parte dei Romani, come motivo di speranza per un Messia liberatore.
Il libro di Baruc ha il pregio di rivelare l’anima profondamente religiosa dei Giudei dispersi nel mondo e tuttavia rimasti in modo sorprendente, uniti al loro popolo. La loro fede testimonia un senso vivissimo del peccato nazionale; ai loro occhi, il passato d’Israele non è stato che una lunga infedeltà e la disfatta e la prigionia sono la conclusione e il giusto castigo di quella costante ribellione..
Il libro sin dall'introduzione evidenzia che Baruc scrisse questo libro a Babilonia, dopo la deportazione e che poi tornò a Gerusalemme per leggerlo nelle assemblee liturgiche
Il profeta in questo brano, con una certa enfasi si rivolge a Gerusalemme per invitarla a terminare il lutto per la deportazione a Babilonia. “Deponi, o Gerusalemme, la veste del lutto e dell’afflizione, rivèstiti dello splendore della gloria che ti viene da Dio per sempre…”
Occorre cambiare abito, da quello del lutto a quello della gloria del Signore, al manto della Sua giustizia e alla corona di gloria, perché finalmente Gerusalemme potrà, di nuovo, essere chiamata per sempre da Dio «Pace di giustizia» e «Gloria di pietà».
Poi il profeta esorta la città santa, a stare in piedi sull’altura e guardare verso oriente dove sono riuniti i suoi figli nella notte, e deve poter credere che la Parola del Signore si compie perchè essi, i suoi figli, ritorneranno “dal tramonto del sole fino al suo sorgere, alla parola del Santo, esultanti per il ricordo di Dio”. I suoi figli si erano allontanati a piedi, inseguiti dai nemici, ed ora è il Signore stesso che li riconduce come un sovrano vittorioso, e li porta con sé nella sfilata del trionfo, non come prigionieri di guerra, ma come figli liberati. La via del ritorno è una via facile, senza impedimenti, senza salite e discese, “Poiché Dio ha deciso di spianare ogni alta montagna e le rupi perenni, di colmare le valli livellando il terreno, perché Israele proceda sicuro sotto la gloria di Dio. “
Il Signore riconduce “Israele con gioia. alla luce della sua gloria, con la misericordia e la giustizia che vengono da lui”. Dio non mostra rancore per il peccato commesso dal Suo popolo, ma è pieno di gioia perché Israele ha riconosciuto il suo peccato, a motivo dell'esperienza che ha fatto della misericordia e della giustizia di Dio.
Bellissimo il messaggio di speranza che si percepisce: di fronte all’infedeltà di Israele, resta immutabile la fedeltà di Dio. E’ il Signore che provoca la conversione e dà il perdono e l’alleanza rivivrà più bella di prima, un’alleanza che raccoglierà i figli dispersi in una Gerusalemme radiosa, città di Dio per sempre.

Salmo 125 - Grandi cose ha fatto il Signore per noi.
Quando il Signore ristabilì la sorte di Sion,
ci sembrava di sognare.
Allora la nostra bocca si riempì di sorriso,
la nostra lingua di gioia.

Allora si diceva tra le genti:
«Il Signore ha fatto grandi cose per loro».
Grandi cose ha fatto il Signore per noi:
eravamo pieni di gioia.

Ristabilisci, Signore, la nostra sorte,
come i torrenti del Negheb.
Chi semina nelle lacrime
mieterà nella gioia.

Nell’andare, se ne va piangendo,
portando la semente da gettare,
ma nel tornare, viene con gioia,
portando i suoi covoni.

Il salmista faceva parte degli Israeliti rimasti in Palestina al tempo delle deportazioni babilonesi.
Egli esprime la gioia di tutti di fronte ai primi arrivi e invoca da Dio il ritorno di tutti i deportati, in moltitudine e velocità, cioè senza intoppi e stenti di viaggio, come, appunto, i torrenti del Negheb, cioè i torrenti della parte meridionale del territorio della tribù di Giuda.
L'evento del ritorno è un fatto del tutto straordinario che mette in luce la fedeltà di Dio per il suo popolo.
I popoli, cioè quelli facenti parte dell'impero Persiano, pur a modo loro, cioè senza diventare monoteisti, lo riconobbero. Diversamente si comportarono i popoli vicini, che si erano spinti con scorribande continue nei territori di Israele. Questi cercarono di sfaldare ogni tentativo di Israele di ridarsi una fisionomia stabile.
Il desiderio che i prigionieri ritornino è grande, ma bisogna nel frattempo creare le condizioni per facilitare i nuovi arrivi.
Il salmo per questo presenta una sentenza proverbiale come invito a non lesinare fatiche per la ricostruzione di Gerusalemme, il ripristino dei campi, dei villaggi; questo pur in mezzo alle difficoltà causate dall'ostilità dei vicini popoli: “Chi semina nelle lacrime mieterà nella gioia”.
Il salmo nel suo sensus plenior riguarda la liberazione dei popoli dal peso dell'ignoranza del vero Dio, dal peso delle divisioni e contrapposizioni.
Essi hanno ricevuto l'editto di liberazione nel sangue di Cristo. La Chiesa, sacramento di salvezza e di unità, deve fare conoscere il Liberatore dal peccato, sempre pronta ad accogliere nella gioia della comunione che la regge tutti coloro che accolgono Cristo e che già sono misteriosamente orientati a lui dall'azione dello Spirito Santo (Cf. 1Gv 1,3-4).
Commento tratta da Perfetta Letizia

Dalla lettera di S.Paolo Apostolo ai Filippesi
Fratelli, sempre, quando prego per tutti voi, lo faccio con gioia a motivo della vostra cooperazione per il Vangelo, dal primo giorno fino al presente. Sono persuaso che colui il quale ha iniziato in voi quest’opera buona, la porterà a compimento fino al giorno di Cristo Gesù.
Infatti Dio mi è testimone del vivo desiderio che nutro per tutti voi nell’amore di Cristo Gesù. E perciò prego che la vostra carità cresca sempre più in conoscenza e in pieno discernimento, perché possiate distinguere ciò che è meglio ed essere integri e irreprensibili per il giorno di Cristo, ricolmi di quel frutto di giustizia che si ottiene per mezzo di Gesù Cristo, a gloria e lode di Dio.
Fil 1,4-6.8,11

La lettera ai Filippesi è stata sicuramente scritta da Paolo mentre si trovava in carcere, probabilmente durante la sua detenzione a Efeso, intorno agli anni 53-55, oppure a Roma (allora saremmo nel 62-63) .
L’origine della chiesa di Filippi è descritta dettagliatamente negli Atti degli Apostoli (vv.16,12-40).
E’ stata la prima a nascere in Europa, e venne fondata verso il 51, durante il secondo viaggio missionario di Paolo. L’apostolo aveva deciso di andare a Filippi in seguito ad una visione, nella quale vide un macedone che gli diceva: “Passa in Macedonia e aiutaci”. Paolo ed i suoi collaboratori cambiarono allora i propri programmi e decisero di recarsi in Macedonia.
La prima persona a convertirsi fu Lidia, una donna ricca e distinta. Sebbene fosse di origine pagana, era stata attratta dalla religione ebraica ed era timorata di Dio, ma quando sentì predicare Paolo, credette in Gesù Cristo e fu battezzata con la sua famiglia.
In seguito, Paolo e Sila furono arrestati con una falsa accusa e fu in quell'occasione che il soldato di guardia alla prigione, dove essi erano detenuti, si convertì con la sua famiglia. Così venne a formarsi il primo nucleo della comunità cristiana.
Che i cristiani di Filippi fossero in gran parte di origine pagana, lo si desume anche dal fatto che nella lettera Paolo non cita quasi mai l'A.T.. Non vengono trattati grandi temi, né vengono risolte particolari questioni: l'apostolo scrivendo vuole semplicemente informare i Filippesi della sua situazione, ringraziarli per l'attenzione dimostrata nei suoi confronti ed esortarli a proseguire sulla via dell'amore evangelico.
In questo brano, che riporta l’inizio della lettera, Paolo come di consueto inizia con un ringraziamento:
“Fratelli, sempre, quando prego per tutti voi, lo faccio con gioia a motivo della vostra cooperazione per il Vangelo, dal primo giorno fino al presente”.
Paolo è evidentemente soddisfatto per gli effetti che la sua predicazione ha avuto a Filippi: la comunità non solo è cresciuta salda e compatta, ma addirittura collabora con Paolo per la diffusione del Vangelo. I filippesi sin dal primo giorno, cioè dalla loro conversione (v. At 16,12-40) hanno sofferto per il Vangelo (Fil 1,29-30) e hanno dato la loro testimonianza (Fil 2,15-16) anche con aiuti materiali per sostenere Paolo che si trovava in carcere.
“Sono persuaso che colui il quale ha iniziato in voi quest’opera buona, la porterà a compimento fino al giorno di Cristo Gesù”.
Paolo come sempre non attribuisce a sé il merito della buona riuscita della sua predicazione, ma giustamente riconosce l'azione di Dio. Il Signore che ha fatto sì che i filippesi aderissero con convinzione e in modo attivo alla fede, li accompagnerà fino al giorno della seconda venuta di Gesù nella gloria.
“Infatti Dio mi è testimone del vivo desiderio che nutro per tutti voi nell’amore di Cristo Gesù.”
La liturgia non riporta 2 versetti seguenti (7-8) in cui Paolo esprime il suo affetto verso i filippesi e prende a testimone Dio di questo suo affetto
“E perciò prego che la vostra carità cresca sempre più in conoscenza e in pieno discernimento”,
Paolo vuole che i filippesi progrediscano nella vita cristiana, che è un continuo cammino di crescita nell'amore vicendevole e aperto a tutti. Tale amore deve crescere in intuizione e sensibilità per poter comprendere meglio la realtà e fare scelte giuste e concrete.
“perché possiate distinguere ciò che è meglio ed essere integri e irreprensibili per il giorno di Cristo”,
C'è un appuntamento che attende tutti i cristiani: il giorno del ritorno di Gesù Cristo. A Lui bisogna presentarsi integri e irreprensibili, cioè dopo aver rinunciato per sempre al male, per mantenersi così integri per il grande giorno.
“ricolmi di quel frutto di giustizia che si ottiene per mezzo di Gesù Cristo, a gloria e lode di Dio”.
Davanti a Gesù bisogna presentare il frutto della giustizia. Però non è possibile rendersi giusti da soli, o con le proprie opere! E' ancora Gesù Cristo che ci rende giusti, perchè grazie alla Sua morte e resurrezione ci ha liberato dalla morte e dal peccato. Tutto questo non è a nostra lode, ma è sempre a lode e gloria di Dio

Dal vangelo secondo Luca
Nell’anno quindicesimo dell’impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetrarca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetrarca dell’Iturèa e della Traconìtide, e Lisània tetrarca dell’Abilène, sotto i sommi sacerdoti Anna e Caifa, la parola di Dio venne su Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto. Egli percorse tutta la regione del Giordano, predicando un battesimo di conversione per il perdono dei peccati, com’è scritto nel libro degli oracoli del profeta Isaia:
Voce di uno che grida nel deserto:
Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri!
Ogni burrone sarà riempito,
ogni monte e ogni colle sarà abbassato; le vie tortuose diverranno diritte
e quelle impervie, spianate.
Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio!
Lc 3,1-6

In questo brano, l’evangelista Luca ci presenta la figura di Giovanni Battista. Ce lo presenta con una cornice storica ben precisa, che va pian piano restringendosi, fino a concentrarsi sulla persona di Giovanni, il figlio di Zaccaria. Non è comunque la prima volta che nel Vangelo di Luca si parla del Precursore del Signore. Due capitoli prima ce lo aveva presentato in un sussulto di gioia, mentre era ancora embrione nel grembo della madre, l'anziana Elisabetta, e come alla sua nascita gli fu dato il nome Giovanni, che significa "Dio ha avuto misericordia".
“Nell’anno quindicesimo dell’impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetrarca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetrarca dell’Iturèa e della Traconìtide, e Lisània tetrarca dell’Abilène,”
Luca apre il capitolo terzo con un ampio sguardo alla situazione politica universale, in cui si inserisce la vicenda di Giovanni. Egli ci invita a fissare l’attenzione su quell’anno quindicesimo dell’impero di Tiberio (tra il 26 e il 28 dell’èra cristiana secondo i diversi computi cronologici) e accompagna quella data con una serie di sei personaggi storici minori, così da presentarci la carta politica della Palestina.
La narrazione, a prima vista marginale, fa emergere invece la sua importanza perché egli vuole presentarci il ritratto del Cristo all’interno del suo Vangelo per farci comprendere che Gesù non è una figura evanescente, né un’entità vagamente spirituale, ma una realtà storica , che penetra nelle vicende dei popoli, che ha legami innegabili con le date non solo di Israele, ma con quelle dello stesso impero romano.
“sotto i sommi sacerdoti Anna e Caifa, la parola di Dio venne su Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto.”

Di fronte ai grandi della terra, enumerati con attenzione di storico, e alle autorità religiose in Israele (il sommo sacerdote Càifa e il potente predecessore, Anna, suo suocero), la grandezza di Giovanni deriva dal fatto che egli è chiamato da Dio. L'espressione usata ”la parola di Dio venne su Giovanni” e la citazione di Zaccaria , ricorda la chiamata dei profeti, in particolare Geremia (v. Ger 1,1): attraverso di lui ora Dio entra nella storia. E’ da notare che questa chiamata avviene nel deserto, un luogo di importanza più teologica che geografica, che separa Giovanni dall'Israele che si è allontanato da Dio.
“Egli percorse tutta la regione del Giordano, predicando un battesimo di conversione per il perdono dei peccati,”
Come gli altri evangelisti (Mc 1,4; Mt 3,1-2) anche Luca caratterizza la missione di Giovanni indicando la predicazione e il rito del battesimo; egli precisa che Giovanni si muove all'interno della regione del Giordano, sottolineando il suo ruolo di profeta più che di battezzatore.
Il battesimo di Giovanni è diverso dai riti simili presenti al tempo di Gesù: è ricevuto una sola volta, ed è amministrato dal profeta che svolge quindi un ruolo attivo e pubblico. Giovanni compie un segno di salvezza da parte di Dio, al di fuori dei riti ufficiali di espiazione previsti dal culto. Per Luca questo segno è una preparazione all'arrivo del Messia ed esprime un orientamento verso la salvezza che egli offrirà.
“com’è scritto nel libro degli oracoli del profeta Isaia:
Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri!
Ogni burrone sarà riempito, ogni monte e ogni colle sarà abbassato; le vie tortuose diverranno diritte e quelle impervie, spianate. “
Con una citazione del profeta Isaia (40,3-5) viene evidenziato meglio il compito di Giovanni. Il versetto è l'inizio del Deuteroisaia dove il profeta annuncia il ritorno dall'esilio come un nuovo esodo ed invita il popolo a preparare la via del ritorno. Preceduto dal Signore il popolo di Israele attraverserà il deserto su una via diritta. Per differenziare il Battista la citazione è stata adattata, mentre nel libro di Isaia il deserto è il luogo in cui la via viene preparata,.
Il testo si collega al brano tratto dal profeta Baruc, che abbiamo nella prima lettura, che parla anch'esso del ritorno dei deportati e di una via nuova in cui è possibile incontrare il Signore.
“Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio!”. Solo Luca cita anche il v. 5 della profezia per rendere più ampio il suo orizzonte.
L'annuncio di Giovanni appare dunque caratterizzato in Luca dall'accento salvifico più che da quello penitenziale, sottolineando la vicinanza di Dio (in Cristo) non solo al Suo popolo, ma ad ogni uomo.
Per concludere possiamo dire che la predicazione di Giovanni, aveva spinto a fare un serio esame di coscienza a molti dei suoi contemporanei, che ancora non avevano visto, con i loro occhi, Gesù, il Figlio di Dio, iniziare la Sua vita pubblica, e invita anche noi oggi a preparare la strada al Signore che viene, che “ritorna", con la fedeltà nelle piccole cose.
E’ con la testimonianza della nostra vita di veri credenti, che spianeremo la strada al Signore anche nel cuore degli altri fratelli rimasti delusi, increduli, tiepidi. La nostra testimonianza, infatti, sarà l'annuncio più efficace e credibile di come la Parola di Dio – una volta entrata dentro di noi – può trasformare un deserto arido in un "terreno fecondo", non soggetto alla “dittatura del relativismo " e spalancato alle necessità di quanti - come noi - cercano umilmente solo un po' d'amore!

*****

“Domenica scorsa la liturgia ci invitava a vivere il tempo di Avvento e di attesa del Signore con l’atteggiamento della vigilanza e anche della preghiera: “vigilate” e “orate”.
Oggi, seconda domenica di Avvento, ci viene indicato come dare sostanza a tale attesa: intraprendendo un cammino di conversione, come rendere concreta questa attesa. Come guida per questo cammino, il Vangelo ci presenta la figura di Giovanni il Battista, il quale «percorse tutta la regione del Giordano, predicando un battesimo di conversione per il perdono dei peccati» . Per descrivere la missione del Battista, l’evangelista Luca raccoglie l’antica profezia di Isaia, che dice così: «Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri! Ogni burrone sarà riempito, ogni monte e ogni colle sarà abbassato»
Per preparare la via al Signore che viene, è necessario tenere conto delle esigenze della conversione a cui invita il Battista. Quali sono queste esigenze di una conversione? Anzitutto siamo chiamati a bonificare gli avvallamenti prodotti dalla freddezza e dall’indifferenza, aprendoci agli altri con gli stessi sentimenti di Gesù, cioè con quella cordialità e attenzione fraterna che si fa carico delle necessità del prossimo. Bonificare gli avvallamenti prodotti dalla freddezza. Non si può avere un rapporto di amore, di carità, di fraternità con il prossimo se ci sono dei “buchi”, come non si può andare su una strada con tante buche. Questo richiede di cambiare l’atteggiamento. E tutto ciò, farlo anche con una premura speciale per i più bisognosi. Poi occorre abbassare tante asprezze causate dall’orgoglio e dalla superbia. Quanta gente, forse senza accorgersene, è superba, è aspra, non ha quel rapporto di cordialità. Occorre superare questo compiendo gesti concreti di riconciliazione con i nostri fratelli, di richiesta di perdono delle nostre colpe. Non è facile riconciliarsi. Si pensa sempre: “chi fa il primo passo?”. Il Signore ci aiuta in questo, se abbiamo buona volontà. La conversione, infatti, è completa se conduce a riconoscere umilmente i nostri sbagli, le nostre infedeltà, inadempienze.
Il credente è colui che, attraverso il suo farsi vicino al fratello, come Giovanni il Battista apre strade nel deserto, cioè indica prospettive di speranza anche in quei contesti esistenziali impervi, segnati dal fallimento e dalla sconfitta. Non possiamo arrenderci di fronte alle situazioni negative di chiusura e di rifiuto; non dobbiamo lasciarci assoggettare dalla mentalità del mondo, perché il centro della nostra vita è Gesù e la sua parola di luce, di amore, di consolazione. È Lui! Il Battista invitava alla conversione la gente del suo tempo con forza, con vigore, con severità. Tuttavia sapeva ascoltare, sapeva compiere gesti di tenerezza, gesti di perdono verso la moltitudine di uomini e donne che si recavano da lui per confessare i propri peccati e farsi battezzare con il battesimo di penitenza.
La testimonianza di Giovanni il Battista, ci aiuta ad andare avanti nella nostra testimonianza di vita. La purezza del suo annuncio, il suo coraggio nel proclamare la verità riuscirono a risvegliare le attese e le speranze del Messia che erano da tempo assopite. Anche oggi, i discepoli di Gesù sono chiamati ad essere suoi umili ma coraggiosi testimoni per riaccendere la speranza, per far comprendere che, nonostante tutto, il regno di Dio continua a costruirsi giorno per giorno con la potenza dello Spirito Santo. Pensiamo, ognuno di noi: come posso io cambiare qualche cosa del mio atteggiamento, per preparare la via al Signore?
La Vergine Maria ci aiuti a preparare giorno per giorno la via del Signore, cominciando da noi stessi; e a spargere intorno a noi, con tenace “
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 9 dicembre 2018

Pubblicato in Liturgia

Con questa prima Domenica di Avvento si apre il nuovo anno liturgico proclamato dal Vangelo di Luca con l’invito a “Vegliare in ogni momento”. Leggeremo quindi il mistero di Cristo seguendo la teologia filtrata dall’esperienza del terzo evangelista, che è molto vicino alla nostra sensibilità, perchè in un mondo che cerca sempre più la fratellanza universale, il messaggio di Luca è molto attuale. La Chiesa, come ci ricorda sempre papa Francesco, deve essere il luogo dell’accoglienza di tutti, specialmente dei poveri, dei peccatori, degli esclusi.
Nella prima lettura, il profeta Geremia annuncia che Dio sarà fedele alle Sue promesse: farà germogliare per Davide un germoglio giusto. Geremia precisa che il Messia sarà “germoglio di giustizia”; ed è la giustizia che garantisce l’equilibrio del singolo uomo, della famiglia e dei popoli. L’uomo giusto capisce gli altri, la famiglia che pratica la giustizia educa all’amore, i popoli, che godono ed esperimentano la giustizia, sono portatori di pace.
Nella seconda lettura, l’apostolo Paolo, scrivendo ai Tessalonicesi, chiede di prepararci alla venuta di Cristo e ci esorta a crescere nell’amore vicendevole verso tutti.
Nel Vangelo di Luca, troviamo il discorso che Gesù pronuncia sulle ultime realtà. L’evangelista dice che il Messia si annuncia mentre sulla terra c’è “angoscia di popoli in ansia” e aggiunge di stare molto attenti, affinché i nostri cuori non siano appesantiti (e quindi distratti) dagli “affanni della vita”. Le parole del Vangelo, quanto mai attuali in questo periodo, ci suggeriscono di rimuovere lo stato di paura (che non possiamo non provare di fronte al costante dissesto della vita sociale gravato anche dal persistere della pandemia a cui si aggiunge il dramma della fame, delle guerre, del terrorismo e droga) allo stato di vigilanza operosa per poter trasformare l’angoscia in inquietudine attiva.

Dal libro del profeta Geremia
«Ecco, verranno giorni – oracolo del Signore – nei quali io realizzerò le promesse di bene che ho fatto alla casa d’Israele e alla casa di Giuda.
In quei giorni e in quel tempo farò germogliare per Davide un germoglio giusto, che eserciterà il giudizio e la giustizia sulla terra.
In quei giorni Giuda sarà salvato e Gerusalemme vivrà tranquilla, e sarà chiamata: Signore-nostra-giustizia.
Ger 33,14-16

Nel libro del profeta Geremia troviamo raccontata in modo autobiografico la sua vita. Sappiamo così che la sua chiamata avvenne intorno al 626 a.C. quando ancora era un ragazzo e desiderava sposarsi con la sua Giuditta, ma Dio stesso glielo proibisce, ed è per questo che è stato l’unico profeta celibe dell’A.T a differenza di tutti gli altri. Aveva un carattere mite e, all'inizio della sua missione, in cui era giovane inesperto, dovette affrontare il momento più difficile e decisivo della storia della nazione giudaica, quello che conduce all'esilio in Babilonia (587 a.C.). Egli tenta di tutto: scuote il torpore del popolo con una predicazione che chiede una radicale conversione; appoggia la riforma nazionalista e religiosa del re Giosia (622 a.C.); cerca di convincere tutti alla sottomissione al dominio di Babilonia dopo la morte del re (609 a.C.). Viene però accusato di pessimismo religioso e di disfattismo politico.
Geremia, profeta del dolore e della misericordia, che preannuncia più di ogni altro la figura di Gesù, rimane per il suo popolo, e per tutti i cristiani, un testimone della speranza. Egli è pure l’esempio di una incorruttibile fedeltà alla propria vocazione, qualunque siano le difficoltà.
In questo brano divenuto famoso per l’interpretazione messianica che la tradizione giudaica e cristiana gli hanno attribuito, Il Signore tramite il suo profeta “mentre egli era ancora chiuso nell’atrio della prigione”, fa delle preziose rivelazioni che riguardano la restaurazione di Gerusalemme e la liberazione del suo popolo, dopo la catastrofe che s’abbatterà su di esso. “Ecco, verranno giorni – oracolo del Signore – nei quali io realizzerò le promesse di bene che ho fatto alla casa d’Israele e alla casa di Giuda.” Poi sulla traccia anche di una celebre profezia di Isaia (Is11,1) continua annunciando: “In quei giorni e in quel tempo farò germogliare per Davide un germoglio giusto, che eserciterà il giudizio e la giustizia sulla terra”.
Il germoglio è segno di vita, di futuro, di movimento, di speranza, quel discendente di Davide aprirà, quindi, un orizzonte nuovo verso cui va l’attenzione di tutto il popolo.
E’ Geremia stesso a dare il valore simbolico a quel ramoscello: “In quei giorni Giuda sarà salvato e Gerusalemme vivrà tranquilla, e sarà chiamata: Signore-nostra-giustizia.“
Queste tre parole unite insieme “Signore-nostra-giustizia” sembrano la formula magica che l’umanità ripete da secoli in tutte le lingue che sogna nelle sue attese, ma che da sola, con le proprie forze , non è riuscita mai a costruire nella storia.

Salmo 24 - A te, Signore, innalzo l’anima mia, in te confido.

Fammi conoscere, Signore, le tue vie,
insegnami i tuoi sentieri.
Guidami nella tua fedeltà e istruiscimi,
perché sei tu il Dio della mia salvezza.

Buono e retto è il Signore,
indica ai peccatori la via giusta;
guida i poveri secondo giustizia,
insegna ai poveri la sua via.

Tutti i sentieri del Signore sono amore e fedeltà
per chi custodisce la sua alleanza e i suoi precetti.
Il Signore si confida con chi lo teme:
gli fa conoscere la sua alleanza.

Il salmista è pieno d’umiltà al ricordo delle sue numerose colpe della sua giovinezza. E’ sgomento alla vista che tanti suoi amici lo hanno tradito per un nulla. Uno screzio è bastato perché si mettessero contro di lui. Egli, piegato dal peso dei suoi peccati, domanda che Dio guardi a lui e non a quanto ha fatto non osservando “la sua alleanza e i suoi precetti”.
Si trova in grande difficoltà di fronte ad avversari che lo odiano in modo violento e lui non ha via di salvezza che quella del Signore.
Gli errori passati sono il frutto del suo abbandono della “via giusta”. Ora sa che “tutti i sentieri del Signore sono amore e fedeltà”, cioè non portano a rovina, ma anzi danno prosperità, poiché la discendenza di chi teme il Signore “possederà la terra”. L’orante voleva affermarsi sugli altri agendo con spavalderia, con vie traverse, ed ecco che sconfessa tutto il suo passato, trattenendone però la lezione di umiltà, che gli ha dato.
Egli sa che non andrà deluso perché ha deciso di essere protetto da "integrità e rettitudine”, cioè dall’osservanza dell’alleanza stabilita da Dio con Israele. L’orante non pensa solo a se stesso, si sente parte del popolo di Dio, e invoca la liberazione di Israele dalle angosce date dai nemici. La liberazione dell’Israele di Dio, la Chiesa, cioè l’Israele fondato sulla fede in Cristo, non escludendo nella sua carità quello etnico basato sulla carne e sul sangue, per il quale la pace passerà dall’accoglienza del Principe della pace.
Commento tratto dal Perfetta Letizia

Dalla prima lettera di S.Paolo Apostolo ai Tessalonicesi
Fratelli, il Signore vi faccia crescere e sovrabbondare nell’amore fra voi e verso tutti, come sovrabbonda il nostro per voi, per rendere saldi i vostri cuori e irreprensibili nella santità, davanti a Dio e Padre nostro, alla venuta del Signore nostro Gesù con tutti i suoi santi.
Per il resto, fratelli, vi preghiamo e supplichiamo nel Signore Gesù affinché, come avete imparato da noi il modo di comportarvi e di piacere a Dio – e così già vi comportate –, possiate progredire ancora di più.
Voi conoscete quali regole di vita vi abbiamo dato da parte del Signore Gesù.
1Ts 3,12.4,2

La Prima lettera ai Tessalonicesi è stata scritta da S.Paolo intorno al 50. E’ il più antico testo del Nuovo Testamento e si trova incluso già nelle prime raccolte di scritti cristiani. Lo scritto delinea la personalità di Paolo, evidenziando l’evoluzione nella quale egli passa dal confidare sulle proprie risorse, al fidarsi sempre più di Dio. La lettera è stata scritta in greco e indirizzata ai membri di una comunità cristiana fondata pochi mesi prima da Paolo a Tessalonica.
Il motivo per la composizione della lettera è stato per chiarire un insegnamento di Paolo ai suoi discepoli, sulla seconda venuta di Gesù alla fine dei tempi. Paolo aveva affermato che ciò sarebbe accaduto presto, entro la fine della generazione corrente, e ai suoi discepoli che si erano interrogati sul destino di coloro che erano morti nel frattempo, Paolo spiega che i morti sarebbero risorti e insieme ai vivi sarebbero andati incontro al Signore per unirsi a Lui.
La lettera si rivolgeva ad una comunità cristiana in buona parte costituita da persone provenienti dal paganesimo, per cui non si fa uso dell'A.T. e l'annuncio si concentra sulla risurrezione di Gesù e sulla liberazione dei credenti. Nella parte centrale Paolo si sofferma, in particolare, sulla natura dell'identità cristiana nei confronti dell'ambiente esterno: essa ha il suo fondamento nella fede, nella carità e nella speranza.
In questo brano Paolo, dopo aver chiesto a Dio,che gli conceda di ritornare a Tessalonica, intercede per i suoi interlocutori: “il Signore vi faccia crescere e sovrabbondare nell’amore fra voi e verso tutti, come sovrabbonda il nostro per voi” Anche se i tessalonicesi hanno dato prova di una fede operosa (v. 1,3), hanno ancora molta strada da fare e Paolo, nella sua preghiera di intercessione. augura per loro la crescita e la sovrabbondanza nell’amore vicendevole verso tutti. Come modello Paolo indica ancora una volta il suo stesso amore verso di loro, fatto di dedizione incondizionata e di cura premurosa.
Paolo fa poi un’altra richiesta che è collegata alla precedente e ne indica la motivazione: “per rendere saldi i vostri cuori e irreprensibili nella santità, davanti a Dio e Padre nostro, alla venuta del Signore nostro Gesù con tutti i suoi santi”. Il pensiero si rivolge qui al momento della seconda “venuta” del Signore Gesù, il quale sarà accompagnato dai suoi santi, cioè dalle schiere angeliche. Paolo chiede a Dio, in vista di quell’evento, di rendere saldi e irreprensibili i loro cuori nella santità, che già hanno ricevuto nel battesimo. Ciò deve avvenire “davanti a Dio e Padre nostro”. Un vero amore fraterno, che si apre a tutti, anche a coloro che non fanno parte della comunità, rappresenta la migliore preparazione e la più solida garanzia per l’incontro decisivo dell’ultimo giorno.
L’attesa della venuta finale di Cristo non deve consistere quindi in una attesa inoperosa, ma in un impegno costante per costruire rapporti nuovi basati sull’amore.
In questa preghiera, che chiude la prima parte della lettera, sono segnalati quegli atteggiamenti di amore, santità e irreprensibilità che costituiranno il tema della seconda parte.
Da questo punto, ossia dal capitolo 4 inizia la seconda parte della lettera, composta di esortazioni, ammonimenti, istruzioni, parole di conforto.
Paolo la introduce con queste parole:
“Per il resto, fratelli, vi preghiamo e supplichiamo nel Signore Gesù affinché, come avete imparato da noi il modo di comportarvi e di piacere a Dio – e così già vi comportate –, possiate progredire ancora di più.”
L’intenzione appare subito in apertura nella formula “vi preghiamo ed esortiamo nel Signore Gesù”.
In stretto collegamento con quanto ha appena detto, Paolo esorta anzitutto i tessalonicesi a progredire nel cammino già intrapreso. Essi sanno come devono comportarsi e già si comportano così, perciò Paolo non deve far altro che invitarli a continuare nella strada intrapresa, incoraggiandoli a progredire sempre di più.
Poi aggiunge: “Voi conoscete quali regole di vita vi abbiamo dato da parte del Signore Gesù”. Essi devono essere sempre consapevoli che le istruzioni che lui, Paolo, ha dato loro provengono sempre dal Signore.
Dalle parole di Paolo possiamo comprendere che Dio non si serve dell’uomo come di uno strumento passivo; al contrario il fatto che Lui intervenga per primo serve a rafforzare nell’uomo l’esercizio della propria libertà e creatività.

Dal Vangelo secondo Luca
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti, mentre gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra. Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte. Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire su una nube con grande potenza e gloria.
Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina».
State attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso all’improvviso; come un laccio infatti esso si abbatterà sopra tutti coloro che abitano sulla faccia di tutta la terra. Vegliate in ogni momento pregando, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che sta per accadere e di comparire davanti al Figlio dell’uomo».
Lc21,25-28.34-36

Il Vangelo secondo Luca, che ci accompagnerà in questo terzo anno liturgico, è il terzo dei Vangeli (uno dei tre sinottici) ed è stato scritto in greco intorno agli anni 80-90, utilizzando il Vangelo secondo Marco. E’ suddiviso in 24 capitoli, e viene definito, dalla tradizione cristiana, come il Vangelo della misericordia, perchè ci riporta alcune celebri parabole come quella del figliol prodigo e quella del buon samaritano.
E’ anche il Vangelo che pone un’enfasi speciale sulla preghiera, le azioni dello Spirito Santo, e sulla gioia. Secondo l'antica tradizione ecclesiastica, l'autore è San Luca, un collaboratore serio e fidato dell'apostolo Paolo, da lui menzionato, nella 2Tim4,11 e nella Col 4,14, viene chiamato “il caro medico”. Che Luca fosse medico lo si può dedurre anche dalla citazione che fa della sudorazione di sangue di Gesù, rarissimo fenomeno della ematidrosi, causata dalla intensa agonia spirituale che Gesù stava soffrendo.
In questo brano l’evangelista ci propone “il discorso sulle realtà ultime” che Gesù fa prima della Sua passione. Impressionano soprattutto le immagini tempestose e apocalittiche, tipiche di quei secoli e usate per indicare simbolicamente l’irruzione efficace di Dio nella storia confusa e tragica dell’uomo.
“Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti, mentre gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra. Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte”.
Questi segni sono anzitutto di carattere cosmico e sono in parte paralleli a quelli che precedono la caduta di Gerusalemme (vv. 10-11). Gesù dice che avranno luogo nel sole, nella luna e nelle stelle, senza specificare, come fa in Marco, in che cosa consisteranno. Con essi ci saranno anche fenomeni terrestri, che consistono in un terribile sconvolgimento del mare e dei flutti (nel sal 65,8 troviamo descrizioni analoghe) che genereranno angoscia e ansia in tutte le nazioni. Gli sconvolgimenti del cielo faranno presagire lo scatenarsi di qualcosa di terribile, provocando in tutti gli uomini un terrore tale da farli “morire per la paura”. Questi segni preannunciano l’evento escatologico: “Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire su una nube con grande potenza e gloria”.
Questo evento viene descritto con chiaro riferimento alla visione del profeta Daniele (Dn7,13), quasi con le stesse parole di Marco. Nella frase successiva però Luca si distacca da Marco in quanto, invece di accennare al raduno escatologico degli eletti (Mc 13,27), riporta un’esortazione: “Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina”.
Le cose che cominceranno ad accadere sono i segni cosmici che precedono immediatamente la
venuta del Figlio dell’uomo; vedendole i discepoli dovranno cambiare completamente il loro atteggiamento: dopo essere stati oppressi dal peso terribile delle persecuzioni, essi dovranno ora risollevarsi ed alzare la testa perché si avvicina la loro liberazione. Per i seguaci di Cristo gli sconvolgimenti che precederanno la venuta del personaggio celeste non dovranno essere causa di terrore, ma di speranza, perché preludono a un evento che segnerà il loro trionfo.
Dopo aver preannunziato la venuta finale del Figlio dell’uomo, presentandola come un evento di liberazione, Luca riporta l’appello alla vigilanza, ed utilizza anche lui come similitudine la parabola del fico come invito a saper riconoscere i segni dei tempi.
Nell’esortazione alla vigilanza, Luca però si allontana dal testo di Marco, e riporta così le parole di Gesù: “State attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso all’improvviso; come un laccio infatti esso si abbatterà sopra tutti coloro che abitano sulla faccia di tutta la terra. “
Luca, convinto che la fine del mondo non è vicina, qui accentua la necessità che, nel prolungarsi dell’attesa, i discepoli di Gesù non si lascino sopraffare da dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita. Queste parole ci suggeriscono di legare lo stato di paura e di angoscia (che non possiamo non provare di fronte al persistente dissesto della vita sociale con fame, guerre, terrorismo e droga che dilagano in ogni parte del mondo) allo stato di vigilanza, trasformando l’angoscia in inquietudine attiva.
Diversamente da Marco, che termina il discorso con l’invito alla vigilanza, e da Matteo, che richiama l’idea del giudizio, Luca conclude il discorso con un invito alla preghiera “Vegliate in ogni momento pregando, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che sta per accadere e di comparire davanti al Figlio dell’uomo”.
Per Luca la vigilanza a cui i credenti sono chiamati, consiste in un atteggiamento costante di preghiera. Per lui la preghiera è veramente il segno caratteristico della presenza cristiana nel mondo. Certamente la preghiera non si sostituisce all’azione volta a rendere presente il vangelo nel mondo mediante la testimonianza e l’impegno per reagire alla corruzione dilagante, tuttavia rappresenta senza dubbio l’atteggiamento fondamentale del credente il quale, ponendosi ogni momento di fronte al suo Signore, trova in Lui la luce e la forza per attuare nella storia il Suo progetto di salvezza.

*****

“Oggi inizia l’Avvento, il tempo liturgico che ci prepara al Natale, invitandoci ad alzare lo sguardo e ad aprire il cuore per accogliere Gesù. In Avvento non viviamo solo l’attesa del Natale; veniamo invitati anche a risvegliare l’attesa del ritorno glorioso di Cristo – quando alla fine dei tempi tornerà –, preparandoci all’incontro finale con Lui con scelte coerenti e coraggiose. Ricordiamo il Natale, aspettiamo il ritorno glorioso di Cristo, e anche il nostro incontro personale: il giorno nel quale il Signore chiamerà.
In queste quattro settimane siamo chiamati a uscire da un modo di vivere rassegnato e abitudinario, e ad uscire alimentando speranze, alimentando sogni per un futuro nuovo. Il Vangelo di questa domenica va proprio in tale direzione e ci mette in guardia dal lasciarci opprimere da uno stile di vita egocentrico o dai ritmi convulsi delle giornate. Risuonano particolarmente incisive le parole di Gesù: «State attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso all’improvviso. […] Vegliate in ogni momento pregando»
Stare svegli e pregare: ecco come vivere questo tempo da oggi fino a Natale. Stare svegli e pregare. Il sonno interiore nasce dal girare sempre attorno a noi stessi e dal restare bloccati nel chiuso della propria vita coi suoi problemi, le sue gioie e i suoi dolori, ma sempre girare intorno a noi stessi. E questo stanca, questo annoia, questo chiude alla speranza. Si trova qui la radice del torpore e della pigrizia di cui parla il Vangelo.
L’Avvento ci invita a un impegno di vigilanza guardando fuori da noi stessi, allargando la mente e il cuore per aprirci alle necessità della gente, dei fratelli, al desiderio di un mondo nuovo. È il desiderio di tanti popoli martoriati dalla fame, dall’ingiustizia, dalla guerra; è il desiderio dei poveri, dei deboli, degli abbandonati. Questo tempo è opportuno per aprire il nostro cuore, per farci domande concrete su come e per chi spendiamo la nostra vita.
Il secondo atteggiamento per vivere bene il tempo dell’attesa del Signore è quello della preghiera. «Risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina» , ammonisce il Vangelo di Luca. Si tratta di alzarsi e pregare, rivolgendo i nostri pensieri e il nostro cuore a Gesù che sta per venire. Ci si alza quando si attende qualcosa o qualcuno. Noi attendiamo Gesù, lo vogliamo attendere nella preghiera, che è strettamente legata alla vigilanza. Pregare, attendere Gesù, aprirsi agli altri, essere svegli, non chiusi in noi stessi. Ma se noi pensiamo al Natale in un clima di consumismo, di vedere cosa posso comprare per fare questo e quest’altro, di festa mondana, Gesù passerà e non lo troveremo. Noi attendiamo Gesù e lo vogliamo attendere nella preghiera, che è strettamente legata alla vigilanza.
Ma qual è l’orizzonte della nostra attesa orante? Ce lo indicano nella Bibbia soprattutto le voci dei profeti. Oggi è quella di Geremia, che parla al popolo duramente provato dall’esilio e che rischia di smarrire la propria identità. Anche noi cristiani, che pure siamo popolo di Dio, rischiamo di mondanizzarci e di perdere la nostra identità, anzi, di “paganizzare” lo stile cristiano. Perciò abbiamo bisogno della Parola di Dio che attraverso il profeta ci annuncia: «Ecco, verranno giorni nei quali io realizzerò le promesse di bene che ho fatto [...]. Farò germogliare per Davide un germoglio giusto, che eserciterà il giudizio e la giustizia sulla terra» (33,14-15). E quel germoglio giusto è Gesù, è Gesù che viene e che noi attendiamo. La Vergine Maria, che ci porta Gesù, donna dell’attesa e della preghiera, ci aiuti a rafforzare la nostra speranza nelle promesse del suo Figlio Gesù, per farci sperimentare che, attraverso il travaglio della storia, Dio resta sempre fedele e si serve anche degli errori umani per manifestare la sua misericordia.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 2 dicembre 2018

Pubblicato in Liturgia

In ogni ultima domenica dell’Anno liturgico, la Chiesa celebra Cristo Re dell'Universo.
La storia di questa festa parte dal 1899 con papa Leone XIII, ma fu PIO XI che la confermò come festa con l'enciclica “Quas Primas” dell'11 dicembre 1925.
Gesù Cristo è re, perché è l'unico mediatore della salvezza di tutta la creazione, a Lui appartengono la gloria e il potere. Solo in Lui, tutte le cose trovano il loro compimento, la loro vera consistenza secondo il disegno creatore di Dio.
Nella prima lettura, il profeta Daniele in una visione prefetica contempla il Figlio dell’uomo, cioè il Messia, che viene sulle nubi del cielo per instaurare nel mondo un regno universale ed eterno.
Nella seconda lettura, tratta dal libro dell’Apocalisse, l’apostolo Giovanni, per incoraggiare le comunità cristiane perseguitate, annuncia la venuta gloriosa del Cristo giudice per compiere il giudizio sul mondo. La Sua gloria regale è passata attragerso l’immolazione e l’ignominia della croce.
Nel Vangelo di Giovanni, Gesù, dinanzi a Pilato, afferma con decisione la Sua regalità. Un regno, però, il Suo, che non è di questo mondo: solo la fede può intenderne la portata, testimoniare la verità e attuarne nella vita le sue esigenze di giustizia, di amore e di pace.
Il Cristo che oggi adoriamo non è un Cristo lontano dalle tempeste della vita umana; anzi è colui che spinge in avanti l’umanità senza armate o potenze politiche ed econom,iche, eppure riesce a seminare paura in mezzo alle file del male. Guardando alle vicende drammatiche di questi anni, il vero credente deve stringersi ancora di più a Cristo, roccia viva. Certo la storia sembra un groviglio di contraddizioni e un gioco scandaloso di potenze e corse sfrenate al potere, eppure è dotata segretamente di una logica misteriosa, quella del regno di Dio.
I primi cristiani si definivano come stranieri-residenti, impegnati in fondo in questo mondo, ma consapevoli della loro appartenenza al cielo. Solo i nostri fratelli perseguitati, e chiunque cerca di vivere la fede e la verità nella vita quotidiana, sono testimoni credibili della regalità di Cristo.

Dal libro del profeta Daniele
Guardando nelle visioni notturne,
ecco venire con le nubi del cielo
uno simile a un figlio d’uomo;
giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui.
Gli furono dati potere, gloria e regno;
tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano:
il suo potere è un potere eterno, che non finirà mai,
e il suo regno non sarà mai distrutto.
Dn 7,13-14

Nel Libro del profeta Daniele si cerca di intravedere il senso della storia come si presenta ai credenti nel Dio d'Israele, nel II secolo a.C.. Il capitolo 7, da dove è tratto il brano liturgico, inizia con la visione apocalittica di quattro bestie che sorgono dall'oceano, il luogo del caos e del male. Le bestie rappresentano il dominio e il potere di quattro regni che si sono succeduti nel Medio Oriente e di cui è stato testimone il popolo d'Israele nel suo cammino faticoso: il leone che rappresenta Babilonia, l'orso che rappresenta il popolo della Media, il leopardo con quattro teste che è simbolo dei Persiani che scrutano in ogni direzione in cerca della preda, la quarta bestia, un mostro terribile, che richiama il regno di Alessandro Magno e dei suoi successori. Israele sta vivendo un tempo angoscioso in cui si ribella e tenta di conquistarsi una libertà, combattendo l'oppressione culturale e religiosa di Antioco IV Epifane (175-164 a.C.).
Nella visione, Daniele intravede il giudizio finale come un grande processo da parte di Dio, un vegliardo, che pronuncia la sentenza contro le bestie che opprimono il mondo con la violenza e continua:
“Guardando ancora nelle visioni notturne,ecco venire con le nubi del cielo uno simile a un figlio d’uomo; giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui. Gli furono dati potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano: il suo potere è un potere eterno, che non finirà mai, e il suo regno non sarà mai distrutto.
All'orizzonte, appare “uno simile a figlio d'uomo" che scende dalle nubi, ossia dal cielo, ed è portatore di speranza e di accoglienza, e che prenderà il posto rimasto vacante dalla caduta degli imperi. Porterà finalmente la pace ed il benessere. Egli, che ha ricevuto i poteri da Dio, sottometterà tutti i popoli. e regnerà indisturbato e giusto poiché il Signore gli avrà riconosciuto potenza e forza su tutti i regni della terra. Sull’interpretazione di questa visione ebbe inizio la guerra partigiana dei Maccabei e si sviluppò con vicende sempre più incoraggianti, fino a far pensare che si potesse arrivare, non solo alla indipendenza ma anche al dominio del mondo come, d'altronde lo fu per altre nazioni.
Purtroppo la storia ci ha riportato che anche i vincitori ebrei non seppero mantenere ferma l'alleanza con Dio ed anche loro mantennero il potere con violenza, oppressione, intrighi e crudeltà.
In alcune correnti del giudaismo “uno simile a un figlio d’uomo” è identificato con il Messia davidico, e numerosi studiosi vedono in questo “figlio dell'uomo” un essere celeste o angelico, con sfumature diverse, che potrebbe essere identificato con Michele, il leader dell'esercito celeste, oppure con Gabriele.
Il Nuovo Testamento riconosce la sua piena realizzazione in Gesù Cristo, che come “Figlio dell’uomo”, dopo essere passato attraverso la passione, si presenterà sulle nubi del cielo e sarà investito di ogni potere.
L’evangelista Matteo infatti interpreta questo passo facendo dire a Gesù davanti al Sinedrio “…io vi dico: d’ora innanzi vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra di Dio, e venire sulle nubi del cielo ”Mt 26,64 e prima di salire in cielo . “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra… Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”.Mt28,18


Salmo 92 - Il Signore regna, si riveste di splendore.

Il Signore regna, si riveste di maestà:
si riveste il Signore, si cinge di forza.

È stabile il mondo, non potrà vacillare.
Stabile è il tuo trono da sempre,
dall’eternità tu sei

Davvero degni di fede i tuoi insegnamenti!
La santità si addice alla tua casa
per la durata dei giorni, Signore.

Questo salmo celebra la sovranità di Dio su tutto il mondo. Nulla sfugge a Dio; il suo disegno salvifico nel mondo è saldo e per esso tiene saldo il mondo. Il Signore di fronte all'agitarsi degli uomini afferma la sua sovranità. Egli nell'agitarsi degli imperi contro Israele interviene con la sua potenza; l'immagine che il salmo presenta è quella di un re guerriero che si riveste di armature lucenti: “Si riveste di maestà: si riveste il Signore, si cinge di forza".
Nessuno mai ha potuto annullare la sovranità di Dio, e nessuno lo potrà: “Stabile è il tuo trono da sempre, dall'eternità tu sei”.
Le acque dei fiumi e dei mari non possono più sommergere la terra, perché l'ordine cosmico fissato da Dio non è alterabile (Gn 1,9; 9,11), così pure i popoli non possono annullare il disegno salvifico di Dio nella storia.
I fiumi a cui il salmo fa riferimento sono il Nilo e l'Eufrate, entrambi producevano grandi alluvioni. Essi sono presi a simboli dell'Egitto e dell'Assiria che dilagavano con i loro eserciti nella Palestina. “I fiumi” alzano la loro voce, il loro fragore, ma nulla possono contro Dio. Gli Assiri si sono impadroniti di Tiro, grande potenza del mare, e così da Tiro, tradizionalmente vicino a Gerusalemme, parte la minaccia “dei flutti del mare”. Gli Egiziani, poi, si sono alleati con gli Assiri (2Re 23,29). Queste “acque impetuose” vogliono sommergere, travolgere il disegno di Dio, che ha come punto stabile Israele ricco degli insegnamenti di Dio e religiosamente organizzato attorno al tempio, vincolo di santità.
Il salmo è stato probabilmente composto dopo le grandi incursioni Egiziane e Assire nella Palestina, prima dell'affermarsi dell'impero Babilonese nel 612 con la distruzione di Ninive capitale dell'Assiria.
Il disegno salvifico di Dio, che è Cristo e la sua Chiesa non potrà mai essere abbattuto dalle “acque impetuose” dei popoli in agitazione (Cf. Ap 17,15).
Commento tratto da Perfetta Letizia

Dal libro dell’Apocalisse di S.Giovanni Apostolo
Gesù Cristo è il testimone fedele, il primogenito dei morti e il sovrano dei re della terra.
A Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre, a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen.
Ecco, viene con le nubi e ogni occhio lo vedrà, anche quelli che lo trafissero, e per lui tutte le tribù della terra si batteranno il petto. Sì, Amen!
Dice il Signore Dio: Io sono l’Alfa e l’Omèga, Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente!
Ap 1,5-8

L‘Apocalisse di Giovanni, è l’ultimo libro del Nuovo Testamento, si compone di 22 capitoli, ed è uno dei testi più controversi e difficili da interpretare. Appartiene al gruppo di scritti neotestamentari noto come “letteratura giovannea“, in quanto redatta, intorno all’anno 95, verso la fine dell'impero di Domiziano, dai discepoli dell’apostolo che si sono ispirati al suo insegnamento.
I libri che hanno di più influenzato l'Apocalisse sono i libri dei Profeti, principalmente Daniele, Ezechiele, Isaia, Zaccaria e poi anche il Libro dei Salmi.
L'autore presenta sé stesso come Giovanni, esiliato a Patmos, isola dell‘Egeo, a circa 70 km da Efeso, a causa della Parola di Dio. Secondo alcuni studiosi, la stesura definitiva del libro, anche se iniziata durante l'esilio dell’autore, sarebbe avvenuta ad Efeso.
Questo brano è il prologo dell’Apocalisse che si apre come una specie di lettera inviata dall'apostolo Giovanni alle sette chiese che sono nell'Asia (cioè nell'attuale Turchia), e questi versetti presentano i motivi per cui Gesù deve essere considerato il sovrano dei re della terra.
Giovanni fa la presentazione in una sfolgorante liturgia celeste dicendo: “Gesù Cristo è il testimone fedele, il primogenito dei morti e il sovrano dei re della terra”.
In poche parole sono ricordati i motivi della sua grandezza e della nostra fede in Lui. Gesù è il testimone fedele della promessa fatta un tempo a Davide (2Sam 7,1) e realizzata in Lui. E' primogenito dei morti, poiché è il primo ad essere risorto. E dopo la distruzione dei suoi nemici diventerà sovrano dei re della terra, un titolo con cui si fregiava ufficialmente l'imperatore romano.
“A Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre, a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen.”
Gesù ha fatto tutto questo per amore e grazie alla Sua morte in croce ci ha liberati dai nostri peccati. Questa liberazione ha un altro effetto: ci ha resi un regno, un popolo di sacerdoti che rendono culto a Dio. La professione di fede sfocia nell'adorazione, a Gesù Cristo si tributa gloria e potenza nei secoli. L'amen pone il sigillo a questa professione di fede. (Gli amen sono molto diffusi nell'Apocalisse, sono ripetizioni di inni liturgici che sono stati inseriti nel testo.)
“Ecco, viene con le nubi e ogni occhio lo vedrà, anche quelli che lo trafissero, e per lui tutte le tribù della terra si batteranno il petto. Sì, Amen! “
In questo versetto si ritrovano le profezie riguardanti il Messia. Il Cristo doveva ritornare nella gloria sulle nubi, come il figlio dell'uomo di Dn 7,13. Davanti a lui si batteranno il petto (Zc 12,10.14), tutti quelli che lo trafissero.
“Dice il Signore Dio: Io sono l’Alfa e l’Omèga, Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente! “
L'alfa è la prima lettera del’alfabeto greco e Omega è l’ultima lettera. Allora, questa dichiarazione vuol dire che Gesù è attribuisce a sé una qualità di Dio, l'essere principio e fine di ogni cosa.

Dal vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, Pilato disse a Gesù: «Sei tu il re dei Giudei?». Gesù rispose: «Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?». Pilato disse: «Sono forse io Giudeo? La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me. Che cosa hai fatto?».
Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù».
Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?». Rispose Gesù: «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce».
Gv 18, 33b-37

Per la solennità di Cristo re, è dal Vangelo di Giovanni che viene preso questo racconto della passione. Mentre per i vangeli sinottici il tema del regno è centrale nella parole di Gesù, per Giovanni acquista più rilievo alla fine dell’esistenza terrena di Gesù, ove la regalità di Cristo appare molte volte. Giovanni, dopo il racconto dell’arresto nell’orto degli Ulivi, riporta che Gesù viene condotto prima da Anna, che era stato precedentemente sommo sacerdote e aveva conservato un grande potere, il quale lo interroga, ma senza ottenere da lui una risposta; e poi che viene inviato da Caifa, che era invece il sommo sacerdote in carica, il quale, senza darsi cura neppure di interrogarlo, lo fa condurre nel pretorio, dove risiedeva il procuratore romano, Pilato. Ha qui inizio la seconda parte del processo tutto incentrato sul colloquio tra il rappresentante dell’impero romano e Gesù.
Il brano liturgico inizia con le domande di Pilato che rientrato nel pretorio, dopo aver conosciuto le accuse dei giudei contro Gesù, si rivolge a lui con questa domanda: “Sei tu il re dei Giudei?”.
Gesù allora gli chiede se dice ciò di sua iniziativa oppure perché altri gliel’hanno detto sul suo conto, al che Pilato risponde: “Sono forse io Giudeo? La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me. Che cosa hai fatto?”
Gesù era stato consegnato a Pilato con l’accusa di essere un malfattore, ma il procuratore aveva capito subito che si trattava di un’accusa di tipo religioso, e di conseguenza li aveva invitati a giudicarlo secondo la loro legge. Ma i giudei avevano rifiutato con la scusa di non poter mettere a morte nessuno: essi dunque avevano già deciso che Gesù doveva essere condannato a morte, ma questa pena poteva essere decretata solo dall’autorità romana, perciò non era in loro potere emettere sentenze.
Sulla base di questo dialogo tra i giudei e Pilato, appare chiaro che, secondo Giovanni, il crimine di cui Gesù era accusato consisteva nella pretesa di essere re. Ma siccome si era rifiutato di giudicarlo come un ribelle, è chiaro che Pilato parla di regalità non sul piano politico, ma su quello religioso, in cui si riteneva incompetente. Pilato sottolinea che a consegnare a lui Gesù non sono stati solo i sommi sacerdoti, ma tutta la nazione giudaica.
Una volta chiarito che l’iniziativa processuale è partita non da Pilato ma dai giudei, l’interrogatorio si trasforma in un dialogo intorno al significato che Gesù dà alla regalità che, secondo i suoi accusatori, egli si sarebbe attribuita.
Alla domanda di Pilato “che cosa hai fatto?” Gesù risponde: “Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù”.
Con queste parole Gesù riconosce implicitamente la propria regalità, ma sottolinea che essa si differenzia totalmente dalla regalità di questo mondo. Il Suo regno anche se si realizza in questo mondo, non appartiene a questo mondo, in quanto non ne segue la logica. Siccome la regalità di quaggiù viene ottenuta e si mantiene con l’uso della forza, di conseguenza il regno di Gesù deve essere totalmente privo di ogni violenza.
Alla domanda ironica e provocatoria di Pilano, “Dunque tu sei re?”, Gesù, riconosce questa volta apertamente: “Tu lo dici: io sono re”. Solo l’evangelista Giovanni riporta non solo la risposta ma un dialogo e una definizione precisa del regno di Cristo: “Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce”. E’ a questo punto che appare la dimensione della regalità di Cristo che si fonda sulla testimonianza resa alla verità. E “verità “, nel linguaggio biblico, è un termine dalle molteplici risonanze, evoca infatti la rivelazione della bontà del Padre, è espressione della fedeltà di Dio alle sue promesse di salvezza, è l’annunzio del regno divino, è il Vangelo, è Cristo stesso!
Il confronto tra Cristo e Pilato è, quindi, la definizione di due regni contrastanti. Da un lato c’è quello imperiale che continua a incombere in forme diverse nelle varie fasi della storia umana, ed è un regno che, per dominare, non si fa scrupolo di usare i mezzi più brutali fino ad arrivare a spargimenti di sangue. Dall’altra parte c’è il “regno della verità”, che ha la sua radice nella solidarietà tra Dio e l’uomo, che ha bisogno di essere amato e compreso, e trova la sua attuazione, non nel sangue degli altri, ma nel sangue versato dal Suo re e Signore.
Il Cristo re dell’universo, che oggi adoriamo, non è un re assente dalla tempeste della vita umana, anzi è Colui che spinge in avanti l’umanità senza armate, o potenze politiche ed economiche. Guida la storia del mondo, come un nocchiero una nave in tempesta. Gesù Cristo è Colui che agisce pazientemente, ma con mano ferma, e il cristiano vero deve avere fiducia in Lui, “stella radiosa del mattino”, e seguirlo proprio nei momenti più tenebrosi e dolorosi.

******************************

“La solennità di Gesù Cristo Re dell’universo, che celebriamo oggi, è posta al termine dell’anno liturgico e ricorda che la vita del creato non avanza a caso, ma procede verso una meta finale: la manifestazione definitiva di Cristo, Signore della storia e di tutto il creato. La conclusione della storia sarà il suo regno eterno.
L’odierno brano evangelico ci parla di questo regno, il regno di Cristo, il regno di Gesù, raccontando la situazione umiliante in cui si è trovato Gesù dopo essere stato arrestato nel Getsemani: legato, insultato, accusato e condotto dinanzi alle autorità di Gerusalemme. E poi, viene presentato al procuratore romano, come uno che attenta al potere politico, a diventare il re dei giudei. Pilato allora fa la sua inchiesta e in un interrogatorio drammatico gli chiede per ben due volte se Egli sia un re.
E Gesù dapprima risponde che il suo regno «non è di questo mondo». Poi afferma: «Tu lo dici: io sono re».
È evidente da tutta la sua vita che Gesù non ha ambizioni politiche. Ricordiamo che dopo la moltiplicazione dei pani, la gente, entusiasta del miracolo, avrebbe voluto proclamarlo re, per rovesciare il potere romano e ristabilire il regno d’Israele. Ma per Gesù il regno è un’altra cosa, e non si realizza certo con la rivolta, la violenza e la forza delle armi. Perciò si era ritirato da solo sul monte a pregare. Adesso, rispondendo a Pilato, gli fa notare che i suoi discepoli non hanno combattuto per difenderlo. Dice: «Se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei».
Gesù vuole far capire che al di sopra del potere politico ce n’è un altro molto più grande, che non si consegue con mezzi umani. Lui è venuto sulla terra per esercitare questo potere, che è l’amore, rendendo testimonianza alla verità. Si tratta della verità divina che in definitiva è il messaggio essenziale del Vangelo: «Dio è amore» (1Gv 4,8) e vuole stabilire nel mondo il suo regno di amore, di giustizia e di pace. E questo è il regno di cui Gesù è il re, e che si estende fino alla fine dei tempi. La storia ci insegna che i regni fondati sul potere delle armi e sulla prevaricazione sono fragili e prima o poi crollano. Ma il regno di Dio è fondato sul suo amore e si radica nei cuori – il regno di Dio si radica nei cuori –, conferendo a chi lo accoglie pace, libertà e pienezza di vita. Tutti noi vogliamo pace, tutti noi vogliamo libertà e vogliamo pienezza. E come si fa? Lascia che l’amore di Dio, il regno di Dio, l’amore di Gesù si radichi nel tuo cuore e avrai pace, avrai libertà e avrai pienezza.
Gesù oggi ci chiede di lasciare che Lui diventi il nostro re. Un re che con la sua parola, il suo esempio e la sua vita immolata sulla croce ci ha salvato dalla morte, e indica – questo re – la strada all’uomo smarrito, dà luce nuova alla nostra esistenza segnata dal dubbio, dalla paura e dalle prove di ogni giorno. Ma non dobbiamo dimenticare che il regno di Gesù non è di questo mondo. Egli potrà dare un senso nuovo alla nostra vita, a volte messa a dura prova anche dai nostri sbagli e dai nostri peccati, soltanto a condizione che noi non seguiamo le logiche del mondo e dei suoi “re”.
La Vergine Maria ci aiuti ad accogliere Gesù come re della nostra vita e a diffondere il suo regno, dando testimonianza alla verità che è l’amore.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 25 novembre 2018

Pubblicato in Liturgia

In questa domenica ricorre la Quinta giornata mondiale dei Poveri e il tema scelto dal Papa per quest’anno riprende l’evangelista Marco: “I poveri li avete sempre con voi” (14,7)-
Le letture che la Liturgia ci propone ci invitano a riflettere su come viviamo il tempo, e a prestare più attenzione ai segni che si presentano puntuali sul nostro cammino. Lungo l’anno liturgico, che ora volge al termine, abbiamo celebrato le tappe del mistero di salvezza, e con queste letture consideriamo la conclusione trionfale.
Nella prima lettura, tratta dal libro del Profeta Daniele, il libro apocalittico dell’Antico Testamento, il profeta non vede la fine dei tempi come una catastrofe, ma come il giorno della salvezza per tutte le genti, che sono sotto l’oppressione. E’ uno dei testi in cui si afferma con chiarezza la resurrezione dei morti che “si risveglieranno: gli uni alla vita eterna e gli altri alla vergogna e per l’infamia eterna.”.
Nella seconda lettura, l’autore della lettera agli Ebrei, afferma che a differenza dei sacerdoti dell’Antica Alleanza, Cristo ha offerto se stesso una volta per sempre per espiare i peccati ed è nella gloria, dove attende coloro che egli ha santificati.
Nel Vangelo di Marco, troviamo un brano difficile e complesso, con la sua collezione di immagini apocalittiche: le eclissi di sole e di luna, gli sconvolgimenti cosmici che sono però immagini da interpretare non letteralmente, ma simbolicamente. L’unica certezza per noi credenti è che alla fine dei tempi, Cristo verrà nella gloria per riunire tutti gli uomini nel Suo regno. Attento ai segni dei tempi, il credente vive con intensità e serenità il suo presente, la sua “generazione”, guidato dalla parola di Gesù che non passa, in attesa di quella parola decisiva e definitiva che sarà pronunziata da Dio nel momento opportuno e a Lui solo noto.

Dal libro del profeta Daniele
In quel tempo, sorgerà Michele, il gran principe, che vigila sui figli del tuo popolo.
Sarà un tempo di angoscia, come non c’era stata mai dal sorgere delle nazioni fino a quel tempo; in quel tempo sarà salvato il tuo popolo, chiunque si troverà scritto nel libro.
Molti di quelli che dormono nella regione della polvere si risveglieranno: gli uni alla vita eterna e gli altri alla vergogna e per l’infamia eterna.
I saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento; coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre.
Dn 12,1-3


Il Libro del profeta Daniele è un testo contenuto nella Bibbia ebraica e cristiana. È stato scritto in ebraico e una parte in aramaico e secondo molti studiosi, la redazione definitiva del libro è avvenuta in Giudea attorno al 164 a.C..
È composto da 12 capitoli che descrivono le vicende ambientate nell'esilio di Babilonia (587-538 a.C.) del profeta Daniele, saggio ebreo che rimase fedele a Dio, e visioni apocalittiche preannuncianti il Figlio dell’Uomo-Messia e il regno di Dio. Inserito tra i cosiddetti profeti maggiori, il libro di Daniele sarebbe in realtà uno scritto tardivo, assai posteriore a quelli di Isaia, Geremia ed Ezechiele. Si pensa che sia stato scritto durante la persecuzione di Antioco IV Epifane di Siria (215-164 a.C) , per infondere coraggio agli Ebrei a cui era stato vietato di praticare la propria religione.
Il libro si divide in due parti:
La prima parte, dal cap. 1 al cap. 6, narra la storia di Daniele e dei suoi compagni in esilio alla corte di Babilonia. Suggestivi sono il racconto del superamento della prova della fornace, dalla quale Daniele ed i suoi tre compagni vengono miracolosamente salvati, e quello di quando Daniele viene gettato nella fossa dei leoni ed anche in questa circostanza per la fede e la preghiera, Daniele è salvato miracolosamente.La seconda parte, dai cap. 7 al cap. 12, contiene quattro visioni, narrate in prima persona, e interpretate dall’angelo Gabriele.
In questo brano si parla degli ultimi tempi, argomento che riguarda tutti i popoli di tutte le religioni. Il profeta inizia il suo messaggio affermando: “In quel tempo, sorgerà Michele, il gran principe, che vigila sui figli del tuo popolo”. Michele, che dall’ebraico significa “Chi è come Dio?” è spesso associato nella tradizione Ebraica-Cristiana-Musulmana alla battaglia spirituale (Cfr Daniele 10,13,21 Giuda1,9 e Apocalisse 12,7). Michele, che è l’avversario di Satana, ossia del male, quindi identificato come il grande principe, dimostra la sua forza vegliando sui figli del popolo di Dio, coloro che credono. Oltre al suo ruolo di guerriero spirituale, Michele ha un compito speciale nel proteggere Israele (il popolo di Dio) come custode spirituale di chi ha fede.
E prosegue dicendo: “Sarà un tempo di angoscia, come non c’era stata mai dal sorgere delle nazioni fino a quel tempo; in quel tempo sarà salvato il tuo popolo, chiunque si troverà scritto nel libro.”
Il tempo di angoscia si riferisce al tempo della persecuzione per Israele e della calamità mondiale conosciuta come la Grande Tribolazione, questo periodo è anche chiamato da Geremia il tempo dei guai di Giacobbe (30,7).
Il popolo ebraico ha conosciuto molti momenti davvero oscuri di tribolazione nella sua storia: dagli orrori della caduta di Samaria e di Gerusalemme ai terrori provocati da Antioco Epifane, alla distruzione di Gerusalemme da parte dei Romani, alle persecuzioni della chiesa durante il Medioevo, ai pogrommi dell’Europa, alla Shoah del XX secolo. Ma questo momento di difficoltà profetizzato da Daniele sarà diverso e peggiore di quanto Israele abbia mai visto prima.
Anche Gesù nel Vangelo di Matteo (24,21) cita questo passaggio “vi sarà allora una tribolazione grande, quale mai avvenne dall’inizio del mondo fino a ora, né mai più ci sarà” Le Scritture insegnano che il peggio deve ancora venire per Israele e per il popolo di Dio, ma questo tempo non sarà assolutamente una fine, ma un nuovo e migliore. Non importa quanto sia grande l’attacco contro il popolo di Dio, il Signore ha promesso di preservarlo, la Sua promessa ad Abramo non verrà mai meno: “Stabilirò la mia alleanza con te e con la tua discendenza dopo di te di generazione in generazione, come alleanza perenne, per essere il Dio tuo e della tua discendenza dopo di te” (Gn 17,7) Questa promessa di liberazione non è rivolta per ogni persona di origine ebraica, ma per tutti coloro che si trovano iscritti “nel libro” che simboleggia il “resoconto” di tutte le azioni compiute durante la vita di ogni uomo e di ogni donna. Non è concepibile per un DIO , che è bontà assoluta, escludere dalla salvezza le persone che non hanno avuto modo di conoscere la fede ebraica, cristiana o musulmana, perché a salvarsi sarà chiunque in Israele (nelle Nazioni del Mondo) indistintamente avrà compiuto il bene e avrà sfuggito il male.
Il testo prosegue facendo riferimento alla resurrezione del corpo e dello Spirito:
“Molti di quelli che dormono nella regione della polvere si risveglieranno: gli uni alla vita eterna e gli altri alla vergogna e per l’infamia eterna”.
L'espressione “quelli che dormono nella regione della polvere” è una perifrasi per indicare i morti, e “si risveglieranno” è un'espressione che troviamo anche in Is 26, 19 per indicare la certezza di un ritorno alla vita, in contrasto con l'affermazione che i morti non si risvegliano dal loro sonno, come si lamentava Giobbe al cap. 14, 12. Una parte di coloro che si risveglieranno, saranno risvegliati per la vita eterna, cioè per sempre. Questa tema della risurrezione dei giusti a vita eterna lo troviamo affermato e sviluppato nei due libri dei Maccabei e nel libro della Sapienza. Se alcuni saranno risvegliati a vita eterna altri invece, non essendo scritti nel libro della vita, si risveglieranno alla vergogna e per l’infamia eterna.
Il Nuovo Testamento afferma che ci sono due risurrezioni, una per coloro che saranno salvati e una per i dannati (Giovanni 5,29 ; Apocalisse 20, 4-6 e 11-15).
“I saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento; coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre”.
Questo versetto con termini escatologici cerca di precisare quale sarà il senso della vita eterna per coloro che sono scritti nel libro della vita e che si risveglieranno per vivere per sempre. Dicendo che essi saranno “come lo splendore del firmamento” si vuole indicare che essi parteciperanno alla condizione stessa di Dio che viene indicato come vero sole di giustizia e come vero splendore del firmamento.
Due sono dunque le categorie che beneficeranno in modo particolare di questa resurrezione a vita eterna: i sapienti e coloro che avranno “condotto molti alla giustizia”. Questi ultimi risplenderanno come le stelle per sempre,
Certamente il testo è ricco di interpretazioni, ma l'elemento centrale è di fondamentale importanza: la giustizia di Dio non permette che chi perde la vita per Lui, la perda definitivamente perché Dio ricompensa in modo particolare chi insegna che la comunione con Dio vale più della vita: “Poiché la tua grazia vale più della vita,le mie labbra diranno la tua lode. (Sal 63,4).

Salmo 15 - Proteggimi, o Dio: in te mi rifugio.
Il Signore è mia parte di eredità e mio calice:
nelle tue mani è la mia vita.
Io pongo sempre davanti a me il Signore,
sta alla mia destra, non potrò vacillare.

Per questo gioisce il mio cuore
ed esulta la mia anima;
anche il mio corpo riposa al sicuro,
perché non abbandonerai la mia vita negli inferi,
né lascerai che il tuo fedele veda la fossa.

Mi indicherai il sentiero della vita,
gioia piena alla tua presenza,
dolcezza senza fine alla tua destra.

Il salmista si rivolge a Dio con pace avendo eletto il Signore, quale suo rifugio. Non mancano a lui le difficoltà, gli avversari violenti. Senza l’unione con lui ogni cosa non sarebbe più per lui un bene. Egli ama i santi, i giusti; nel compimento messianico che è la Chiesa, i fratelli in Cristo. Egli si sente in forte comunione con loro, e trova forza da questo. Gli empi, che incalzano costruendo e affermando idoli, non lo sgomentano perché la sua vita è nelle mani di Dio, e niente per lui sarebbe sulla terra un bene senza il sommo bene, che è Dio: “Il mio Signore sei tu, solo in te è il mio bene”. L’orante considera come Dio lo aiuta e conforta e come per lui questo sia tutto. La sorte (il sorteggio) (Cf. Gd 17,1; Nm 26,55; ecc.) che assegnò un tempo i vari territori ai casati di Israele, ora è violata dall’ingiustizia dei dominatori idolatri, ma questo fa comprendere meglio all’orante che la vera sua sorte la sua vera sicurezza e forza è proprio il Signore, che gli dà pace e letizia: “Signore è mia parte di eredità e mio calice”. L’orante non tiene per se tutto questo, ma lo partecipa ai fratelli per un nutrirsi reciproco di luce. Non ha odio per gli empi e non li esclude dalla volontà salvifica di Dio: sono essi stessi ad escludersi da questa volontà con “le loro libagioni di sangue”, cioè i loro crimini, vero culto del male. Il salmista è certo che Dio non lo abbandonerà negli inferi una volta lasciata la terra: “non abbandonerai la mia vita negli inferi”. Ed egli sa che “il tuo Santo”, cioè il Cristo (Cf. At 13,35), avrà - ha avuto - vittoria sulla corruzione della tomba. Il salmista sa che percorrendo giorno dopo giorno “il sentiero della vita”, giungerà all’eterna dolcezza del cielo, alla destra di Dio, che è espressione letteraria indicante il glorioso essere con Dio. In assoluta eccellenza è Cristo che nella gloria è alla destra del Padre.
Commento tratto da Perfetta Letizia

Dalla lettera agli Ebrei
Ogni sacerdote si presenta giorno per giorno a celebrare il culto e a offrire molte volte gli stessi sacrifici, che non possono mai eliminare i peccati.
Cristo, invece, avendo offerto un solo sacrificio per i peccati, si è assiso per sempre alla destra di Dio, aspettando ormai che i suoi nemici vengano posti a sgabello dei suoi piedi. Infatti, con un’unica offerta egli ha reso perfetti per sempre quelli che vengono santificati.
Ora, dove c’è il perdono di queste cose, non c’è più offerta per il peccato.
Eb 10,11-14, 18

Anche questo brano della Lettera agli Ebrei continua a trattare il sacerdozio di Cristo e la sua superiorità rispetto al sacerdozio dell'antica alleanza. In particolare il versetto precedente a questo brano recita così: “per quella volontà (la volontà di Dio che Gesù è venuto a compiere) noi siamo stati santificati, per mezzo dell’offerta del corpo di Gesù Cristo, fatta una volta per sempre”.
Il discorso continua nel brano odierno spiegandoci in che senso siamo stati santificati:
“Ogni sacerdote si presenta giorno per giorno a celebrare il culto e a offrire molte volte gli stessi sacrifici, che non possono mai eliminare i peccati”.
E’ nello stile dell’autore fare i paragoni tra Gesù e i sacerdoti del tempio. Egli li vede indaffarati ad offrire sacrifici che non sono per niente utili, poiché non possono eliminare i peccati con un sacrificio purificatore che ha una breve durata.
“Cristo, invece, avendo offerto un solo sacrificio per i peccati, si è assiso per sempre alla destra di Dio, aspettando ormai che i suoi nemici vengano posti a sgabello dei suoi piedi”
Cristo invece ha presentato la sua offerta una sola volta e ora può sedersi alla destra di Dio. C’è sempre il riferimento al salmo 110: “Oracolo del Signore al mio signore: siedi alla mia destra, finché io ponga i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi”. Grazie all'offerta di Cristo, anche i nemici saranno sconfitti e Gesù deve solo aspettare che gli vengano sottomessi.
“Infatti, con un’unica offerta egli ha reso perfetti per sempre quelli che vengono santificati.”
Solidale con i fratelli con cui ha condiviso la condizione mortale, Cristo li ha portati con sé rendendoli partecipi della sua condizione di “consacrato”. Quindi, non solo li ha strappati dalla condizione di peccato, ma li ha resi perfetti, li ha santificati, li ha totalmente consacrati a Dio realizzando le meta ultima della salvezza.
“Ora, dove c’è il perdono di queste cose, non c’è più offerta per il peccato”.
Il brano non riporta i versetti 15-17 in cui è citato Geremia (1,33-34), in cui Dio per mezzo del profeta promette di porre la propria legge nel cuore dei suoi fedeli, in modo che possano conoscere il Signore senza più istruirsi l'un l'altro e termina con il perdono di Dio: non mi ricorderò più dei loro peccati e delle loro iniquità.. Conoscendo questi versetti mancanti possiamo comprendere meglio la conclusione di questo brano: se il peccato è stato perdonato non esiste più e non è più necessario presentare offerte per il perdono dei peccati.
Il peccato nella vita del cristiano dunque è perdonato in Cristo. Certo il peccato esiste ancora, i cristiani non sono indenni da errori e da cadute, ma hanno una via di uscita. Attraverso il sacramento della Riconciliazione ricevono il perdono, la cancellazione dei peccati, in forza del sacrificio di Cristo, che resta valido per tutti i luoghi e tutti i tempi.

Dal vangelo secondo Marco
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«In quei giorni, dopo quella tribolazione, il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte. Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria. Egli manderà gli angeli e radunerà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo.
Dalla pianta di fico imparate la parabola: quando ormai il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, sapete che l’estate è vicina. Così anche voi: quando vedrete accadere queste cose, sappiate che egli è vicino, è alle porte. In verità io vi dico: non passerà questa generazione prima che tutto questo avvenga. Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno. Quanto però a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio, eccetto il Padre».
Mc 13, 24-32

L’evangelista Marco a conclusione del ministero di Gesù a Gerusalemme inserisce un lungo discorso che Gesù tiene poco prima dell’arresto e in cui si sovrappongono e s’intrecciano, tra note di sgomento e toni di promessa, due annunzi diversi: quello della prossima fine di Gerusalemme e quello della fine dei tempi, col ritorno del Figlio dell’uomo
Il capitolo 13, da dove è tratto il brano liturgico, dopo che Gesù preannunzia la distruzione del tempio, e Pietro, Giacomo, Giovanni e Andrea gli chiedono quale sarà il segno che tutte queste cose staranno per compiersi , Gesù continua preannunciando i segni premonitori e le persecuzioni future, a cui seguiranno l'annuncio dell’abominio della desolazione e dei falsi profeti.
A questo punto inizia il brano liturgico con l’annuncio della venuta del Figlio dell'uomo e la parabola del fico, e come conclusione un pressante invito alla vigilanza.
“In quei giorni, dopo quella tribolazione, il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte”.
L'inizio del versetto mostra un legame con la menzione dell'anticristo citato nel brano precedente (vv. 21-23), e contemporaneamente indica la fine di un tempo (quello della tribolazione e dell'abomino del v. 14) e l'irrompere di qualcosa di nuovo. E’ da notare che i verbi in questi versetti sono tutti al futuro e i segni cosmologici indicati da Gesù sono quelli classici dell'apocalittica (V. Is 13,10; 34,4) per indicare il giorno del giudizio divino. In questi versetti l'orizzonte si allarga sul cosmo intero, ma queste immagini più che l'aspetto spaventoso e di condanna della fine del mondo servono ad introdurre l'avvenimento centrale indicato subito dopo.
“Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria”.
L'apparizione del Figlio dell'uomo è il fulcro centrale del discorso. Egli è descritto come il giudice del mondo (la presenza delle nubi, l'indicazione della grande potenza e gloria trovano riferimento in Dn 7,13, ma anche Is 19,1)
“Egli manderà gli angeli e radunerà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo.”
La visione si completa con la riunione degli eletti (che sono i membri della comunità credente); dietro questa immagine c'è l'idea della dispersione del popolo di Dio e del giudizio come momento di salvezza universale.
Dalla pianta di fico imparate la parabola: quando ormai il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, sapete che l’estate è vicina.
La breve parabola del fico riprende il tema del “quando”, l'albero di fico infatti nella breve primavera palestinese era indicativo per avvertire l'inizio della stagione estiva, essendo l'unico in quella regione a perdere le foglie nella stagione invernale.
“Così anche voi: quando vedrete accadere queste cose, sappiate che egli è vicino, è alle porte”
Dunque quando accadranno le cose descritte fin qui (persecuzioni, l'abominio, l'apparsa dell'anticristo, segni celesti) il tempo sta per compiersi. Sembra che l'apparire dell'anticristo annunci definitivamente la fine, ma il discorso vuole più che altro indicare quale siano gli elementi che avvertiranno l'avvicinarsi dell'evento finale.
“In verità io vi dico: non passerà questa generazione prima che tutto questo avvenga”.
Questa frase presa da sola testimonia un'attesa intensa, in quanto il termine “questa generazione”,espressione spesso usata nella bibbia, va intesa come riferita ai contemporanei di Gesù, ma più che un senso cronologico questa frase ha un contenuto Cristologico, perché la salvezza si attua nella pasqua di Cristo Gesù. La chiesa primitiva ha sempre insistito sull'incertezza del momento preciso del suo ritorno alla fine dei tempi.
“Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno”.
Questo versetto sottolinea in senso ampio il costante valore delle parole di Gesù, e non solo il riferimento al discorso escatologico. Queste parole sono il punto di riferimento su cui si compirà anche il giudizio finale, per cui la cosa importante non è sapere quando sarà il momento della fine, ma aderire alla parola di Gesù in cui si fonda la nostra speranza, .
“Quanto però a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio, eccetto il Padre”.
Questo versetto ha suscitato nel tempo molte discussioni sulla possibile ignoranza del Figlio; però esso mette in luce che non compete all’intelligenza e alla volontà determinare il tempo giusto per l’evento finale. Neanche gli angeli hanno questa competenza e questo potere neanche il Figlio. Qualche esperto riterrebbe che in questo caso il Figlio non conosce quel giorno e quell’ora in ragione della sua natura umana. E’ lecito però pensare che nelle parole di Gesù si rivela in modo meraviglioso la profondità del mistero che Egli vive e comunica ai discepoli. Egli mostra loro il suo rapporto figliare verso il Padre, il suo affidamento totale alla suprema volontà e sapienza paterna, al fine di chiarire che tra lui, il Figlio, e Dio, il Padre, sussiste un vincolo intenso di essere, di pensare e di agire.
Per concludere possiamo dire che la data della venuta e della pienezza del Regno è scritta solo nella mente di Dio e nel Suo progetto di salvezza. E’ inutile proporre oroscopi e agitarsi in ipotesi fantascientifiche come usano ancor oggi certe sètte apocalittiche. Attento ai segni dei tempi, il vero credente deve vivere con intensità e serenità il suo presente, la sua generazione, guidato dalla Parola di Gesù che non passa, in attesa di quella parola decisiva e definitiva che sarà pronunziata da Dio nel momento opportuno e a Lui solo noto.

.

*********

“Il Vangelo di questa penultima domenica dell’anno liturgico propone una parte del discorso di Gesù sugli avvenimenti ultimi della storia umana, orientata verso il pieno compimento del regno di Dio. E’ un discorso che Gesù fece a Gerusalemme, prima della sua ultima Pasqua. Esso contiene alcuni elementi apocalittici, come guerre, carestie, catastrofi cosmiche: «Il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo e le potenze che sono nei cieli verranno sconvolte»
Tuttavia questi elementi non sono la cosa essenziale del messaggio. Il nucleo centrale attorno a cui ruota il discorso di Gesù è Lui stesso, il mistero della sua persona e della sua morte e risurrezione, e il suo ritorno alla fine dei tempi.
La nostra meta finale è l’incontro con il Signore risorto. E io vorrei domandarvi: quanti di voi pensano a questo? Ci sarà un giorno in cui io incontrerò faccia a faccia il Signore. E’ questa la nostra meta: questo incontro. Noi non attendiamo un tempo o un luogo, ma andiamo incontro a una persona: Gesù. Pertanto, il problema non è “quando” accadranno i segni premonitori degli ultimi tempi, ma il farsi trovare pronti all’incontro.
E non si tratta nemmeno di sapere “come” avverranno queste cose, ma “come” dobbiamo comportarci, oggi, nell’attesa di esse. Siamo chiamati a vivere il presente, costruendo il nostro futuro con serenità e fiducia in Dio.
La parabola del fico che germoglia, come segno dell’estate ormai vicina, dice che la prospettiva della fine non ci distoglie dalla vita presente, ma ci fa guardare ai nostri giorni in un’ottica di speranza. E’ quella virtù tanto difficile da vivere: la speranza, la più piccola delle virtù, ma la più forte. E la nostra speranza ha un volto: il volto del Signore risorto, che viene «con grande potenza e gloria», che cioè manifesta il suo amore crocifisso trasfigurato nella risurrezione.
Il trionfo di Gesù alla fine dei tempi sarà il trionfo della Croce, la dimostrazione che il sacrificio di sé stessi per amore del prossimo, ad imitazione di Cristo, è l’unica potenza vittoriosa e l’unico punto fermo in mezzo agli sconvolgimenti e alle tragedie del mondo.
Il Signore Gesù non è solo il punto di arrivo del pellegrinaggio terreno, ma è una presenza costante nella nostra vita: è sempre accanto a noi, ci accompagna sempre; per questo quando parla del futuro, e ci proietta verso di esso, è sempre per ricondurci al presente. Egli si pone contro i falsi profeti, contro i veggenti che prevedono vicina la fine del mondo, e contro il fatalismo. Lui è accanto, cammina con noi, ci vuole bene. Vuole sottrarre i suoi discepoli di ogni epoca alla curiosità per le date, le previsioni, gli oroscopi, e concentra la nostra attenzione sull’oggi della storia.
Io avrei voglia di domandarvi - ma non rispondete, ognuno risponda dentro -: quanti di voi leggono l’oroscopo del giorno? Ognuno risponda. E quando ti viene voglia di leggere l’oroscopo, guarda a Gesù, che è con te. E’ meglio, ti farà meglio. Questa presenza di Gesù ci richiama all’attesa e alla vigilanza, che escludono tanto l’impazienza quanto l’assopimento, tanto le fughe in avanti quanto il rimanere imprigionati nel tempo attuale e nella mondanità.
Anche ai nostri giorni non mancano calamità naturali e morali, e nemmeno avversità e traversie di ogni genere. Tutto passa – ci ricorda il Signore –; soltanto Lui, la sua Parola rimane come luce che guida, rinfranca i nostri passi e ci perdona sempre, perché è accanto a noi. Soltanto è necessario guardarlo e ci cambia il cuore. La Vergine Maria ci aiuti a confidare in Gesù, il saldo fondamento della nostra vita, e a perseverare con gioia nel suo amore.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 15 novembre 2015

Pubblicato in Liturgia
Pagina 8 di 27

Pro Memoria

L'umanità è una grande e  immensa famiglia ... Troviamo la dimostrazione di ciò da quello che ci sentiamo nei nostri cuori a Natale.
(Papa Giovanni XXIII)

Parrocchia Nostra Signora de La Salette
Piazza Madonna de La Salette 1 - 00152 ROMA
tel. e fax 06-58.20.94.23
e-mail: email
Settore Ovest - Prefettura XXX - Quartiere Gianicolense - 12º Municipio
Titolo presbiterale: Card. Polycarp PENGO
Affidata a: Missionari di Nostra Signora di «La Salette» (M.S.)
 

Utilizziamo i cookie per essere sicuri che tu possa avere la migliore esperienza sul nostro sito. Se continui ad utilizzare questo sito noi assumiamo che tu ne sia felice! Accetta i cookie per chiudere avviso. Per saperne di più riguardo ai cookie utilizzati e a come cancellarli, guarda il regolamento Politica sulla Privacy.

Accetto i cookie da questo sito