"Il mio pensiero va a quanti sono radunati al Santuario di La Salette, in Francia, nel ricordo del 175° anniversario dell’apparizione della Madonna, che si mostrò in lacrime a due ragazzi. Le lacrime di Maria fanno pensare a quelle di Gesù su Gerusalemme e alla sua angoscia nel Getsemani. Sono un riflesso del dolore di Cristo per i nostri peccati e un appello sempre attuale ad affidarsi alla misericordia di Dio." (Papa Francesco Angelus 19 9 2021)
Direttamente da La Salette, celebriamo oggi con queste foto inviate dal nostro parroco, lì presente, il 175° anniversario dell'apparizione della Bella Signora sulle Alpi francesi, ai due pastorelli Massimino e Melania.
Qui sotto nella galleria
Le letture liturgiche di questa domenica ci invitano ad un discernimento e a una scelta: quale sapienza vogliamo abbracciare? Quella del mondo o quella del Vangelo?
Nella prima lettura, tratta dal libro della Sapienza, l‘autore, nel ragionamento degli empi, nel quale appare chiaro quanto essi sragionino e sbagliano, ci dà, come in controluce, l'identità luminosa del giusto, prefigurazione dell'identità salvifica del Giusto per eccellenza, Gesù di Nazareth.
Nella seconda lettura, l’Apostolo Giacomo afferma che il vero sapiente è colui che si prodiga per la pace. e che cerca con tutte le proprie forze il Dio che l'ama e a Lui si dona. Lo cerca in semplicità come il Bene supremo da cui derivano tutti gli altri beni.
Nel Vangelo di Marco, troviamo il secondo annuncio della passione. Anche questa volta l’evangelista evidenzia la resistenza da parte dei discepoli nel comprendere la missione di Gesù. Dopo il primo annuncio era stato Pietro ad opporre resistenza, oggi è l’intero gruppo che discute su chi fosse il più grande Mentre Gesù annuncia di farsi servo di tutti fino alla Croce, i discepoli discutevano chi tra loro fosse il più grande!
Gesù ci insegna che non nell’affermazione del potere, ma nell’umile servizio dei fratelli, soprattutto dei piccoli, come i bambini, sta la grandezza del cristiano.
Dal Libro della Sapienza
Dissero gli empi:
«Tendiamo insidie al giusto, che per noi è d’incomodo
e si oppone alle nostre azioni;
ci rimprovera le colpe contro la legge
e ci rinfaccia le trasgressioni contro l’educazione ricevuta.
Vediamo se le sue parole sono vere,
consideriamo ciò che gli accadrà alla fine.
Se infatti il giusto è figlio di Dio, egli verrà in suo aiuto
e lo libererà dalle mani dei suoi avversari.
Mettiamolo alla prova con violenze e tormenti,
per conoscere la sua mitezza
e saggiare il suo spirito di sopportazione.
Condanniamolo a una morte infamante,
perché, secondo le sue parole, il soccorso gli verrà».
Sap 2,12.17-20
Il Libro della Sapienza è stato utilizzato dai Padri fin dal II secolo d.C. e, nonostante esitazioni e alcune opposizioni, è stato riconosciuto come ispirato allo stesso titolo dei libri del canone ebraico. È stato composto ad Alessandria d’Egitto tra il 20 a.C. e il 38 d.C. probabilmente da Filone o da un suo discepolo, e si presenta come opera di Salomone (in greco infatti il testo si intitola “Sapienza di Salomone”) L'autore si esprime come un re e si rivolge ai re come suoi pari. Si tratta però di un espediente letterario, (anche allora ci si ricorreva) per mettere questo scritto, come del resto il Qoelet o il Cantico dei Cantici, sotto il nome di Salomone il più grande saggio d’Israele. Il libro è stato scritto tutto in greco ed è composto da 19 capitoli con vari detti di genere sapienziale, in particolare con l'esaltazione della Sapienza divina personificata.
L‘autore nel capitolo 2, da dove è tratto il nostro brano, affronta seriamente il problema di che cosa siamo e che cosa rimarrà di noi dopo la morte, ponendo ipotetiche questioni, poi in questo brano, ipotizza il ragionamento degli empi: “Tendiamo insidie al giusto, che per noi è d’incomodo e si oppone alle nostre azioni; ci rimprovera le colpe contro la legge e ci rinfaccia le trasgressioni contro l’educazione ricevuta”, in cui appare chiaro quanto essi sragionino e sbagliano. Il motivo del loro odio è la persona stessa del giusto, che con la sua debolezza e mitezza, ma soprattutto, la sua vita condotta in modo diverso, costituisce per loro, da sola, un rimprovero e una condanna. “Vediamo se le sue parole sono vere, consideriamo ciò che gli accadrà alla fine. Se infatti il giusto è figlio di Dio, egli verrà in suo aiuto e lo libererà dalle mani dei suoi avversari. Il libro della Sapienza, scritto almeno 50 prima di Gesù, non poteva riferirsi immediatamente a Lui, ma al giusto che accoglie la parola di Dio che a quel tempo veniva considerato figlio di Dio. Questo valeva per tutti i popoli, e per tutte le religioni. Solo dopo inizierà la fase della "nuova alleanza" con Gesù, che sarà il modello della figliolanza, per cui siamo chiamati a diventare figli in Lui. Prima i giusti erano comunque figli di Dio.
Il testo continua riportando il loro piano di come metterlo alla prova : “Mettiamolo alla prova con violenze e tormenti, per conoscere la sua mitezza e saggiare il suo spirito di sopportazione” fino alla soluzione sprezzante finale “Condanniamolo a una morte infamante, perché, secondo le sue parole, il soccorso gli verrà».
E’ evidente come i primi cristiani leggendo questo passo hanno trovato un aiuto in più per capire la morte di Gesù, le sue scelte, la fedeltà all'annuncio del vangelo in una situazione di rifiuto e di rischio di morte.
Per concludere, non dobbiamo però pensare che la sofferenza sia una prova che Dio esige perché Lui ci conosce più di quanto noi conosciamo noi stessi, e non ha bisogno di nessuna prova, per cui non è necessario dover soffrire per essere giusti. Il Signore ci chiede solo di non stancarci mai di camminare nella direzione del bene, per questo è necessario chiederci sempre quali siano le ragioni delle nostre scelte, anche quando operiamo il bene.
C’è uno scritto di Thomas Merton che ci può essere di aiuto anche come preghiera:
« Io, Signore Iddio, non ho nessuna idea di dove sto andando. Non vedo la strada che mi sta davanti.
Non posso sapere con certezza dove andrò a finire. Secondo verità, non conosco neppure me stesso e il fatto che penso di seguire la tua volontà non significa che lo stia davvero facendo.
Ma sono sinceramente convinto che in realtà ti piaccia il mio desiderio di piacerti e spero di averlo in tutte le cose, spero di non fare mai nulla senza tale desiderio. So che, se agirò così, la tua volontà mi condurrà per la giusta via,quantunque io possa non capirne nulla. Avrò sempre fiducia in te, anche quando potrà sembrarmi di essere perduto e avvolto nell'ombra della morte.
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Salmo 53 Il Signore sostiene la mia vita.
Dio, per il tuo nome salvami,
per la tua potenza rendimi giustizia.
Dio, ascolta la mia preghiera,
porgi l’orecchio alle parole della mia bocca.
Poiché stranieri contro di me sono insorti
e prepotenti insidiano la mia vita;
non pongono Dio davanti ai loro occhi.
Ecco, Dio è il mio aiuto,
il Signore sostiene la mia vita.
Ti offrirò un sacrificio spontaneo,
loderò il tuo nome, Signore, perché è buono.
Il salmo, molto breve, presenta un’invocazione a Dio per la salvezza contro nemici forti e arroganti. Il salmista è perseguitato a morte e chiede l’intervento di Dio: “Per la tua potenza rendimi giustizia”.
C’è nel salmo un’invocazione di maledizione sui nemici che la recitazione cristiana omette perché il cristiano rimette, come Cristo (1Pt 2,23), la sua causa a Dio senza maledire.
Il salmista sperimenta l’aiuto del Signore di fronte alla dura aggressione e promette di offrire a Dio un sacrificio, un olocausto. Un sacrificio non semplicemente rituale, ma ricco di lode al nome di Dio, cioè alla sua grandezza, potenza, fedeltà, bontà, misericordia. Dio è tutto questo ed è riconosciuto nella lode e nel ringraziamento per tutto questo. Il sacrificio che noi possiamo offrire a Dio è il nostro impegno di vita, la nostra penitenza, la quale nasce dal nostro essere in Cristo nell’unione al sacrificio Eucaristico.
Dio ha concesso al salmista, al re, la liberazione dai nemici, che può ormai guardare senza sgomento alcuno dalle mura della città. Il cristiano vince continuando ad amare; guarda dall'alto i suoi aggressori, cioè dalla sua condizione di figlio di Dio che lo fa luce posta sul candelabro della croce, guarda senza astio, né maledizione, ma con amore i suoi oppressori: “Il mio occhio ha guardato dall'alto i miei nemici”.
Commento tratto da Perfetta Letizia
Dalla lettera di S.Giacomo apostolo
Fratelli miei, dove c’è gelosia e spirito di contesa, c’è disordine e ogni sorta di cattive azioni. Invece la sapienza che viene dall’alto anzitutto è pura, poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale e sincera. Per coloro che fanno opera di pace viene seminato nella pace un frutto di giustizia.
Da dove vengono le guerre e le liti che sono in mezzo a voi? Non vengono forse dalle vostre passioni che fanno guerra nelle vostre membra? Siete pieni di desideri e non riuscite a possedere; uccidete, siete invidiosi e non riuscite a ottenere; combattete e fate guerra! Non avete perché non chiedete; chiedete e non ottenete perché chiedete male, per soddisfare cioè le vostre passioni.
Gc 3,16-4,3
In questo brano della lettera di S. Giacomo, si può dedurre che anche ai suoi tempi, il mondo era segnato da una falsa sapienza che, non essendo quella che "viene dall'alto" (cioè da Dio), irretisce l'uomo portandolo a conseguire beni che hanno funzionalità immediate, ma solo per la vita terrena.
Il brano inizia affermando “dove c’è gelosia e spirito di contesa, c’è disordine e ogni sorta di cattive azioni. Invece la sapienza che viene dall’alto anzitutto è pura, poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale e sincera.”
La sapienza che viene dall’alto dunque “anzitutto è pura”, cioè è esente da inquinamenti terreni. E’ “pacifica”, poiché opera per la pace e non per il disordine. E’ “mite”, cioè rifugge la collera, la polemica fine a se stessa. E’ “arrendevole”, non perché sia portata ai compromessi, ma perché sa accogliere le ragioni giuste degli altri e quindi è accogliente. E’ “piena di misericordia e di buoni frutti”, poiché perdona; va oltre il peccato dell’altro per cercarne il cuore e liberalo dal peccato, e in questo ha tanti “buoni frutti”. E’ “imparziale”, cioè rifiuta i favoritismi. E’ “sincera”, cioè non risiede in un cuore falso.
“Per coloro che fanno opera di pace viene seminato nella pace un frutto di giustizia”.
A chi fa “opera di pace” Dio semina “nella pace”, cioè non in un cuore instabile, un “frutto di giustizia”. Il “frutto di giustizia” è un frutto che nutre l’anima di luce e di vigore. E’ “di giustizia” poiché vive delle promesse di Dio.
“Da dove vengono le guerre e le liti che sono in mezzo a voi? Non vengono forse dalle vostre passioni che fanno guerra nelle vostre membra?”
Giacomo, dal carattere mite qui sa essere anche irruente, ha un tomo forte, incisivo, eppure ancora dolce. “La ragione profonda dei litigi, delle guerre di vicinato o non, sta nelle passioni che travolgono una natura non guidata dallo spirito.
“Siete pieni di desideri e non riuscite a possedere; uccidete, siete invidiosi e non riuscite a ottenere; combattete e fate guerra!”
Giacomo pensa a coloro che, non ottenendo i risultati desiderati, si scagliano contro chi possiede. L’invidia toglie loro la pace e li spinge a lotte che diventano guerre.
Le comunità cristiane della diaspora giudaica alle quali Giacomo si rivolge avevano perso il vigore iniziale, e non mancavano problemi morali gravi.
“Non avete perché non chiedete; chiedete e non ottenete perché chiedete male, per soddisfare cioè le vostre passioni“. Costoro, dominati dalle passioni, non riuscendo ad ottenere il soddisfacimento dei loro desideri mondani, non riescono neppure ad ottenere ciò che chiedono a Dio. La loro preghiera risulta infatti viziata nella domanda e nella fede, perché non mossa dall’amore, ma dalla bramosia di cose terrene.
Giacomo in sintesi ci vuole far comprendere che la persona pervasa dalla “sapienza che viene dall’alto” è una persona dal cuore retto, libero da ogni ipocrisia, che cerca con tutte le proprie forze il Dio che l'ama e a Lui si dona. Lo cerca in semplicità come il Bene supremo da cui derivano tutti gli altri beni.
Dal vangelo secondo Marco
In quel tempo, Gesù e i suoi discepoli attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse. Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà». Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo.
Giunsero a Cafàrnao. Quando fu in casa, chiese loro: «Di che cosa stavate discutendo per la strada?». Ed essi tacevano. Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande. Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti». E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: «Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato».
Mc 9, 30-37
Questo brano del Vangelo di Marco, che fa parte della sezione in cui si descrive il viaggio di Gesù verso Gerusalemme, si apre nel punto in cui viene riportato il secondo annunzio della passione.
L’evangelista inizia cosi il suo racconto: “Gesù e i suoi discepoli attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse. Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà».
Gesù predice per la seconda volta la Sua morte e risurrezione in una breve apparizione in Galilea, durante la quale cerca di mantenere segreta la Sua presenza. Quanto Gesù dice circa i tragici eventi che lo aspettano è presentato da Marco non come un semplice preannuncio di un evento futuro, ma come un vero e proprio “insegnamento” fatto ai discepoli e per mezzo loro a tutti i discepoli di ogni tempo e di ogni luogo.
L’espressione “consegnare nelle mani” è di solito usata per indicare l’atto con cui una persona è data in balìa di un potere nemico. Con essa di solito viene descritta la situazione dei giusti perseguitati descritta da Geremia (26,24), e soprattutto quella del Servo di JHWH (V. Is 53,6.12). Gesù aggiunge che, a seguito di ciò, gli sarà riservata una morte violenta, ma predice nuovamente anche la Sua risurrezione che avverrà dopo tre giorni, Questa predizione, come le altre due, rivela la determinazione con cui Gesù compie le Sue scelte, sapendo a cosa andrà incontro, ma che solo così potrà portare a compimento il Suo progetto.
Al termine l’evangelista sottolinea: “Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo”.
Ancora una volta emerge l’incomprensione da parte dei discepoli, i quali non hanno neanche il coraggio di fargli delle domande dirette.
Subito dopo la predizione della Sua morte e risurrezione Marco riporta che “Giunsero a Cafàrnao. Quando fu in casa, chiese loro: «Di che cosa stavate discutendo per la strada?»”. Il dialogo tra Gesù e i discepoli ha luogo dunque a Cafarnao, in una casa (si ipotizza quella di Pietro) ed è lì che Gesù chiede ai discepoli di che cosa avevano discusso “lungo la strada”.
La domanda di Gesù è accolta da un silenzio imbarazzato perché “Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande” . I discepoli sanno di aver affrontato un tema non certo gradito a Gesù, quello cioè di chi tra loro dovesse essere considerato il primo; i discepoli pensavano ancora di poter ricavare privilegi e gloria dal loro coinvolgimento nel gruppo di Gesù: essi non solo non lo avevano capito ma non erano minimamente in sintonia con Lui. Il loro imbarazzo fa percepire che cominciavano a rendersene conto.
Il racconto continua riportando l’atteggiamento di Gesù: “Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti». Sedendosi, Gesù assume l’atteggiamento tipico del maestro, e si rivolge espressamente ai Dodici, che hanno condiviso con Lui la missione.
Anche qui il suo insegnamento è rivolto a tutti i discepoli di ogni tempi e di ogni luogo, e in modo speciale ai capi della Chiesa. In contrasto con quanto essi pensavano, Egli afferma che chi vuole essere primo, deve farsi “ultimo di tutti e il servitore di tutti”
Il secondo detto viene accompagnato da un gesto simbolico:
“E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: «Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato».”
Il gesto di Gesù è un po‘ sorprendente perché nell’antico Oriente il bambino non era molto considerato, per cui Gesù provocatoriamente capovolge la normale concezione secondo cui il bambino può essere solo oggetto di educazione da parte dell’adulto, per diventare un soggetto che ha un messaggio prezioso da trasmettere proprio a colui che gli è per età, cultura e maturità, superiore.
Questo bambino, diviene così anche l’immagine del vero seguace, cioè l’immagine del discepolo che veramente si mette a servizio degli altri.
Gesù garantisce che dove c’è un individuo che per amore, liberamente e volontariamente, si mette a servizio degli altri, in questa persona si manifesta la Sua presenza e la presenza di Gesù porta quella di Dio stesso.
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“Non si può vivere il Vangelo facendo compromessi, altrimenti si finisce con lo spirito del mondo, che punta al dominio degli altri ed è «nemico di Dio»; ma bisogna scegliere la strada del servizio.
La riflessione del Papa, nell’omelia di martedì 25 febbraio, alla messa a Casa Santa Marta, è partita dal brano del Vangelo (Mc 9, 30-37) nel quale Gesù dice ai Dodici che se uno vuole essere il primo è chiamato a farsi ultimo e servitore di tutti.
Gesù sapeva che lungo la strada i discepoli avevano discusso tra loro su chi fosse il più grande «per ambizione».
Questo litigare dicendo «io devo andare avanti, io devo salire», ha spiegato il Pontefice, è lo spirito del mondo. Ma anche la prima lettura della liturgia del giorno (Gc 4, 1-10) ricalca questo aspetto, quando l’apostolo Giacomo ricorda che l’amore per il mondo è nemico di Dio. «Quest’ansia di mondanità — ha osservato il Papa — quest’ansia di essere più importante degli altri e dire: “No! Io merito questo, non lo merita quell’altro”. Questo è mondanità, questo — ha proseguito — è lo spirito del mondo e chi respira questo spirito, respira l’inimicizia di Dio».
«Gesù, in un altro passo, dice ai discepoli: “O siete con me o siete contro di me”. Non ci sono compromessi nel Vangelo. E quando uno vuole vivere il Vangelo facendo dei compromessi — ha commentato — alla fine si trova con lo spirito mondano, che sempre cerca di fare compromessi per arrampicarsi di più, per dominare, per essere più grande».
Tante guerre e tante liti vengono proprio dai desideri mondani, dalle passioni, ha evidenziato il Papa facendo ancora riferimento alle parole di san Giacomo. È vero «oggi tutto il mondo è seminato da guerre. Ma le guerre che sono fra di noi? Come quella che c’era fra gli apostoli: chi è il più importante?», si è chiesto Francesco. «“Guardate la carriera che ho fatto: adesso non posso andare indietro!”. Questo è lo spirito del mondo e questo non è cristiano. “No! Tocca a me! Io devo guadagnare di più per avere più soldi e più potere”. Questo è lo spirito del mondo», ha sottolineato il Pontefice. «E poi, la malvagità delle chiacchiere: il pettegolezzo. Da dove viene? Dall’invidia. Il grande invidioso — ha ribadito Francesco — è il diavolo, lo sappiamo, lo dice la Bibbia. Dall’invidia. Per l’invidia del diavolo entra il male nel mondo. L’invidia è un tarlo che ti spinge a distruggere, a sparlare, a annientare l’altro».
Nel dialogo dei discepoli c’erano tutte queste passioni e per questo, ha sostenuto Francesco, Gesù li rimprovera e li esorta a farsi servitori di tutti e a prendere l’ultimo posto: «Chi è il più importante nella Chiesa? — si è domandato — Il Papa, i vescovi, i monsignori, i cardinali, i parroci delle parrocchie più belle, i presidenti delle associazioni laicali? No! Il più grande nella Chiesa è quello che si fa servitore di tutti, quello che serve tutti, non che ha più titoli. E per far capire questo prese un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo con tenerezza — perché Gesù parlava con tenerezza, ne aveva tanta — disse loro: “Chi accoglie un bambino, accoglie me”, cioè chi accoglie il più umile, il più servitore. Questa è la strada», ha affermato Francesco sottolineando ancora che «la strada contro lo spirito del mondo è una sola: l’umiltà. Servire gli altri, scegliere l’ultimo posto, non arrampicarsi».
Non bisogna, quindi, «negoziare con lo spirito del mondo», non bisogna dire: «Ho diritto a questo posto, perché guardate la carriera che ho fatto». La mondanità, infatti, ha concluso il Papa, «è nemica di Dio». Bisogna invece ascoltare questa parola «tanto saggia» e incoraggiante che Gesù dice nel Vangelo: «Se uno vuole essere il primo sia l’ultimo di tutti, sia il servitore di tutti».”
Meditazione Mattutina di Papa Francesco nella cappella della Domus Sanctae Marthae
Il più grande è chi serve non chi ha più titoli
Martedì, 25 febbraio 2020
1. Mercoledì prossimo 15 settembre - iniziano le iscrizioni al catechismo dalle ore 17,00 alle ore 19,00 e poi nelle domeniche successive fino alla domenica 17 ottobre dopo la s. messa delle ore 10,00.
2. Martedì 14 settembre si celebra la festa liturgica della Esaltazione della Santa Croce
3. Mercoledì 15 settembre si celebra la memoria liturgica della Madonna dell'Addolorata.
4. Carissimi, è sotto gli occhi di tutti noi il dramma del popolo afghano. La loro storia travagliata, l'abbandono a sé stessi e la mancanza di prospettiva futura ci fa temere per questi fratelli e sorelle. Come avete potuto vedere dai mass media, sono arrivate moltissime famiglie che necessitano di tutto e chiedono accoglienza. Il nostro Vescovo Papa Francesco, ci ha rivolto un appello forte: "Cari fratelli e sorelle, seguo con grande preoccupazione la situazione in Afghanistan. In momenti storici come questo non possiamo rimanere indifferenti, la storia della Chiesa ce lo insegna. Come cristiani questa situazione ci impegna. Per questo rivolgo un appello, a tutti, a intensificare la preghiera e a praticare il digiuno. Preghiera e digiuno, preghiera e penitenza. Questo è il momento di farlo. Sto parlando sul serio: intensificare la preghiera e praticare il digiuno, chiedendo al Signore misericordia e perdono." Per questo, la Diocesi vuole accogliere l'appello del nostro Vescovo con una giornata diocesana di digiuno, preghiera e solidarietà che vivremo insieme il giorno 15 settembre 2021, memoria di Maria Addolorata. Invito tutti voi ad unirci come Popolo di Dio. Lo faremo pregando anzitutto per i nostri fratelli afgani, chiedendo l’intercessione di Maria, in particolare per le donne, e trasformando il digiuno in contributo di carità per l’accoglienza delle famiglie di profughi.
Le letture liturgiche di questa domenica ci aiutano a comprende che seguire Cristo significa percorrere in spirito il Suo cammino, che conduce alla gloria ma attraverso la croce.
Nella prima lettura, il Profeta Isaia, annunzia che il “Servo di Dio”, cioè il Messia, sarà inviato a portare a compimento il progetto di salvezza, e compirà la sua missione attraverso la sofferenza, certo della sua innocenza e della protezione di Dio
Nella seconda lettura, l’Apostolo Giacomo ci esorta a riflettere sull'autenticità della nostra fede e ci invita a tenere insieme fede e opere: la fede deve incarnarsi nella vita e la vita lasciarsi plasmare dalla fede.
Nel Vangelo di Marco, troviamo Gesù che sembra provocare i suoi discepoli, quando chiede loro: "Chi dice la gente che io sia?" per arrivare a porre loro la domanda più importante: "E voi chi dite che io sia?". Con Pietro siamo anche noi sollecitati a professare una fede: “Tu sei il Cristo“, che deve diventare sequela, disponibilità a seguire Gesù lungo la stessa strada e con il suo stesso atteggiamento. La fede in Gesù diventa allora fede nella sua promessa: perdere la propria vita per causa sua e del Vangelo (non solo nel martirio di sangue, ma nella nostra vita quotidiana come suoi testimoni) anziché al fallimento, ci consegna alla pienezza della vita eterna.
Dal Libro del Profeta Isaia
Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio
e io non ho opposto resistenza,
non mi sono tirato indietro.
Ho presentato il mio dorso ai flagellatori,
le mie guance a coloro che mi strappavano la barba;
non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi.
Il Signore Dio mi assiste,
per questo non resto svergognato,
per questo rendo la mia faccia dura come pietra,
sapendo di non restare confuso.
È vicino chi mi rende giustizia:
chi oserà venire a contesa con me? Affrontiamoci.
Chi mi accusa? Si avvicini a me.
Ecco, il Signore Dio mi assiste:
chi mi dichiarerà colpevole?
Is 50,5-9ª
Questo brano fa parte del Libro della Consolazione di Israele (capitoli 40-55) attribuiti ad un autore, rimasto anonimo, a cui è stato dato il nome di “Secondo Isaia ” o “Deutero Isaia”. Probabilmente era un lontano discepolo del primo Isaia che visse a Babilonia insieme agli esiliati che, dalla sue profezie prendono speranza.
Il corpo del libro contiene una serie di oracoli che possono dividersi in due parti, quelle composte prima della conquista di Babilonia da parte di Ciro (Is 41,12-48,22) e quelle che invece sono state composte dopo questo evento (Is 49,1-54,17) .
Nel libro del Deuteroisaia emerge con insistenza la figura e l’opera di un personaggio misterioso, chiamato “Servo di YHWH”, di cui trattano quattro composizioni poetiche a cui è stato dato l’appellativo di ”Carmi del Servo di YHWH” (42,1-7; 49,1-6; 50,4-9; 52,13-53,12). Il primo carme si trova all’inizio della prima parte, gli altri li troviamo nella seconda parte della raccolta. Mentre nei primi due carmi si tratta rispettivamente della chiamata del Servo e dell’insuccesso che lo attende, nel terzo (Is 50,4-9) da dove è tratto il nostro brano, si descrive la persecuzione che ha subito.
I versetti sono alquanto simiili ai salmi di lamentazione individuale, in cui un giusto perseguitato si lamenta delle sue sofferenze e si abbandona alla protezione divina.
Il brano si apre con un monologo del Servo sofferente: “Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro”. Poi il Servo fa memoria delle sue sofferenze:
“Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi strappavano la barba;non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi”. Qui si parla di flagellazione, di strappare la barba, di insulti e di sputi!.
È difficile dire in che contesto queste torture gli sono state inflitte e se sono reali o metaforiche. Ma certo si tratta di sofferenze, terribili. indescrivibili.
Il Servo passa poi a descrivere la sua reazione personale:
“Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare confuso”.
Nella difficile situazione in cui si trova, il Servo non si difende con la forza, e neppure fa ricorso, come aveva fatto Geremia, alla violenza verbale contro i suoi avversari; al contrario, fortificato dalla sua fiducia in Dio, resta fermo come una roccia senza venir meno alla sua missione.
La sua forza d’animo gli proviene dalla certezza che Dio porterà a termine il suo progetto nonostante tutte le avversità. Il Servo dimostra così di non cercare il proprio successo personale ma la realizzazione di quanto va annunziando, anche se ciò dovesse costargli la vita.
Il Servo riafferma ancora la sua fiducia in Dio e lancia una sfida ai suoi avversari:
“È vicino chi mi rende giustizia: chi oserà venire a contesa con me? Affrontiamoci. Chi mi accusa? Si avvicini a me. Ecco, il Signore Dio mi assiste: chi mi dichiarerà colpevole?”
Alla fiducia in Dio corrisponde la certezza che i suoi avversari non avranno il sopravvento. La previsione della loro distruzione non deriva da un suo desiderio di vendetta, ma semplicemente dal desiderio che la vittoria di Dio sia completa.
In questo carme il Servo è descritto come una figura di profeta che annunzia il piano di Dio per Israele. Egli si presenta come un uomo totalmente immerso in Dio, dal quale riceve il messaggio da comunicare al popolo.
Per concludere si può dire che questo brano è particolarmente indicato a noi cristiani per farci comprendere in profondità il mistero dell'UOMO-DIO a cui Isaia sembra alludere con voce profetica, più di 500 anni prima della venuta di Cristo. Quello che di lui sappiamo riguarda la vicenda di un uomo che si è dato in balia del dolore al di là di ogni possibile immaginazione: ….”Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi strappavano la barba;non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi.” (Is 50,6)
Non si tratta solo di non-violenza, ma di non-difesa personale: un'assoluta arrendevolezza al dolore che per la mentalità odierna potrebbe sembrare un caso clinico da psicanalisi. Ci troviamo invece di fronte al mistero di un Uomo che accetta con docilità la sua missione, che non indietreggia nelle difficoltà e che sopporta pazientemente gli oltraggi.
E’ sostenuto solo dalla sua ferma fiducia nell’aiuto di DIO, per questo anche se accusato ingiustamente, egli ha la certezza della vittoria finale.
Salmo 114 Camminerò alla presenza del Signore nella terra dei viventi.
Amo il Signore, perché ascolta
il grido della mia preghiera.
Verso di me ha teso l’orecchio
nel giorno in cui lo invocavo.
Mi stringevano funi di morte,
ero preso nei lacci degli inferi,
ero preso da tristezza e angoscia.
Allora ho invocato il nome del Signore:
«Ti prego, liberami, Signore».
Pietoso e giusto è il Signore,
il nostro Dio è misericordioso.
Il Signore protegge i piccoli:
ero misero ed egli mi ha salvato.
Sì, hai liberato la mia vita dalla morte,
i miei occhi dalle lacrime,
i miei piedi dalla caduta.
Io camminerò alla presenza del Signore
nella terra dei viventi.
Il salmo presenta un pio Giudeo che, oppresso da “tristezza e angoscia”, ha innalzato a Dio una preghiera ardente: “Ti prego, liberami, Signore”; e non ha mancato di sperimentare il soccorso del Signore, confermandosi così nella fiducia in lui: “Amo il Signore, perché ascolta il grido della mia preghiera...”. La narrazione conduce a delineare un prigioniero di fronte al quale si profila la morte; infatti si parla di: “Funi di morte”; di assenza di vie d'uscita: “Ero preso nei lacci degli inferi”; ed esplicitamente vien detto: “hai liberato la mia vita dalla morte".
La grazia della liberazione gli è giunta tanto improvvisa che deve dire a se stesso: “Ritorna, anima mia, al tuo riposo...”, dove la pace è il dolce incontro con Dio, il dolce lodare Dio.
Il pio Giudeo è pieno di gratitudine e con gioia dice al Signore "hai liberato la mia vita dalla morte, i miei occhi dalle lacrime, i miei piedi dalla caduta" dove per caduta si deve intendere la disperazione, la rottura con Dio.
Dopo quell'esperienza dura, ma feconda, il salmista si propone di camminare alla presenza del Signore, cioè di essere sempre conforme al volere di Dio: “Io camminerò alla presenza del Signore nella terra dei viventi”.
Nella “terra dei viventi” è da vedere la Palestina rinnovata per l'eliminazione degli idoli: è il grande desiderio del pio Giudeo.
Le parole “Mi stringevano funi di morte...ero preso da tristezza e angoscia” ci portano a Cristo (Cf. Eb 5,7).
Commento tratto da Perfetta Letizia
Dalla lettera di S.Giacomo aostolo
A che serve, fratelli miei, se uno dice di avere fede, ma non ha opere? Quella fede può forse salvarlo? Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: «Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi», ma non date loro il necessario per il corpo, a che cosa serve? Così anche la fede: se non è seguita dalle opere, in se stessa è morta. Al contrario uno potrebbe dire: «Tu hai la fede e io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere, e io con le mie opere ti mostrerò la mia fede».
Gc 2,14-18
Questo brano della lettera di Giacomo è sicuramente il passo più conosciuto e citato per trattare il tema del rapporto tra la fede e le opere. E’ come se Giacomo si ponesse anche oggi, davanti a ciascuno di noi, per porci domande dirette:
“Che giova, fratelli miei, se uno dice di avere la fede ma non ha le opere? Forse che quella fede può salvarlo?”
Egli ci esorta a riflettere sull'autenticità della nostra fede. La fede è un atteggiamento interiore, che deve trovare espressione in qualche gesto, e atteggiamento esterno. altrimenti non ha nessun senso!
Giacomo fa poi un esempio molto efficace: “Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: «Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi», ma non date loro il necessario per il corpo, a che cosa serve? “
Il caso presentato non deve servire però come esempio della fede priva di opere, bensì come paragone con cui si mostra l’inutilità di una fede senza opere: come i bisognosi non ricavano alcun vantaggio da frasi pietose , così una fede senza opere non serve a nulla, che valore può avere di fronte a Dio?
“Così anche la fede: se non è seguita dalle opere, in se stessa è morta” ossia la fede senza opere che l'accompagnano non ha nessun senso. Non si tratta delle opere della legge, bensì delle opere di amore per il prossimo. Il riferimento a queste opere di carità è in linea con il brano che abbiamo visto domenica scorsa che metteva in guardia dai favoritismi.
“Al contrario uno potrebbe dire: «Tu hai la fede e io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere, e io con le mie opere ti mostrerò la mia fede»”.
Molti di fronte a questo testo, se conoscono le lettere di Paolo, possono restare perplessi perché sembra che qui venga detto il contrario di quello che San Paolo insegna. In realtà, Paolo e Giacomo non erano affatto in disaccordo. L’unico punto di dissenso, secondo alcuni, riguarda il rapporto tra la fede e le opere.
Paolo afferma dogmaticamente che la giustificazione è per sola fede, mentre Giacomo dice che la giustificazione è mediante la fede più le opere.
Questo apparente problema viene risolto esaminando di cosa sta parlando esattamente Giacomo, il quale sta confutando la dottrina secondo cui una persona può avere fede senza produrre alcuna opera buona e sottolinea che la fede genuina in Cristo produrrà una vita cambiata e come conseguenza frutti di buone opere.
Giacomo non sta dicendo che la giustificazione sia mediante la fede più le opere, ma piuttosto che una persona che è davvero giustificata per fede non potrà fare a meno di produrre frutti di buone opere nella sua vita.
Se una persona afferma di essere credente, ma non copie opere buone, allora è probabile che non abbia la vera fede in Cristo, anzi non ha mai compreso il suo Vangelo.
Il ragionamento di Giacomo e di Paolo portano allo stesso risultato: Giacomo ragiona dal punto di vista di colui che è già figlio di Dio, Paolo da quello di colui che deve diventarlo.
Dal vangelo secondo Marco
In quel tempo, Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo, e per la strada interrogava i suoi discepoli dicendo: «La gente, chi dice che io sia?». Ed essi gli risposero: «Giovanni il Battista; altri dicono Elìa e altri uno dei profeti». Ed egli domandava loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Pietro gli rispose: «Tu sei il Cristo». E ordinò loro severamente di non parlare di lui ad alcuno.
E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto, ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere. Faceva questo discorso apertamente. Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo. Ma egli, voltatosi e guardando i suoi discepoli, rimproverò Pietro e disse: «Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini».
Convocata la folla insieme ai suoi discepoli, disse loro: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà».
Mc 8,27-35
Questo brano del Vangelo di Marco fa parte della sezione caratterizzata da tre annunzi della passione, morte e risurrezione di Gesù (8,31; 9,31; 10,33). Qui l'evangelista affronta il problema dell'identità di Gesù e indica i riflessi che il suo destino di sofferenza e di morte avrà su coloro che lo seguono.
Il brano si apre con una indicazione del luogo e con una domanda di Gesù ai discepoli:
“Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo, e per la strada interrogava i suoi discepoli dicendo: «La gente, chi dice che io sia?”
Si trovavano nei pressi di Cesarea di Filippo, l'antica Panion, una città ellenistica che si trova nel sud dell'attuale Libano, alle pendici del Monte Hermon; essa doveva il suo nome al fatto di essere stata ricostruita in onore di Augusto da Filippo, uno dei figli di Erode il Grande, divenuto tetrarca della Transgiordania settentrionale. Nonostante la sua fugace apparizione a Betsaida, (v. 8,22), Gesù è rimasto dunque in un territorio non abitato da giudei, dove si era recato dopo la prima moltiplicazione dei pani (V.7,24).
Egli è ormai solo con i suoi discepoli e ponendo loro questo tipo di domande sembra voglia fare un sondaggio di opinioni per sapere cosa la gente diceva di Lui.
Alla domanda di Gesù i discepoli rispondono: "Giovanni il Battista; altri dicono Elìa e altri uno dei profeti”
Siccome la figura profetica più significativa per i giudei del tempo di Gesù era Giovanni Battista, alcuni ritenevano che lui fosse in qualche modo ritornato in vita nella persona di Gesù per portare a compimento la sua missione. Secondo altri Gesù si identificava con Elia, a cui veniva spesso riconosciuto il ruolo di profeta escatologico (Ml 3,23; Sir 48,10). Altri ancora pensavano che egli fosse "uno dei profeti“. Luca nel testo parallelo dice: che alcuni consideravano Gesù come "uno degli antichi profeti che è risorto", senza precisare quale.
In definitiva la gente vedeva in Gesù il profeta degli ultimi tempi, inviato da Dio per preparare la sua venuta.
Gesù non commenta le opinioni della gente, ma si rivolge nuovamente ai discepoli per arrivare a porre la domanda più importante che gli stava a cuore:”Ma voi, chi dite che io sia?”. E Pietro subito rispose: “Tu sei il Cristo».
Pietro rispondendo così raggiunge in parte la verità. La sua è una definizione esatta ma non completa; è solo una luce gettata nel mistero di Gesù, una luce ancora velata da ombre. Infatti il titolo “Cristo”, che significa “il consacrato”, era la versione greca dell’ebraico “messia” che resta sempre una creatura umana. Per questo la risposta di Pietro non è ancora completa: Gesù non è solo “Cristo”, ma è anche “Figlio di Dio”, come precisa Matteo nel suo Vangelo con le parole che mette in bocca a Pietro “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. Matteo annota anche l’elogio che Gesù fa a Pietro: “Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli.”
Marco poi riporta che Gesù “ordinò loro severamente di non parlare di lui ad alcuno”.
Dopo aver ascoltato,le opinioni della gente e quelle dei discepoli, Gesù dà ora la sua risposta circa il quesito che lui stesso aveva posto e lo fa indicando il destino a cui va incontro: " E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto, ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere.”
L'espressione "Figlio dell'uomo“, era stata utilizzata, in testi apocalittici, per designare una figura di inviato mediante il quale Dio avrebbe instaurato un giorno il Suo regno (V. Dn 7,13). Gli esegeti in questo punto ritengono che Gesù ne fa uso, non per attribuirsi un compito glorioso, ma per preannunziare un destino di sofferenza e di morte, seguito però dalla risurrezione. Si può perciò supporre che l'abbia usato non per descrivere la Sua gloria ma per indicare la Sua solidarietà senza limiti con ogni essere umano.
Marco poi annota che Gesù “Faceva questo discorso apertamente..” cioè quello della sua morte imminente; si può intuire in questo suo annunzio una certa provocazione. E proprio Pietro, che poco prima lo aveva proclamato Messia, lo prende in disparte e si sente in dovere di rimproverarlo duramente. La sua reazione rivela una concezione trionfalistica del Messia in cui non c'era posto per la sofferenza.
Alle parole di Pietro Gesù reagisce con pari durezza: “voltatosi e guardando i suoi discepoli, rimproverò Pietro e disse: «Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini”. Usando l'espressione "va' dietro a me" Gesù non intende certamente allontanare Pietro da sé, come aveva fatto con il diavolo in occasione della tentazione (Mt 4,10), ma lo richiama alla sequela, cioè alla necessità di non mettersi al suo posto, ma di adeguarsi alle sue scelte.
Il fatto che Gesù rimproveri Pietro guardando anche gli altri discepoli, significa che essi condividevano le idee di Pietro: si tratta dunque di un'ammonizione rivolta a tutti i discepoli di ogni tempo e di ogni luogo.
Al primo annunzio della passione l'evangelista fa seguire un breve discorso rivolto da Gesù non solo ai suoi discepoli, ma anche alla folla, che ora è citata. Questo discorso contiene una piccola raccolta di detti riguardanti non più il destino futuro di Gesù, ma quello che devono fare coloro che lo vogliono seguire.
Gesù dunque, “convocata la folla insieme ai suoi discepoli, disse loro: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua”.
Il "rinnegamento di sé” ricorda la scelta del Servo di JHWH, il quale ha abbandonato ogni ricerca del potere per mettersi generosamente al servizio di tutto il popolo; l'espressione "prendere la sua croce" può alludere già al tipo di morte che lo aspetta oppure indicare semplicemente le sofferenza di una vita spesa per gli altri; ma il fine di tutto è la sequela, che Gesù propone come l'unico mezzo per raggiungere lo scopo di accogliere il regno di Dio che viene.
Poi Gesù prosegue: " Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà”. In altre parole: se uno vuole salvare egoisticamente la propria vita finirà per perderla, ossia per non raggiungere lo scopo, il senso della propria vita; mentre chi è disposto a perderla, seguendolo sul cammino della croce, sicuramente la salverà, cioè raggiungerà la vita piena del regno
Cerchiamo ora di immaginarci ciò che hanno provato tutti i presenti quando Gesù, senza mezzi termini ha detto: “«Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” ….Avranno provato tremore e sgomento e si saranno anche chiesti: Chi è dunque costui per chiedere tanto?”
La risposta la diamo ancora noi oggi, dopo duemila anni, perché se in quella croce, più o meno pesante, che ognuno porta nella propria vita, non vedesse avanti a sé chi ha pronunciato queste parole, non avrebbe la forza di proseguire.
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“Nel brano evangelico di oggi ritorna la domanda che attraversa tutto il Vangelo di Marco: chi è Gesù? Ma questa volta è Gesù stesso che la pone ai discepoli, aiutandoli gradualmente ad affrontare l’interrogativo sulla sua identità.
Prima di interpellare direttamente loro, i Dodici, Gesù vuole sentire da loro che cosa pensa di Lui la gente – e sa bene che i discepoli sono molto sensibili alla popolarità del Maestro! Perciò domanda: «La gente, chi dice che io sia?» -
Ne emerge che Gesù è considerato dal popolo un grande profeta. Ma, in realtà, a Lui non interessano i sondaggi e le chiacchiere della gente. Egli non accetta nemmeno che i suoi discepoli rispondano alle sue domande con formule preconfezionate, citando personaggi famosi della Sacra Scrittura, perché una fede che si riduce alle formule è una fede miope.
Il Signore vuole che i suoi discepoli di ieri e di oggi instaurino con Lui una relazione personale, e così lo accolgano al centro della loro vita. Per questo li sprona a porsi in tutta verità di fronte a sé stessi, e chiede: «Ma voi, chi dite che io sia?» .
Gesù, oggi, rivolge questa richiesta così diretta e confidenziale a ciascuno di noi: “Tu, chi dici che io sia? Voi, chi dite che io sia? Chi sono io per te?”. Ognuno è chiamato a rispondere, nel proprio cuore, lasciandosi illuminare dalla luce che il Padre ci dà per conoscere il suo Figlio Gesù. E può accadere anche a noi, come a Pietro, di affermare con entusiasmo: «Tu sei il Cristo».
Quando però Gesù ci dice chiaramente quello che disse ai discepoli, cioè che la sua missione si compie non nella strada larga del successo, ma nel sentiero arduo del Servo sofferente, umiliato, rifiutato e crocifisso, allora può capitare anche a noi, come a Pietro, di protestare e ribellarci perché questo contrasta con le nostre attese, con le attese mondane. In quei momenti, anche noi meritiamo il salutare rimprovero di Gesù: «Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini»
Fratelli e sorelle, la professione di fede in Gesù Cristo non può fermarsi alle parole, ma chiede di essere autenticata da scelte e gesti concreti, da una vita improntata all’amore di Dio, di una vita grande, di una vita con tanto amore per il prossimo. Gesù ci dice che per seguire Lui, per essere suoi discepoli, bisogna rinnegare sé stessi (cfr v. 34), cioè le pretese del proprio orgoglio egoistico, e prendere la propria croce. Poi dà a tutti una regola fondamentale. E qual è questa regola? «Chi vorrà salvare la propria vita la perderà.
Spesso nella vita, per tanti motivi, sbagliamo strada, cercando la felicità solo nelle cose, o nelle persone che trattiamo come cose. Ma la felicità la troviamo soltanto quando l’amore, quello vero, ci incontra, ci sorprende, ci cambia. L’amore cambia tutto! E l’amore può cambiare anche noi, ognuno di noi. Lo dimostrano le testimonianze dei santi.
La Vergine Maria, che ha vissuto la sua fede seguendo fedelmente il suo Figlio Gesù, aiuti anche noi a camminare nella sua strada, spendendo generosamente la nostra vita per Lui e per i fratelli.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 16 settembre 2018
1. Oggi 5 settembre - inizia il seguente orario delle Ss. messe domenicali - alle ore 8,30 - 10,00 - 11,30 - 18,30.
2. E’ iniziato già il seguente orario delle Ss. messe feriali - alle ore 9,00 alle ore 18,30.
3. Mercoledì 8 settembre si celebra la festa liturgica della Natività della B.V.M.
4. Martedì 7 settembre la s. messa alle ore 18,30 verrà celebrata da P. Pietro - vicario parrocchiale - e da P. Giacinto - vicario generale – nel 25°anniversario della loro professione religiosa. Tanti auguri a loro in questo giorno speciale.
5. Venerdì 10 settembre si celebra la giornata dei Laici Salettini. Sono le persone che approfondiscono in modo particolare il messaggio della Madonna della Salette.
L'umanità è una grande e immensa famiglia ... Troviamo la dimostrazione di ciò da quello che ci sentiamo nei nostri cuori a Natale.
(Papa Giovanni XXIII)