La liturgia di questa seconda domenica di quaresima, hanno come sfondo spaziale un monte e si aprono entrambe ad una rivelazione.
Nella prima lettura, tratta dal Libro della Genesi, abbiamo il monte Moria – che la tradizione identificherà simbolicamente col colle del Tempio di Gerusalemme – a raccogliere una drammatica e gloriosa rivelazione di Dio destinata ad Abramo, nostro padre nella fede, come lo definirà S.Paolo . La narrazione è la storia di un credente che scopre anche attraverso la strada impervia del silenzio di Dio, la promessa di una salvezza piena. Infatti quel terribile e silenzioso viaggio di tre giorni affrontato da Abramo verso la vetta della prova possiamo scorgere l’esempio di ogni itinerario di fede.
Nella seconda lettura, Paolo, nella sua lettera ai Romani, fa un vibrante inno all’amore di Dio, che si manifesta nel dono del Figlio. L’antica figura di Isacco è diventata realtà in Cristo: “Dio non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi”..
Nel Vangelo di Marco troviamo il racconto della Trasfigurazione di Gesù, che avviene su di un monte, il cui nome non è citato nei Vangeli, anche se la tradizione cristiana lo identificherà col monte Tabor, in Galilea.
La Trasfigurazione è l’anticipazione della gloria del risorto. Solo chi cammina con Cristo sulla via della croce, può giungere con Lui alla gloria luminosa della resurrezione.
Dal libro della Genesi
In quei giorni, Dio mise alla prova Abramo e gli disse: «Abramo!». Rispose: «Eccomi!». Riprese: «Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, va’ nel territorio di Mòria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò».
Così arrivarono al luogo che Dio gli aveva indicato; qui Abramo costruì l’altare, collocò la legna. Poi Abramo stese la mano e prese il coltello per immolare suo figlio. Ma l’angelo del Signore lo chiamò dal cielo e gli disse: «Abramo, Abramo!». Rispose: «Eccomi!». L’angelo disse: «Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli niente! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unigenito». Allora Abramo alzò gli occhi e vide un ariete, impigliato con le corna in un cespuglio. Abramo andò a prendere l’ariete e lo offrì in olocausto invece del figlio.
L’angelo del Signore chiamò dal cielo Abramo per la seconda volta e disse: «Giuro per me stesso, oracolo del Signore: perché tu hai fatto questo e non hai risparmiato tuo figlio, il tuo unigenito, io ti colmerò di benedizioni e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare; la tua discendenza si impadronirà delle città dei nemici. Si diranno benedette nella tua discendenza tutte le nazioni della terra, perché tu hai obbedito alla mia voce».
Gen 22,1-2,9a,10-13,15-18
Questo celeberrimo racconto rappresenta il punto culminante della vicenda di Abramo, che occupa tutta la prima sezione della seconda parte della Genesi.
Sappiamo che dopo varie vicende, fra slanci di fede e umilianti sconfitte, Abramo ha ottenuto finalmente Isacco, il figlio della promessa. Ma proprio ora avviene un terribile colpo di scena: Dio domanda ad Abramo di offrirglielo in sacrificio.
Il brano inizia riportando che “Dio mise alla prova Abramo…” Ciò che sta per chiedergli è talmente terribile da preparare chi legge al fatto che Dio non lo vuole veramente, ma intende semplicemente saggiare fino in fondo e in modo definitivo il cuore di Abramo, quanto sia forte la sua fede in Lui.
Dio pronunzia due volte il nome del patriarca: “Abramo, Abramo!” per indicare il momento solenne, decisivo dal quale dipende il futuro di Abramo e del popolo che nascerà da lui.
Con quell’“Eccomi!” Abramo si dichiara pronto per ascoltare ciò che Dio gli dice: “Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, va’ nel territorio di Mòria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò”.
La richiesta è veramente terribile, difficile da credere che Dio che è Amore voglia un sacrificio umano di un figlio ”unigenito”, che un padre ha tanto atteso e che ora ama immensamente, più di ogni altra cosa . È importante anche la designazione del luogo in cui dovrà attuarsi il sacrificio, si tratta infatti del monte Moria, che in un altro testo (v. 2Cr 3,1) è indicato come il luogo in cui sorgerà il tempio di Gerusalemme.
Nel testo non vengono descritti i sentimenti contrastanti di Abramo e nei versetti non presenti nel brano liturgico, viene riportato che “Abramo si alzò di buon mattino, sellò l’asino, prese con sé due servi e il figlio Isacco, spaccò la legna per l’olocausto e si mise in viaggio verso il luogo che Dio gli aveva indicato”, e alla domanda che Isacco, giunti sul monte Moria fece al padre: “Ecco qui il fuoco e la legna, ma dov’è l’agnello per l’olocausto?” “Abramo rispose “ Dio stesso provvederà l’agnello per l’olocausto, figlio mio!”.
Questi versetti sono importanti perchè evidenziano l’obbedienza cieca e silenziosa di Abramo, ma soprattutto la sua fede incrollabile per il suo Dio.
Molti esperti giustamente si sono chiesti: come può Abramo aver pensato che Dio gli potesse chiedere questo suo figlio tanto atteso, il figlio della promessa? E come Abramo ha potuto distinguere la vera voce di Dio?
La deduzione a cui sono giunti ci permette di fare un passo in più per comprendere il mistero di Dio: Abramo osservando i suoi contemporanei si sarà accorto che essi amavano a tal punto i loro dèi da sacrificare i loro primogeniti. Gli sembrò allora che l’amore di Dio potesse esigere da lui il sacrificio di Isacco, il figlio della promessa, tanto atteso e amato.
Ma è qui che Dio interviene e per fermarlo invia il suo angelo per dirgli: “Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli niente! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unigenito”. Dio non vuole la morte dell’uomo, ma la vita!
Abramo, che aveva già sacrificato Isacco nel proprio cuore, lo poté considerare così come un salvato da morte, come un risuscitato, perciò i Padri della Chiesa hanno visto nel sacrificio di Isacco, la prefigurazione del sacrificio di Cristo.
Al termina del racconto Dio rinnova ad Abramo con un solenne giuramento le promesse che gli aveva fatto precedentemente, motivandole nuovamente col fatto che egli “non ha risparmiato” il suo unico figlio “io ti colmerò di benedizioni e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare. la tua discendenza si impadronirà delle città dei nemici. Si diranno benedette nella tua discendenza tutte le nazioni della terra, perché tu hai obbedito alla mia voce”
Nota: E’ da tenere presente che l’idea ebraica di Dio ai tempi di Abramo, fosse una monolatria, ossia l’adorazione di un unico Dio, ma senza escludere che gli altri popoli avessero i loro dèi, infatti non si trova prima del Deuteronomio un vero e proprio monoteismo, ovvero un Dio unico e universale. Dopo l’esilio i pochi reduci del popolo d’Israele, non solo continuano a fidarsi del loro Dio, il che è contro l’apparente logica umana, ma addirittura arrivano ad affermare che il loro è l’unico Dio! Non ce ne sono altri. Lui è il Creatore dell’universo, tutto è uscito dalla Sua opera!
Salmo 115 Camminerò alla presenza del Signore nella terra dei viventi.
Ho creduto anche quando dicevo:
«Sono troppo infelice».
Agli occhi del Signore
è preziosa la morte dei suoi fedeli.
Ti prego, Signore, perché sono tuo servo;
io sono tuo servo, figlio della tua schiava:
tu hai spezzato le mie catene.
A te offrirò un sacrificio di ringraziamento
e invocherò il nome del Signore.
Adempirò i miei voti al Signore
davanti a tutto il suo popolo,
negli atri della casa del Signore,
in mezzo a te, Gerusalemme.
Il salmista ha provato momenti di sgomento di fronte agli inganni degli uomini. Si era trovato imprigionato, ma poi ha visto la libertà: “hai spezzato le mie catene”. Come risposta di il salmista offrirà “un sacrificio di ringraziamento".
Una parte delle vittime sacrificate spettava all'offerente, che la consumava in un convito coi famigliari, gli amici, i poveri (Cf. Ps 21,27). Durante il convito l'offerente prendeva una coppa di vino presentandola al Signore e poi ne beveva lui e tutti gli altri: “Alzerò il calice della salvezza”.
Il salmista dice che “Agli occhi del Signore è preziosa la morte dei suoi fedeli”, intendendo affermare che l'ora della morte dei fedeli a Dio non è ad arbitrio degli uomini. Lui decide il dove, il come e il quando, e questo per il bene del fedele.
Il salmista offrirà "un sacrificio di ringraziamento" davanti a tutto il popolo, e con piena ortodossia nel tempio del Signore, a Gerusalemme, testimoniando così pubblicamente la sua fede nel Signore.
L'esistenza del tempio porta a pensare ad un personaggio perseguitato per la sua fedeltà a Dio da un qualche re di Gerusalemme rivolto agli dei pagani; come fu il caso di Geremia.
“Il calice della salvezza”, nel sensus plenior è quello eucaristico.
Commento di P.Paolo Berti
Dalla lettera di S.Paolo apostolo ai Romani
Fratelli, se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui? Chi muoverà accuse contro coloro che Dio ha scelto?
Dio è colui che giustifica!
Chi condannerà? Cristo è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi!
Rm 8,31b-34
San Paolo scrisse la lettera ai Romani da Corinto probabilmente tra gli anni 58-59. La comunità dei cristiani di Roma era già ben formata e coordinata, ma lui ancora non la conosceva. Forse il primo annuncio fu portato a Roma da quei “Giudei di Roma”, presenti a Gerusalemme nel giorno della Pentecoste e che accolsero il messaggio di Pietro e il Battesimo da lui amministrato, diventando cristiani. Nacque subito la necessità di avere a Roma dei presbiteri e questi non poterono che essere nominati a Gerusalemme.
La Lettera ai Romani, che è uno dei testi più alti e più impegnativi degli scritti di Paolo, ed è anche la più lunga e più importante come contenuto teologico, è composta da 16 capitoli: i primi 11 contengono insegnamenti sull'importanza della fede in Gesù per la salvezza, contrapposta alla vanità delle opere della Legge; il seguito è composto da esortazioni morali. Paolo, in particolare, fornisce indicazioni di comportamento per i cristiani all'interno e all'esterno della loro comunità
Nel capitolo 8, da dove è tratto questo brano, Paolo riprende in chiave positiva il tema della giustificazione, mostrando come, una volta eliminata la minaccia di una legge che si impone dall’esterno all’uomo peccatore, la salvezza portata da Cristo si manifesta come una vita nuova animata e guidata dallo Spirito.
Nel brano che abbiamo, Paolo mette in risalto come nulla possa ormai pregiudicare il cammino di liberazione del credente e introduce due prime domande che riguardano il problema in generale:”se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?” In forza della scelta speciale che ha fatto in loro favore, Dio è ormai dalla parte dei credenti. Nulla quindi potrà essere contro di loro. Poi prosegue: Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui? Chi muoverà accuse contro coloro che Dio ha scelto? Dio è colui che giustifica!
Se Dio è giunto fino al punto di non risparmiare il proprio Figlio, anzi di “consegnarlo” per tutti loro, egli non potrà non donare loro ogni cosa insieme con Lui.
Infine pone la stessa domanda, dandone la risposta, riguardo a Cristo: Chi condannerà? Cristo è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi!
Certo non sarà Cristo Gesù a condannare coloro per i quali è morto ed è risorto, e ora sta alla destra di Dio dove intercede per loro. Se hanno dalla loro parte sia Dio che Suo Figlio Gesù, i credenti non hanno nulla da temere: nessuno, se non loro stessi, potrà privarli di quei beni che Gesù ha acquistato loro con la Sua morte e risurrezione
Dal Vangelo secondo Marco
In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli. Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù. Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati. Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce:
«Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!».
E improvvisamente,guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro.
Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti. Ed essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti
Mc 9,2-10
L’episodio della Trasfigurazione anche nel Vangelo di Marco, come negli altri vangeli sinottici, è inserito nella fase cruciale del ministero pubblico di Gesù, cioè tra la confessione di Pietro, la rivelazione del Messia sofferente, e l’inizio dell’ultimo pellegrinaggio verso Gerusalemme.
Il brano inizia riportando che “Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli”. Marco non dice quale fosse l’alto monte su cui si è verificato l’evento. Esso è stato identificato dalla tradizione cristiana con il Tabor, un tozzo colle di 582 metri che incombe sulla fertile valle di Izreel in Galilea, in senso simbolico indica però il luogo in cui Dio si rivela al Suo popolo.
Possiamo considerare l’evento della trasfigurazione , strettamente legata alla passione del Signore e di conseguenza un anticipo della gloria della Sua risurrezione.
“Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche”
L’effetto di questa trasfigurazione viene indicato mediante il candore straordinario delle sue vesti . Marco non poteva trovare altre definizioni perchè lo splendore di quelle vesti, avevano una luminosità, un candore tipica degli esseri celesti, che appartengono al mondo divino, che nessuna parola umana può descrivere. Accanto a Gesù, in atto di conversare con Lui, appaiono Elia e Mosè per indicare rispettivamente il profetismo e la legge che proprio in Gesù trovano il loro compimento. Il fatto che Elia preceda Mosè ha forse lo scopo di far risaltare la supremazia del profetismo, che invece nel giudaismo era messo al secondo posto.
La scena provoca la surreale reazione di Pietro,il quale, rivolgendosi a Gesù, gli dice: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia».
L’evangelista non spiega che cosa intendesse effettivamente l’apostolo, ma sottolinea che i tre erano talmente spaventati da non sapere che cosa dire. La loro confusione mentale era anche probabilmente l’effetto del sacro terrore che accompagna di solito la manifestazione del divino.
La richiesta di Pietro è in linea con l’episodio di Cesarea di Filippo, quando egli, di fronte all’annunzio della imminente morte e risurrezione di Gesù, aveva duramente protestato (Mc 8,32-33): in ambedue i casi egli si dimostra interessato alla gloria del Cristo, piuttosto che alla Sua sofferenza e morte.
Dopo l’intervento di Pietro una nube copre con la sua ombra Gesù, Elia e Mosè e da essa esce una voce che dice: “Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!”. La presenza della nube, segno classico della presenza di Dio, rievoca l‘apparizione del Figlio dell‘uomo (Dn 7,13) e la proclamazione di Gesù come “Figlio mio, l’amato” ricorda la scena del battesimo. Con il termine “figlio”, viene proclamata la dignità messianica di Gesù, e il termine “amato” richiama invece il sacrificio di Isacco.
Improvvisamente, dopo aver ascoltato la voce, i tre discepoli si guardano intorno e non vedono più nessuno se non Gesù. Questo brusco ritorno alla realtà quotidiana sottolinea il carattere singolare della visione: Gesù resta quello che era, ma i discepoli hanno compreso qualcosa di Lui che va al di là della percezione esterna e sensoriale.
Mentre scendono dalla montagna Gesù ordina ai tre di non raccontare a nessuno l’accaduto prima che avvenga la risurrezione del Figlio dell’uomo .
L’evangelista evidenzia che “essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti”. Questa incomprensione dei discepoli spiega la ragione perchè essi si troveranno del tutto smarriti e impreparati di fronte all‘evento della risurrezione.
Tra i tanti spunti che si possono trarre da questo racconto colpisce la domanda ingenua di Pietro: “Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne …” L’apostolo vorrebbe subito essere nella pace e nella gloria della Pasqua, cancellando la quaresima della vita col suo cammino oscuro e con la morte.
Pietro qui ci rappresenta tutti quando vogliamo che non ci sia anche per noi la via della croce, quando sogniamo una scorciatoia facile che ci porti subito dal monte della trasfigurazione, cioè dai momenti di luce e di pace, alla Gerusalemme celeste della Pasqua definitiva.
Come Abramo, invece, dobbiamo percorrere la valle oscura delle prove; come Gesù dobbiamo discendere nella pianura quotidiana della Galilea, pronti a salire verso il picco più alto della prova, il Monte Moria o il Calvario, dove però si aprirà anche la luce della promessa e della Pasqua.
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"Domenica scorsa a liturgia ci ha presentato Gesù tentato da satana nel deserto, ma vittorioso sulla tentazione. Alla luce di questo Vangelo, abbiamo preso nuovamente coscienza della nostra condizione di peccatori, ma anche della vittoria sul male offerta a quanti intraprendono il cammino di conversione e, come Gesù, vogliono fare la volontà del Padre.
In questa seconda domenica di Quaresima, la Chiesa ci indica la meta di questo itinerario di conversione, ossia la partecipazione alla gloria di Cristo, quale risplende sul suo volto di Servo obbediente, morto e risorto per noi.
La pagina evangelica racconta l’evento della Trasfigurazione, che si colloca al culmine del ministero pubblico di Gesù. Egli è in cammino verso Gerusalemme, dove si compiranno le profezie del “Servo di Dio” e si consumerà il suo sacrificio redentore.
Le folle, non capivano questo: di fronte alla prospettiva di un Messia che contrasta con le loro aspettative terrene, lo hanno abbandonato. Ma loro pensavano che il Messia sarebbe stato un liberatore dal dominio dei romani, un liberatore della patria e questa prospettiva di Gesù non piace loro e lo lasciano. Anche gli Apostoli non capiscono le parole con cui Gesù annuncia l’esito della sua missione nella passione gloriosa, non capiscono! Gesù allora prende la decisione di mostrare a Pietro, Giacomo e Giovanni un anticipo della sua gloria, quella che avrà dopo la resurrezione, per confermarli nella fede e incoraggiarli a seguirlo sulla via della prova, sulla via della Croce. E così, su un alto monte, immerso in preghiera, si trasfigura davanti a loro: il suo volto e tutta la sua persona irradiano una luce sfolgorante. I tre discepoli sono spaventati, mentre una nube li avvolge e risuona dall’alto – come nel Battesimo al Giordano – la voce del Padre: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!» .
Gesù è il Figlio fattosi Servo, inviato nel mondo per realizzare attraverso la Croce il progetto della salvezza, per salvare tutti noi. La sua piena adesione alla volontà del Padre rende la sua umanità trasparente alla gloria di Dio, che è l’Amore.
Gesù si rivela così come l’icona perfetta del Padre, l’irradiazione della sua gloria. E’ il compimento della rivelazione; per questo accanto a Lui trasfigurato appaiono Mosè ed Elia, che rappresentano la Legge e i Profeti, come per significare che tutto finisce e incomincia in Gesù, nella sua passione e nella sua gloria.
La consegna per i discepoli e per noi è questa: “Ascoltatelo!”. Ascoltate Gesù. E’ Lui il Salvatore: seguitelo. Ascoltare Cristo, infatti, comporta assumere la logica del suo mistero pasquale, mettersi in cammino con Lui per fare della propria esistenza un dono di amore agli altri, in docile obbedienza alla volontà di Dio, con un atteggiamento di distacco dalle cose mondane e di interiore libertà. Occorre, in altre parole, essere pronti a “perdere la propria vita” (cfr Mc 8,35), donandola affinché tutti gli uomini siano salvati: così ci incontreremo nella felicità eterna.
Il cammino di Gesù sempre ci porta alla felicità, non dimenticatelo! Il cammino di Gesù ci porta sempre alla felicità. Ci sarà in mezzo sempre una croce, delle prove ma alla fine sempre ci porta alla felicità. Gesù non ci inganna, ci ha promesso la felicità e ce la darà se andiamo sulle sue strade.
Con Pietro, Giacomo e Giovanni saliamo anche noi oggi sul monte della Trasfigurazione e sostiamo in contemplazione del volto di Gesù, per raccoglierne il messaggio e tradurlo nella nostra vita; perché anche noi possiamo essere trasfigurati dall’Amore.
In realtà l’amore è capace di trasfigurare tutto. L’amore trasfigura tutto!
Credete voi in questo? Ci sostenga in questo cammino la Vergine Maria, che ora invochiamo con la preghiera dell’Angelus."
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 1 marzo 2015
Da mercoledì scorso, con la liturgia delle ceneri è iniziata la quaresima, tempo che ci riporta alla sostanza dell’esistenza cristiana, invitandoci a intensificare nella preghiera e nella penitenza il cammino per la preparazione alla Pasqua di risurrezione.
Nella prima lettura, tratta dal Libro della Genesi, vediamo come una nuova umanità nasce purificata dalle acque del diluvio. L’alleanza di Dio con Noè è il primo annuncio della grande Alleanza che sarà compiuta da Cristo nella Pasqua, con il Suo sangue.
Nella seconda lettura, nella prima lettera di S.Pietro, leggiamo come il diluvio ha fatto nuova la terra, così il battesimo fa nuovo ogni uomo. E’ la novità che nasce dalla risurrezione di Cristo e abbraccia tutta l’umanità e l’intero creato.
Nel brano del suo Vangelo, Marco facendo seguire subito dopo il battesimo di Gesù l’episodio delle tentazioni, vuole indicare che il punto fondamentale della missione del Figlio di Dio è la lotta contro satana, che si può vincere solo se ci rivestiamo delle armi della fede in Colui che ha vinto il mondo. La quaresima perciò inizia con l’appello di Cristo: Convertitevi e credete al Vangelo! Nella loro essenzialità e nella loro forza, queste parole sono come un fulmine che squarcia il grigiore, la superficialità, il compromesso e le abitudini consolidate della nostra esistenza umana!
Dal libro della Genesi
Dio disse a Noè e ai suoi figli con lui: «Quanto a me, ecco io stabilisco la mia alleanza con voi e con i vostri discendenti dopo di voi, con ogni essere vivente che è con voi, uccelli, bestiame e animali selvatici, con tutti gli animali che sono usciti dall’arca, con tutti gli animali della terra. Io stabilisco la mia alleanza con voi: non sarà più distrutta alcuna carne dalle acque del diluvio, né il diluvio devasterà più la terra».
Dio disse:
«Questo è il segno dell’alleanza,
che io pongo tra me
e voi e ogni essere vivente che è con voi,
per tutte le generazioni future.
Pongo il mio arco sulle nubi,
perché sia il segno dell’alleanza
tra me e la terra.
Quando ammasserò le nubi sulla terra
e apparirà l’arco sulle nubi,
ricorderò la mia alleanza
che è tra me e voi
e ogni essere che vive in ogni carne,
e non ci saranno più le acque per il diluvio,
per distruggere ogni carne».
Gen 9,8-15
Il Libro della Genesi (che significa: "nascita", "creazione", "origine"), è il primo libro della Torah ebraica e della Bibbia cristiana. E’ stato scritto in ebraico, e secondo molti studiosi, la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata intorno al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte. Nei primi 11 dei suoi 50 capitoli, descrive la cosiddetta "preistoria biblica" (creazione, peccato originale, diluvio universale), e nei rimanenti la storia dei patriarchi Abramo, Isacco, Giacobbe-Israele e di Giuseppe, le cui vite si collocano nel vicino oriente (soprattutto in Palestina) del II millennio a.C. (la datazione dei patriarchi, tradizionale ma ipotetica, è attorno al 1800-1700).
Il libro della Genesi è suddiviso in due grandi sezioni. La prima, corrispondente ai capitoli 1-11, comprende il racconto della creazione e la storia del genere umano. La seconda sezione, dal capitolo 12 al capitolo 50, narra la storia del popolo eletto, mediante i racconti sui patriarchi.
Questo brano lo troviamo alla conclusione del racconto del diluvio, dopo i racconti riguardanti la creazione. Il diluvio è presentato come un evento che ha sconvolto tutto l’universo, come punizione per un’ulteriore diffusione del peccato.
Il racconto, che si trova anche in altre religioni, ha solo valore teologico ed è la risposta che l’uomo si dà al perché c’è il male nel mondo. Questo brano ci parla dell’alleanza che Dio offre a Noè liberato dalle acque del diluvio. “Questo è il segno dell’alleanza, che io pongo tra me e voi e ogni essere vivente che è con voi,
per tutte le generazioni future. Pongo il mio arco sulle nubi, perché sia il segno dell’alleanza tra me e la terra. Quando ammasserò le nubi sulla terra e apparirà l’arco sulle nubi, ricorderò la mia alleanza che è tra me e voi e ogni essere che vive in ogni carne, e non ci saranno più le acque per il diluvio, per distruggere ogni carne”.
Più di un’alleanza, si può dire che è una garanzia, un impegno assunto soltanto da parte di Dio perché non dipende dal futuro comportamento dell’uomo, perché il Signore non chiede a Noè nessun impegno in particolare. E’ perciò un puro atto di misericordia verso tutta l’umanità intera: uomini ed animali.
Come negli accordi terreni, viene stabilito anche un segno esterno che possa ricordare l’impegno assunto e questo segno sarà l’arcobaleno. L’arcobaleno, che sorge dopo ogni temporale, viene scelto perché fa pensare ad un arco da guerra deposto sulle nubi, significando così la fine di un conflitto tra Dio e il cosmo e una garanzia di pace.
Nella prospettiva biblica questa pace non si esaurisce nella stabilità delle leggi della natura, ma è l’espressione della misericordia infinita di Dio per tutta l’umanità. Infine questa alleanza si estende alle “generazioni future”, è cioè un’alleanza perenne, come quella stabilita con Abramo. Viene così confermata la misericordia di Dio che rispetta la vita di ogni vivente, specialmente dell’uomo che rappresenta il vertice di tutto il creato.
Salmo 24: Tutti i sentieri del Signore sono amore e fedeltà.
Fammi conoscere, Signore, le tue vie,
insegnami i tuoi sentieri.
Guidami nella tua fedeltà e istruiscimi,
perché sei tu il Dio della mia salvezza.
Ricordati, Signore, della tua misericordia
e del tuo amore, che è da sempre.
Ricordati di me nella tua misericordia,
per la tua bontà, Signore.
Buono e retto è il Signore,
indica ai peccatori la via giusta;
guida i poveri secondo giustizia,
insegna ai poveri la sua via.
Il salmista è pieno d’umiltà al ricordo delle sue numerose colpe della sua giovinezza. E’ sgomento alla vista che tanti suoi amici lo hanno tradito per un nulla. Uno screzio è bastato perché si mettessero contro di lui. Egli, piegato dal peso dei suoi peccati, domanda che Dio guardi a lui e non a quanto ha fatto non osservando “la sua alleanza e i suoi precetti”. Si trova in grande difficoltà di fronte ad avversari che lo odiano in modo violento e lui non ha via di salvezza che quella del Signore. Gli errori passati sono il frutto del suo abbandono della “via giusta”. Ora sa che “tutti i sentieri del Signore sono amore e fedeltà”, cioè non portano a rovina, ma anzi danno prosperità, poiché la discendenza di chi teme il Signore “possederà la terra”. L’orante voleva affermarsi sugli altri agendo con spavalderia, con vie traverse, ed ecco che sconfessa tutto il suo passato, trattenendone però la lezione di umiltà, che gli ha dato. Egli sa che non andrà deluso perché ha deciso di essere protetto da "integrità e rettitudine”, cioè dall’osservanza dell’alleanza stabilita da Dio con Israele. L’orante non pensa solo a se stesso, si sente parte del popolo di Dio, e invoca la liberazione di Israele dalle angosce date dai nemici. La liberazione dell’Israele di Dio, la Chiesa, cioè l’Israele fondato sulla fede in Cristo, non escludendo nella sua carità quello etnico basato sulla carne e sul sangue, per il quale la pace passerà dall’accoglienza del Principe della pace.
Commento di P.Paolo Berti
Dalla prima lettera di san Pietro apostolo
Carissimi, Cristo è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio; messo a morte nel corpo, ma reso vivo nello spirito. E nello spirito andò a portare l’annuncio anche alle anime prigioniere, che un tempo avevano rifiutato di credere, quando Dio, nella sua magnanimità, pazientava nei giorni di Noè, mentre si fabbricava l’arca, nella quale poche persone, otto in tutto, furono salvate per mezzo dell’acqua.
Quest’acqua, come immagine del battesimo, ora salva anche voi; non porta via la sporcizia del corpo, ma è invocazione di salvezza rivolta a Dio da parte di una buona coscienza, in virtù della risurrezione di Gesù Cristo. Egli è alla destra di Dio, dopo essere salito al cielo e aver ottenuto la sovranità sugli angeli, i Principati e le Potenze.
1Pt 3,18-22
La Prima lettera di Pietro è un testo scritto alla fine del I secolo che si presenta come opera del grande apostolo di cui porta il nome, ma secondo gli esperti è una raccolta di tradizioni che al massimo potrebbero risalire a Pietro o al suo ambiente. Non è una lettera vera e propria, ma un’omelia a sfondo battesimale, che si apre con l’indirizzo e una benedizione iniziale (1,1-5) a cui fa seguito il corpo della lettera che si divide in tre parti: 1) Identità e responsabilità dei rigenerati (1,6 - 2,10); 2) I cristiani nella società civile (2,11 - 4,11); 3) Presente e futuro della Chiesa (4,12 - 5,11).
Il brano che abbiamo fa parte della parte centrale dello scritto, nella quale si danno direttive per la partecipazione dei cristiani alla vita sociale (2,11-4,11).
Pietro inizia ricordando che “Cristo è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio; messo a morte nel corpo, ma reso vivo nello spirito”.
Egli non si limita però a richiamare le sofferenze di Cristo, ma ne mette in luce il significato ribadendo che “Cristo è morto una volta per sempre”, cioè con il suo gesto ha raggiunto pienamente, una volta per tutte, il suo scopo. Inoltre egli è morto “per i peccati” cioè per liberare l’uomo dai peccati che lo tengono schiavo. Proprio Lui, che era giusto, ha dato la vita per uomini ingiusti, attuando così il compito di ricondurli a Dio.
Infine Pietro sottolinea che Cristo è stato “messo a morte nel corpo”, cioè nella sua realtà umana, povera e limitata, che lo accomuna a tutta l’umanità, ma è stato “reso vivo nello Spirito”, cioè in forza della potenza stessa di Dio che Egli possiede nella sua pienezza. In altre parole Pietro vuole dire che, dopo e in forza della morte che lo ha colpito come ogni altro essere umano, lo Spirito di Dio ha attuato in lui una vita nuova, che si manifesta mediante la Sua resurrezione, e da Lui si estende a tutti i credenti (questo concetto lo si può ritrovare in Rm 1,4).
Pietro prende lo spunto dalla morte di Cristo per parlare della sua discesa agli inferi che descrive così: “nello spirito andò a portare l’annuncio anche alle anime prigioniere, che un tempo avevano rifiutato di credere, quando Dio, nella sua magnanimità, pazientava nei giorni di Noè, mentre si fabbricava l’arca, nella quale poche persone, otto in tutto, furono salvate per mezzo dell’acqua.
Pietro allude qui sicuramente allo Sheol, che era considerato come il regno dei morti, nel quale vanno a finire le anime dei trapassati, per i sadducei senza alcuna speranza di cambiamento, per i farisei in attesa della risurrezione finale. Secondo la terminologia ebraica “andare agli inferi” era semplicemente una giro di parole per indicare la morte. Pietro invece la interpreta come una visita in quella regione tenebrosa, nella quale secondo lui erano tenuti come prigionieri tutti coloro che erano vissuti al tempo del diluvio universale. Costoro, pur vedendo che Noè costruiva l’arca, invece di approfittare dell’ultima possibilità che veniva loro concessa dalla pazienza di Dio, non avevano creduto ed così salvati. In altre parole si tratterebbe dell’umanità che è stata sterminata per la sua malvagità al tempo di Noè. Ma forse Pietro pensa più in generale a tutta l’umanità vissuta prima di Cristo, che egli vede contrassegnata dallo stesso peccato che ha provocato la distruzione del diluvio.
A questi spiriti racchiusi nello Sheol come in una prigione, Cristo “andò a portare l’annuncio”. Anche se il testo non mette l’oggetto dell’annuncio ossia la “salvezza”, molti padri (tra i quali Agostino) e esegeti moderni sottintendono “annuncio di salvezza”, e una liberazione vera e propria.
Nell’ultima parte del brano si parla dell’acqua del diluvio “Quest’acqua, come immagine del battesimo, ora salva anche voi”; Pietro intravede qui una specie di analogia tra il diluvio e il battesimo cristiano: l’acqua del diluvio, da cui solo alcuni si salvarono, simboleggia l’economia dell’antica legge, le cui prescrizioni rituali ottenevano molto spesso solo una purificazione esteriore e “carnale”. È vero che l’acqua del diluvio è stata soprattutto strumento di morte, mentre quella del battesimo porta la salvezza, ma bisogna riconoscere che ambedue hanno in comune l’effetto di purificazione dal contagio del peccato. Il battesimo è presentato anzitutto come un mezzo di salvezza che opera “ora”.
Pietro precisa che il battesimo non porta via la sporcizia del corpo, ma è invocazione di salvezza rivolta a Dio da parte di una buona coscienza, cioè la richiesta a Dio perché mantenga l’impegno da lui preso in favore di chi lo riceve con retta intenzione.
La preghiera che accompagna il rito battesimale, non può non essere esaudita se chi la pronunzia non ha una “buona coscienza”, cioè le disposizioni del cuore che sono richieste per ritornare a Dio. Queste disposizioni non vengono dalla buona volontà dell’uomo, ma sono anch’esse un dono di Dio, che riceviamo “in virtù della risurrezione di Gesù Cristo”.
Il brano termina con una professione di fede cristologica: questo Cristo che è risorto
“è alla destra di Dio, dopo essere salito al cielo e aver ottenuto la sovranità sugli angeli, i Principati e le Potenze.”
Questa espressione riprende le affermazioni delle lettere paoline circa l’esaltazione di Cristo (v. Ef 1,20-21; Col 2,15), alle quali Luca attinge riportando il racconto dell’ascensione (At 1,9), facendole poi presentare da Pietro nella sua prima predica dopo la Pentecoste.
Nel contesto del mistero pasquale, Cristo ha dunque ricevuto la pienezza dello Spirito per proporre la salvezza a tutti gli uomini, anche a quelli che erano vissuti prima di lui, non esclusi i peccatori più pervertiti, come quelli del tempo di Noè. Pietro vuole qui affermare che la salvezza portata da Cristo opera in modo misterioso a favore di tutti gli uomini, anche di coloro che sono vissuti prima di Lui. Infatti nella sua esperienza personale si rende visibile, in modo chiaro e urgente, quella spinta che ha portato uomini di ogni razza e religione a dare la vita per i loro fratelli.
Dal vangelo secondo Marco
In quel tempo, lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana. Stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano.
Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo».
Mc 1, 12-15
Nella breve introduzione del suo vangelo, Marco, dopo aver parlato di Giovanni il Battista e il battesimo di Gesù, accenna in modo molto conciso al periodo che Gesù trascorre nel deserto. Diversamente dunque da Matteo e Luca, Marco narra la tentazione di Gesù in modo veramente molto conciso: “lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana. Stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano.
Vediamo che ancora una volta, dopo la sua apparizione al battesimo, interviene nella vita di Gesù lo Spirito di Dio, per indicargli che cosa deve fare per realizzare il suo progetto di salvezza. Sotto l’azione dello Spirito, Gesù dunque si reca nel deserto, cioè nella regione desolata che si estende tra la zona montagnosa della Giudea e il mar Morto (deserto di Giuda), e lì resta quaranta giorni.
I quaranta giorni sono un periodo di tempo simbolico, che richiama i quarant’anni trascorsi dal popolo di Israele nel deserto (Nm 14,34), dove è stato messo alla prova da Dio (Dt 8,2) o i quaranta giorni trascorsi da Mosè sul Sinai (Es 24,18) o quelli impiegati da Elia per raggiungere l’Oreb (1Re 19,8). Il tema della tentazione inoltre rievoca anche la figura di Adamo, il quale era stato tentato dal serpente (Gen 3,1-7).
Sebbene sia stato sospinto nel deserto dallo Spirito, Gesù non è messo alla prova da Dio (come il popolo in Dt 8,2), ma da satana. Questo per non offuscare l’immagine di Dio i giudei del tempo di Gesù si erano abituati ad attribuire la tentazione a un non meglio precisato “avversario” (satana; v.. Gb 1-2), che con il tempo era stato considerato come un’entità diabolica personificata (v. 1Cr 21,1). Questa maggiore sensibilità teologica appare anche nella rilettura sapienziale della vicenda di Adamo, dove il serpente non è più un semplice animale, ma è identificato con il diavolo (v. Sap 2,24).
Anche l’accenno agli animali selvatici viene utilizzato per creare un quadro simbolico, ossia che Gesù vive in mezzo ad essi in piena armonia. Questo ricorda il celebre passo messianico di Isaia (11,6-8) “… Il lupo dimorerà insieme con l’agnello…, il vitello e il leoncello pascoleranno insieme e un fanciullo li guiderà.” L’ostilità tra animali selvatici e domestici, tra belve, serpenti e uomo si cancellerà e si ricomporrà l’orizzonte paradisiaco celebrato nel II capitolo della Genesi col giardino dell’Eden, dove Adamo, l’uomo del progetto creativo divino, viveva in compagnia degli animali, e su di essi dominava come guida voluta dal Signore. Mentre stava con le fiere, “gli angeli lo servivano”: questo è chiaramente un segno inequivocabile della vicinanza di Dio, che si fa rappresentare dai Suoi messaggeri; ma diversamente da Israele, che nel deserto ha mormorato e si è ribellato contro Dio, e da Adamo che ha mangiato il frutto dell’albero proibito, Gesù non ha ceduto alle lusinghe del tentatore.
Marco introduce la predicazione di Gesù in Galilea con due versetti che rappresentano il primo dei sommari di cui è ricco il suo vangelo: Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo».
Invece di recarsi in Giudea, zona densamente abitata da giudei, dove avevano sede le principali istituzioni giudaiche, Gesù torna in Galilea, Sua terra d’origine, che a quei tempi veniva chiamata “Galilea delle genti”, appellativo che richiamava il carattere misto della sua popolazione (V. Mt 4,15).
Il termine “proclamare” o predicare, con cui è indicata l’attività di Gesù in Galilea, indica la proclamazione pubblica fatta da un araldo; con esso i cristiani indicavano l’annunzio della salvezza fatto dagli apostoli (v. At 8,5; Rm 10,8; 1Cor 1,23).
Anche l’espressione “vangelo di Dio”, appartiene al linguaggio della prima comunità cristiana (v. Rm 1,1; 15,16; 2Cor 11,7) e indica non tanto la buona novella che ha per oggetto Dio, ma quella che proviene da Dio stesso, in quanto autore della salvezza.
Il lieto annunzio proclamato da Gesù è espresso con una frase molto concisa. Anzitutto egli afferma, con un linguaggio che si ispira all’apocalittica giudaica, che “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino” Il tempo (kairos), cioè il periodo dell’attesa, che prepara il momento attuale da quello finale e conclusivo della storia, è giunto al termine; di conseguenza il “regno di Dio”, cioè l’esercizio pieno e definitivo della sovranità divina in questo mondo, “è vicino” sta per realizzarsi in questa terra.
“convertitevi e credete nel Vangelo”. Come già aveva fatto Giovanni il Battista, Gesù invita a “convertirsi” (metanoein, cambiare mente) cioè a “ritornare” a Dio, cambiando mentalità e sottomettendosi una volta per tutte alla Sua sovranità; ma per fare ciò è necessario “credere nel vangelo”, cioè aprirsi al lieto annunzio ed essere disposti a basare su di esso tutta la propria vita.
Nella loro essenzialità e nella loro forza queste parole sono come una sferzata che squarcia il grigiore, la superficialità, il compromesso e le abitudini consolidate dell’esistenza umana.
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"Mercoledì scorso, con il rito delle Ceneri, è iniziata la Quaresima, e oggi è la prima domenica di questo tempo liturgico che fa riferimento ai quaranta giorni trascorsi da Gesù nel deserto, dopo il battesimo nel fiume Giordano. Scrive san Marco nel Vangelo odierno: «Lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da satana. Stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano». Con queste scarne parole l’evangelista descrive la prova affrontata volontariamente da Gesù, prima di iniziare la sua missione messianica. È una prova da cui il Signore esce vittorioso e che lo prepara ad annunciare il Vangelo del Regno di Dio. Egli, in quei quaranta giorni di solitudine, affrontò Satana “corpo a corpo”, smascherò le sue tentazioni e lo vinse. E in Lui abbiamo vinto tutti, ma a noi tocca proteggere nel nostro quotidiano questa vittoria.
La Chiesa ci fa ricordare tale mistero all’inizio della Quaresima, perché esso ci dà la prospettiva e il senso di questo tempo, che è un tempo di combattimento - nella Quaresima si deve combattere - un tempo di combattimento spirituale contro lo spirito del male (cfr Orazione colletta del Mercoledì delle Ceneri).
E mentre attraversiamo il “deserto” quaresimale, noi teniamo lo sguardo rivolto alla Pasqua, che è la vittoria definitiva di Gesù contro il Maligno, contro il peccato e contro la morte. Ecco allora il significato di questa prima domenica di Quaresima: rimetterci decisamente sulla strada di Gesù, la strada che conduce alla vita. Guardare Gesù, cosa ha fatto Gesù, e andare con Lui.
E questa strada di Gesù passa attraverso il deserto. Il deserto è il luogo dove si può ascoltare la voce di Dio e la voce del tentatore. Nel rumore, nella confusione questo non si può fare; si sentono solo le voci superficiali. Invece nel deserto possiamo scendere in profondità, dove si gioca veramente il nostro destino, la vita o la morte. E come sentiamo la voce di Dio? La sentiamo nella sua Parola. Per questo è importante conoscere le Scritture, perché altrimenti non sappiamo rispondere alle insidie del maligno… Il deserto quaresimale ci aiuta a dire no alla mondanità, agli “idoli”, ci aiuta a fare scelte coraggiose conformi al Vangelo e a rafforzare la solidarietà con i fratelli.
Allora entriamo nel deserto senza paura, perché non siamo soli: siamo con Gesù, con il Padre e con lo Spirito Santo. Anzi, come fu per Gesù, è proprio lo Spirito Santo che ci guida nel cammino quaresimale, quello stesso Spirito sceso su Gesù e che ci è stato donato nel Battesimo. La Quaresima, perciò, è un tempo propizio che deve condurci a prendere sempre più coscienza di quanto lo Spirito Santo, ricevuto nel Battesimo, ha operato e può operare in noi. E alla fine dell’itinerario quaresimale, nella Veglia Pasquale, potremo rinnovare con maggiore consapevolezza l’alleanza battesimale e gli impegni che da essa derivano."
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 22 febbraio 2015
Signore, grazie per amare noi e il mondo intero nonostante la nostra fragilità, la nostra pochezza di umanità, per usarci misericordia, per insegnarci che l’amore ha bisogno di esprimersi, di rivelarsi, di colloquiare con l’altro, aumenta in noi la capacità di amare Te e gli altri, chi facciamo fatica a comprendere, di amare anche quello che non capiamo,
sbloccaci dal nostro immobilismo per renderci attivi nell’amore fraterno,
Il Mercoledì delle Ceneri segna, nella tradizione cristiana, l'inizio della Quaresima, il tempo di preparazione alla Pasqua. Il carattere penitenziale della Quaresima si rende visibile proprio in questo giorno attraverso l’austero rito dell’imposizione delle ceneri che ha la sua origine nel battesimo poiché la penitenza è nell’insieme fondata sulla stessa realtà battesimale per il perdono dei peccati ed è poi ripresa e resa segno espressivo, per quanti ricadono nel peccato, nel sacramento della Riconciliazione.
L’invito alla riconciliazione è naturalmente il filo conduttore di tutte e tre le letture liturgiche.
Nella prima lettura, tratta dal Libro del profeta Gioele, il Signore ci invita a tornare a Lui con tutto il cuore…. Non basta offrire a Dio le primizie della terra, ma bisogna che l’uomo riconosca i propri limiti e offra a Dio il suo cuore pentito.
Nella seconda lettura, nella seconda lettera di S.Paolo ai Corinzi, l’apostolo si presenta come ambasciatore di Cristo ed esorta i Corinzi a riconciliarsi senza indugio con Dio, ricordando quanto sia stato grande l’amore di Dio per loro.
Nel brano del Vangelo Matteo, Gesù ci rivela il senso profondo delle pratiche religiose e penitenziali che prima erano del giudaismo e quindi cristianesimo: l’elemosina, la preghiera e il digiuno. Gesù ci incoraggia a fare tutto il bene possibile, però nel segreto del proprio cuore, per avere l'approvazione solo dal Padre misericordioso.
Dal libro del profeta Gioele
Così dice il Signore: « ritornate a me con tutto il cuore, con digiuni, con pianti e lamenti.
Laceratevi il cuore e non le vesti,
ritornate al Signore, vostro Dio,
perché egli è misericordioso e pietoso,
lento all’ira, di grande amore, pronto a ravvedersi riguardo al male».
Chi sa che non cambi e si ravveda
e lasci dietro a sé una benedizione?
Offerta e libagione per il Signore, vostro Dio.
Suonate il corno in Sion, proclamate un solenne digiuno, convocate una riunione sacra.
Radunate il popolo, indite un’assemblea solenne,
chiamate i vecchi, riunite i fanciulli, i bambini lattanti; esca lo sposo dalla sua camera
e la sposa dal suo talamo.
Tra il vestibolo e l’altare piangano i sacerdoti, ministri del Signore, e dicano:
«Perdona, Signore, al tuo popolo
e non esporre la tua eredità al ludibrio
e alla derisione delle genti».
Perché si dovrebbe dire fra i popoli:
«Dov’è il loro Dio?».
Il Signore si mostra geloso per la sua terra
e si muove a compassione del suo popolo.
Gl 2,12-18
Il Libro del profeta Gioele è un testo contenuto sia nella Bibbia ebraica (Tanakh) che quella cristiana. E’ stato scritto in ebraico e secondo l'ipotesi maggiormente condivisa dagli studiosi, la redazione del libro è avvenuta nel Regno di Giuda, forse tra la fine VII - inizio VI secolo a.C.. E’ un libro breve, di appena 4 capitoli in cui nella prima parte presenta l'invasione delle cavallette e il ritorno del popolo a Dio che, nel peccato, ha riconosciuto la causa di questa calamità; nella seconda parte predice l'intervento futuro di Dio che, con il perdono, concede il dono dello Spirito santo che fa nuove tutte le cose
Sappiamo molto poco del profeta Gioele, che visse sicuramente a Gerusalemme, il cui nome significa “Yahweh è Dio”, tutto ciò che ci viene detto a suo riguardo si trova in Gioele 1:1: “Parola del Signore, rivolta a Gioele, figlio di Petuel.”.Da alcuni è definito il profeta della Pentecoste per la profezia sull'effusione dello Spirito Santo avveratasi il giorno della Pentecoste (Atti 2). È molto difficile stabilire il periodo in cui Gioele profetizzò; comunque, la maggior parte degli studiosi lo considera il primo dei profeti minori, visse durante il regno di Joas (circa 800 a.C.); si è scelta questa datazione perché si ritiene che Amos (760-747) abbia usato i testi di Gioele (v,Amos 9:13). Il tema centrale del messaggio di Gioele è il “Giorno del Signore”, sia sotto l'aspetto negativo sia sotto quello positivo. Egli ne parla negativamente presentando la collera divina, le tenebre e la vendetta contro i crudeli, citando avvenimenti naturali come siccità e invasione di insetti. Ne parla anche positivamente quando presenta la riabilitazione per i giusti, quando Dio invierà a tutti i membri del suo popolo il dono dello Spirito. In questo contesto Gioele parla della valle di Giosafat (dall'ebraico Jehôshafat, «Jahweh giudica»), parola usata per indicare il luogo ideale dove convergeranno tutte le genti.
Ogni profeta ha un suo punto di vista e vuole raggiungere dei precisi obiettivi, e Gioele, di fronte ad una grande carestia provocata dall'invasione delle cavallette, che ha colpito la terra di Giuda, non si sente di considerarla un fatto naturale, ma un segno del giudizio di Dio e a questo giudizio non basta prepararsi con un semplice rito penitenziale. In questo brano egli esprime con queste parole il messaggio del Signore: “ritornate a me con tutto il cuore, con digiuni, con pianti e lamenti. Laceratevi il cuore e non le vesti,ritornate al Signore, vostro Dio, perché egli è misericordioso e pietoso, lento all’ira, di grande amore, pronto a ravvedersi riguardo al male”.
L'invito a lacerarsi il cuore, è un termine che richiama la sofferenza dello strappo da cui si vorrebbe fuggire, ma a leggerlo in profondità, accostandolo ad altri passi biblici, vi troviamo non un invito alla morte ma alla vita, alla pienezza della vita.
Fidandosi della misericordia di Dio, ogni uomo-peccatore, anche se non può vantare alcun diritto, può essere certo di ottenere il perdono.
Salmo 50- Perdonaci, Signore: abbiamo peccato.
Pietà di me, o Dio, nel tuo amore;
nella tua grande misericordia
cancella la mia iniquità.
Lavami tutto dalla mia colpa,
dal mio peccato rendimi puro.
Sì, le mie iniquità io le riconosco,
il mio peccato mi sta sempre dinanzi.
Contro di te, contro te solo ho peccato,
quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto.
Rendimi la gioia della tua salvezza,
sostienimi con uno spirito generoso.
Signore, apri le mie labbra
e la mia bocca proclami la tua lode.
Questo salmo la tradizione lo dice scritto da Davide dopo il suo peccato, e mi pare di dovere aggiungere durante la congiura del figlio Assalonne, dove Davide vide avverarsi la sventura sulla sua casa annunciatagli dal profeta Natan (2Sam 12,10). Fa un po’ di difficoltà all’attribuzione a Davide del salmo l’ultimo versetto dove l’orante invoca che siano rialzate le mura di Gerusalemme, poiché questo porterebbe al tempo del ritorno dall’esilio. E’ comune, tuttavia, risolvere il caso dicendo che è un’aggiunta messa durante l’esilio per un adattamento del salmo alla situazione di distruzione di Gerusalemme.
Ma considerando che il salmo non poteva essere adatto in tutto alla situazione dell’esilio, poiché sacrifici ed olocausti (“non gradisci il sacrificio; se offro olocausti, non li accetti”) in terra straniera non potevano essere fatti, bisogna pensare che le mura abbattute sono un’immagine drammatica della presa di possesso di Gerusalemme da parte di Assalonne; Gerusalemme era conquistata e come “Città di Davide” veniva a finire.
L’orante si apre a Dio in un invocazione di misericordia. Domanda pietà.
Si sente imbrattato interiormente. Il rimorso lo attanaglia, si sente nella sventura. Non ricorre alla presentazioni di circostanze, di spinte al peccato, lui coscientemente l’ha fatto: “Contro di te, contro te solo ho peccato, quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto”. Tuttavia presenta a Dio la sua debolezza di creatura ferita dall’antica colpa che destò al senso la carne: “Ecco, nella colpa sono io stato nato, nel peccato mi ha concepito mia madre”. Con ciò non intende scusarsi poiché aggiunge che Dio vuole la sincerità nell'intimo, cioè nel cuore, e che anche illumina intimamente il cuore dell’uomo affinché non ceda alle lusinghe del peccato: “Ma tu gradisci la sincerità nel mio intimo, nel segreto del cuore mi insegni la sapienza”.
Ancora l’orante innalza a Dio un grido per essere purificato, per essere liberato dalle sventure che lo colpiscono.
Egli prosegue la sua supplica chiedendo: “Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo”. Il peccato lo ha indebolito, gli sta sempre dinanzi e vorrebbe non averlo commesso.
E’ umile, pienamente umile, e domanda a Dio di non essere respinto dalla sua presenza e privato del dono del suo “santo spirito”; quel “santo spirito” che aveva ricevuto al momento della sua consacrazione a re. Quel “santo spirito” che gli dava forza e sapienza nel governare e nel guidare i sudditi al bene, all’osservanza della legge.
Consapevole della sua debolezza ora domanda umilmente di essere aiutato: “sostieni con me un spirito generoso”.
Ha creato del male ad Israele col suo peccato, ma rimedierà, con l’aiuto di Dio: “Insegnerò ai ribelli le tue vie e i peccatori a te ritorneranno”.
Ma il peccato veramente gli “sta sempre dinanzi”. Egli non solo è stato adultero, ma anche omicida: “Liberami dal sangue, o Dio, Dio mia salvezza”. Salvato dal peccato che l’opprime, egli esalterà la giustizia di Dio, che si attua nella misericordia. Salvato, dal peso del peccato e dalla rottura con Dio egli potrà di nuovo lodare Dio: “La mia bocca proclami la tua lode”.
Ha provato a presentare a Dio sacrifici e olocausti, ma è stato rifiutato. Così ha percependo il rifiuto di Dio è arrivato al massimo del dolore, e questo dolore di contrito lo presenta a Dio: “Uno spirito contrito è sacrificio a Dio”. Egli sa che Dio non disprezza “un cuore contrito e affranto”.
Davide presenta infine Sion, Gerusalemme, che è stata occupata e con ciò è stata messa in difficoltà l’unità di Israele che con tanta fatica aveva saputo costruire.
Riedificate le mura di Gerusalemme, nel senso di ricomposta la forza di Gerusalemme, sede dell’arca e del trono, e attuato un risveglio religioso in Israele, allora i sacrifici e gli olocausti torneranno ad essere graditi a Dio perché fatti nell’osservanza alla legge, nella corrispondenza al dono dell’alleanza.
Commento di P.Paolo Berti
Dalla seconda lettera di S.Paolo Apostolo ai Corinzi
Fratelli, noi, in nome di Cristo, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta.
Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio.
Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio. Poiché siamo suoi collaboratori, vi esortiamo a non accogliere invano la grazia di Dio.
Egli dice infatti: «Al momento favorevole ti ho esaudito e nel giorno della salvezza ti ho soccorso». Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza!
2Cor 5,20-6,2
Paolo scrisse la seconda lettera al Corinzi, spinto dai gravi avvenimenti che avevano scosso la comunità di Corinto. Nell’anno 56 Paolo è a Efeso (At 19) e viene a sapere che alcuni contestatori giudeo-cristiani stanno sollevando la comunità contro di lui. Vi fa una breve visita, ma è ricevuto freddamente, stanco e forse implicato troppo personalmente nel conflitto, non riesce ad aggiustare nulla, anzi la sua visita accresce piuttosto il disordine, si ripromette allora di ritornare in seguito.
Meno ricca della prima in insegnamenti dottrinali, la seconda lettera ai Corinzi ha il grande merito di introdurci nella vita interiore dell’Apostolo, in cui traspare il suo carattere appassionato. E’ una lettera ardente che può essere considerata come il suo diario intimo, le sue “confessioni”.
Nei primi 6 capitoli Paolo ripercorre la sua vocazione di predicatore del Vangelo e della situazione che si era creata con la comunità di Corinto. I contorni veri di questo malinteso non sono chiari , ma questo diventa per Paolo un motivo per ricordare le motivazioni del suo impegno a favore del Vangelo.
Il brano che abbiamo è la parte finale in cui ritroviamo il motivo fondamentale della lettera: la riconciliazione tra Dio e gli uomini.
“…in nome di Cristo, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio”.
Qui Paolo ricorda che la salvezza operata da Cristo, si può considerare come una grande opera di riconciliazione di cui lui, Paolo, ne è ambasciatore. Egli quindi esorta i Corinzi fino a supplicarli a riconciliarsi senza indugio con Dio, ricordando quanto sia stato grande l’amore di Dio per loro. E continua affermando:”Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio”. L'opera della riconciliazione si è potuta realizzare attraverso la morte in croce di Gesù, che pur non avendo peccato è stato trattato da peccato, ha subito la morte del malfattore, perché noi, i veri peccatori, potessimo diventare giusti davanti a Dio.
“Poiché siamo suoi collaboratori, vi esortiamo a non accogliere invano la grazia di Dio”
Di nuovo Paolo ricorda la propria qualità di collaboratore di Dio e in questa veste comunica che questa grazia della riconciliazione richiede una pronta risposta. Non si può rimandare l'adesione a Dio perché si tratta di una realtà davvero importante.
“Egli dice infatti: «Al momento favorevole ti ho esaudito e nel giorno della salvezza ti ho soccorso». Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza!”
Questa citazione è tratta da Is 49,8. Paolo la rilegge come promessa divina che si attua al presente: “ecco ora il il momento favorevole!” Riconciliarsi con Dio e insieme con l'apostolo è esigenza improrogabile, perché per la storia umana è suonata l'ora in cui Dio ha deciso di accogliere come amici coloro che gli erano diventati nemici. E' il giorno della pace con il Padre e tra gli uomini!
Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «State attenti a non praticare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere ammirati da loro, altrimenti non c’è ricompensa per voi presso il Padre vostro che è nei cieli. Dunque, quando fai l’elemosina, non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipòcriti nelle sinagoghe e nelle strade, per essere lodati dalla gente. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Invece, mentre tu fai l’elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra, perché la tua elemosina resti nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.
E quando pregate, non siate simili agli ipòcriti che, nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, amano pregare stando ritti, per essere visti dalla gente. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Invece, quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.
E quando digiunate, non diventate malinconici come gli ipòcriti, che assumono un’aria disfatta per far vedere agli altri che digiunano. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Invece, quando tu digiuni, profùmati la testa e làvati il volto, perché la gente non veda che tu digiuni, ma solo il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà».
Mt 6,1-6,16-18
Questo brano del Vangelo di Matteo fa parte del discorso della montagna, in cui Gesù presenta le nove Beatitudini. Il discorso segue quanto detto prima nel versetto 5,20; “ se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli”, e questo brano inizia con il monito: “State attenti a non praticare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere ammirati da loro, altrimenti non c’è ricompensa per voi presso il Padre vostro che è nei cieli.”
Il termine giustizia è usato nella Bibbia per riassumere i rapporti dell'uomo con Dio, la pietà, la religiosità, la fede e con questo termine Gesù intendeva un comportamento che sia conforme alla volontà divina.
Dunque, quando fai l’elemosina, non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipòcriti nelle sinagoghe e nelle strade, per essere lodati dalla gente. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa.
Gesù non voleva dire che non bisogna mai compiere azioni buone in pubblico, dato che aveva esortato prima i discepoli a far ‘risplendere la loro luce davanti agli uomini’. (Mt. 5:14-16) , ma non avremo nessuna “ricompensa’” dal nostro Padre celeste se facciamo le cose “per essere osservati” e ammirati, come attori che recitano a teatro.
I “doni di misericordia” erano offerte a favore dei bisognosi. (v. Isaia 58:6, 7). Gesù e gli apostoli avevano un fondo comune da usare per aiutare i poveri. (Gv. 12:5-8; 13:29), dato che prima di fare l’elemosina non si suonava letteralmente la tromba, Gesù evidentemente usò un esempio esagerato quando disse che non dobbiamo “suonare la tromba” (*) davanti a noi quando facciamo “l’elemosina” . Non dobbiamo cioè sbandierare la nostra generosità, come facevano i farisei. Gesù li chiama ipocriti perché rendevano note le loro offerte “nelle sinagoghe e nelle strade”. Quegli ipocriti ‘hanno già ricevuto la loro ricompensa”, ossia avrebbero ricevuto soltanto il plauso degli uomini non certo il premio del Signore.
Come dovevano agire invece i discepoli ed anche noi oggi? Gesù dice: “quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà” . Ci ricompensa permettendoci di stringere un’intima relazione con Lui, perdonando i nostri peccati e concedendoci la vita eterna. (Prov. 3:32; Giov. 17:3; Efes. 1:7) Questo è decisamente meglio che ricevere l’approvazione degli uomini
Gesù incoraggia a fare tutto il bene possibile, però nel segreto del proprio cuore, per avere l'approvazione solo dal Padre misericordioso. Com'è facile, invece, tendere all'autocompiacenza o all'avere l’elogio degli altri!
Nel capitolo precedente Gesù ha esortato ad essere perfetti come è perfetto il Padre celeste (5,48), ora Egli spiega ai suoi discepoli che è la relazione con il Padre la sorgente del nostro essere e agire; solo in Lui essi si possono sentire come figli liberi, amati e felici, capaci di portare tanto frutto di bontà verso gli altri.
(* )Nota – Sul termine “suonare la tromba” un esegeta ha dato un’ulteriore spiegazione: il tempio di Gerusalemme aveva fuori le fessure da cui entravano le monete e all’interno del tempio c’era una piccola stanzetta, dove andava chi voleva fare un’offerta senza essere visto. Quando la gente voleva essere notata, l’offerta la faceva fuori, non soltanto perché era visibile, ma perché le monete entrando scivolavano e facevano un rumore come di tromba molto forte, e tutti si giravano per ammirare. Realmente c’era un’acustica ed era stato fatto apposta perché si lodasse e si evidenziasse la persona.
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MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
PER LA QUARESIMA 2018
"Cari fratelli e sorelle, ancora una volta ci viene incontro la Pasqua del Signore! Per prepararci ad essa la Provvidenza di Dio ci offre ogni anno la Quaresima, «segno sacramentale della nostra conversione», che annuncia e realizza la possibilità di tornare al Signore con tutto il cuore e con tutta la vita.
Anche quest’anno, con il presente messaggio, desidero aiutare tutta la Chiesa a vivere con gioia e verità in questo tempo di grazia; e lo faccio lasciandomi ispirare da un’espressione di Gesù nel Vangelo di Matteo: «Per il dilagare dell’iniquità l’amore di molti si raffredderà» (Mt 24,12).
Questa frase si trova nel discorso che riguarda la fine dei tempi e che è ambientato a Gerusalemme, sul Monte degli Ulivi, proprio dove avrà inizio la passione del Signore. Rispondendo a una domanda dei discepoli, Gesù annuncia una grande tribolazione e descrive la situazione in cui potrebbe trovarsi la comunità dei credenti: di fronte ad eventi dolorosi, alcuni falsi profeti inganneranno molti, tanto da minacciare di spegnere nei cuori la carità che è il centro di tutto il Vangelo.
I falsi profeti
Ascoltiamo questo brano e chiediamoci: quali forme assumono i falsi profeti? Essi sono come “incantatori di serpenti”, ossia approfittano delle emozioni umane per rendere schiave le persone e portarle dove vogliono loro. Quanti figli di Dio sono suggestionati dalle lusinghe del piacere di pochi istanti, che viene scambiato per felicità! Quanti uomini e donne vivono come incantati dall’illusione del denaro, che li rende in realtà schiavi del profitto o di interessi meschini! Quanti vivono pensando di bastare a sé stessi e cadono preda della solitudine!
Altri falsi profeti sono quei “ciarlatani” che offrono soluzioni semplici e immediate alle sofferenze, rimedi che si rivelano però completamente inefficaci: a quanti giovani è offerto il falso rimedio della droga, di relazioni “usa e getta”, di guadagni facili ma disonesti! Quanti ancora sono irretiti in una vita completamente virtuale, in cui i rapporti sembrano più semplici e veloci per rivelarsi poi drammaticamente privi di senso! Questi truffatori, che offrono cose senza valore, tolgono invece ciò che è più prezioso come la dignità, la libertà e la capacità di amare. E’ l’inganno della vanità, che ci porta a fare la figura dei pavoni… per cadere poi nel ridicolo; e dal ridicolo non si torna indietro. Non fa meraviglia: da sempre il demonio, che è «menzognero e padre della menzogna» (Gv 8,44), presenta il male come bene e il falso come vero, per confondere il cuore dell’uomo. Ognuno di noi, perciò, è chiamato a discernere nel suo cuore ed esaminare se è minacciato dalle menzogne di questi falsi profeti. Occorre imparare a non fermarsi a livello immediato, superficiale, ma riconoscere ciò che lascia dentro di noi un’impronta buona e più duratura, perché viene da Dio e vale veramente per il nostro bene.
Un cuore freddo
Dante Alighieri, nella sua descrizione dell’inferno, immagina il diavolo seduto su un trono di ghiaccio; egli abita nel gelo dell’amore soffocato. Chiediamoci allora: come si raffredda in noi la carità? Quali sono i segnali che ci indicano che in noi l’amore rischia di spegnersi?
Ciò che spegne la carità è anzitutto l’avidità per il denaro, «radice di tutti i mali» (1 Tm 6,10); ad essa segue il rifiuto di Dio e dunque di trovare consolazione in Lui, preferendo la nostra desolazione al conforto della sua Parola e dei Sacramenti. Tutto ciò si tramuta in violenza che si volge contro coloro che sono ritenuti una minaccia alle nostre “certezze”: il bambino non ancora nato, l’anziano malato, l’ospite di passaggio, lo straniero, ma anche il prossimo che non corrisponde alle nostre attese.
Anche il creato è testimone silenzioso di questo raffreddamento della carità: la terra è avvelenata da rifiuti gettati per incuria e interesse; i mari, anch’essi inquinati, devono purtroppo ricoprire i resti di tanti naufraghi delle migrazioni forzate; i cieli – che nel disegno di Dio cantano la sua gloria – sono solcati da macchine che fanno piovere strumenti di morte.
L’amore si raffredda anche nelle nostre comunità: nell’Esortazione apostolica Evangelii Gaudium ho cercato di descrivere i segni più evidenti di questa mancanza di amore. Essi sono: l’accidia egoista, il pessimismo sterile, la tentazione di isolarsi e di impegnarsi in continue guerre fratricide, la mentalità mondana che induce ad occuparsi solo di ciò che è apparente, riducendo in tal modo l’ardore missionario.
Cosa fare?
Se vediamo nel nostro intimo e attorno a noi i segnali appena descritti, ecco che la Chiesa, nostra madre e maestra, assieme alla medicina, a volte amara, della verità, ci offre in questo tempo di Quaresima il dolce rimedio della preghiera, dell’elemosina e del digiuno.
Dedicando più tempo alla preghiera, permettiamo al nostro cuore di scoprire le menzogne segrete con le quali inganniamo noi stessi, per cercare finalmente la consolazione in Dio. Egli è nostro Padre e vuole per noi la vita.
L’esercizio dell’elemosina ci libera dall’avidità e ci aiuta a scoprire che l’altro è mio fratello: ciò che ho non è mai solo mio. Come vorrei che l’elemosina si tramutasse per tutti in un vero e proprio stile di vita! Come vorrei che, in quanto cristiani, seguissimo l’esempio degli Apostoli e vedessimo nella possibilità di condividere con gli altri i nostri beni una testimonianza concreta della comunione che viviamo nella Chiesa. A questo proposito faccio mia l’esortazione di san Paolo, quando invitava i Corinti alla colletta per la comunità di Gerusalemme: «Si tratta di cosa vantaggiosa per voi» (2 Cor 8,10). Questo vale in modo speciale nella Quaresima, durante la quale molti organismi raccolgono collette a favore di Chiese e popolazioni in difficoltà. Ma come vorrei che anche nei nostri rapporti quotidiani, davanti a ogni fratello che ci chiede un aiuto, noi pensassimo che lì c’è un appello della divina Provvidenza: ogni elemosina è un’occasione per prendere parte alla Provvidenza di Dio verso i suoi figli; e se Egli oggi si serve di me per aiutare un fratello, come domani non provvederà anche alle mie necessità, Lui che non si lascia vincere in generosità?
Il digiuno, infine, toglie forza alla nostra violenza, ci disarma, e costituisce un’importante occasione di crescita. Da una parte, ci permette di sperimentare ciò che provano quanti mancano anche dello stretto necessario e conoscono i morsi quotidiani dalla fame; dall’altra, esprime la condizione del nostro spirito, affamato di bontà e assetato della vita di Dio. Il digiuno ci sveglia, ci fa più attenti a Dio e al prossimo, ridesta la volontà di obbedire a Dio che, solo, sazia la nostra fame. Vorrei che la mia voce giungesse al di là dei confini della Chiesa Cattolica, per raggiungere tutti voi, uomini e donne di buona volontà, aperti all’ascolto di Dio. Se come noi siete afflitti dal dilagare dell’iniquità nel mondo, se vi preoccupa il gelo che paralizza i cuori e le azioni, se vedete venire meno il senso di comune umanità, unitevi a noi per invocare insieme Dio, per digiunare insieme e insieme a noi donare quanto potete per aiutare i fratelli!
Il fuoco della Pasqua
Invito soprattutto i membri della Chiesa a intraprendere con zelo il cammino della Quaresima, sorretti dall’elemosina, dal digiuno e dalla preghiera. Se a volte la carità sembra spegnersi in tanti cuori, essa non lo è nel cuore di Dio! Egli ci dona sempre nuove occasioni affinché possiamo ricominciare ad amare.
Una occasione propizia sarà anche quest’anno l’iniziativa “24 ore per il Signore”, che invita a celebrare il Sacramento della Riconciliazione in un contesto di adorazione eucaristica. Nel 2018 essa si svolgerà venerdì 9 e sabato 10 marzo, ispirandosi alle parole del Salmo 130,4: «Presso di te è il perdono». In ogni diocesi, almeno una chiesa rimarrà aperta per 24 ore consecutive, offrendo la possibilità della preghiera di adorazione e della Confessione sacramentale.
Nella notte di Pasqua rivivremo il suggestivo rito dell’accensione del cero pasquale: attinta dal “fuoco nuovo”, la luce a poco a poco scaccerà il buio e rischiarerà l’assemblea liturgica. «La luce del Cristo che risorge glorioso disperda le tenebre del cuore e dello spirito», affinché tutti possiamo rivivere l’esperienza dei discepoli di Emmaus: ascoltare la parola del Signore e nutrirci del Pane eucaristico consentirà al nostro cuore di tornare ad ardere di fede, speranza e carità. Vi benedico di cuore e prego per voi. Non dimenticatevi di pregare per me."
Le letture che la liturgia di questa domenica ci presenta, hanno ancora come filo conduttore la sofferenza, la malattia, l’emarginazione e la guarigione
Nella prima lettura, tratta dal libro del Levitico, troviamo elencate alcune prescrizioni della legislazione mosaica riguardanti i colpiti di lebbra. Questa malattia non era solo sofferenza di tipo fisico, ma aveva una forte ripercussione morale, perché il malato andava incontro all’emarginazione più assoluta. Certi tipi di malattia a volte contagiose, venivano considerate conseguenza di gravi peccati e, quindi, la persona che ne era affetta, doveva essere esclusa da qualsiasi tipo di relazione umana.
Nella seconda lettura, nella sua lettera ai Corinzi, l’apostolo ci offre un’esemplare stile di vita cristiana invitandoci a fare tutto per la gloria di Dio, divenendo suoi imitatori, come lui lo è di Cristo.
L’evangelista Marco, nel brano del suo Vangelo, ci racconta di come Gesù nei confronti di un lebbroso non si limita alla sola guarigione, ma lo tocca, pur sapendo di andare contro le severe leggi del suo ambiente. È significativo che la guarigione avvenga proprio in forza di questa trasgressione. Gesù porta la purezza proprio là dove le leggi umane, in nome di Dio, proclamavano l’impurità e imponevano una separazione che nulla aveva a che vedere con la dignità della persona umana creata da Dio.
Dal Libro del Levitico
Il Signore parlò a Mosè e ad Aronne e disse: «Se qualcuno ha sulla pelle del corpo un tumore o una pustola o macchia bianca che faccia sospettare una piaga di lebbra, quel tale sarà condotto dal sacerdote Aronne o da qualcuno dei sacerdoti, suoi figli.
Il lebbroso colpito da piaghe porterà vesti strappate e il capo scoperto; velato fino al labbro superiore, andrà gridando: “Impuro! Impuro!”. Sarà impuro finché durerà in lui il male; è impuro, se ne starà solo, abiterà fuori dell’accampamento».
Lv 13,1-2, 45-46
Il libro del Levitico è stato scritto in Giudea da autori ignoti intorno al VI-V secolo a.C. È composto da 27 capitoli e si presenta come la continuazione dell’Esodo, in quanto riporta una grande quantità di materiale legislativo che Dio avrebbe rivelato a Mosè mentre si trovava sul Sinai. Si tratta in sostanza di norme e prescrizioni che riguardano il servizio del tempio, il sacerdozio e la tutela della purezza rituale nei settori più disparati della vita individuale e sociale. I riti e le osservanze prescritte sono spiegati con cura, ma si dice ben poco riguardo al loro significato.
Il libro presenta due grandi sezioni contenenti molte delle formule tipiche delle “mitzvot” ebraiche che sono 613 precetti, che l'ebreo ortodosso deve seguire per adempiere al suo ruolo sacerdotale nel mondo. Nella prima sezione (cc. 1-16) si regolano ambiti cultuali, gestiti direttamente dai sacerdoti: sacrifici, il ruolo sacerdotale e la purezza; nella seconda invece (cc. 17-26) vengono trattate questioni legali riguardanti il comportamento della comunità e dei singoli sia in pubblico sia nella vita privata. Il libro termina con un’appendice relativa ai voti (c. 27).
Nella prima parte del libro uno spazio notevole è assegnato alla lebbra (cc. 13-14), che viene esaminata non dal punto di vista sanitario, ma da quello dell’impurità che essa provoca. Perciò vengono elencati i diversi tipi di lebbra, sia degli uomini, dei vestiti e delle case, le loro manifestazioni, nonché le procedure richieste per la purificazione da parte dei sacerdoti.
Il brano liturgico riprende i versetti iniziali del c. 13 (vv. 1-2) e quelli in cui viene descritto lo statuto del lebbroso (vv. 45-46).
La diagnosi dei casi di lebbra viene assegnata da DIO a Mosè e ad Aronne e quindi ai loro successori, i sacerdoti. “Se qualcuno ha sulla pelle del corpo un tumore o una pustola o macchia bianca che faccia sospettare una piaga di lebbra, quel tale sarà condotto dal sacerdote Aronne o da qualcuno dei sacerdoti, suoi figli.”
Ai sacerdoti non si richiedono particolari competenze mediche, perché qui il problema non è di carattere sanitario, ma rituale. Le forme di lebbra, cioè di malattie della pelle che possono andare sotto questo nome, non sono tutte uguali e non tutte hanno le stesse conseguenze perché alcune sono anche guaribili. I sacerdoti devono limitarsi a scoprire, in base a criteri tradizionali accuratamente catalogati, quali malattie della pelle siano veramente lebbra, e quindi portatrici di impurità.
Il brano prosegue riportando come deve comportarsi il lebbroso:
“Il lebbroso colpito da piaghe porterà vesti strappate e il capo scoperto; velato fino al labbro superiore, andrà gridando: “Impuro! Impuro!”. Sarà impuro finché durerà in lui il male; è impuro, se ne starà solo, abiterà fuori dell’accampamento”.
L’impurità qui descritta non ha nulla a che vedere con la sporcizia fisica o con il peccato: si tratta semplicemente di un modo di essere che non si addice al rapporto con la divinità e neppure con gli altri membri del popolo eletto. Nelle varie forme di impurità e nei riti di purificazione, la religione israelitica si può dire che abbia conservato costumi sorpassati, che a volte sembra sconfinino persino nella superstizione.
La troppa meticolosità data per la distinzione tra puro e impuro ha avuto l’effetto di far dimenticare, almeno nella vita pratica della gente, l’importanza dell’amore, che è la massima espressione della legge conferita da Dio al Suo popolo. La necessità di stabilire confini netti tra puro e impuro ha portato a emarginare dalla vita religiosa intere categorie di persone, creando diffidenza e disprezzo nei loro riguardi. Di riflesso le leggi di purità hanno dato origine a gruppi di persone che facevano della loro osservanza lo scopo principale della loro vita, facendoli sentire come i veri e unici rappresentanti del popolo di Dio. Le norme sulla “Purità e Impurità” sono state per questo difficilmente comprese nel mondo greco-romano, e ciò ha fatto sì che i giudei della diaspora le interpretassero in modo allegorico.
Dobbiamo ricordare che Gesù le ha dichiarate decadute e questo lo troviamo nel Vangelo di Marco quando dice: Ascoltatemi tutti e intendete bene: non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa contaminarlo; sono invece le cose che escono dall’uomo a contaminarlo”…. (Mc 7,15). Gesù ha fatto persino gesti che, come quello di toccare un lebbroso, rappresentavano delle vere e proprie provocazioni.
Il credente che avrà la costanza di leggere questo libro, (alcune pagine sono ripetitive ed anche noiose, ma fanno anche comprendere ed arrivare fino al cuore della coscienza religiosa di Israele) avrà alla fine il vantaggio di capire meglio il valore del sacrificio mediante il quale Gesù ha salvato l’umanità con il dono della Sua vita.
Salmo 31 - Tu sei il mio rifugio, mi liberi dall’angoscia.
Beato l’uomo a cui è tolta la colpa
e coperto il peccato.
Beato l’uomo a cui Dio non imputa il delitto
e nel cui spirito non è inganno.
Ti ho fatto conoscere il mio peccato,
non ho coperto la mia colpa.
Ho detto: «Confesserò al Signore le mie iniquità»
e tu hai tolto la mia colpa e il mio peccato.
Rallegratevi nel Signore ed esultate, o giusti!
Voi tutti, retti di cuore, gridate di gioia!
L’autore del salmo ha fatto la gioiosa esperienza del perdono di Dio: "Beato l'uomo a cui è tolta la colpa e coperto il peccato". L'umiltà di ammettere il proprio peccato e chiederne perdono a Dio ottiene che la colpa venga tolta, ma anche "coperta", poiché l'umile con l'aiuto di Dio fa dimenticare agli uomini il proprio passato di peccato mediante la carità. Perciò è beato chi si è riconciliato con Dio e "nel cui spirito non c'è inganno". La conseguenza è che Dio nel giudizio “non (gli) imputa il delitto”. L’autore presenta poi la sua situazione di dolore, di agitazione, quando era nel peccato e Dio lo colpiva col suo salutare castigo: “Giorno e notte pesava su di me la tua mano, come nell'arsura estiva si inaridiva il mio vigore”; ma poi, umile, ha manifestato a Dio il proprio peccato. L’ha manifestato, confessato, ammesso. Prima non lo voleva ammettere e si poneva davanti a Dio giustificando il suo errore, ma Dio glielo imputava incessantemente gravando su di lui la mano.
A motivo della misericordia di Dio, dice il salmista, “ti prega ogni fedele nel tempo dell’angoscia”, sicuro di avere aiuto. Il “tempo dell’angoscia” è qui distinto dal tempo del castigo: è il tempo delle sventure del giusto. Ma il giusto sa che Dio è bontà infinita, proprio perché è sempre pronto al perdono. Quando si scateneranno le catastrofi sociali, “quando irromperanno grandi acque”, il giusto non sarà inghiottito dall’odio, perché Dio è il suo rifugio.
Il salmista poi fa parlare Dio. Dio promette, con promessa immutabile, che chi rimarrà con lui diventerà saggio, conoscerà la via da seguire in mezzo ai percorsi di labirinto degli uomini. Dio dice che volendo accanto a sé l’uomo è pronto ad usare le maniere forti: “il morso e le briglie”. L’autore ha sperimentato “il morso e le briglie”, cioè tutti gli impedimenti che Dio nel suo amore gli ha messo dinanzi, perché non andasse lontano da lui. L’empio, invece, che rompe “il morso e le briglie”, corre verso la rovina e i dolori. Al contrario il giusto è circondato dalle premure del Signore.
L’autore ispirato termina il salmo con un invito a prendere coscienza del grande dono dell’unione con Dio: “Rallegratevi nel Signore ed esultate, o giusti!”.
Commento di P.Paolo Berti
Dalla prima lettera di S.Paolo apostolo ai Corinzi
Fratelli, sia che mangiate sia che beviate sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio. Non siate motivo di scandalo né ai Giudei, né ai Greci, né alla Chiesa di Dio; così come io mi sforzo di piacere a tutti in tutto, senza cercare il mio interesse ma quello di molti, perché giungano alla salvezza.
Diventate miei imitatori, come io lo sono di Cristo.
1Cor 10,31-11,1
Paolo continuando la sua prima lettera ai Corinzi, dopo aver posto all’inizio l’accento sul rispetto della coscienza altrui, dopo aver portato il suo esempio di disponibilità verso tutti, e sottolineato il rischio dell’idolatria, nel capitolo 10 chiude la lunga sezione dedicata alle carni sacrificate agli idoli con un’esortazione in cui propone un orientamento generale valido in tutti i campi in cui il credente si trova ad operare ed afferma: “sia che mangiate sia che beviate sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio”. Ciascuno deve porsi come meta non l’affermazione delle proprie idee e l’azione che ne deriva, ma la gloria di Dio, cioè l’attuazione della Sua volontà che consiste nella ricerca del bene comune. Ciò deve avvenire anche nel campo alimentare (mangiare e bere) che nella cultura dell’epoca condizionava in modo determinante i rapporti tra le persone. Ma in realtà questo principio si applica in tutti i settori in cui le persone interagiscono. L’ambito in cui i corinzi devono cercare la gloria di Dio non è dunque principalmente quello della preghiera, ma quello ben più impegnativo dei rapporti con la comunità. Poi l’Apostolo continua con la sua esortazione: Non siate motivo di scandalo né ai Giudei, né ai Greci, né alla Chiesa di Dio; così come io mi sforzo di piacere a tutti in tutto, senza cercare il mio interesse ma quello di molti, perché giungano alla salvezza.
Il credente deve evitare di dare scandalo, cioè non deve adottare un comportamento contrario alla fede che pratica, per non dare occasione agli altri di criticare e di essere anche ostacolo nel loro cammino verso Dio.
È importante che ciò deve avvenire non solo nei confronti della comunità che già appartiene a Dio, ma anche con i giudei e con i greci.. Questa regola viene da Paolo spiegata sulla propria disponibilità verso tutti, da lui espressa precedentemente (9,19-23): egli per primo si sforza di piacere a tutti in tutto, senza cercare il proprio interesse ma quello di “molti”, cioè di un numero sempre maggiore di persone, perché giungano alla salvezza.
Su questo sfondo di impegno per gli altri Paolo conclude con l’invito: “Diventate miei imitatori, come io lo sono di Cristo”.. Attraverso il suo comportamento i corinzi devono dunque imparare a cogliere nelle loro situazioni di vita tutte le conseguenze della predicazione e dell’esempio di Cristo. Solo così anche loro possono diventare suoi discepoli.
È importante il fatto che Paolo esorti i corinzi a non provocare il biasimo non solo della Chiesa di Dio, cioè dei loro fratelli nella fede, ma anche dei giudei e dei greci. In questa frase emerge la convinzione secondo cui anche i non cristiani sono in grado di dare corretti giudizi morali, e quindi di valutare la coerenza dei cristiani con il credo che professano. Il cristiano deve dunque comportarsi in modo tale da indicare a tutti strade e percorsi per giungere a un corretto rapporto con Dio. Paolo lo sottolinea in particolare rifacendosi al proprio atteggiamento di condivisione con tutti, finalizzato esclusivamente alla loro salvezza.. Egli invita dunque tutti i credenti ad essere missionari come lui, intendendo per missione la lotta quotidiana per un mondo migliore.
Dal vangelo secondo Marco
In quel tempo, venne da Gesù un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: «Se vuoi, puoi purificarmi!». Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: «Lo voglio, sii purificato!». E subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato.
E, ammonendolo severamente, lo cacciò via subito e gli disse: «Guarda di non dire niente a nessuno; va’, invece, a mostrarti al sacerdote e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha prescritto, come testimonianza per loro».
Ma quello si allontanò e si mise a proclamare e a divulgare il fatto, tanto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma rimaneva fuori, in luoghi deserti; e venivano a lui da ogni parte.
Mc 1,40-45
L’evangelista Marco, dopo aver narrato la chiamata dei primi quattro discepoli e una “giornata-tipo”, svoltasi a Cafarnao, racconta la guarigione da parte di Gesù di un lebbroso.
Il malato si accosta a Gesù e lo supplica in ginocchio, dicendo: ”Se vuoi, puoi purificarmi”. Al tempo di Gesù la lebbra comprendeva diverse malattie della pelle, di cui alcune erano guaribili. L’atteggiamento umile del malato dipende dal fatto che, secondo la legge mosaica, il lebbroso era considerato impuro e non poteva avere contatti con il resto della popolazione (Lv 13,45-46). Sullo sfondo vi è dunque il tema della “impurità”, che separa gli esseri umani tra loro e da Dio, addirittura in forza di una disposizione attribuita a Dio stesso. Il lebbroso dimostra una grande fede nei poteri straordinari di Gesù, ma al tempo stesso si rimette pienamente alla Sua volontà
Marco osserva che, di fronte alla richiesta del malato, Gesù “ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: «Lo voglio, sii purificato!»”. Nel linguaggio biblico la compassione di Gesù, espressa con un verbo (splanchnizô), che richiama il movimento delle viscere, non è tanto un sentimento umanitario, quanto piuttosto una manifestazione di quella misericordia che spinge DIO a radunare il suo popolo e unirlo a sé (Es 34,6): si tratta dello stesso impulso che Gesù sentirà di fronte a una folla disorientata e divisa come pecore senza pastore (Mc 6,34). Il gesto poi di toccare il lebbroso è un segno di solidarietà con l’umanità sofferente, ma al tempo stesso rappresenta una dura contestazione delle leggi di “purità e impurità”, che impedivano a chiunque di venire a contatto con questi malati.
Subito dopo averlo guarito, Gesù ammonisce severamente il miracolato dicendogli “Guarda di non dire niente a nessuno; va’, invece, a mostrarti al sacerdote e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha prescritto, come testimonianza per loro”. Solo il riconoscimento da parte dei sacerdoti poteva infatti eliminare l’emarginazione sociale e religiosa provocata dalla lebbra (Lv 14,1-32).
Ma il lebbroso sanato, pur credendo e amando Gesù, non ascolta la Sua richiesta di silenzio, e pensando persino di fare del bene, vinto anche dal bisogno di parlare, lui che era stato condannato a rimanere isolato e non parlare con nessuno, diviene ora annunciatore, araldo, mettendosi a proclamare e a divulgare il fatto: la Buona Notizia lui la portava nella carne, era luce, sale e lievito perché recava in sé l'opera di Dio compiuta in lui.
Con la guarigione del lebbroso Gesù manifesta il Suo rifiuto nei confronti di una norma che, interpretata rigidamente, separa l’uomo dal suo prossimo e da Dio. È significativo che la guarigione avvenga proprio in forza di questa trasgressione. Gesù porta la purezza proprio là dove le leggi umane, in nome di Dio, proclamavano l’impurità e imponevano una separazione che nulla aveva a che vedere con la dignità della persona umana creata da Dio.
E’ la compassione che spinge Gesù su questo cammino: la natura divina muove la Sua natura umana. Gesù è come il vento, si lascia portare e non si oppone alla sconfinata misericordia del Padre che muove le trame della Sua stessa volontà per aprirle all'infinito bisogno di amore.
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"In queste domeniche l’evangelista Marco ci sta raccontando l’azione di Gesù contro ogni specie di male, a beneficio dei sofferenti nel corpo e nello spirito: indemoniati, ammalati, peccatori … Egli si presenta come colui che combatte e vince il male ovunque lo incontri. Nel Vangelo di oggi questa sua lotta affronta un caso emblematico, perché il malato è un lebbroso. La lebbra è una malattia contagiosa e impietosa, che sfigura la persona, e che era simbolo di impurità: il lebbroso doveva stare fuori dai centri abitati e segnalare la sua presenza ai passanti. Era emarginato dalla comunità civile e religiosa. Era come un morto ambulante.
L’episodio della guarigione del lebbroso si svolge in tre brevi passaggi: l’invocazione del malato, la risposta di Gesù, le conseguenze della guarigione prodigiosa. Il lebbroso supplica Gesù «in ginocchio» e gli dice: «Se vuoi, puoi purificarmi» A questa preghiera umile e fiduciosa, Gesù reagisce con un atteggiamento profondo del suo animo: la compassione. E “compassione” è una parola molto profonda: compassione che significa “patire-con-l’altro”. Il cuore di Cristo manifesta la compassione paterna di Dio per quell’uomo, avvicinandosi a lui e toccandolo. E questo particolare è molto importante. Gesù «tese la mano, lo toccò … e subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato».
La misericordia di Dio supera ogni barriera e la mano di Gesù tocca il lebbroso. Egli non si pone a distanza di sicurezza e non agisce per delega, ma si espone direttamente al contagio del nostro male; e così proprio il nostro male diventa il luogo del contatto: Lui, Gesù, prende da noi la nostra umanità malata e noi prendiamo da Lui la sua umanità sana e risanante. Questo avviene ogni volta che riceviamo con fede un Sacramento: il Signore Gesù ci “tocca” e ci dona la sua grazia. In questo caso pensiamo specialmente al Sacramento della Riconciliazione, che ci guarisce dalla lebbra del peccato.
Ancora una volta il Vangelo ci mostra che cosa fa Dio di fronte al nostro male: Dio non viene a “tenere una lezione” sul dolore; non viene neanche ad eliminare dal mondo la sofferenza e la morte; viene piuttosto a prendere su di sé il peso della nostra condizione umana, a portarla fino in fondo, per liberarci in modo radicale e definitivo. Così Cristo combatte i mali e le sofferenze del mondo: facendosene carico e vincendoli con la forza della misericordia di Dio.
A noi, oggi, il Vangelo della guarigione del lebbroso dice che, se vogliamo essere veri discepoli di Gesù, siamo chiamati a diventare, uniti a Lui, strumenti del suo amore misericordioso, superando ogni tipo di emarginazione.
Per essere “imitatori di Cristo” di fronte a un povero o a un malato, non dobbiamo avere paura di guardarlo negli occhi e di avvicinarci con tenerezza e compassione, e di toccarlo e di abbracciarlo.
Ho chiesto spesso, alle persone che aiutano gli altri, di farlo guardandoli negli occhi, di non avere paura di toccarli; che il gesto di aiuto sia anche un gesto di comunicazione: anche noi abbiamo bisogno di essere da loro accolti. Un gesto di tenerezza, un gesto di compassione …
Ma io vi domando: voi, quando aiutate gli altri, li guardate negli occhi? Li accogliete senza paura di toccarli? Li accogliete con tenerezza? Pensate a questo: come aiutate? A distanza o con tenerezza, con vicinanza? Se il male è contagioso, lo è anche il bene. Pertanto, bisogna che abbondi in noi, sempre più, il bene.
Lasciamoci contagiare dal bene e contagiamo il bene!"
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 15 febbraio 2015
L'umanità è una grande e immensa famiglia ... Troviamo la dimostrazione di ciò da quello che ci sentiamo nei nostri cuori a Natale.
(Papa Giovanni XXIII)