Le letture che la liturgia di questa domenica ci presenta hanno come filo conduttore la sofferenza, la malattia e la guarigione
Nella prima lettura, tratta dal libro di Giobbe, vediamo il protagonista, Giobbe, un fedele di Dio, prima ricco e felice, e poi improvvisamente colpito dalla sventura, perde i figli, i beni, la salute. Egli vorrebbe che Dio intervenisse in suo favore, non tanto perché ciò metterebbe fine alle sue sofferenze, ma perché così egli saprebbe che gli è vicino e lo ama. La sua tentazione è quella di imporre a Dio un comportamento conforme alle sue aspettative, giudicando il suo silenzio come un’ingiustizia insopportabile.
Nella seconda lettura, nella sua lettera ai Corinzi, l’apostolo nel suo desiderio di portare a tutti la salvezza egli non ha avuto paura di rinunziare a qualsiasi privilegio personale. In altre parole egli ritiene di poter acquistare per se stesso la salvezza contenuta nel vangelo, non semplicemente perché lo annunzia agli altri, ma perché adotta nei loro confronti quegli atteggiamenti di amore e di dedizione che il vangelo gli ispira.
L’evangelista Marco, nel brano del suo Vangelo, ci racconta una giornata tipica di Gesù: guarisce i malati che incontra, annuncia nelle sinagoghe della Galilea la venuta del Regno, ma sa anche riservare un tempo per la preghiera dove incontra il Padre. Questo deve insegnare anche a noi che l'unica vera ricarica, dopo un'intensa giornata di lavoro, è proprio la preghiera che ci aiuta a prendere contatto con il Padre, tutto il resto anche le cose più importanti non ci ricaricano, non ci danno la forza necessaria per proseguire giorno per giorno il nostro cammino.
Dal libro di Giobbe
Giobbe parlò e disse:
«L’uomo non compie forse un duro servizio sulla terra
e i suoi giorni non sono come quelli
d’un mercenario?
Come lo schiavo sospira l’ombra e come il mercenario aspetta il suo salario,
così a me sono toccati mesi d’illusione
e notti di affanno mi sono state assegnate.
Se mi corico dico: “Quando mi alzerò?”.
La notte si fa lunga e sono stanco di rigirarmi fino all’alba.
I miei giorni scorrono più veloci d’una spola,
svaniscono senza un filo di speranza.
Ricordati che un soffio è la mia vita:i
il mio occhio non rivedrà più il bene».
Gb 7,1-4, 6-7
Il Libro di Giobbe, composto da 42 capitoli, è stato scritto in ebraico e secondo l'ipotesi di molti studiosi, la prima redazione risale all'XI-X secolo a.C., mentre la redazione definitiva, con le aggiunte in prosa, è stata composta in Giudea verso il 575 a.C.. La storia di Giobbe nasce dagli infiniti interrogativi che il problema del male porta all'umanità. Ci troviamo di fronte ad una ricerca drammatica sul senso dell'esistenza, sull'amore di Dio, e sulla fedeltà verso di Lui.
Ambientata in un paese favoloso, anche per quel tempo, dell'Antico Medio Oriente, il protagonista, Giobbe, un fedele di Dio, prima ricco e felice, e poi improvvisamente colpito dalla sventura, perde i figli, i beni, la salute. Sarà poi afflitto da una piaga maligna, sarà cacciato anche di casa dalla moglie che stanca di quest'uomo per la sua fedeltà incrollabile, urlerà, alla fine: Rimani ancor fermo nella tua integrità? Benedici Dio e muori!”. Ma egli le rispose: “Come parlerebbe una stolta tu hai parlato! Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremo accettare il male?”.“Gb 2,9-10
Non sono pochi coloro che hanno commentato che per rendere peggiore la situazione di Giobbe, Dio gli ha lasciato quel tipo di moglie.
Il brano che la liturgia ci propone fa parte del ciclo dei dibattiti di Giobbe con i suoi amici e più specificamente dalla risposta che Giobbe dà all’intervento di Elifaz, che in base alla teoria della retribuzione, che riteneva che le sofferenze che colpiscono l’uomo non possono che essere la conseguenza dei suoi peccati, aveva sottolineato che nessun mortale può essere giusto davanti a Dio e di conseguenza aveva invitato Giobbe, torturato dalla sofferenza, a pentirsi dei suoi peccati.
Giobbe risponde riaffermando la sua innocenza e descrive la sua situazione come parte del destino che colpisce tutta l’umanità: non solo la sua sofferenza, ma anche quella dei suoi simili, rappresenta una sfida alla giustizia di Dio.
Giobbe si lamenta degli amici e di Dio, ma soprattutto di sé, e descrive la sofferenza dell’uomo sulla terra con tre immagini, quella del militare, del mercenario e dello schiavo.
Nell’antichità il servizio militare era paragonabile al lavoro forzato a causa delle dure punizioni a cui il soldato veniva facilmente sottoposto e dello spietato dispotismo dei comandanti. Il mercenario era l’operaio pagato a giornata, che faticava tutto il giorno per una misera paga, che gli serviva unicamente per sopravvivere, e non diversa, se non peggiore, era la situazione dello schiavo, che non aveva diritto ad alcun compenso per il suo lavoro. La condizione del soldato, del mercenario e dello schiavo erano evidentemente le situazioni più basse della scala sociale. Ma se ognuno di loro aspettava con impazienza la sera, quando la fatica quotidiana terminava e durante il giorno era una consolazione pensare a questa sosta alla loro sofferenza, anche se breve., Giobbe invece non ha neppure questa soddisfazione: gli sono toccati mesi di illusione e notti di dolore. Come chi soffre d’insonnia e si rigira nel letto, aspettando l’alba che non sembra arrivare mai, così anche lui passa il suo tempo nell’attesa di qualcosa di impossibile.
Poiché il dolore, pur non essendo produttivo, lo affatica più del lavoro, egli passa anche le sue notti nell’angoscia. La sua è una sofferenza senza senso, che gli è ormai diventata insopportabile e i suoi giorni scorrono più veloci d’una spola, svaniscono senza un filo di speranza.
E Giobbe conclude con una preghiera, che sembra un lungo lamento:
Ricordati che un soffio è la mia vita:il mio occhio non rivedrà più il bene».
La sensazione della brevità della vita colpisce tutti gli esseri umani, ma diventa più forte per coloro che non trovano in essa un senso, che non sperano di poter vedere a un certo punto un bene veramente sicuro e duraturo.
La sofferenza di Giobbe però è causata non tanto dal dolore fisico e dall’incomprensione dei suoi cari e amici, ma piuttosto dalla sensazione di essere abbandonato da Dio, nonostante che egli gli sia sempre stato fedele. In questa prospettiva egli vede l’esistenza umana come un seguito di avvenimenti senza senso, che gli procurano angoscia, mentre il tempo passa troppo in fretta o troppo lentamente a seconda delle situazioni. Egli vorrebbe che Dio intervenisse in suo favore, non tanto perché ciò metterebbe fine alle sue sofferenze, ma perché così egli saprebbe che Dio gli è vicino e lo ama ancora.
La sua tentazione è quella di imporre a Dio un comportamento conforme alle sue aspettative, giudicando il suo silenzio come un’ingiustizia sempre più insopportabile.
Alla fine Dio si manifesterà a Giobbe, non per giustificare la propria condotta o per rivelargli qualche verità nascosta, ma semplicemente per renderlo consapevole del mistero che lo circonda, davanti al quale Giobbe non può far altro che abbassare la testa e credere che Dio è buono, anche se le Sue scelte restano misteriose. Nel capitolo prima dell’epilogo Giobbe dice: Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono. Perciò mi ricredo e ne provo pentimento sopra polvere e cenere. Gb 42,5-6
Per giungere a questa consapevolezza Giobbe deve abbandonare tante false sicurezze, prima di tutte quella di un Dio che interviene a sistemare le cose secondo un’idea di giustizia retributiva simile a quella su cui si basano i rapporti umani.
La storia di Giobbe comunque ha un lieto fine che l’epilogo del libro riporta: “Dio ristabilì Giobbe nello stato di prima, avendo egli pregato per i suoi amici; accrebbe anzi del doppio quanto Giobbe aveva posseduto…. Dopo tutto questo, Giobbe visse ancora centoquarant’anni e vide figli e nipoti di quattro generazioni.. Poi Giobbe morì, vecchio e sazio di giorni.”
Salmo 146-147 Risanaci, Signore, Dio della vita.
È bello cantare inni al nostro Dio,
è dolce innalzare la lode.
Il Signore ricostruisce Gerusalemme,
raduna i dispersi d’Israele.
Risana i cuori affranti
e fascia le loro ferite.
Egli conta il numero delle stelle
e chiama ciascuna per nome.
Risana i cuori affranti
e fascia le loro ferite.
Egli conta il numero delle stelle
e chiama ciascuna per nome.
Il salmo è stato composto nel postesilio durante la ricostruzione morale ed economica di Gerusalemme, che era di invito ad altri esuli di intraprendere il viaggio di rientro in patria.
Il salmista invita alla lode dicendo che “È bello cantare inni al nostro Dio, è dolce innalzare la lode". A lui conviene la lode, e una lode adeguata, cioè che sgorga da un cuore aperto a lui, senza donazioni parziali di sé. Lodare è celebrare la bontà del Signore manifestata nelle sue opere. Lodare è rivolgersi a lui pieni di fede, compresi della sua misericordia, della sua giustizia, della sua provvidenza, della sua volontà di comunione con l'uomo; anzi è riconoscere che lui è la misericordia, la giustizia, la comunione, la bontà, la bellezza, il perdono, la vita (Vedi le lodi a Dio di san Francesco). Lodare è amare; è il ritorno a lui - mai sufficiente e perciò sempre da far crescere - dell'amore che ci dona incessantemente nel dono dello Spirito Santo (Rm 5,5). Lodare è aver sperimentato la potenza della sua Parola, accolta nella fede e nell'obbedienza. Lodare è desiderare lui; è volere lui, perciò non è sospensione del domandare a lui di crescere nell'amore verso lui. Lodare è aver sperimentato la gioia di amare i fratelli, è pregare per loro. Lodare non è sospensione del ringraziar, poiché il lodare Dio porta con sé il ringraziare di poterlo lodare, perché “è dolce innalzare la lode”. Lodare Dio è umiltà, è riconoscere che si è sue creature, bisognose di salvezza, di aiuto, e che salvezza e aiuto si riversano su ciascuno di noi inesauste e sovrabbondanti (Rm 5,20; 1Tm 1,14).
“Il Signore ricostruisce Gerusalemme”; ciò non riguarda la ricostruzione delle mura, ma l'organizzazione interna della città, la sua solidità economica, la sua capacità difensiva.
“Risana i cuori affranti e fascia le loro ferite”; con l'avvento di una normalità di vita i cuori ritornano a guardare con serenità al futuro.
Il pietoso Dio che fascia le ferite dei cuori affranti è anche colui che è sovrano dell'universo, poiché “Egli conta il numero delle stelle e chiama ciascuna per nome”. Egli conosce il numero sterminato degli astri (in Terra Santa le condizioni atmosferiche permettono di vedere un cielo denso di stelle) e ogni stella è conosciuta da lui nella sua realtà: “chiama ciascuna per nome”.
Dallo sguardo all'immensità del numero delle stelle, il salmista sale a considerare la grandezza, l'onnipotenza e la sapienza di Dio: “Grande è il Signore nostro, grande nella sua potenza; la sua sapienza non si può calcolare”.
Il salmista prosegue considerando come Dio sostiene gli umili, e abbatte gli empi. Perché l'umiltà è il porsi giusto davanti al Creatore, che è pure salvatore; è il vincere il voler essere come Dio; è gioia e gratitudine di essere amati e perdonati. L'umile sa amare, sa lodare, sa riconoscere i benefici ricevuti; così il salmista invita a cantare un “canto di grazie” a Dio perché regola le stagioni a favore dell'uomo: “Egli copre il cielo di nubi, prepara la pioggia per la terra, fa germogliare l'erba sui monti”. Il bestiame tenuto al pascolo ha così cibo, ma anche gli uccelli di cui nessuno se ne cura hanno cibo dalla provvidenza di Dio.
Inutile pensare che Dio deleghi la sua assistenza contro i nemici del suo popolo alla forza dei cavalli e all'agilità dei guerrieri, quasi che non potesse agire in altro modo che per mezzo di un esercito. Questo Dio l'aveva dimostrato molte volte, e di recente sventando la coalizione armata contro Gerusalemme mentre stava ricostruendo le sue mura (Ne 4,9). Dio non si compiace dell'autosufficienza di chi crede di salvarsi per la forza dei cavalli o l'abilità dei guerrieri, ma si compiace di “chi lo teme, chi spera nel suo amore”.
Commento di P.Paolo Berti
Dalla prima lettera di S.Paolo apostolo ai Corinzi
Fratelli, annunciare il Vangelo non è per me un vanto, perché è una necessità che mi si impone: guai a me se non annuncio il Vangelo!
Se lo faccio di mia iniziativa, ho diritto alla ricompensa; ma se non lo faccio di mia iniziativa, è un incarico che mi è stato affidato. Qual è dunque la mia ricompensa? Quella di annunciare gratuitamente il Vangelo senza usare il diritto conferitomi dal Vangelo.
Infatti, pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero. Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno. Ma tutto io faccio per il Vangelo, per diventarne partecipe anch’io.
1Cor 9,16-19.22-23
Nei capitoli 8-10 della prima lettera ai Corinzi, Paolo affronta un altro problema, su cui i corinzi avevano chiesto il suo parere, riguardo i rapporti tra i cristiani e la società esterna, permeata com’era di riti religiosi nei quali direttamente o indirettamente era facile venire coinvolti.
Nel brano liturgico che abbiamo riguardo alla sua scelta di non farsi finanziare dalla comunità, Paolo afferma che il semplice fatto di annunziare il vangelo, non è per lui motivo di vanto, ma un obbligo che gli è stato imposto in forza della vocazione ricevuta, per questo dichiara: guai a me se non annuncio il Vangelo! E commenta poi affermando: Se lo faccio di mia iniziativa, ho diritto alla ricompensa; ma se non lo faccio di mia iniziativa, è un incarico che mi è stato affidato, vale a dire se Paolo si fosse messo a servizio del vangelo di sua iniziativa, avrebbe diritto come ogni lavoratore a ricevere una ricompensa da parte di Dio; ma trattandosi di un incarico che gli è stato affidato, egli si sente come lo schiavo che non può pretendere una remunerazione per il lavoro che fa.
Quindi se vuole avere una ricompensa deve fare qualcosa di più, che egli identifica precisamente nel predicare il vangelo gratuitamente, senza usare il “diritto conferitogli dal vangelo”, quello cioè di farsi finanziare dalle comunità. Solo facendo qualcosa in più di quanto gli è richiesto, può meritarsi un premio da parte del suo Signore.
A questo punto Paolo osserva che “pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero”. Paolo perciò se ha rinunciato a questa sua libertà, lo ha fatto per uno scopo ben preciso: “guadagnare” al vangelo il maggior numero di persone. Gli interessi del vangelo sono dunque al di sopra dei suoi interessi personali.
Infine, Paolo menziona il suo atteggiamento nei confronti dei “deboli”. Egli afferma: “Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli” Anche con costoro egli ha rinunciato al diritto di comportarsi secondo ciò che gli suggeriva la conoscenza e, per guadagnarli a Cristo, ha rinunziato a esercitare quelli che considerava suoi sacrosanti diritti.
Paolo conclude questi esempi esprimendo un principio generale: “mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno. Ma tutto io faccio per il Vangelo, per diventarne partecipe anch’io.” Nel suo desiderio di portare a tutti la salvezza, Paolo non ha avuto paura di rinunziare a qualsiasi privilegio personale. in altre parole egli ritiene di poter acquistare per se stesso la salvezza contenuta nel vangelo, non semplicemente perché lo annunzia agli altri, ma perché adotta nei loro confronti quegli atteggiamenti di amore e di dedizione che il vangelo gli ispira.
Dal vangelo secondo Marco
In quel tempo, Gesù, uscito dalla sinagoga, subito andò nella casa di Simone e Andrea, in compagnia di Giacomo e Giovanni. La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei. Egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva. Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati. Tutta la città era riunita davanti alla porta. Guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demòni; ma non permetteva ai demòni di parlare, perché lo conoscevano.
Al mattino presto si alzò quando ancora era buio e, uscito, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava. Ma Simone e quelli che erano con lui si misero sulle sue tracce. Lo trovarono e gli dissero: «Tutti ti cercano!». Egli disse loro: «Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!».
E andò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demòni.
Mc 1,29-39
Il brano che la liturgia ci propone, come quello della domenica scorsa, fa parte di una serie di racconti di una giornata tipo di Gesù e viene subito dopo l’episodio della liberazione dell’indemoniato.
Marco ci riferisce che Gesù, con i primi quattro discepoli, si reca nella casa di Simone dove “La suocera era a letto con la febbre”. Qui assistiamo ad un altro tipo di potere che Gesù ha, quello sulla malattia: “Egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva.”
Dopo il tramonto del sole, cioè al termine della giornata di sabato,”gli portavano tutti i malati e gli indemoniati. Tutta la città era riunita davanti alla porta. Guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demòni; ma non permetteva ai demòni di parlare, perché lo conoscevano.”
Marco qui ambienta, anche se in un episodio quotidiano e ordinario, il mistero sempre straordinario della sofferenza umana. La prima protagonista vediamo è la suocera di Pietro, inchiodata a letto dalla febbre che i rabbini al tempo di Gesù definivano “il fuoco che beve l’energia delle persone”. Gesù le si avvicina, si china su quel letto, la prende per mano, non pronunzia una sola parola, non dice neppure una preghiera, e la guarisce solo con la Sua azione diretta, con la Sua natura divina non ancora svelata agli occhi dei presenti.
Sull’onda di questa guarigione a sera si presentano una gran fila di malati che sperano in ciò che Lui solo può fare. Nella penombra di quel tramonto sembra quasi che sia stato convocato davanti a Gesù la raffigurazione di tutto il dolore del mondo! L’evangelista sottolinea anche che Gesù impediva ai demoni di parlare, perché lo conoscevano, e si può dedurre dunque che i demòni conoscessero la realtà della sua natura, e loro malgrado, siano persino suoi testimoni.
Poi l’evangelista evidenzia che Gesù “Al mattino presto si alzò quando ancora era buio e, uscito, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava”.
Simone e gli altri discepoli “si misero sulle sue tracce. Lo trovarono e gli dissero: «Tutti ti cercano!»”. Questo verbo “cercare” di solito in Marco è sempre negativo e qui Gesù risponde: “«Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!»”. Gesù comincia dunque a predicare, non più a insegnare! Ha insegnato nella sinagoga dove insegnare significa annunciare qualcosa basandosi sui testi della scrittura, quindi l’Antico Testamento. Ma Gesù, dopo la delusione provata nella sinagoga, non insegna, bensì predica! Predicare significa annunziare la novità del regno di Dio senza poggiarsi sulla tradizione del passato.
Il brano conclude con l’annotazione: E andò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demòni. L’evangelista sembra alludere al fatto che il luogo dove i demòni sono annidati sono proprio le sinagoghe, i luoghi di culto.
Meditando sulla giornata tipica di Gesù che con tutti i suoi impegni la conclude con la preghiera, deve insegnare anche a noi che l'unica vera ricarica, dopo un'intensa giornata di lavoro, è proprio la preghiera che ci aiuta a prendere contatto con il Padre, tutto il resto anche le cose più importanti non ci ricaricano, non ci danno la forza necessaria per proseguire giorno per giorno il nostro cammino.
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"Il Vangelo di oggi ci presenta Gesù che, dopo aver predicato di sabato nella sinagoga, guarisce tanti malati. Predicare e guarire: questa è l’attività principale di Gesù nella sua vita pubblica. Con la predicazione Egli annuncia il Regno di Dio e con le guarigioni dimostra che esso è vicino, che il Regno di Dio è in mezzo a noi.
Entrato nella casa di Simon Pietro, Gesù vede che sua suocera è a letto con la febbre; subito le prende la mano, la guarisce e la fa alzare. Dopo il tramonto, quando, terminato il sabato, la gente può uscire e portargli i malati, risana una moltitudine di persone afflitte da malattie di ogni genere: fisiche, psichiche, spirituali. Venuto sulla terra per annunciare e realizzare la salvezza di tutto l’uomo e di tutti gli uomini, Gesù mostra una particolare predilezione per coloro che sono feriti nel corpo e nello spirito: i poveri, i peccatori, gli indemoniati, i malati, gli emarginati. Egli così si rivela medico sia delle anime sia dei corpi, buon Samaritano dell’uomo. E’ il vero Salvatore: Gesù salva, Gesù cura, Gesù guarisce.
….
L’opera salvifica di Cristo non si esaurisce con la sua persona e nell’arco della sua vita terrena; essa continua mediante la Chiesa, sacramento dell’amore e della tenerezza di Dio per gli uomini. Inviando in missione i suoi discepoli, Gesù conferisce loro un duplice mandato: annunziare il Vangelo della salvezza e guarire gli infermi (cfr Mt 10,7-8). Fedele a questo insegnamento, la Chiesa ha sempre considerato l’assistenza agli infermi parte integrante della sua missione.
“I poveri e i sofferenti li avrete sempre con voi”, ammonisce Gesù (cfr Mt 26,11), e la Chiesa continuamente li trova sulla sua strada, considerando le persone malate come una via privilegiata per incontrare Cristo, per accoglierlo e per servirlo. Curare un ammalato, accoglierlo, servirlo, è servire Cristo: il malato è la carne di Cristo.
Questo avviene anche nel nostro tempo, quando, nonostante le molteplici acquisizioni della scienza, la sofferenza interiore e fisica delle persone suscita forti interrogativi sul senso della malattia e del dolore e sul perché della morte. Si tratta di domande esistenziali, alle quali l’azione pastorale della Chiesa deve rispondere alla luce della fede, avendo davanti agli occhi il Crocifisso, nel quale appare tutto il mistero salvifico di Dio Padre, che per amore degli uomini non ha risparmiato il proprio Figlio (cfr Rm 8,32). Pertanto, ciascuno di noi è chiamato a portare la luce della Parola di Dio e la forza della grazia a coloro che soffrono e a quanti li assistono, familiari, medici, infermieri, perché il servizio al malato sia compiuto sempre più con umanità, con dedizione generosa, con amore evangelico, con tenerezza. La Chiesa madre, tramite le nostre mani, accarezza le nostre sofferenze e cura le nostre ferite, e lo fa con tenerezza di madre.
Preghiamo Maria, Salute dei malati, affinché ogni persona nella malattia possa sperimentare, grazie alla sollecitudine di chi le sta accanto, la potenza dell’amore di Dio e il conforto della sua tenerezza materna."
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 8 febbraio 2015
Ogni domenica, la liturgia ci propone determinate letture, che se anche non hanno un filo conduttore tra loro, ci aiutano sempre a conoscere meglio il Signore Gesù. Sono come un mosaico che formano un dipinto, un’opera d’arte che trova il suo compimento solo alla fine.
Nella prima lettura, tratta dal libro del Deuteronomio, il Signore, per bocca di Mosè, promette al popolo di suscitare tra di loro in continuità, un profeta, cioè un uomo non compromesso con centri di potere politico e religioso, che possa essere un porta-parola di Dio. Sulla base di questo testo i Giudei hanno atteso il Messia come un nuovo Mosè.
Nella seconda lettura, nella sua lettera ai corinzi, l’apostolo Paolo continua ad indicare i motivi che gli fanno ritenere la verginità superiore al matrimonio. L’apostolo non pensa certo che il celibato possa eliminare del tutto le preoccupazioni legate alla vita in questo mondo, ma sembra convinto che possa attenuarle, affinché il credente sia unicamente preoccupato per le cose del Signore. Secondo Paolo chi ha rinunziato al matrimonio ha trovato la sua unità profonda nell’appartenere totalmente a Cristo, chi invece è sposato deve tendere anche lui alle realtà ultime del regno, ma servendosi di un mezzo, il proprio coniuge, che facilmente, per la debolezza umana, tende a separarlo da Cristo e a porsi come fine autonomo della sua vita.
L’evangelista Marco, nel brano del suo Vangelo, ci racconta che la gente osserva che Gesù insegna con autorità e che la sua dottrina è nuova, confrontata con quella degli scribi. Quando poi Gesù libera l’uomo posseduto dallo spirito impuro sono presi da timore e si chiedono chi sia mai costui che persino agli spiriti impuri e gli obbediscono!».
Dal libro del Deuteronomio
Mosè parlò al popolo dicendo: «Il Signore, tuo Dio, susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me. A lui darete ascolto. Avrai così quanto hai chiesto al Signore, tuo Dio, sull’Oreb, il giorno dell’assemblea, dicendo: “Che io non oda più la voce del Signore, mio Dio, e non veda più questo grande fuoco, perché non muoia”. Il Signore mi rispose: “Quello che hanno detto, va bene. Io susciterò loro un profeta in mezzo ai loro fratelli e gli porrò in bocca le mie parole ed egli dirà loro quanto io gli comanderò. Se qualcuno non ascolterà le parole che egli dirà in mio nome, io gliene domanderò conto. Ma il profeta che avrà la presunzione di dire in mio nome una cosa che io non gli ho comandato di dire, o che parlerà in nome di altri dèi, quel profeta dovrà morire”».
Dt 18,15-20
Il Deuteronomio è il quinto e ultimo libro del Pentateuco e ha la funzione di concludere la storia delle origini di Israele, e di fornire una sintesi delle tradizioni di fede contenute nella Torah. È stato scritto in ebraico e, secondo l'ipotesi condivisa da molti studiosi, la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte
È’ composto da 34 capitoli descriventi la storia degli Ebrei durante il loro soggiorno nel deserto del Sinai (circa 1200 a.C.) e contiene varie leggi religiose e sociali (nella Torah, o “Legge mosaica”, sono enumerati anche un insieme di 613 mitzvòt, o precetti). Dopo la Prima Legge, data da Dio sul Sinai, il Deuteronomio (Deuteros nomos) si presenta come la "Seconda Legge", la nuova Legge che Mosè consegna al popolo poco prima di morire e invita a tradurre l'amore per Dio nella vita sociale e familiare, non limitandosi dunque allo stretto compimento della Legge.
E’ uno dei libri più intensi di tutto l’Antico Testamento, e presenta una lettura teologica della storia del popolo eletto: Mosè, prima di morire, ricorda a Israele gli avvenimenti passati, mostrando come essi facciano parte di una economia salvifica che ha come punti centrali la promessa ai Padri, l’elezione d’Israele fra tutti i popoli della terra e l’alleanza sinaitica. Questa consapevolezza di appartenere a Dio, privilegio unico ed esclusivo, fa nascere nel popolo l’esigenza di una risposta decisa e libera a favore di Dio e della Sua legge.
In questo brano, dopo aver messo in guardia il popolo contro coloro che praticano la divinazione e la magia, Mosè indica come alternativa il ruolo dei profeti, presentandoli come i più immediati continuatori della sua opera e indica i criteri da adottare per provare la loro autenticità
Mosè esordisce con una promessa: “Il Signore tuo Dio susciterà per te, in mezzo a te, fra i tuoi fratelli, un profeta pari a me; a lui darete ascolto”, vale a dire i profeti suscitati da Dio saranno “simili a Mosè”, cioè avranno le sue stesse prerogative: ciò significa che i veri continuatori dell’opera di Mosè non saranno i re o i sacerdoti, ma uomini scelti di volta in volta da DIO e dotati di un carisma particolare.
L’origine divina del ruolo del profeta fa sì che il popolo sia tenuto ad ascoltare le loro parole: obbedire al profeta significa infatti obbedire a Dio.
Alla promessa iniziale Mosè aggiunge una motivazione: Avrai così quanto hai chiesto al Signore, tuo Dio, sull’Oreb, il giorno dell’assemblea, dicendo: “Che io non oda più la voce del Signore, mio Dio, e non veda più questo grande fuoco, perché non muoia”.
Quanto descritto si riferisce al racconto della teofania avvenuta ai piedi del Sinai, quando il popolo, spaventato dai lampi e dai tuoni mediante i quali Dio si faceva sentire e dettava personalmente il decalogo, aveva chiesto a Mosè “Parla tu a noi e noi ascolteremo, ma non ci parli Dio, altrimenti moriremo!”.(Es 20,19). Tutto questo Mosè l’aveva fatto durante la sua vita e i profeti faranno dopo la sua morte.
Mosè riprende poi la promessa appena fatta mettendola direttamente sulla bocca di Dio, il quale dice di aver concesso quanto gli israeliti gli avevano chiesto durante la teofania e conferma quanto Mosè ha detto e continua precisando: “Io susciterò loro un profeta in mezzo ai loro fratelli e gli porrò in bocca le mie parole ed egli dirà loro quanto io gli comanderò.”
L’immagine è suggestiva: il profeta dovrà parlare, ma le parole che dirà non saranno sue, ma di DIO che parlerà attraverso di lui., per cui le parole umane del profeta saranno a tutti gli effetti parole di Dio. Questo intervento speciale del Signore in favore del profetismo ha importanti conseguenze, sia per il popolo che per lo stesso profeta.
Anzitutto per il popolo: Se qualcuno non ascolterà le parole che egli dirà in mio nome, io gliene domanderò conto.
Poi per il profeta: Ma il profeta che avrà la presunzione di dire in mio nome una cosa che io non gli ho comandato di dire, o che parlerà in nome di altri dèi, quel profeta dovrà morire”».
Non viene richiesta un’obbedienza cieca, ma piuttosto una capacità di discernimento, il cui criterio principale è che il profeta parli a nome di DIO, e non degli idoli.
Il profeta è dunque un uomo che parla in nome di Dio e che agisce solo sotto la Suo azione, ma è anche uno che scopre la parola di Dio attraverso un cammino di riflessione umana alla luce della fede sugli eventi di cui è testimone.
Ciò appare chiaro dal fatto che, secondo il Deuteronomio, anche il profeta può sbagliare: se ciò dovesse accadere, egli renderà conto del proprio errore; ma anche il popolo, se si lascerà condurre per strade errate, sarà responsabile del proprio comportamento . Questa affermazione rende responsabile anche il popolo che dovrà così essere dotato di un carisma profetico.
La stessa ispirazione che agisce nel profeta dunque deve illuminare chi lo ascolta affinché sappia discernere nelle sue parole la parola di Dio.
Salmo 95 (94) Ascoltate oggi la voce del Signore.
Venite, cantiamo al Signore,
acclamiamo la roccia della nostra salvezza.
Accostiamoci a lui per rendergli grazie,
a lui acclamiamo con canti di gioia.
Entrate: prostràti, adoriamo,
in ginocchio davanti al Signore che ci ha fatti.
È lui il nostro Dio e noi il popolo del suo pascolo,
il gregge che egli conduce.
Se ascoltaste oggi la sua voce!
«Non indurite il cuore come a Merìba,
come nel giorno di Massa nel deserto,
dove mi tentarono i vostri padri:
mi misero alla prova pur avendo visto le mie opere».
Il salmo è un invito alla preghiera durante una visita al tempio, probabilmente durante la festa delle capanne, che celebrava il cammino nel deserto (Cf. Dt 31,11), visto che il salmo ricorda l'episodio di Massa e Meriba.
Dio è presentato come “roccia della nostra salvezza”, indicando la roccia la sicurezza data da Dio di fronte ai nemici.
Egli è “grande re sopra tutti gli dei”; sono gli dei concepiti dai pagani, dietro i quali striscia l'azione dei demoni
Egli è colui che ha in suo potere ogni cosa: “Nella sua mano sono gli abissi della terra, sono sue le vette dei monti...”.
Il gruppo orante è invitato ad accostarsi a Dio, cioè ad entrare nell'atrio del tempio. Successivamente il gruppo è invitato a prostrarsi davanti al Signore. Segue l'invito ad ascoltare la voce del Signore. Nel silenzio dell'adorazione davanti al tempio Dio muove il cuore (“la sua voce”) indirizzandolo al bene, all'obbedienza dei comandamenti, al cambiamento della vita.
“Non indurite il cuore”; il cuore indurito non ascolta la voce del Signore e segue i suoi pensieri, ma si troverà a vagare nei deserti di un'esistenza senza Dio, senza alcun riposo.
Commento di P.Paolo Berti
Dalla prima lettera di San Paolo apostolo ai Corinzi
Fratelli, io vorrei che foste senza preoccupazioni: chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore, come possa piacere al Signore; chi è sposato invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere alla moglie, e si trova diviso!
Così la donna non sposata, come la vergine, si preoccupa delle cose del Signore, per essere santa nel corpo e nello spirito; la donna sposata invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere al marito.
Questo lo dico per il vostro bene: non per gettarvi un laccio, ma perché vi comportiate degnamente e restiate fedeli al Signore, senza deviazioni.
1Cor 7,32-35
Paolo scrivendo ai Corinzi, continua a rispondere ai loro quesiti, riguardante la vita sessuale nel matrimonio e nel celibato. In questo brano in particolare esordisce così:
“Io vorrei che foste senza preoccupazioni …” ma dal seguito del discorso appare invece che egli vuole evitare solo un certo tipo di preoccupazioni che, contrastando con altre, portano a una divisione.
Paolo passa poi a mettere in luce il tipo di preoccupazioni considerando la situazione dell’uomo e della donna. Riconosce l’importanza del matrimonio con tutto ciò che esso comporta (v.7,1-8) , ma appare evidente che la sua preferenza è per il celibato.
Egli esprime il suo punto di vista sullo sfondo di un mondo che pensa che la fine sia vicina, un mondo in cui il credente può vivere correttamente solo relativizzando tutte le realtà terrene, di cui pure deve fare uso.
In questa prospettiva il celibato appare come una scelta migliore, che una persona possa fare per esprimere meglio il suo distacco da un mondo destinato presto a finire.
L’apostolo non pensa certo che il celibato possa eliminare del tutto le preoccupazioni legate alla vita in questo mondo, ma sembra convinto che possa attenuarle, affinché il credente sia unicamente preoccupato per le cose del Signore. In altre parole vorrebbe che il cuore del credente non fosse diviso tra due preoccupazioni che tendono ad escludersi l’una con l’altra, ma che fosse totalmente proiettato verso Cristo e verso i valori del mondo futuro. Secondo Paolo chi ha rinunziato al matrimonio ha trovato la sua unità profonda nell’appartenere totalmente a Cristo, chi invece è sposato deve tendere anche lui alle realtà ultime del regno, ma servendosi di un mezzo, il proprio coniuge, che facilmente, per la debolezza umana, tende a separarlo da Cristo e a porsi come fine della sua vita. La proposta del celibato non si basa su una svalutazione del matrimonio o della sessualità, ma sull’attesa della venuta, immaginata ormai imminente, del regno di Dio. Paolo certo non può ignorare che anche il matrimonio cristiano ha senso solo se è vissuto in vista del regno di Dio (Ef 5,21-33). Sembra inoltre che egli proponga il celibato ponendone in luce soprattutto i vantaggi, mentre a proposito del matrimonio sottolinea in modo particolare i limiti.
Infine egli presenta il coniuge come un immaginabile concorrente di Dio nel cuore del credente. Se è vero che l’impegno per il coniuge e per la famiglia può ostacolare il completo interesse per Dio e per i fratelli, non si può ignorare che anche il celibato comporta il rischio di uno spiritualismo che non è il linea con le esigenze reali delle persone. Il matrimonio infatti impone un continuo e diretto confronto con l’altro (il coniuge, i figli e la società), al quale il celibe può facilmente sfuggire.
La nostra umana sensibilità ci porta oggi a ritenere che entrambe le scelte (sia quella della castità, come quella matrimoniale) sono vocazioni di vita, che se vissute nel bene, nulla tolgono al regno di Dio, per cui sono sempre efficaci per seguire Gesù. Ciascuno ha il suo proprio dono, come afferma sempre Paolo (1 Cor 7,7) e in quanto reciproco dono, ciascuno, per la sua parte, collabora alla crescita del corpo di Cristo che è la Chiesa.
Dal Vangelo secondo Marco
In quel tempo, Gesù, entrato di sabato nella sinagoga, [a Cafàrnao,] insegnava. Ed erano stupiti del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi. Ed ecco, nella loro sinagoga vi era un uomo posseduto da uno spirito impuro e cominciò a gridare, dicendo: «Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!». E Gesù gli ordinò severamente: «Taci! Esci da lui!». E lo spirito impuro, straziandolo e gridando forte, uscì da lui.
Tutti furono presi da timore, tanto che si chiedevano a vicenda: «Che è mai questo? Un insegnamento nuovo, dato con autorità. Comanda persino agli spiriti impuri e gli obbediscono!». La sua fama si diffuse subito dovunque, in tutta la regione della Galilea.
Mc 1,21-28
L’evangelista Marco dopo aver raccontato la chiamata dei quatto pescatori, riporta una serie di brani ambientati a Cafarnao, località che Gesù ha scelto come centro della Sua attività in Galilea. Gli eventi narrati sono distribuiti nell’arco di una giornata-tipo, che Gesù viveva.
Il brano liturgico propone il primo episodio di questa piccola serie, la liberazione di un indemoniato.
L’evangelista presenta Gesù che insegna in un giorno di sabato nella sinagoga di Cafarnao e sottolinea che i presenti “erano stupiti del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi”,quando insegnavano nelle sinagoghe.
Dopo questa introduzione sull’insegnamento di Gesù, l’evangelista racconta il fatto dell’indemoniato che è presentato come un uomo posseduto da uno “spirito impuro”. Impressiona subito il fatto che questo spirito impuro stia in un luogo di culto come una sinagoga, e ci stia tranquillo, senza essere scoperto, fino all’arrivo di Gesù, e solo al Suo arrivo gli si rivolge chiedendogli, con tono ostile : “Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!”. L’espressione “che vuoi da noi” oltre ad indicare che non aveva nulla in comune con Gesù, il demonio lo accusa di essere venuto a mettere in pericolo il suo potere, e usando la prima persona plurale, dimostra di rappresentare un numero molto vasto di forze opposte a Dio, ma soprattutto mostra anche di conoscere la vera identità di Gesù.
L’appellativo “santo di Dio” che gli attribuisce, mette in luce il particolare rapporto che Egli ha con Dio: il demonio dunque considera Gesù come colui che, in quanto rappresentante di Dio, possiede un potere opposto al suo. Gesù allora sgrida duramente il demonio e gli “ordinò severamente: «Taci! Esci da lui!»”.
E’ questa la prima volta in cui l’evangelista introduce, per iniziativa dello stesso Gesù, il velo del segreto messianico. E lo spirito impuro, straziandolo e gridando forte, uscì da lui.” Lo “spirito impuro” non può far altro che obbedire, pur provocando urla e contorsioni nel povero posseduto. In tal modo Gesù dimostra di avere un potere superiore a quello dei demoni.
Al termine del racconto viene ripreso il tema iniziale: la gente è meravigliata, rendendosi conto che egli propone una dottrina nuova e la insegna con autorità. La dottrina nuova insegnata da Gesù consiste naturalmente nell’annunzio dell’imminente venuta del regno di Dio e con la liberazione dell’indemoniato la sua autorità viene qualificata non solo più in rapporto al suo modo di insegnare, ma anche perchè “comanda persino agli spiriti impuri e gli obbediscono”. Il gesto da lui compiuto fa sì che la sua fama si diffonda in tutta la regione della Galilea.
L’evangelista sottolinea così per la prima volta che Gesù comincia ad essere conosciuto anche al di fuori della sua regione, cioè in zone abitate quasi esclusivamente da pagani. Si parlerà in seguito di folle venute appunto dalle regioni confinanti con la Galilea, di pagani che si mescolano ai giudei.
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“Il brano evangelico di questa domenica presenta Gesù che, con la sua piccola comunità di discepoli, entra a Cafarnao, la città dove viveva Pietro e che in quei tempi era la più grande della Galilea. E Gesù entra in quella città.
L’evangelista Marco racconta che Gesù, essendo quel giorno un sabato, si recò subito nella sinagoga e si mise a insegnare.
Questo fa pensare al primato della Parola di Dio, Parola da ascoltare, Parola da accogliere, Parola da annunciare. Arrivando a Cafarnao, Gesù non rimanda l’annuncio del Vangelo, non pensa prima alla sistemazione logistica, certamente necessaria, della sua piccola comunità, non indugia nell’organizzazione. La sua preoccupazione principale è quella di comunicare la Parola di Dio con la forza dello Spirito Santo. E la gente nella sinagoga rimane colpita, perché Gesù «insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi».
Che cosa significa “con autorità”? Vuol dire che nelle parole umane di Gesù si sentiva tutta la forza della Parola di Dio, si sentiva l’autorevolezza stessa di Dio, ispiratore delle Sacre Scritture. E una delle caratteristiche della Parola di Dio è che realizza ciò che dice. Perché la Parola di Dio corrisponde alla sua volontà. Invece noi, spesso, pronunciamo parole vuote, senza radice o parole superflue, parole che non corrispondono alla verità. Invece la Parola di Dio corrisponde alla verità, è unità con la sua volontà e realizza quello che dice. Infatti Gesù, dopo aver predicato, dimostra subito la sua autorità liberando un uomo, presente nella sinagoga, che era posseduto dal demonio. Proprio l’autorità divina di Cristo aveva suscitato la reazione di satana, nascosto in quell’uomo; Gesù, a sua volta, riconobbe subito la voce del maligno e «ordinò severamente: “Taci! Esci da lui!”». Con la sola forza della sua parola, Gesù libera la persona dal maligno. E ancora una volta i presenti rimangono stupiti: «Comanda persino agli spiriti impuri e gli obbediscono!. La Parola di Dio crea in noi lo stupore. Possiede la forza di farci stupire.
Il Vangelo è parola di vita: non opprime le persone, al contrario, libera quanti sono schiavi di tanti spiriti malvagi di questo mondo: lo spirito della vanità, l’attaccamento al denaro, l’orgoglio, la sensualità… Il Vangelo cambia il cuore, cambia la vita, trasforma le inclinazioni al male in propositi di bene. Il Vangelo è capace di cambiare le persone! Pertanto è compito dei cristiani diffonderne ovunque la forza redentrice, diventando missionari e araldi della Parola di Dio. Ce lo suggerisce anche lo stesso brano odierno che si chiude con un’apertura missionaria e dice così: «La sua fama – la fama di Gesù – si diffuse subito dovunque, in tutta la regione della Galilea».
La nuova dottrina insegnata con autorità da Gesù è quella che la Chiesa porta nel mondo, insieme con i segni efficaci della sua presenza: l’insegnamento autorevole e l’azione liberatrice del Figlio di Dio diventano le parole di salvezza e i gesti di amore della Chiesa missionaria. Ricordatevi sempre che il Vangelo ha la forza di cambiare la vita! Non dimenticatevi di questo. Esso è la Buona Novella, che ci trasforma solo quando ci lasciamo trasformare da essa. Ecco perché vi chiedo sempre di avere un quotidiano contatto col Vangelo, di leggerlo ogni giorno, un brano, un passo, di meditarlo e anche portarlo con voi ovunque: in tasca, nella borsa… Cioè di nutrirsi ogni giorno da questa fonte inesauribile di salvezza. Non dimenticatevi! Leggete un passo del Vangelo ogni giorno. E’ la forza che ci cambia, che ci trasforma: cambia la vita, cambia il cuore.
Invochiamo la materna intercessione della Vergine Maria, Colei che ha accolto la Parola e l’ha generata per il mondo, per tutti gli uomini. Ci insegni Lei ad essere ascoltatori assidui e annunciatori autorevoli del Vangelo di Gesù.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 1 febbraio 2015
LA VITA SACRAMENTALE
La vita sacramentale e la fede sono state oggetto di un altro incontro tra P. Adilson Schio e Elena Tasso.
Il Catechismo della Chiesa Cattolica suddivide i sette sacramenti in questo modo: 1) dell'iniziazione cristiana: Battesimo, Confermazione o Cresima e Eucaristia; 2) della guarigione: Confessione e Unzione degli infermi; 3) del servizio della comunità e della missione dei fedeli: Ordine e Matrimonio (CCC, 1211).
La base dei sacramenti sta nella certezza che Gesù, crocifisso e risorto, opera nel cuore di ogni persona e nel cuore della Chiesa. Gesù è alla “destra di Dio" e agisce nella Chiesa, al fine di renderla pienamente conforme al piano salvifico. Ogni sacramento, quando viene celebrato, è una professione di fede della Chiesa. Chi riceve i sacramenti accoglie nel cuore la presenza sempre viva e attiva del Signore risorto.
I sacramenti non esistono per un "consumo personale", o come una semplice usanza di tradizione familiare. Nemmeno si può ammettere che il ministro che li presiede, Sacerdote o Vescovo, agisca a titolo personale, come chi sta offrendo una manifestazione di semplice amicizia. È all'interno della fede della Chiesa che tutti i sacramenti devono essere celebrati. Approfondiamo...
Le letture della liturgia di questa domenica ci presenta ancora due racconti di vocazione come nella scorsa settimana
Nella prima lettura, incontriamo Giona, un profeta un po’ renitente alla chiamata, che solo in seconda istanza si rassegna ad annunziare la conversione e la salvezza a Ninive, la capitale assira, esempio di città pagana, nemica di Dio e del suo popolo. La parola profetica costringe Giona a combattere contro le sue stesse convinzioni politiche e religiose, ma al richiamo di Giona alla conversione, gli abitanti di Ninive si pentono, credono e si convertono, fanno tutti penitenza cambiando radicalmente il sistema di vivere, ed evitano così la distruzione.
Nella seconda lettura, nella sua lettera ai corinzi, l’apostolo Paolo ci ricorda che il tempo si è fatto breve, le cose di questo mondo sono passeggere e di fronte a tale realtà il cristiano deve riuscire a vivere in modo distaccato dagli interessi effimeri di questo mondo.
L’evangelista Marco, nel brano del suo Vangelo, riferisce che Gesù inizia la sua predicazione, e invitando alla conversione dice: ”il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino”. I primi discepoli hanno risposto senza esitazione lasciando tutti i loro averi ed anche gli affetti familiari per seguirlo: da quel momento prendeva vita la Chiesa. Ascoltando la voce di Gesù e degli apostoli, ognuno può scoprire in ogni tempo la sua chiamata alla gioia di quel Regno che è già stato inaugurato e che è “già in mezzo a noi”.
Dal libro del profeta Giona
Fu rivolta a Giona questa parola del Signore: «Àlzati, va’ a Nìnive, la grande città, e annuncia loro quanto ti dico». Giona si alzò e andò a Nìnive secondo la parola del Signore. Nìnive era una città molto grande, larga tre giornate di cammino. Giona cominciò a percorrere la città per un giorno di cammino e predicava: «Ancora quaranta giorni e Nìnive sarà distrutta». I cittadini di Nìnive credettero a Dio e bandirono un digiuno, vestirono il sacco, grandi e piccoli. Dio vide le loro opere, che cioè si erano convertiti dalla loro condotta malvagia, e Dio si ravvide riguardo al male che aveva minacciato di fare loro e non lo fece.
Gn 3,1-5.10
Giona è un profeta (vissuto forse nell’VIII secolo a.C.) ed è il protagonista dell’omonimo libro. Sebbene sia citato nel II libro dei Re ed anche nel Corano, non è certo che sia veramente vissuto. E’ incerto anche il periodo in cui il testo sia stato scritto (forse durante il regno di Geroboamo II nell’VIII secolo), ma l’idea più diffusa è quella che vede in Giona l'immagine negativa dell'ebraismo post-esilico: per cui è probabile che il libro sia stato composto durante l'epoca persiana o agli inizi di quella ellenistica (sec. IV).
Il racconto si divide in due parti principali, che iniziano entrambe con il conferimento al profeta dell'incarico, espresso quasi con gli stessi termini, di annunciare il giudizio di Dio sulla città di Ninive.
Nella prima parte (Gn 1-2) Giona reagisce fuggendo su una nave che incorre nel pericolo di naufragare, cosa che, alla fine, conduce i marinai a riconoscere il Signore come Dio (1,3-16). Nella seconda parte (Gn 3-4) Giona svolge il suo incarico e gli abitanti di Ninive fanno penitenza (3,3-10). Entrambe le parti principali del libro terminano con una preghiera di Giona: La prima (2,3-10) consiste in un “salmo”, mentre la seconda (4,2-3) è una preghiera che conduce ad una discussione, con la quale si conclude il libro, tra Giona e Dio, il quale spiegherà in modo esemplare il suo modo di agire: e io non dovrei aver pietà di Ninive, quella grande città, nella quale sono più di centoventimila persone, che non sanno distinguere fra la mano destra e la sinistra, e una grande quantità di animali?”. (4,11)
Nel brano che abbiamo viene riportato l’inizio della seconda parte del libro. Giona riceve una seconda volta l’incarico di recarsi a Ninive. Questa volta egli obbedisce, va a Ninive e percorre in tre giorni la città annunziando che, se entro quaranta giorni non si fosse convertita, sarebbe stata distrutta. Gli abitanti della città credettero a Dio e bandirono un digiuno, vestirono il sacco, grandi e piccoli. Non solo, ma nei versetti non riportati dal brano si legge che ”Giunta la notizia fino al re di Ninive, egli si alzò dal trono, si tolse il manto, si coprì di sacco e si mise a sedere sulla cenere. “Poi fu proclamato in Ninive questo decreto, per ordine del re e dei suoi grandi: “Uomini e animali, grandi e piccoli, non gustino nulla, non pascolino, non bevano acqua. Uomini e bestie si coprano di sacco e si invochi Dio con tutte le forze; ognuno si converta dalla sua condotta malvagia e dalla violenza che è nelle sue mani. Chi sa che Dio non cambi, si impietosisca, deponga il suo ardente sdegno sì che noi non moriamo?”.(6-9) Questo per capire fino a che punto gli abitanti di Ninive fecero penitenza.
“Dio vide le loro opere, che cioè si erano convertiti dalla loro condotta malvagia”, e non dà seguito al castigo che aveva minacciato.
Il libro di Giona affronta in modo mirabile il tema dell’universalismo della salvezza, presentando un profeta giudaico di mentalità molto limitata, il quale si rifiuta di predicare a Ninive perché sa che Dio perdonerà la città peccatrice e sospenderà il castigo che Lui stesso aveva annunziato. Nel suo fervore religioso Giona avrebbe preferito che la città nemica fosse completamente distrutta, invece Dio vuole la salvezza di tutti e attesta la Sua misericordia risparmiando gli abitanti della città. Tutto il libro è dunque un’esaltazione della misericordia divina, che si estende a tutte le creature senza distinzione di credo o di cultura ed è una preziosa testimonianza in favore dell'universalismo della salvezza- Il racconto ha chiaramente l’intento di far sì che all’interno di Israele si sviluppi un concetto di Dio molto più aperto e sensibile ai bisogni di tutti gli esseri umani.
Salmo 24 - Fammi conoscere, Signore, le tue vie.
Fammi conoscere, Signore, le tue vie,
insegnami i tuoi sentieri.
Guidami nella tua fedeltà e istruiscimi,
perché sei tu il Dio della mia salvezza.
Ricòrdati, Signore, della tua misericordia
e del tuo amore, che è da sempre.
Ricòrdati di me nella tua misericordia,
per la tua bontà, Signore.
Buono e retto è il Signore,
indica ai peccatori la via giusta;
guida i poveri secondo giustizia,
insegna ai poveri la sua via.
Il salmista è pieno d’umiltà al ricordo delle sue numerose colpe della sua giovinezza.
E’ sgomento alla vista che tanti suoi amici lo hanno tradito per un nulla. Uno screzio è bastato perché si mettessero contro di lui. Egli, piegato dal peso dei suoi peccati, domanda che Dio guardi a lui e non a quanto ha fatto non osservando “la sua alleanza e i suoi precetti”. Si trova in grande difficoltà di fronte ad avversari che lo odiano in modo violento e lui non ha via di salvezza che quella del Signore. Gli errori passati sono il frutto del suo abbandono della “via giusta”. Ora sa che “tutti i sentieri del Signore sono amore e fedeltà”, cioè non portano a rovina, ma anzi danno prosperità, poiché la discendenza di chi teme il Signore “possederà la terra”. L’orante voleva affermarsi sugli altri agendo con spavalderia, con vie traverse, ed ecco che sconfessa tutto il suo passato, trattenendone però la lezione di umiltà, che gli ha dato. Egli sa che non andrà deluso perché ha deciso di essere protetto da "integrità e rettitudine”, cioè dall’osservanza dell’alleanza stabilita da Dio con Israele. L’orante non pensa solo a se stesso, si sente parte del popolo di Dio, e invoca la liberazione di Israele dalle angosce date dai nemici. La liberazione dell’Israele di Dio, la Chiesa, cioè l’Israele fondato sulla fede in Cristo, non escludendo nella sua carità quello etnico basato sulla carne e sul sangue, per il quale la pace passerà dall’accoglienza del Principe della pace.
Commento di P.Paolo Berti
Dalla prima lettera di San Paolo apostolo ai Corinzi
Questo vi dico, fratelli: il tempo si è fatto breve; d’ora innanzi, quelli che hanno moglie, vivano come se non l’avessero; quelli che piangono, come se non piangessero; quelli che gioiscono, come se non gioissero; quelli che comprano, come se non possedessero; quelli che usano i beni del mondo, come se non li usassero pienamente: passa infatti la figura di questo mondo!
1^Cor 7,29-31
I Corinzi avevano posto a Paolo alcuni quesiti, di cui il primo riguardava la vita sessuale nel matrimonio e nel celibato. L’apostolo comincia a rispondere, chiarendo dubbi e indicando loro nuove prospettive passando poi delineare il principio generale a cui si ispira, quello cioè secondo cui ciascuno deve restare nella condizione di vita in cui si trovava al momento della conversione (vv. 17-24). Infine ritorna ai casi specifici, soffermandosi sulla condizione dei celibi (vv. 25-35), dei fidanzati (vv. 36-38) e poi su quella delle vedove (vv. 39-40).
Il brano contiene un altro riferimento agli ultimi tempi e qui Paolo afferma infatti che il tempo “si è fatto breve”, Lunga o breve che sia, l’esistenza di questo mondo prosegue ormai sotto il segno della fine e proprio la prospettiva della fine esige un cambiamento di atteggiamento nei confronti di questo mondo.
Paolo indica in particolare cinque categorie di persone le quali devono rivedere il loro rapporto con le cose terrene. La prima categoria è quella degli sposati: “quelli che hanno moglie, vivano come se non l’avessero”. Con questa direttiva egli non vuole certo sconsigliare ai coniugi i normali rapporti sessuali, ciò che egli esclude è l’egoismo di coppia, che spinge i due a cercare l’uno nell’altro unicamente il proprio piacere e la propria realizzazione personale.
Vengono poi citate due categorie contrapposte: “quelli che piangono, come se non piangessero; quelli che gioiscono, come se non gioissero”. Anche il piangere e il gioire non devono essere visti come assoluti, l’uno da evitare e l’altro da cercare a ogni costo, ma devono essere vissuti come realtà passeggere, quindi relative e superabili.
Infine Paolo considera altri due tipi di persone: quelli che comprano … quelli che usano i beni del mondo”. Ai primi dice di comportarsi come se non possedessero i beni acquistati, ai secondi come se non li usassero pienamente. In altre parole l’apostolo vuole dire che le cose di questo mondo, come anche i rapporti tra le persone e addirittura i propri stati d’animo, devono essere gestiti non per se stessi, ma in vista di un fine più grande, cioè come un mezzo per raggiungere la piena comunione con Dio e con i fratelli .
Paolo conclude questa prima parte del brano con l’espressione emblematica: “Passa infatti la figura di questo mondo”. Il distacco che Paolo consiglia implica non un impegnarsi di meno nelle cose del mondo, ma piuttosto il proporsi come fine un bene più grande, che riguarda tutta l’umanità. Ciò comporta una piena adesione, nei limiti del possibile, a ideali di giustizia e di solidarietà, e il rifiuto netto di ogni corruzione.
Chi si comporta in questo modo certo non si potrà arricchire materialmente, ma supererà gli alti e bassi della sua condizione umana e sarà arricchito di rapporti più fruttuosi, non solo con gli altri cristiani, ma anche con tutte le persone di buona volontà.
Dal vangelo secondo Marco
Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo».
Passando lungo il mare di Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. Gesù disse loro: «Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini». E subito lasciarono le reti e lo seguirono.
Andando un poco oltre, vide Giacomo, figlio di Zebedèo, e Giovanni suo fratello, mentre anch’essi nella barca riparavano le reti. E subito li chiamò. Ed essi lasciarono il loro padre Zebedèo nella barca con i garzoni e andarono dietro a lui.
Mc 1,14-20
Il prologo del vangelo di Marco termina con la tentazione di Gesù nel deserto. Dopo l’evangelista riporta il ministero pubblico di Gesù in Galilea e riassume la predicazione di Gesù tutta incentrata sulla venuta imminente del regno di Dio. L’evangelista vuole mettere in luce l’impatto che l’apparizione di Gesù ha avuto in Galilea e diversamente da Matteo, il quale riporta subito all’inizio del vangelo un discorso programmatico di Gesù (Discorso della montagna), Marco attesta la venuta del regno di Dio da lui annunziato mediante il racconto delle sue opere straordinarie.
Il brano liturgico introduce la predicazione di Gesù in Galilea: “Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo».”
La notizia secondo cui Gesù ha iniziato il suo ministero pubblico dopo l’arresto di Giovanni contrasta con il fatto che il quarto vangelo ricorda un’attività parallela dei due (Gv 3,22-24), e Marco stesso narrerà solo in seguito l’arresto e la morte di Giovanni (6,17-29). È probabile che egli voglia qui separare nettamente l’opera del Battista da quella di Gesù per motivi più teologici che storici. Invece di recarsi in Giudea, zona densamente abitata da giudei, dove avevano sede le principali istituzioni giudaiche, Gesù torna in Galilea, sua terra d’origine.
L’espressione “vangelo di Dio”, è tipica della prima comunità cristiana (V.Rm 1,1; 15,16) e indica non la buona novella che ha per oggetto Dio, ma quella che proviene da Dio stesso, in quanto autore della salvezza. Gesù si presenta dunque come colui che, in nome di Dio, annunzia che la salvezza è vicina.
Il lieto annunzio proclamato da Gesù è espresso con un linguaggio che si ispira all’apocalittica giudaica: ”l tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino”. Il “tempo” (kairos), cioè il periodo dell’attesa, che separa il momento attuale da quello finale e conclusivo della storia, è arrivato al termine; di conseguenza il “regno di Dio è vicino»”, sta per realizzarsi in questa terra. In altre parole sta ora iniziando il periodo finale della storia, caratterizzato dal fatto che Dio stesso interviene per far riconoscere e accettare pienamente la Sua sovranità non solo su Israele, ma su tutta l’umanità.
Al tempo di Gesù la questione della regalità del Signore era molto sentita nel giudaismo perchè aveva le sue radici nell’esperienza primordiale di Israele, il quale attribuiva il titolo di re a Dio che lo aveva liberato dalla schiavitù d’Egitto. In questo contesto la regalità di Dio assumeva una dimensione di potenza, ma soprattutto di misericordia, e originava l’impegno per una liberazione interiore basata su norme di giustizia e di uguaglianza. Il periodo trascorso in esilio aveva conferito a questa esperienza un aspetto di universalismo e una forte dimensione escatologica: il Signore è re di tutta l’umanità, ma non ha ancora rivelato pienamente la Sua sovranità, cosa che farà quanto prima sconfiggendo in modo definitivo le potenze del male, identificate spesso con l’impero romano, oppressore dei giudei.
Gesù afferma dunque che questa attesa, in tutta la sua dimensione universalistica, sta per realizzarsi.
All’annunzio del lieto messaggio segue un invito: “convertitevi e credete nel Vangelo”. Come già aveva fatto Giovanni Battista, Gesù invita a “convertirsi”, e nel linguaggio ebraico si intende a “ritornare” a Dio cambiando mentalità e sottomettendosi definitivamente alla Sua sovranità;. Per fare ciò necessario però “credere nel vangelo”, cioè aprirsi al lieto annunzio ed impostare su questo tutta la propria vita.
Il primo gesto compiuto da Gesù dopo il suo ritorno in Galilea è stato, secondo Marco, la chiamata di alcuni discepoli, che ebbe luogo mentre Gesù stava “Passando lungo il mare di Galilea” (lago di Gennesaret o di Tiberiade) . Luca invece colloca la loro vocazione in un contesto di una pesca miracolosa (Lc 5,1-11).
I primi chiamati furono i fratelli, Simone e Andrea, i quali stavano svolgendo il loro lavoro di pescatori. Per la loro professione essi appartenevano a quello che i farisei chiamavano con disprezzo il “popolo della terra”. Ai due Gesù rivolge l’invito: “Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini”.
E’ proprio Gesù dunque a prendere l’iniziativa, chiamandoli al suo seguito!
All’invito perentorio di Gesù i primi due chiamati “subito lasciarono le reti e lo seguirono”. Ossia lo seguirono senza tergiversare, lasciando le loro reti, che rappresentano tutto il loro avere,
Il verbo “seguire” rievoca l’esperienza di Israele, che nell’esodo si è lasciato guidare dal Signore e ha preso l’impegno di “camminare nelle sue vie” (Dt 10,12). Essi risposero, come aveva fatto Abramo, abbandonando le proprie sicurezze e affrontando un cambiamento radicale di vita.
Lo stesso invito è rivolto anche a un’altra coppia di fratelli, Giacomo e Giovanni, ugualmente pescatori, i quali seguirono Gesù e lasciarono il loro padre Zebedèo nella barca con i garzon .
Anche qui emerge la radicalità di un gesto che implica l’abbandono non solo di una persona cara, il padre, ma anche di una piccola impresa a gestione familiare, in cui la presenza di garzoni è segno chiaro di una certa prosperità.
Marco sottolinea in questo racconto come la chiamata dei discepoli sia dovuta esclusivamente a Gesù, il quale sceglie egli stesso uomini adulti e maturi, impegnati in una precisa attività professionale. Così facendo egli si distacca dai dottori della legge i quali non sceglievano, ma accoglievano giovani studenti che facevano richiesta di essere guidati nello studio della legge.
Gesù ha scelto persone semplici apparentemente non adatti a diventare “pescatori di uomini” … nessuna intelligenza umana avrebbe fatto quella scelta!
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“Il Vangelo di oggi ci presenta l’inizio della predicazione di Gesù in Galilea. San Marco sottolinea che Gesù cominciò a predicare «dopo che Giovanni [il Battista] fu arrestato» . Proprio nel momento in cui la voce profetica del Battezzatore, che annunciava la venuta del Regno di Dio, viene messa a tacere da Erode, Gesù inizia a percorrere le strade della sua terra per portare a tutti, specialmente ai poveri, «il Vangelo di Dio». L’annuncio di Gesù è simile a quello di Giovanni, con la differenza sostanziale che Gesù non indica più un altro che deve venire: Gesù è Lui stesso il compimento delle promesse; è Lui stesso la "buona notizia" da credere, da accogliere e da comunicare agli uomini e alle donne di tutti i tempi, affinché anch’essi affidino a Lui la loro esistenza. Gesù Cristo in persona è la Parola vivente e operante nella storia: chi lo ascolta e segue entra nel Regno di Dio.
Gesù è il compimento delle promesse divine perché è Colui che dona all’uomo lo Spirito Santo, l’"acqua viva" che disseta il nostro cuore inquieto, assetato di vita, di amore, di libertà, di pace: assetato di Dio. Quante volte sentiamo, o abbiamo sentito il nostro cuore assetato! Lo ha rivelato Egli stesso alla donna samaritana, incontrata presso il pozzo di Giacobbe, alla quale disse: «Dammi da bere» (Gv 4,7). Proprio queste parole di Cristo, rivolte alla Samaritana, hanno costituito il tema dell’annuale Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani che oggi si conclude. Questa sera, con i fedeli della diocesi di Roma e con i rappresentanti delle diverse Chiese e Comunità ecclesiali, ci riuniremo nella Basilica di San Paolo fuori le mura per pregare intensamente il Signore, affinché rafforzi il nostro impegno per la piena unità di tutti i cristiani. E’ una cosa brutta che i cristiani siano divisi! Gesù ci vuole uniti: un solo corpo. I nostri peccati, la storia, ci hanno divisi e per questo dobbiamo pregare tanto perché sia lo stesso Spirito Santo ad unirci di nuovo.
Dio, facendosi uomo, ha fatto propria la nostra sete, non solo dell’acqua materiale, ma soprattutto la sete di una vita piena, di una vita libera dalla schiavitù del male e della morte. Nello stesso tempo, con la sua incarnazione Dio ha posto la sua sete – perché anche Dio ha sete - nel cuore di un uomo: Gesù di Nazareth. Dio ha sete di noi, dei nostri cuori, del nostro amore, e ha messo questa sete nel cuore di Gesù. Dunque, nel cuore di Cristo si incontrano la sete umana e la sete divina. E il desiderio dell’unità dei suoi discepoli appartiene a questa sete. Lo troviamo espresso nella preghiera elevata al Padre prima della Passione: «Perché tutti siano una sola cosa» (Gv 17,21). Quello che voleva Gesù: l’unità di tutti! Il diavolo - lo sappiamo - è il padre delle divisioni, è uno che sempre divide, che sempre fa guerre, fa tanto male.
Che questa sete di Gesù diventi sempre più anche la nostra sete! Continuiamo, pertanto, a pregare e ad impegnarci per la piena unità dei discepoli di Cristo, nella certezza che Egli stesso è al nostro fianco e ci sostiene con la forza del suo Spirito affinché tale meta si avvicini. E affidiamo questa nostra preghiera alla materna intercessione di Maria Vergine, Madre di Cristo, Madre della Chiesa, perché Lei ci unisca tutti come una buona madre.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 25 gennaio 2015
Quest'anno, il 6 Gennaio, per la prima volta aprirà il corteo folcloristico “Viva La Befana” il quadro "la Sacra Famiglia", realizzato dai maestri infioratori di Sangemini con polveri di fiori essiccati, normalmente esposto da maggio 2017 nella parrocchia Nostra Signora de "La Salette" Roma.
L'umanità è una grande e immensa famiglia ... Troviamo la dimostrazione di ciò da quello che ci sentiamo nei nostri cuori a Natale.
(Papa Giovanni XXIII)