PREMESSA
Seppellire i morti è, nell’elenco, l’ultima delle Opere di Misericordia Corporale ma, forse, la più antica. A differenza del comportamento degli animali l’uomo, fin dall’antichità, seppellisce i morti, li tutela e non lascia che vengano dilaniati dai predatori. Gli archeologi ci dicono che le prime tracce di sepoltura dei morti risalgono a circa 9.OOO anni a.C.
Il culto dei morti era presente in tutte le culture, la non sepoltura era considerata un male orribile ed era la sorte che toccava agli empi abbandonati al disprezzo. La Bibbia ricorda che il pio e vecchio ebreo Tobi, di notte, dietro le mura di Ninive, raccoglie i cadaveri per dare loro degna sepoltura rischiando la morte. Il dovere di dare sepoltura per gli ebrei è espresso chiaramente nel libro del Siracide: “Figlio versa lacrime sul morto e, come uno che soffre, inizia il lamento; poi seppelliscine il corpo secondo le sue volontà e non trascurare la sua tomba.” (38, 16). Il rispetto per i morti si fonda sulla credenza che il defunto continuerà eternamente la sua vita in un altro mondo. Per noi cristiani questa verità è fondamentale e la professiamo recitando il Credo. Lo chiarisce il dialogo, davanti alla tomba di Lazzaro, fra Gesù e Marta: “Gesù le disse: tuo fratello risorgerà. Gli rispose Marta: so che risorgerà nella resurrezione dell’ultimo giorno. Gesù le disse: io sono la resurrezione e la vita; chi crede in me anche se muore vivrà; chiunque crede in me, non morrà in eterno.” (Gv 11, 23-26). La sepoltura è l’atto estremo della dimostrazione del nostro amore verso l’estinto. Rispettare la salma vuol dire onorare la “persona” nella sua totalità: anima e corpo, perché è mediante il corpo, unico ed irripetibile, che ognuno di noi attraversa il tempo, fa parte dell’umanità ed attua il progetto di Dio.
“Visitare i carcerati” è, forse l’Opera di Misericordia corporale più complicata e difficile.
Per aiutarmi a trattare quest’argomento sono stata cortesemente ricevuta da Padre Vittorio Trani, provinciale dei Frati Minori Conventuali della provincia di Roma, da 35 anni cappellano del carcere di Regina Coeli, casa circondariale di Roma, nonché padre spirituale della Società Sportiva Lazio, che con disponibilità e pazienza ha risposto alle mie domande e che ringrazio vivamente.
Anche in questa domenica la liturgia ci presenta delle letture ricche di significato, che se anche non hanno un filo conduttore evidente, ci portano a considerare che ogni giorno, qualsiasi sia la nostra situazione di vita, dobbiamo saper discernere quale sia la scelta giusta per seguire il Signore.
Nella prima lettura, tratta dal primo libro dei Re, troviamo Salomone, che all’inizio del suo regno, innalza a Dio una preghiera bellissima in cui non chiede a Dio beni terreni, ma un cuore docile, la capacità di rendere giustizia al popolo e distinguere il bene dal male.
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera ai Romani, San Paolo afferma che Dio ci ama e ci chiama a riprodurre in noi l’immagine del Suo Figlio Gesù, per partecipare alla Sua gloria.
Nel Vangelo di Matteo, come nella precedente domenica, Gesù ci propone tre mini-parabole : un tesoro nascosto nel terreno, una perla di alto valore, e una rete colma di pesci. Al termine delle parabole Gesù pone una domanda valida anche per noi oggi: “Avete compreso tutte queste cose?». Questo perchè Egli esige da noi una comprensione più profonda che possa diventare vita e lode. Questo concetto lo esprimeva molto bene uno dei massimi pensatori del secolo scorso il filosofo Martin Heidegger quando scriveva: “Pensare, capire è già ringraziare,lodare”
Dal primo libro dei Re
In quei giorni a Gàbaon il Signore apparve a Salomone in sogno durante la notte. Dio disse: «Chiedimi ciò che vuoi che io ti conceda». Salomone disse: «Signore, mio Dio, tu hai fatto regnare il tuo servo al posto di Davide, mio padre. Ebbene io sono solo un ragazzo; non so come regolarmi.
Il tuo servo è in mezzo al tuo popolo che hai scelto, popolo numeroso che per la quantità non si può calcolare né contare. Concedi al tuo servo un cuore docile, perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male; infatti chi può governare questo tuo popolo così numeroso?». Piacque agli occhi del Signore che Salomone avesse domandato questa cosa. Dio gli disse: «Poiché hai domandato questa cosa e non hai domandato per te molti giorni, né hai domandato per te ricchezza, né hai domandato la vita dei tuoi nemici, ma hai domandato per te il discernimento nel giudicare, ecco, faccio secondo le tue parole. Ti concedo un cuore saggio e intelligente: uno come te non ci fu prima di te né sorgerà dopo di te».
1R 3,5.7-12
Il primo, come il secondo libro dei Re, è un testo contenuto nella Bibbia ebraica e cristiana. E‘ stato scritto in ebraico, ad opera di autori ignoti, intorno al VI-V secolo a.C. in Giudea. Il primo libro è composto da 22 capitoli che descrivono la morte di Davide, la successione del figlio Salomone, e dopo la morte di questi, la scissione del Regno di Israele, dal Regno di Giuda, il ministero del profeta Elia (nel nord) e i vari re di Israele e Giuda, eventi datati attorno al 970-850 a.C.. Il libro si apre con una sezione nella quale viene presentato il lungo regno di Salomone (cc. 1-11). In essa si fa anzitutto il racconto degli eventi che portano direttamente alla sua ascesa al trono davidico (cc. 1-2). Viene messa poi in luce la sapienza del re (3,1-5,14), che fa da premessa alla descrizione della sua impresa più importante, la costruzione del tempio di Gerusalemme (5,15-9,25). L'ultima parte è dedicata a una sintesi della grandezza di Salomone e alla sua degenerazione (9,26 - 11,43).
La parte riguardante la sapienza di Salomone si apre, dopo l’accenno al suo matrimonio con la figlia del faraone, con il racconto del sogno di Gabaon (3,4-15), mediante il quale la grande sapienza di Salomone viene presentata come un dono di Dio.
Il brano liturgico racconta un episodio il cui scopo è quello di mostrare ancora una volta il gradimento di Dio nei confronti di Salomone. Il re si trova presso l’altura di Gabaon, nei pressi di Gerusalemme, dove offre un numero enorme di olocausti (1000), segno della sua profonda religiosità. Salomone ha un’esperienza diretta di Dio, il quale gli appare in sogno e gli dice di chiedergli pure ciò che gli sta più a cuore. Sia nella Bibbia che nell’antico Oriente il sogno era uno dei mezzi principali di comunicazione tra Dio e l’uomo.
Salomone inizia la sua preghiera con una frase, omessa dalla liturgia, nella quale il re ricorda la grande benevolenza che il Signore ha dimostrato a Davide, soprattutto facendo sì che un suo figlio sedesse sul suo trono. Passando alla sua richiesta, egli premette che è diventato re al posto di Davide in un’età ancora giovanile, e si trova a capo di un popolo molto numeroso, che per di più ha la particolarità di essere stato scelto da Dio: perciò non sa ancora bene come comportarsi
In questa premessa è sviluppato il tema della indegnità e dell’incapacità dell’uomo di fronte ai compiti che Dio gli conferisce. Secondo la fede biblica è Dio che agisce nella storia della salvezza e i risultati sono da ascriversi solo a Lui e non alle capacità dell’uomo.
Dopo questa premessa Salomone formula la sua richiesta: Concedi al tuo servo un cuore docile, perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male; infatti chi può governare questo tuo popolo così numeroso?».
Il cuore è il centro della personalità, là dove si elaborano i sentimenti e le decisioni. Salomone chiede anzitutto un “cuore docile” (che sappia ascoltare) cioè la costante disposizione a compiere la volontà di Dio, contenuta nella legge (Dt 6,4; 17,17-19), e poi la capacità di distinguere il bene dal male. Solo così potrà “rendere giustizia” (giudicare, governare) un popolo numeroso, qual’è il popolo di Dio.
Salomone ha dunque capito che il governo di un popolo deve basarsi da una parte sull’obbedienza alla legge, che per Israele era parte integrante dell’alleanza con Dio, e dall’altra sulla capacità di applicarla alle situazioni concrete della vita (Pr 2,1-10).
La richiesta piacque al Signore che nella Sua risposta sottolinea anzitutto che Salomone avrebbe potuto chiedere una vita lunga, ricchezze, vittoria sui nemici; egli invece ha domandato il “discernimento nel giudicare”. Salomone non ha quindi dato importanza ai tre beni che stavano soprattutto a cuore ai governanti, ma ha chiesto la capacità di comportarsi sempre con giustizia nei confronti dei suoi sudditi.
Per questo Dio si impegna ad esaudire la richiesta di Salomone e a concedergli un “cuore saggio e intelligente” in una misura straordinaria, superiore a quella di chiunque è vissuto prima di lui e vivrà dopo di lui.
Nei versetti (13-14) non riportati dal brano liturgico, per dimostrare la Sua compiacenza Dio si impegna a donare a Salomone, oltre alla sapienza, anche i beni che egli non aveva chiesto, cioè ricchezza, onore e lunga vita, a condizione però che compia la volontà di Dio come ha fatto Davide suo padre. Gli sviluppi successivi del racconto proveranno che Dio gli ha veramente accordato non solo il dono della sapienza, ma anche tutti gli altri doni promessi. Tuttavia alla fine della sua vita Salomone si corromperà, provocando come castigo la divisione del regno (11,1-13).
La sapienza richiesta e ottenuta da Salomone mette l’uomo in sintonia con Dio, gli dà la possibilità di agire in Suo nome. Essa si manifesta nella ricerca del diritto e della giustizia. Non si tratta quindi di una facoltà solamente intellettuale, ma piuttosto di una virtù, che consiste nel saper mettere al primo posto gli interessi di Dio, che sono anche gli interessi veri di tutto il popolo.
Solo chi sa prendere una certa distanza da se stesso e guarda la realtà da un punto di vista superiore, è capace di vedere oggettivamente ciò che è bene e ciò che è male. Questa prospettiva è quella della fede, che per Israele aveva come punto di riferimento costante l’azione di Dio nella storia e le leggi che Egli ha dato al Suo popolo.
Salmo 118 Quanto amo la tua legge, Signore!
La mia parte è il Signore:
ho deciso di osservare le tue parole.
Bene per me è la legge della tua bocca,
più di mille pezzi d’oro e d’argento.
Il tuo amore sia la mia consolazione,
secondo la promessa fatta al tuo servo.
Venga a me la tua misericordia e io avrò vita,
perché la tua legge è la mia delizia.
Perciò amo i tuoi comandi,
più dell’oro, dell’oro più fino.
Per questo io considero retti tutti i tuoi precetti
e odio ogni falso sentiero.
Meravigliosi sono i tuoi insegnamenti:
per questo li custodisco.
La rivelazione delle tue parole illumina,
dona intelligenza ai semplici.
Questo salmo è il più lungo di tutto il salterio. E' un salmo alfabetico; ogni otto distici comincia con una delle 22 lettere dell'alfabeto, risultando così un totale di 176 distici. Come procedimento usa il metodo della variazione concettuale, cioè vengono usati diversi termini per designare la medesima cosa: la legge divina.
La legge per il salmista non sono solo i dieci comandamenti, ma tutte le grandi azioni di Dio per la liberazione del popolo dall'Egitto, la conquista della terra promessa, la liberazione da Babilonia ecc.: “i tuoi giudizi sono giusti".
Il salmo è stato probabilmente scritto poco prima della deportazione a Babilonia.
Vi compare un giovane, che si trova esposto alla pressione di coloro che in Israele hanno aderito agli idoli e sono capeggiati dal re. Il pio giovane è combattuto per la sua fedeltà alla legge; viene calunniato ingiustamente, fatto oggetto di umiliazioni, di stenti, di insulti: “Gli orgogliosi mi insultano aspramente,ma io non mi allontano dalla tua legge.”; “Si vergognino gli orgogliosi che mi opprimono con menzogne”; “E' tempo che tu agisca, Signore, hanno infranto la tua legge”; “Uno zelo ardente mi consuma, perché i miei avversari dimenticano le tue parole”. I suoi persecutori sono giunti fin quasi ad eliminarlo: “Per poco non mi hanno fatto sparire dalla terra”. “Mi hanno scavato fosse gli orgogliosi” Egli, nel suo disagio continuo, si ritiene un forestiero, un pellegrino: “Forestiero sono qui sulla terra”; “nella dimora del mio esilio”. Tuttavia il giovane forte dell'osservanza della legge, che gli dà luce, sapienza, saggezza, non teme e spera che il Signore lo aiuterà: “Quelli che ti temono al vedermi avranno gioia”; “Davanti ai re parlerò dei tuoi insegnamenti e non dovrò vergognarmi”. I re sono, oltre il re di Gerusalemme, quelli dei popoli vicini, e in particolare quelli di Assiria e Babilonia, nonché del faraone. Tutto ciò fa intendere che il giovane doveva avere una certa autorità, e si potrebbe formulare un'identificazione con un sacerdote del tempio legato al movimento profetico.
Il giovane riconosce di essere stato lontano per il passato dalla parola di Dio: “Prima di essere umiliato andavo errando, ma ora osservo la tua promessa”.
Il giovane Giudeo intende, di fronte alla pressione di coloro che hanno abbandonato la legge e lo deridono, confermarsi saldamente nell'obbedienza alla legge, e intende testimoniarlo davanti a tutti; per questo chiede aiuto a Dio: “Mai dimenticherò i tuoi precetti, perché con essi tu mi fai vivere.”; “Ho giurato e lo confermo, di osservare i tuoi giusti giudizi”; “Rendi saldi i miei passi secondo la tua promessa”; “Mi venga in aiuto la tua mano, perché ho scelto i tuoi precetti". "Mi sono perso come pecora smarrita; cerca il tuo servo: non ho dimenticato i tuoi comandi”.
Il salmista presenta la ricchezza della parola di Dio, della sua legge, dei suoi precetti.
Il salmo nella Liturgia delle ore è presentato spezzato seguendo le lettere alfabetiche.
Il salmo è ricchissimo di sfaccettature luminose sul tema dell'osservanza della parola di Dio.
La recitazione cristiana vede la legge nel compimento attuato da Cristo (Mt 5,17).
Commento di P. Paolo Berti
Dalla lettera di S.Paolo apostolo ai Romani
Fratelli, noi sappiamo che tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio, per coloro che sono stati chiamati secondo il suo disegno. Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto, li ha anche predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli; quelli poi che ha predestinato, li ha anche chiamati; quelli che ha chiamato, li ha anche giustificati; quelli che ha giustificato, li ha anche glorificati.
Rm 8,28-30
L’apostolo Paolo in questo brano della lettera ai Romani, dopo aver prima affermato che la preghiera del credente è ispirata dallo Spirito che risiede in lui, e perciò non può non essere esaudita, prosegue:” noi sappiamo che tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio, per coloro che sono stati chiamati secondo il suo disegno”, infatti proprio mediante il dono dello Spirito i credenti sono stati chiamati alla comunione con Dio, che rappresenta l’attuazione del Suo piano di salvezza.
La sicurezza dei credenti dunque si basa sulla presa di coscienza di quanto Dio ha fatto per loro, per questo Paolo ricorda che sono stati oggetto di un’iniziativa salvifica in forza della quale Dio li ha “predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio suo perché egli sia il primogenito tra molti fratelli;” e siccome li ha predestinati, Dio li ha anche “chiamati” e di conseguenza li ha giustificati e glorificati. (Anche in Ef 2,6, Col 2,12, Paolo considera come realtà già acquisita (verbi al passato) la resurrezione e il trionfo celeste dei cristiani che a volte esprimeva con verbi usati al futuro). Il processo della salvezza parte dunque da una atto libero e autonomo di Dio che decide di plasmare tutti gli esseri umani ad immagine del suo Figlio.
Il concetto di predestinazione, di cui Paolo si serve rivolgendosi a chi è già cristiano, non implica dunque una decisione divina che comporti l’esclusione di altri. Al contrario, l’apostolo se ne serve per mettere in luce la totale gratuità del dono che essi hanno ricevuto prima ancora che potessero anche lontanamente pensare di meritarlo con le proprie opere. E proprio perché si tratta di un dono gratuito, esso non può essere che universale. Da esso il peccatore è escluso non per volontà di Dio, bensì per un rifiuto personale. Paolo non affronta ora questo tema scottante, lasciando così aperto il mistero del piano salvifico di Dio, che si scontra con la libertà umana ma non può essere da essa minimamente condizionato.
Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli:
«Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo.
Il regno dei cieli è simile anche a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra.
Ancora, il regno dei cieli è simile a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci. Quando è piena, i pescatori la tirano a riva, si mettono a sedere, raccolgono i pesci buoni nei canestri e buttano via i cattivi. Così sarà alla fine del mondo. Verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti.
Avete compreso tutte queste cose?». Gli risposero: «Sì». Ed egli disse loro: «Per questo ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche».
Mt 13, 44-52
Questo brano del Vangelo di Matteo fa da conclusione al discorso di Gesù sul mistero del Regno dei cieli con la presentazione ancora di tre parabole, che sommate a quelle dei vangeli delle precedenti domeniche, raggiungono il numero di sette, numero che nel linguaggio biblico allude al senso della pienezza.
Il tesoro nascosto e la perla preziosa sono due parabole molto simili e, come quelle del grano di senapa e del lievito, propongono sostanzialmente lo stesso insegnamento. Mentre nelle due precedenti i protagonisti erano un uomo e una donna, qui si tratta di un contadino e di un facoltoso commerciante. Nella prima si tratta di un tesoro scoperto casualmente nel campo da un contadino, forse un salariato o un lavoratore a giornata. Per potersene impossessare egli deve comperare il campo in cui si trova il tesoro e a tale scopo è costretto a vendere tutto quello che ha. Viene sottolineata la sua sollecitudine per venire in possesso del tesoro e messo in risalto la gioia nell’aver realizzato il suo desiderio. Nella parabola della perla preziosa c’è invece un commerciante di perle che, avendo trovato una perla molto preziosa, vende tutti i suoi averi e la compra. Così facendo rinunzia anch’egli a tutta una serie di beni materiali per poter avere qualcosa che egli considera più grande e prezioso.
L’ultima parabola, quella della rete gettata in mare si rifà all’esperienza della pesca, professione molto usuale sulle rive del lago di Galilea. Questa volta il regno dei cieli è paragonato a una rete gettata in acqua che raccoglie ogni tipo di pesci. Alla fine della pesca il pescatore separa i pesci buoni da quelli cattivi. (Nel lago di Galilea vivevano diverse specie di pesci, di alcuni il consumo era vietato dalla Legge, perché privi di pinne e di squame e perciò considerati impuri (Lv 11,10)).
Al termine del discorso Gesù chiede: “Avete compreso tutte queste cose?” Dalla risposta positiva appare che l’insegnamento di Gesù sia stato compreso dai discepoli. Perciò Gesù soggiunge: «Per questo ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche.
La domanda che Gesù pone fa pensare che neanche Lui considera scontata la sua comprensione e quindi non dobbiamo considerarla scontata anche noi. Occorre rifletterci a lungo, come chi usa tutto il tempo e le risorse per trovare il tesoro, la perla rara e preziosa. Gesù invita anche noi oggi ad essere come uno scriba, uno che legge e studia, per maturare un discepolato serio e motivato, non basato su emozioni o facili entusiasmi. Allora si diventa "simile a un padrone di casa", non uno schiavo o dipendente, ma un uomo libero, “ che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche”, che ha in sé valori e tradizioni, ma che è anche aperto alle novità di Gesù e di un Dio che tutti i giorni non si stanca mai di fare progetti, suscitare vocazioni, idee nuove.
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Da Papa Francesco:
"Le brevi similitudini proposte dall’odierna liturgia sono la conclusione del capitolo del Vangelo di Matteo dedicato alle parabole del Regno di Dio. Tra queste ci sono due piccoli capolavori: le parabole del tesoro nascosto nel campo e della perla di grande valore. Esse ci dicono che la scoperta del Regno di Dio può avvenire improvvisamente come per il contadino che arando, trova il tesoro insperato; oppure dopo lunga ricerca, come per il mercante di perle, che finalmente trova la perla preziosissima da tempo sognata. Ma in un caso e nell’altro resta il dato primario che il tesoro e la perla valgono più di tutti gli altri beni, e pertanto il contadino e il mercante, quando li trovano, rinunciano a tutto il resto per poterli acquistare. Non hanno bisogno di fare ragionamenti, o di pensarci, di riflettere: si accorgono subito del valore incomparabile di ciò che hanno trovato, e sono disposti a perdere tutto pur di averlo.
Così è per il Regno di Dio: chi lo trova non ha dubbi, sente che è quello che cercava, che attendeva e che risponde alle sue aspirazioni più autentiche. Ed è veramente così: chi conosce Gesù, chi lo incontra personalmente, rimane affascinato, attratto da tanta bontà, tanta verità, tanta bellezza, e tutto in una grande umiltà e semplicità. Cercare Gesù, incontrare Gesù: questo è il grande tesoro!
Quante persone, quanti santi e sante, leggendo con cuore aperto il Vangelo, sono stati talmente colpiti da Gesù, da convertirsi a Lui. Pensiamo a san Francesco di Assisi: lui era già un cristiano, ma un cristiano “all’acqua di rose”. Quando lesse il Vangelo, in un momento decisivo della sua giovinezza, incontrò Gesù e scoprì il Regno di Dio, e allora tutti i suoi sogni di gloria terrena svanirono. Il Vangelo ti fa conoscere Gesù vero, ti fa conoscere Gesù vivo; ti parla al cuore e ti cambia la vita. E allora sì, lasci tutto. Puoi cambiare effettivamente tipo di vita, oppure continuare a fare quello che facevi prima ma tu sei un altro, sei rinato: hai trovato ciò che dà senso, ciò che dà sapore, che dà luce a tutto, anche alle fatiche, anche alle sofferenze e anche alla morte.
Leggere il Vangelo. Leggere il Vangelo. Ne abbiamo parlato, ricordate? Ogni giorno leggere un passo del Vangelo; e anche portare un piccolo Vangelo con noi, nella tasca, nella borsa, comunque a portata di mano. E lì, leggendo un passo, troveremo Gesù. Tutto acquista senso quando lì, nel Vangelo, trovi questo tesoro, che Gesù chiama “il Regno di Dio”, cioè Dio che regna nella tua vita, nella nostra vita; Dio che è amore, pace e gioia in ogni uomo e in tutti gli uomini. Questo è ciò che Dio vuole, è ciò per cui Gesù ha donato sé stesso fino a morire su una croce, per liberarci dal potere delle tenebre e trasferirci nel regno della vita, della bellezza, della bontà, della gioia. Leggere il Vangelo è trovare Gesù e avere questa gioia cristiana, che è un dono dello Spirito Santo."
(Parte dell’Angelus 27 luglio 2014)
E’ luogo comune catalogare in quattro rapporti fondamentali le difficoltà che condizionano la vita dell’uomo:
- rapporto con se stessi, con il proprio corpo che, quando si “complica” diventa, per motivi fisici o psichici, in senso lato, malattia;
- rapporto con le cose, con la società e con i beni materiali che, anche se per cause accidentali, può “peggiorare” e diventare povertà;
- rapporto con Dio e con il prossimo che, se si” interrompe” diventa peccato;
- rapporto con la natura che quando “degenera” diventa causa di catastrofi, carestie, desertificazioni, inquinamenti… che hanno come conseguenze malattie, povertà e ribellioni.
Malati, poveri e peccatori sono le tre categorie di persone predilette da Gesù. Lo dice espressamente rispondendo ai discepoli del Battista: «Andate a riferire a Giovanni ciò che udite e vedete: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano e ai poveri è annunciato il Vangelo.» (Mt 11,4-5)
Dio non ha creato la malattia ma essa è entrata nel mondo in conseguenza del peccato originale e, prima o poi, tocca tutti. La scienza ha tentato e tenta di curarla e, per alcune patologie, vi è anche riuscita ma non è mai riuscita a dare una spiegazione ed un senso al dolore ed alla sofferenza. Nemmeno Gesù, Dio diventato uomo, ha spiegato il dolore, anzi, lo ha vissuto fino alla drammaticità della morte.
Gesù però si prodiga in tutti i modi per alleviare la sofferenza e lo dimostrano i numerosi miracoli di guarigione narrati dai Vangeli. Gesù si avvicina ai malati, parla con loro, li tocca, non teme né il contagio né l’impurità e soprattutto non li esorta alla pazienza e alla rassegnazione ma “agisce” subito, come con il Centurione al quale dice: «Verrò e lo guarirò.» (Mt 8,7)
Gesù poi considera il malato una persona nella sua totalità infatti non solo lo risana ma gli perdona i peccati: è medico del corpo e dello spirito.
Le letture che la liturgia di questa domenica ci propone, ci aiutano a capire come Dio sia paziente e giusto e che il regno dei cieli instaurato da Gesù non s’impone con la forza, ma con un’attenzione attiva ai segni dei tempi che puntualmente faranno la loro comparsa.
Nella prima lettura, tratta dal Libro della Sapienza, Dio viene presentato come il grande paziente, che ha nelle mani la forza e il potere, ma attende che i peccatori si pentano perchè vuole salvarli.
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera ai Romani, San Paolo afferma che alla nostra preghiera, talvolta vuota, viene in aiuto lo Spirito, Egli è realmente in noi: prega dentro di noi e ci suggerisce le parole da rivolgere al Padre.
Nel Vangelo di Matteo troviamo una infinità di parabole: chicchi di senape e di frumento, erbe buone e maligne, terra scavata per nascondere un tesori, falò dove si brucia la zizzania, e i relativi personaggi umani: il seminatore e il contadino suo nemico, i servi e il padrone della fattoria. Gesù, servendosi di questi paragoni ci fa crescere nella fede per farci capire che Dio non interviene subito, in modo clamoroso, nella storia dell’uomo. Egli è paziente e sa aspettare. Il Regno cresce a poco a poco in silenzio e con efficacia.
Dal libro della Sapienza
Non c’è Dio fuori di te, che abbia cura di tutte le cose,
perché tu debba difenderti dall’accusa di giudice ingiusto.
La tua forza infatti è il principio della giustizia,
e il fatto che sei padrone di tutti, ti rende indulgente con tutti.
Mostri la tua forza
quando non si crede nella pienezza del tuo potere,
e rigetti l’insolenza di coloro che pur la conoscono.
Padrone della forza, tu giudichi con mitezza
e ci governi con molta indulgenza,
perché, quando vuoi, tu eserciti il potere.
Con tale modo di agire hai insegnato al tuo popolo
che il giusto deve amare gli uomini,
e hai dato ai tuoi figli la buona speranza
che, dopo i peccati, tu concedi il pentimento.
Sap 12,13,16-19
Il libro della Sapienza si presenta come opera del re Salomone, ma è un evidente espediente letterario, perché è stato scritto da un pio giudeo di lingua greca, sicuro conoscitore del mondo ellenistico, che viveva in Alessandria d’Egitto tra il 120-80 a.C.
E’ il più recente dei libri dell’Antico Testamento e il suo autore si rivolge ai suoi correligionari che vivevano in ambiente greco, per convincerli della superiorità della sapienza ebraica, ispirata da Dio e concretamente espressa nella Legge che governa il popolo eletto, sulla filosofia e la vita pagana.
Nelle sue grandi linee, il libro espone le vie della sapienza opposte alla via degli empi, la sapienza in se stessa come realtà divina, le opere della sapienza divina nella storia di Israele.
In quest’opera, la dottrina biblica sulla sapienza raggiunge gli ultimi sviluppi ed è come il sintomo dell’insegnamento del Nuovo Testamento sulla grazia; a sua volta il Nuovo Testamento aiuta a capire la dottrina dell’antico sulla sapienza.
La speranza beata nell’aldilà è espressa con rara chiarezza, illuminando il problema dell’umano destino. E’ l’ultimo passo verso la rivelazione cristiana: Cristo, sapienza di Dio incarnata tra gli uomini, è la fonte della vita e della felicità eterna.
Questo spiega l’influsso che il libro ha esercitato nella cristologia di Giovanni e di Paolo…
Il brano che la Liturgia ci propone, indirizzato in particolare ai Giudei della diaspora, che si chiedevano perché Dio non intervenisse a distruggere gli idolatri, è una riflessione sul comportamento di Dio attraverso gli avvenimenti della storia. Dobbiamo fare nostro l'atteggiamento di Dio che con la sua indulgenza ci insegna ad amare il prossimo, con l'apertura al perdono, alla fiducia e all'indulgenza
Salmo 85: Tu sei buono, Signore, e perdoni.
Tu sei buono, Signore, e perdoni,
sei pieno di misericordia con chi t’invoca.
Porgi l’orecchio, Signore, alla mia preghiera
e sii attento alla voce delle mie suppliche.
Tutte le genti che hai creato verranno
e si prostreranno davanti a te, Signore,
per dare gloria al tuo nome.
Grande tu sei e compi meraviglie:
tu solo sei Dio.
Ma tu, Signore, Dio misericordioso e pietoso,
lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà,
volgiti a me e abbi pietà.
Al centro Il salmo è stato scritto da un pio Giudeo che resiste intrepido di fronte alla pressione di nemici arroganti e violenti che si gloriano dei loro dei. L'epoca della composizione del salmo è probabilmente quella che precedette la grande reazione dei Maccabei contro la pressione ellenistica.
Il salmista si presenta “povero e misero”, alla ricerca di una via per organizzarsi, per difendersi, e camminare così nella verità in quella situazione nella quale si sente messo al bando. Questa via la chiede a Dio, che già la conosce: “Mostrami, Signore, la tua via, perché nella tua verità io cammini”.
Di fronte agli dei pagani il salmista dichiara che nessuno di loro regge al confronto con Jahvéh: “Fra gli dei nessuno è come te, Signore, e non c'è nulla come le tue opere”; ma non solo afferma la supremazia di Dio, afferma anche l'unicità di Dio: “Tu solo sei Dio”. Gli dei pagani sono inesistenti, sono il prodotto dei vaneggiamenti umani e, pur senza dichiararlo esplicitamente, il salmista fa intendere come all'ombra delle concezioni pagane del divino strisci il serpente ingannatore, autore di prodigi, che però non reggono di fronte allo splendore di quelli di Dio: “Non c'è nulla come le tue opere”. I prodigi dei maghi d'Egitto furono un nulla rispetto al dispiegarsi della potenza di Dio (Cf. Es 15,11).
Il salmista afferma che il tempo in cui tutti i popoli della terra riconosceranno Dio verrà: “Tutti i popoli che hai creato verranno e si prostreranno davanti a te Signore, per dare gloria al tuo nome”.
Nel pericolo il salmista chiede a Dio di non cadere in dissipazioni: “tieni unito il mio cuore, perché tema il tuo nome”, con ciò avrà una lode autentica, espressa “con tutto il cuore”. Egli si presenta a Dio ringraziandolo per la misericordia che gli ha accordato quando era ormai senza speranza di vita: “dal profondo degli inferi”.
L'assalto degli arroganti è incessante, ma il salmista si rifugia in Dio, che è “Dio misericordioso e pietoso, lento all'ira e ricco di amore e di fedeltà”. Egli ha trovato pace e forza nella fiducia in Dio, propria di un cuore semplice che teme Dio.
Commento di P.Paolo Berti
Dalla lettera di S.Paolo apostolo ai Romani
Fratelli, lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza; non sappiamo infatti come pregare in modo conveniente, ma lo Spirito stesso intercede con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa che cosa desidera lo Spirito, perché egli intercede per i santi secondo i disegni di Dio.
Rm 8,26-27
L’Apostolo Paolo, continuando la sua lettera ai Romani, dopo aver mostrato nella parte precedente come la giustificazione mediante la fede, abbia aperto la strada a una vita nuova, ora sviluppa alcune intuizioni, che aveva già anticipato precedentemente. Nel capitolo 8 l’apostolo mostra anzitutto come sia ormai lo Spirito a guidare l’uomo giustificato (vv. 1-13) e prosegue mettendo in luce come lo Spirito stesso trasformi intimamente non solo il credente ma anche tutto l’universo.
Nel versetto precedente del brano liturgico Paolo aveva parlato della speranza come attesa perseverante delle cose promesse, che ancora non sono oggetto di esperienza. Proprio in questo campo si rivela però tutta la debolezza dei credenti, Paolo infatti afferma: “non sappiamo infatti come pregare in modo conveniente” Chi prega, per essere esaudito, deve presentare a Dio richieste che siano conformi alla Sua volontà, ma se non si sa che cosa chiedere la preghiera viene privata di efficacia perché rischia di imporre a Dio qualcosa che Egli non è disposto a conferire. Per pregare efficacemente è quindi necessario sapere prima che cosa Dio è disposto a dare, ma proprio questo non è una facoltà dell’uomo. Quello che i credenti da soli non possono raggiungere viene loro conferito da Dio mediante lo Spirito, “che intercede con gemiti inesprimibili”. Lo Spirito non può non conoscere ciò che Dio vuole, perché forma con Lui un’unica cosa. perciò viene incontro ai credenti in quanto non solo suggerisce loro ciò che devono chiedere a Dio, ma Lui stesso, presente nei loro cuori, prega per loro e in loro usando un linguaggio che è sconosciuto agli esseri umani. La presenza dello Spirito è percepibile ai credenti in quanto si identifica con lo Spirito di Gesù, cioè la forza e il fascino che promanano dalla Sua predicazione e da tutta la Sua vita. La preghiera ispirata e guidata dallo Spirito perciò ha tutte le garanzie di essere esaudita perché “Egli che scruta i cuori sa che cosa desidera lo Spirito, perché egli intercede per i santi secondo i disegni di Dio.”
Dio non si ferma alle apparenze: Egli è l’unico in grado di scrutare i cuori (Sal 139,1; Ger 12,3; 1Cr 29,17), cioè di vedere quali sono veramente i pensieri e le scelte profonde dell’uomo. Guardando l’intimo dei cuori, Dio vede se in essi vi siano veramente i desideri, cioè il modo di pensare e di agire suggerito dallo Spirito. In questo caso è lo Spirito stesso che intercede per i credenti “secondo i disegni di Dio”, cioè in sintonia con i Suoi disegni e la Sua volontà. In altre parole una preghiera autentica non può scaturire se non da un cuore immerso in Dio e nel Suo piano di salvezza che riguarda tutta l’umanità. Ciò avviene nella misura in cui il credente fa proprio lo Spirito di Gesù, la Sua mentalità, il Suo modo di pensare. In lui è lo Spirito di Gesù che rivolge al Padre una preghiera che non può non essere esaudita.
Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù espose alla folla un’altra parabola, dicendo:
«Il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. Ma, mentre tutti dormivano, venne il suo nemico, seminò della zizzania in mezzo al grano e se ne andò. Quando poi lo stelo crebbe e fece frutto, spuntò anche la zizzania. Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: “Signore, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene la zizzania?”. Ed egli rispose loro: “Un nemico ha fatto questo!”. E i servi gli dissero: “Vuoi che andiamo a raccoglierla?”. “No, rispose, perché non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Raccogliete prima la zizzania e legatela in fasci per bruciarla; il grano invece riponètelo nel mio granaio”».
Espose loro un’altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un granello di senape, che un uomo prese e seminò nel suo campo. Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande delle altre piante dell’orto e diventa un albero, tanto che gli uccelli del cielo vengono a fare il nido fra i suoi rami».
Disse loro un’altra parabola: «Il regno dei cieli è simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata».
Tutte queste cose Gesù disse alle folle con parabole e non parlava ad esse se non con parabole, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta: «Aprirò la mia bocca con parabole, proclamerò cose nascoste fin dalla fondazione del mondo».
Poi congedò la folla ed entrò in casa; i suoi discepoli gli si avvicinarono per dirgli: «Spiegaci la parabola della zizzania nel campo». Ed egli rispose: «Colui che semina il buon seme è il Figlio dell’uomo. Il campo è il mondo e il seme buono sono i figli del Regno. La zizzania sono i figli del Maligno e il nemico che l’ha seminata è il diavolo. La mietitura è la fine del mondo e i mietitori sono gli angeli. Come dunque si raccoglie la zizzania e la si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo. Il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti quelli che commettono iniquità e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti. Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro. Chi ha orecchi, ascolti!».
Mt 13, 24-43
L’Evangelista Matteo ci presenta la stessa ambientazione di domenica scorsa: Gesù è salito su di una barca e parla alla folla in parabole. Dopo aver riportato la parabola del seminatore e la rispettiva spiegazione, ora Gesù espone la parabola della zizzania, del granello di senape, e del lievito. Ed inizia così: «Il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo…
Nella prima parabola si possono distinguere tre momenti: un proprietario terriero fa seminare del buon grano nel suo campo ma successivamente un suo avversario semina nel campo della zizzania; i servi, che si sono accorti di quanto è accaduto, chiedono al padrone di poter eliminare subito la zizzania; il padrone invece dice di aspettare e di lasciar crescere insieme il buon grano e la zizzania per evitare che, togliendo questa, si danneggi anche quello; la separazione è rimandata al momento della mietitura
Anche in questa parabola si tratta della sorte del seme. Mentre in quella del seminatore la buona riuscita del raccolto viene messa a rischio dai terreni non adatti, ora l’ostacolo è la zizzania che un nemico semina in tutto il campo, proprio in mezzo al buon grano. La zizzania è in effetti un’erbaccia le cui radici, nella crescita, si intrecciano con quelle del frumento e quindi non può essere estirpata senza danneggiarlo; per questo il padrone decide di attendere la mietitura per procedere alla separazione. Il punto centrale della parabola consiste dunque nel fatto che il buon grano, pur dovendo coesistere con la zizzania, non ne viene condizionato e al momento della mietitura può essere raccolto e depositato nel granaio.
L’applicazione al regno di Dio è chiara. Gesù rivolgeva la Sua parola a tutti, compresi i peccatori, e attraverso la Sua azione, era Dio stesso che spargeva il buon seme nel cuore degli uomini. Ma non tutti accoglievano il Suo messaggio: una parte degli ascoltatori si rifiutava di convertirsi. Per i buoni c’era dunque la tentazione di separarsi e di formare un gruppo chiuso, una comunità di puri, come facevano per esempio i farisei e gli esseni di Qumran. Gesù invece esige che i Suoi discepoli vivano insieme ai malvagi, condividendo i momenti ordinari della vita. La parabola poteva anche significare che anche all’interno del gruppo di Gesù erano presenti persone ben intenzionate e altre ancora incerte legate a interessi diversi da quelli del regno: la presenza tra queste di Giuda ne sarà il segno più evidente.
Sulla bocca di Gesù, rimproverato spesso dagli avversari per la Sua tolleranza verso i peccatori, il racconto rappresentava un messaggio di fiducia: la potenza del male non sarà mai tale da rendere vana l’opera di Dio in questo mondo.
Anche le altre parabole che Gesù propone iniziano con questa espressione: «Il regno dei cieli è simile a un granello di senape, …. «Il regno dei cieli è simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina… ”
Il punto centrale di entrambe è dato dal contrasto tra un inizio modesto e un finale straordinario e grandioso. Tra esse la diversità più significativa consiste nel fatto che la prima si riferisce al lavoro dell’uomo, la seconda a quello della donna.
Nella parabola del granello di senape si sottolinea il contrasto tra la piccolezza del seme di senape e la grandezza della pianta che ne deriva. Il seme si riferisce alla predicazione e all’attività pubblica di Gesù, che sembravano infruttuose. Egli invita chi lo ascolta ad aver fiducia nella Sua opera, nonostante il suo apparente insuccesso, perché in essa è già presente e operante il regno dei cieli. Il dettaglio degli uccelli che si rifugiano nei rami del grande albero stanno a significare la totalità dei popoli che un giorno entrerà a far parte del regno di Dio (Ez 17,23; 31,6; Dn 4,9.18). Si allude così al pellegrinaggio delle genti verso la Città Santa, predetto dai profeti (V. Mt 8,11-12).
L’Evangelista Matteo ci presenta la stessa ambientazione di domenica scorsa: Gesù è salito su di una barca e parla alla folla in parabole. Dopo aver riportato la parabola del seminatore e la rispettiva spiegazione, ora Gesù espone la parabola della zizzania, del granello di senape, e del lievito. Ed inizia così: «Il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo…
Nella prima parabola si possono distinguere tre momenti: un proprietario terriero fa seminare del buon grano nel suo campo ma successivamente un suo avversario semina nel campo della zizzania; i servi, che si sono accorti di quanto è accaduto, chiedono al padrone di poter eliminare subito la zizzania; il padrone invece dice di aspettare e di lasciar crescere insieme il buon grano e la zizzania per evitare che, togliendo questa, si danneggi anche quello; la separazione è rimandata al momento della mietitura
Anche in questa parabola si tratta della sorte del seme. Mentre in quella del seminatore la buona riuscita del raccolto viene messa a rischio dai terreni non adatti, ora l’ostacolo è la zizzania che un nemico semina in tutto il campo, proprio in mezzo al buon grano. La zizzania è in effetti un’erbaccia le cui radici, nella crescita, si intrecciano con quelle del frumento e quindi non può essere estirpata senza danneggiarlo; per questo il padrone decide di attendere la mietitura per procedere alla separazione. Il punto centrale della parabola consiste dunque nel fatto che il buon grano, pur dovendo coesistere con la zizzania, non ne viene condizionato e al momento della mietitura può essere raccolto e depositato nel granaio.
L’applicazione al regno di Dio è chiara. Gesù rivolgeva la Sua parola a tutti, compresi i peccatori, e attraverso la Sua azione, era Dio stesso che spargeva il buon seme nel cuore degli uomini. Ma non tutti accoglievano il Suo messaggio: una parte degli ascoltatori si rifiutava di convertirsi. Per i buoni c’era dunque la tentazione di separarsi e di formare un gruppo chiuso, una comunità di puri, come facevano per esempio i farisei e gli esseni di Qumran. Gesù invece esige che i Suoi discepoli vivano insieme ai malvagi, condividendo i momenti ordinari della vita. La parabola poteva anche significare che anche all’interno del gruppo di Gesù erano presenti persone ben intenzionate e altre ancora incerte legate a interessi diversi da quelli del regno: la presenza tra queste di Giuda ne sarà il segno più evidente.
Sulla bocca di Gesù, rimproverato spesso dagli avversari per la Sua tolleranza verso i peccatori, il racconto rappresentava un messaggio di fiducia: la potenza del male non sarà mai tale da rendere vana l’opera di Dio in questo mondo.
Anche le altre parabole che Gesù propone iniziano con questa espressione: «Il regno dei cieli è simile a un granello di senape, …. «Il regno dei cieli è simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina… ” Il punto centrale di entrambe è dato dal contrasto tra un inizio modesto e un finale straordinario e grandioso. Tra esse la diversità più significativa consiste nel fatto che la prima si riferisce al lavoro dell’uomo, la seconda a quello della donna.
Nella parabola del granello di senape si sottolinea il contrasto tra la piccolezza del seme di senape e la grandezza della pianta che ne deriva. Il seme si riferisce alla predicazione e all’attività pubblica di Gesù, che sembravano infruttuose. Egli invita chi lo ascolta ad aver fiducia nella Sua opera, nonostante il suo apparente insuccesso, perché in essa è già presente e operante il regno dei cieli. Il dettaglio degli uccelli che si rifugiano nei rami del grande albero stanno a significare la totalità dei popoli che un giorno entrerà a far parte del regno di Dio (Ez 17,23; 31,6; Dn 4,9.18). Si allude così al pellegrinaggio delle genti verso la Città Santa, predetto dai profeti (V. Mt 8,11-12).
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Da Papa Francesco:
"In queste domeniche la liturgia propone alcune parabole evangeliche, cioè brevi narrazioni che Gesù utilizzava per annunciare alle folle il Regno dei cieli. Tra quelle presenti nel Vangelo di oggi, ce n’è una piuttosto complessa, di cui Gesù fornisce ai discepoli la spiegazione: è quella del buon grano e della zizzania, che affronta il problema del male nel mondo e mette in risalto la pazienza di Dio.
La scena si svolge in un campo dove il padrone semina il grano; ma una notte arriva il nemico e semina la zizzania, termine che in ebraico deriva dalla stessa radice del nome “Satana” e richiama il concetto di divisione. Tutti sappiamo che il demonio è uno “zizzaniatore”, colui che cerca sempre di dividere le persone, le famiglie, le nazioni e i popoli. I servitori vorrebbero subito strappare l’erba cattiva, ma il padrone lo impedisce con questa motivazione: «Perché non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano». Perché sappiamo tutti che la zizzania, quando cresce, assomiglia tanto al grano buono, e vi è il pericolo che si confondano.
L’insegnamento della parabola è duplice. Anzitutto dice che il male che c’è nel mondo non proviene da Dio, ma dal suo nemico, il Maligno. È curioso, il maligno va di notte a seminare la zizzania, nel buio, nella confusione; lui va dove non c’è luce per seminare la zizzania. Questo nemico è astuto: ha seminato il male in mezzo al bene, così che è impossibile a noi uomini separarli nettamente; ma Dio, alla fine, potrà farlo.
E qui veniamo al secondo tema: la contrapposizione tra l’impazienza dei servi e la paziente attesa del proprietario del campo, che rappresenta Dio. Noi a volte abbiamo una gran fretta di giudicare, classificare, mettere di qua i buoni, di là i cattivi… Ma ricordatevi la preghiera di quell’uomo superbo: “O Dio, ti ringrazio perché io sono buono, non sono non sono come gli altri uomini, cattivi….” (Lc 18,11-12). Dio invece sa aspettare. Egli guarda nel “campo” della vita di ogni persona con pazienza e misericordia: vede molto meglio di noi la sporcizia e il male, ma vede anche i germi del bene e attende con fiducia che maturino. Dio è paziente, sa aspettare. Che bello questo: il nostro Dio è un padre paziente, che ci aspetta sempre e ci aspetta con il cuore in mano per accoglierci, per perdonarci. Egli sempre ci perdona se andiamo da Lui.
L’atteggiamento del padrone è quello della speranza fondata sulla certezza che il male non ha né la prima né l’ultima parola. Ed è grazie a questa paziente speranza di Dio che la stessa zizzania, cioè il cuore cattivo con tanti peccati, alla fine può diventare buon grano. Ma attenzione: la pazienza evangelica non è indifferenza al male; non si può fare confusione tra bene e male! Di fronte alla zizzania presente nel mondo il discepolo del Signore è chiamato a imitare la pazienza di Dio, alimentare la speranza con il sostegno di una incrollabile fiducia nella vittoria finale del bene, cioè di Dio.
Alla fine, infatti, il male sarà tolto ed eliminato: al tempo della mietitura, cioè del giudizio, i mietitori eseguiranno l’ordine del padrone separando la zizzania per bruciarla . In quel giorno della mietitura finale il giudice sarà Gesù, Colui che ha seminato il buon grano nel mondo e che è diventato Lui stesso “chicco di grano”, è morto ed è risorto. Alla fine saremo tutti giudicati con lo stesso metro con cui abbiamo giudicato: la misericordia che avremo usato verso gli altri sarà usata anche con noi. Chiediamo alla Madonna, nostra Madre, di aiutarci a crescere nella pazienza, nella speranza e nella misericordia con tutti i fratelli."
(Parte dell’Angelus 20 luglio 2014)
L'umanità è una grande e immensa famiglia ... Troviamo la dimostrazione di ciò da quello che ci sentiamo nei nostri cuori a Natale.
(Papa Giovanni XXIII)