1. Mercoledì, 14 giugno, alle ore 20:00, si terrà l’incontro del Consiglio di Pastorale Parrocchiale, in chiesa, presieduto dal Vescovo di settore, Monsignor Baldo Reina, che è anche Vice-gerente della Diocesi di Roma.
2. Lunedì, 12 giugno, alle ore 08:00, avviamo l’oratorio estivo 2023.
3. L’orario estivo delle messe si riprenderà nella prima domenica di Luglio, 02-07-2023.
La festa del Corpus Domini, più propriamente chiamata solennità del santissimo Corpo e Sangue di Cristo, è una delle principali solennità dell'anno liturgico e la celebrazione, che chiudendo il ciclo delle feste del dopo Pasqua, vuole celebrare il mistero dell'Eucaristia. Questa festa è stata istituita nel lontano 11 agosto 1264, a seguito del miracolo eucaristico di Bolsena, da Papa Urbano IV, con la promulgazione della bolla “Transiturus de hoc mundo”.. Nello stesso anno il papa conferì l'incarico di scrivere l'officio per la solennità e per la relativa Messa a Tommaso d’Aquino, che compose, fra l'altro, il celebre inno eucaristico “Pange lingua”, le cui ultime due strofe (note come Tantum Ergo Sacramentum), sono attualmente cantate dai fedeli al termine di ogni celebrazione liturgica che si concluda con la benedizione eucaristica.
Nella prima lettura, tratta dal Libro del Deuteronomio, leggiamo che Dio ha messo alla prova Israele nel deserto, ma non lo ha abbandonato. La manna e l’acqua che sprizza dalla rupe durissima e arida per dissetare i figli d’Israele, sono segni della parola che “esce dalla bocca del Signore”.
Nella seconda lettura, tratta dalla prima lettera ai Corinzi, San Paolo raccogliendo le dichiarazioni di Gesù a Cafarnao, formula in modo chiaro e limpido il senso di ogni celebrazione eucaristica.
Nel Vangelo di Giovanni viene riportato il discorso tenuto da Gesù a Cafarnao davanti ad un gruppo di ebrei allibiti: …Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Attraverso l’eucaristia il credente entra in comunione col Cristo, è strappato al suo destino di morte ed inserito nel mistero della vita divina.
Dal libro del Deuteronomio
Mosè parlò al popolo dicendo:
«Ricòrdati di tutto il cammino che il Signore, tuo Dio, ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore, se tu avresti osservato o no i suoi comandi.
Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore.
Non dimenticare il Signore, tuo Dio, che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile; che ti ha condotto per questo deserto grande e spaventoso, luogo di serpenti velenosi e di scorpioni, terra assetata, senz’acqua; che ha fatto sgorgare per te l’acqua dalla roccia durissima; che nel deserto ti ha nutrito di manna sconosciuta ai tuoi padri».
Dt. 8,2-3.14b-16
Il Deuteronomio è il quinto e ultimo libro del Pentateuco e ha la funzione di concludere la storia delle origini di Israele, e di fornire una sintesi delle tradizioni di fede contenute nella Torah. È stato scritto in ebraico e, secondo l'ipotesi condivisa da molti studiosi, la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea , sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte È composto da 34 capitoli descriventi la storia degli Ebrei durante il loro soggiorno nel deserto del Sinai (circa 1200 a.C.) e contiene varie leggi religiose e sociali.
Dopo la Prima Legge, data da Dio sul Sinai, il Deuteronomio (Deuteros nomos) si presenta come la "Seconda Legge", la nuova Legge che Mosè consegna al popolo poco prima di morire e invita a tradurre l'amore per Dio nella vita sociale e familiare, non limitandosi dunque allo stretto compimento della Legge.
E’ uno dei libri più intensi di tutto l’Antico Testamento, e presenta una lettura teologica della storia del popolo eletto: Mosè, prima di morire, ricorda a Israele gli avvenimenti passati, mostrando come essi facciano parte di una economia salvifica che ha come punti centrali la promessa ai Padri, l’elezione d’Israele fra tutti i popoli della terra e l’alleanza sinaitica. Questa consapevolezza di appartenere a Dio, privilegio unico ed esclusivo, fa nascere nel popolo l’esigenza di una risposta decisa e libera a favore di Dio e della Sua legge.
Il brano che abbiamo inizia con un invito pressante rivolto da Mosè al popolo di Israele che si trova nelle steppe di Moab, pronto ad attraversare il Giordano e ad entrare nella terra promessa: “Ricordati di tutto il cammino …”La generazione uscita dall’Egitto è ormai scomparsa e davanti a Mosè si trovano soltanto quelli che sono nati nel deserto e che hanno fatto l’esperienza delle sofferenze che comportava il muoversi continuamente in un territorio inospitale. In realtà il discorso è rivolto a coloro che già si trovano nella terra di Canaan e rischiano di dimenticare le difficoltà che i loro progenitori hanno dovuto superare prima di prenderne possesso. Mosè attribuisce queste sofferenze a un’esplicita decisione di Dio, il quale anzitutto voleva non tanto “umiliare”, quanto, rendere umile” il popolo, spezzare il loro orgoglio e la loro presunzione di credere di poter attuare da soli la propria liberazione. Le difficoltà incontrate erano dunque un mezzo predisposto da Dio per verificare se essi in tali circostanze avrebbero avuto fiducia in Lui, senza lamentarsi e senza rimpiangere ”i comodi” che la schiavitù in Egitto forniva.
Nel versetto successivo si riprende lo stesso tema specificando meglio come Dio si è comportato con Israele: “Egli dunque ti ha umiliato, …. , ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore”. La manna e l’acqua che sprizza dalla rupe durissima e arida per dissetare i figli di Israele sono segni della parola che esce dalla bocca del Signore. Senza questo cibo l’uomo si svuota interiormente e si irrigidisce nella morte dell’indifferenza e della superficialità. La manna è quindi il simbolo della parola di Dio e mangiare la manna significa essere aperti alla parola di Dio, essere disposti a osservarla, fidarsi di Lui e delle benedizioni contenute nell’alleanza. Nella manna è dunque simboleggiata la forza che Dio dà a chi crede in Lui, in modo che non gli manchi né il pane materiale né quello spirituale.
In mezzo alla civiltà dei consumi e del benessere che offusca la coscienza risuona l’appello del Deuteronomio, (e mai come in questo tempo che dopo la pandemia sentiamo gli echi degli orrori della guerra giunge così opportuno) a ritrovare la fame e la sede del deserto spirituale, cioè il desiderio della parola di Dio.
Il profeta Amos aveva annunziato «Ecco, verranno giorni,- dice il Signore Dio -in cui manderò la fame nel paese, non fame di pane, né sete di acqua, ma d’ascoltare la parola del Signore».(8,11)
Salmo 147 - Loda il Signore, Gerusalemme.
Celebra il Signore, Gerusalemme,
loda il tuo Dio, Sion,
perché ha rinforzato le sbarre delle tue porte,
in mezzo a te ha benedetto i tuoi figli
Egli mette pace nei tuoi confini
e ti sazia con fiore di frumento.
Manda sulla terra il suo messaggio:
la sua parola corre veloce.
Annuncia a Giacobbe la sua parola,
i suoi decreti e i suoi giudizi a Israele.
Così non ha fatto con nessun’altra nazione,
non ha fatto conoscere loro i suoi giudizi.
Il salmo è postesilico, ed è un invito a Gerusalemme (Sion è usato come sinonimo) a glorificare, a lodare, Dio.
Gerusalemme riedificata ha visto consolidata la sua sicurezza di fronte ai popoli confinanti che ora la temono e hanno sospeso le ostilità contro di essa: “Ha rinforzato le sbarre delle tue porte (...). Egli mette pace nei tuoi confini”.
Dio ha benedetto i gli abitanti di Gerusalemme - “in mezzo a te” - e di riverbero tutti gli abitanti di Giuda. Non manca per questo la prosperità materiale: “Ti sazia con fiore di frumento”, cioè con la miglior qualità di farina.
Egli invia la sua Parola a Israele per mezzo dei profeti postesilici, ed essa si diffonde velocemente.
Ma la sua Parola oltre che essere luce per gli uomini è anche creatrice. E' per la sua parola creatrice che viene il freddo, scende la neve, la grandine, la brina, ma segue però il caldo, lo scioglimento delle nevi, lo scorrere delle acque dai nevai. Inverno, temporali, bel tempo sono sotto il comando della sua Parola. La natura non è lasciata a se stessa, ma governata da Dio a favore dell'uomo (Cf. At 14,17).
“Annuncia a Giacobbe la sua parola”; il salmista riprende il tema della parola data ad Israele per mezzo dei profeti. La legge di Mosè e i suoi decreti sono ripresentati con forza dai profeti e dai sacerdoti.
“Così non ha fatto con nessun'altra nazione...”; Israele è oggetto di un'elezione divina, che lo costituisce segno di Dio in mezzo ai popoli.
La Chiesa è invitata a lodare Dio, a glorificarlo, perché ha inviato e dato il suo Figlio, la sua Parola perfetta. Egli l'assiste fortificandola con la forza dello Spirito Santo, e la nutre con fior di frumento, cioè con il pane che non è più pane, se non nelle apparenze, essendo realmente diventato il Corpo del Signore.
Commento tratto da “Perfetta Letizia”i
Dalla prima lettera di S.Paolo apostolo ai Corinzi
Fratelli, il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo?
Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane.
1Cor 10,16-17
La Prima lettera ai Corinzi, che Paolo scrisse da Efeso nel 53-54, è una delle più lunghe fra quelle scritte da Paolo, paragonabile a quella dei Romani, ambedue infatti sono suddivise in 16 capitoli.
La lettera si contraddistingue per la molteplicità dei temi che Paolo vi affronta per chiarire dubbi o difficoltà della comunità e per correggere abusi e deviazioni. In essa l’apostolo dovrà prendere posizioni anche piuttosto critiche, che potrebbero compromettergli la simpatia dei destinatari.
Nel capitolo 10, dal quale è stato tratto questo brano, Paolo illustra con grande chiarezza e profondità il significato dell’Eucaristia, e così affronta il problema delle carni sacrificate agli idoli, e che poi venivano vendute al mercato. I cristiani più intelligenti e maturi le mangiavano senza farsi troppi problemi. Le persone più semplici se ne facevano scrupolo e si scandalizzavano davanti al comportamento più disinvolto dei primi.
Paolo raccomanda ai Corinzi di avere a cuore queste persone più deboli e di non dare loro scandalo facendosi vedere a mangiare queste carni. Il principio che offre è quello della comunione. Chi mangia la carne sacrificata agli idoli entra in comunione con essi e con chi offre loro i sacrifici. Chi mangia la carne e il sangue di Cristo entra in comunione con Lui e con tutti coloro che mangiano insieme. Così risolvendo un problema della comunità di Corinto, Paolo ci ha lasciato una delle più belle descrizioni dell'Eucarestia.
“Fratelli, il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? “
Le domande che Paolo pone sono in forma retorica, perché il suo intento è di sottolineare le proprie affermazioni. Il calice della benedizione è il calice dell'Eucarestia. La benedizione era stata utilizzata da Gesù stesso nell'ultima Cena e proveniva dalle benedizioni previste per i pasti del popolo di Israele. Il termine comunione traduce la parola greca koinonìa, che indica propriamente la condivisione, la comunanza di un bene tra un certo numero di persone. Quindi ciò significa soprattutto la comunione tra i credenti che bevono allo stesso calice e mangiano lo stesso pane, il corpo e il sangue di Cristo. Gli elementi eucaristici non sono presentati come il corpo e il sangue di Cristo, ma come dei segni che hanno il potere, nel contesto del rito che commemora la morte e la resurrezione di Cristo, di stabilire un vero rapporto di comunione con Lui. Non sono dunque simboli vuoti, ma strumenti efficaci della presenza di Cristo stesso.
“ Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane”.
Paolo ci dà una chiave di interpretazione molto importante e formula in modo limpido il senso di ogni celebrazione eucaristica: da quella che si svolgeva nella città di Corinto in Grecia a quella che oggi si compirà nelle nostre città o nei nostri piccoli centri. Attraverso il calice e il pane posti sull’altare, Cristo comunica con noi il Suo corpo, cioè la Sua vita, il Suo amore e la Sua gloria.
Dal vangelo secondo Giovanni
In quel tempo Gesù disse alla folla:
«Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».
Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?».
Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda.
Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno».
Gv 6,51-58
In questo brano, Gesù sviluppa il discorso eucaristico iniziato dopo il miracolo della moltiplicazione dei pani. Sta parlando nella sinagoga di Cafarnao e afferma che per mezzo del Figlio dell’uomo il Padre dà il vero pane dal cielo, nel quale si concretizza in modo simbolico la salvezza promessa dai profeti. In seguito alla domanda posta dai presenti, Gesù prosegue affermando che questo pane non è qualcosa di separato da Lui, ma si identifica con la Sua stessa persona; Egli infatti è stato mandato dal Padre a portare la vita a chi crede in Lui.
In seguito alle ulteriori mormorazioni dei giudei, Gesù sottolinea che per mezzo di Lui si attua l’attesa di un insegnamento conferito direttamente da Dio e infine, con chiaro riferimento all’episodio biblico della manna, Gesù si presenta nuovamente come il pane della vita. E’ con le Sue parole che ha inizio il brano che lo rende più radicale affermando: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».
Il pane che Gesù darà non solo si identifica con la Sua persona, ma è la Sua stessa carne che deve essere mangiata perché possa comunicare la vita.
Nel linguaggio biblico la carne non è altro che la persona umana, vista però in tutta la sua limitatezza e fragilità. In Gesù, Figlio di Dio e Figlio dell’uomo, il Verbo si è fatto carne, e ora dà la Sua carne in cibo all’umanità. L’identificazione del pane della vita con la “carne” di Gesù ci porta a pensare all’ultima cena in cui Gesù darà ai Suoi discepoli il pane e il vino come segno del Suo corpo.
Il brano prosegue riportando che i giudei esprimono di nuovo la loro incredulità chiedendosi: “Come può costui darci la sua carne da mangiare?”. Gesù non risponde alla loro domanda, ma prosegue il Suo discorso: “In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. “
Con queste parole Gesù, invece di chiarire il significato dell’affermazione precedente, evidenzia ancora di più la sua realtà sottolineando come per avere la vita sia necessario non solo mangiare la Sua carne ma anche bere il Suo sangue. Poi Gesù ancora precisa: : “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda.”
Con queste espressioni Egli non fa altro che ribadire quanto affermato precedentemente, sottolineando che la Sua carne è “vero” cibo e il Suo sangue è “vera” bevanda: l’effetto di questo mangiare e bere è la vita eterna che appare come una realtà già presente e al tempo stesso futura, in quanto coincide con la risurrezione che avrà luogo “nell’ultimo giorno”
Il significato della vita promessa a chi mangia la Sua carne e beve il Suo sangue viene ulteriormente specificato da Gesù con queste parole:. “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me”.
Tra Gesù e colui che mangia il Suo corpo e beve il Suo sangue, si instaura dunque un’intima comunione di vita, che si modella su quella che unisce Gesù al Padre, anzi ne è la conseguenza e lo sviluppo logico: come il Figlio, che è stato mandato dal Padre, attinge da Lui tutta la Sua vita, così chi si nutre del Figlio attinge da Lui quella stessa vita che Egli ha ricevuto dal Padre.
Gesù giunge alla fine del Suo discorso dicendo: “Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno”.
Con queste parole Gesù, riprendendo espressioni già usate precedentemente, afferma di essere Lui il pane disceso dal cielo, perché, diversamente dalla manna, Lui dà una vita che dura in eterno.
Non è difficile immaginare cosa avranno pensato i suoi uditori ….certo questo rabbi ha detto e fatto cose mai sentite e viste prima …ma ora cosa propone?!
Sono passati secoli e tante cose più razionali e scientifiche hanno fatto il loro tempo, ma quello scandalo predicato nella sinagoga di Cafarnao non cessa di essere vivo.
La persona di Gesù Cristo, donata sulla croce per la salvezza di tutta l’umanità e rappresentata nei segni eucaristici del pane e del vino, è sempre il nutrimento dei tempi escatologici, dal quale scaturisce la vita piena nella comunione con il Padre.
Il credente è invitato alla comunione con la Sapienza divina e con Cristo attraverso l’Eucaristia. Non è una comunione automatica, superficiale come purtroppo spesso avviene nelle nostre celebrazioni eucaristiche distratte, abitudinarie, tradizionali, deve essere invece una comunione che è dialogo e reciprocità.
Ricordiamolo sempre: la comunione eucaristica trasforma il credente, lo rende inno di lode, lo rende Corpo di Cristo e Sua Parola vivente :“Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui”, queste Sue parole sono scolpite nel nostro intimo più profondo, non le possiamo cancellare!
***********************************
“Oggi, in Italia e in altre Nazioni, si celebra la solennità del Corpo e Sangue di Cristo, il Corpus Domini.
Nella seconda Lettura della liturgia odierna, San Paolo risveglia la nostra fede in questo mistero di comunione . Egli sottolinea due effetti del calice condiviso e del pane spezzato: l’effetto mistico e l’effetto comunitario.
Dapprima l’Apostolo afferma: «?» Il calice della benedizione che noi benediciamo non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo non è forse comunione con il corpo di Cristo. Queste parole esprimono l’effetto mistico o possiamo dire l’effetto spirituale dell’Eucaristia: esso riguarda l’unione con Cristo, che nel pane e nel vino si offre per la salvezza di tutti. Gesù è presente nel sacramento dell’Eucaristia per essere il nostro nutrimento, per essere assimilato e diventare in noi quella forza rinnovatrice che ridona energia e ridona voglia di rimettersi in cammino, dopo ogni sosta o dopo ogni caduta. Ma questo richiede il nostro assenso, la nostra disponibilità a lasciar trasformare noi stessi, il nostro modo di pensare e di agire; altrimenti le celebrazioni eucaristiche a cui partecipiamo si riducono a dei riti vuoti e formali. Tante volte qualcuno va a messa perché si deve andare, come un atto sociale, rispettoso, ma sociale. Ma il mistero è un’altra cosa: è Gesù presente che viene per nutrirci.
Il secondo effetto è quello comunitario ed è espresso da San Paolo con queste parole: «Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo». Si tratta della comunione reciproca di quanti partecipano all’Eucaristia, al punto da diventare tra loro un corpo solo, come unico è il pane che si spezza e si distribuisce. Siamo comunità, nutriti dal corpo e dal sangue di Cristo. La comunione al corpo di Cristo è segno efficace di unità, di comunione, di condivisione. Non si può partecipare all’Eucaristia senza impegnarsi in una fraternità vicendevole, che sia sincera. Ma il Signore sa bene che le nostre sole forze umane non bastano per questo. Anzi, sa che tra i suoi discepoli ci sarà sempre la tentazione della rivalità, dell’invidia, del pregiudizio, della divisione... Tutti conosciamo queste cose. Anche per questo ci ha lasciato il Sacramento della sua Presenza reale, concreta e permanente, così che, rimanendo uniti a Lui, noi possiamo ricevere sempre il dono dell’amore fraterno. «Rimanete nel mio amore» , ha detto Gesù; ed è possibile grazie all’Eucaristia. Rimanere nell’amicizia, nell’amore.
Questo duplice frutto dell’Eucaristia: il primo, l’unione con Cristo e il secondo, la comunione tra quanti si nutrono di Lui, genera e rinnova continuamente la comunità cristiana. È la Chiesa che fa l’Eucaristia, ma è più fondamentale che l’Eucaristia fa la Chiesa, e le permette di essere la sua missione, prima ancora di compierla. Questo è il mistero della comunione, dell’Eucaristia: ricevere Gesù perché ci trasformi da dentro e ricevere Gesù perché faccia di noi l’unità e non la divisione.
La Vergine Santa ci aiuti ad accogliere sempre con stupore e gratitudine il grande dono che Gesù ci ha fatto lasciandoci il Sacramento del suo Corpo e del suo Sangue.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus 14 giugno 2020
Le letture della liturgia di questa domenica della Santissima Trinità, la prima dopo Pentecoste, ci fanno intravedere il volto di Dio invisibile, misericordioso e pietoso, il cui mistero è da cercare nell’infinita sua luce che si esprime nell’amore.
Nella prima lettura, tratta dal libro dell’Esodo, troviamo l’antico credo che il Signore stesso insegna a Mosè nella cornice del Sinai: “il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà». Il primato di Dio non è quello della giustizia che punisce, ma quello dell’amore che perdona.
Nella seconda lettura, tratta dalla seconda lettera ai Corinzi, S. Paolo conclude la lettera con un saluto trinitario “La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi”, che è divenuto il saluto d’ingresso della celebrazione. La Trinità entra nell’esistenza del credente offrendo la grazia di Cristo, l’amore del Padre e la comunione dello Spirito Santo.
Nel Vangelo, Giovanni ci presenta il dialogo notturno tra Gesù e Nicodemo, simbolo dell’uomo che cerca Dio con cuore sincero. A lui Gesù dice: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio, unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna...”
C’è un dono del Padre e un dono del Figlio, ma entrambi hanno lo scopo di liberare l’uomo dal male. E’ in questa luce che la divinità penetra nella vicenda umana, in quella di ogni uomo, offrendo la grazia del Cristo, l’amore del Padre e la comunione dello Spirito Santo.
Dal libro dell’Esodo
In quei giorni, Mosè si alzò di buon mattino e salì sul monte Sinai, come il Signore gli aveva comandato, con le due tavole di pietra in mano.
Allora il Signore scese nella nube, si fermò là presso di lui e proclamò il nome del Signore. Il Signore passò davanti a lui, proclamando: «Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà».
Mosè si curvò in fretta fino a terra e si prostrò. Disse: «Se ho trovato grazia ai tuoi occhi, Signore, che il Signore cammini in mezzo a noi. Sì, è un popolo di dura cervìce, ma tu perdona la nostra colpa e il nostro peccato: fa’ di noi la tua eredità».
Es 34,4b-6, 8-9
L'Esodo è il secondo libro della Bibbia e della Torah ebraica. È stato scritto in ebraico e, secondo l'ipotesi di molti studiosi, la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte. È composto da 40 capitoli; nei primi 14 descrive il soggiorno degli Ebrei in Egitto, la loro schiavitù e la miracolosa liberazione tramite Mosè, mentre nei restanti descrive il soggiorno degli Ebrei nel deserto del Sinai. Il periodo descritto si colloca intorno al 1300-1200 a.C.
Il libro dell'Esodo è suddiviso in tre grandi sezioni, corrispondenti ai tre momenti della narrazione:
La prima, (capitoli 11,1-15,21), comprende il racconto dell'oppressione degli Ebrei in Egitto, la nascita di Mosè, la fuga di Mosè a Madian e la scelta divina, il suo ritorno in Egitto, le dieci piaghe e l'uscita dal paese.
La seconda sezione (15,22-18,27) narra del viaggio lungo la costa del Mar Rosso e nel deserto del Sinai.
La terza (19,1-40,38) riguarda l'incontro tra Dio e il popolo eletto, mediante le tappe fondamentali del decalogo e del codice dell'alleanza, seguito dall'episodio del vitello d'oro e dalla costruzione del Tabernacolo
Nel brano che abbiamo, tratto dalla terza sezione, vediamo Mosè, che volendo ricomporre l’alleanza tra il popolo e Dio, “si alzò di buon mattino e salì sul monte Sinai, come il Signore gli aveva comandato, con le due tavole di pietra in mano”, perché Dio gli ridoni la legge. In questo episodio, che la Liturgia ci presenta, possiamo avere la prova che Dio è veramente un Dio di misericordia.
Nei versetti precedenti avevamo visto che per la seconda volta Dio chiama Mosè sul monte per stabilire un’alleanza con il popolo d’Israele. Quando scese dal monte la prima volta, Mosè trovò che il suo popolo si era fabbricato un vitello d’oro al quale offriva sacrifici.
L’alleanza che Dio aveva stipulato con il popolo d’Israele sul monte diceva così: “Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa.”.(Es 19:5–6) Il popolo d’Israele non aveva avuto fede in Dio durante la traversata del Mar Rosso, nel deserto si era lamentato di Lui e adesso quest’atto di ribellione del vitello d’oro avrebbe dovuto far perdere definitivamente la pazienza a Dio.
Ma Dio non solo non perde la pazienza con questo popolo caparbio, ma è disposto ad incontrare di nuovo Mosè e rinnovare la Sua alleanza. Il contenuto di questo messaggio lo troviamo nel brano di oggi:
“Allora il Signore scese nella nube, si fermò là presso di lui e proclamò il nome del Signore”.
Dio proclama il Suo nome: "Yahweh! Yahweh!“ il nome irripetibile, e spiega poi il significato di quel nome “Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà....”. Sono parole di una insuperabile dolcezza che non trova eguali neanche nel Nuovo Testamento!.
DIO è “misericordioso”, cioè è dotato di quella dolcezza e tenerezza di cui è simbolo il seno materno (rehem); egli è “disposto a far grazia” , cioè a donare gratuitamente la Sua benevolenza; è “lento all’ira” (paziente), in quanto non si adira facilmente contro i Suoi eletti, anche quando essi vengono meno ai loro doveri verso di Lui; Egli è ricco di “fedeltà”, ossia è fermo nella Sua fedeltà verso coloro che ha scelto e la conserva per mille generazioni, cioè senza limiti di tempo.
E’ proprio facendo appello alla Misericordia di Dio, che Mosè curvandosi fino a terra disse:
«Se ho trovato grazia ai tuoi occhi, Signore, che il Signore cammini in mezzo a noi. Sì, è un popolo di dura cervìce, ma tu perdona la nostra colpa e il nostro peccato: fa’ di noi la tua eredità». Lo prega per il popolo di Israele, che è si gente di “dura cervice”, ma è sempre la sua gente, e di continuare a camminare ed abitare con il Suo popolo e fare di loro la Sua eredità.
Ciò che appare in primo piano è la bontà e misericordia, di Dio che Lo rende simile a una madre che tratta con tenerezza i suoi figli. Questo aspetto è trattato anche da Osea (11,1-4) che parla dell’amore di Dio per il suo popolo con note di affetto durevole, di una passione inquieta e di una tenerezza profonda. Anche secondo l'autore del libro profetico di Giona, troviamo un Dio così pietoso capace di ricredersi dei castighi minacciati alla città di Ninive., la città empia e sanguinaria di Assiria
Anche Gesù nella parabola del Figliol prodigo dipinge a parole la misericordia di Dio nella figura del padre pietoso che aspetta il figlio degenere , lo accoglie, lo riveste della dignità persa, riportandolo alla dignità di "figlio"
Salmo Dn 3
Benedetto sei tu, Signore, Dio dei padri nostri.
A te la lode e la gloria nei secoli.
Benedetto il tuo nome glorioso e santo.
A te la lode e la gloria nei secoli.
Benedetto sei tu nel tuo tempio santo, glorioso.
A te la lode e la gloria nei secoli.
Benedetto sei tu sul trono del tuo regno.
A te la lode e la gloria nei secoli.
Benedetto sei tu che penetri con lo sguardo
gli abissi e siedi sui cherubini.
A te la lode e la gloria nei secoli.
Benedetto sei tu nel firmamento del cielo.
A te la lode e la gloria nei secoli
Questo salmo è "Il Cantico, tradizionalmente chiamato "dei tre giovani". E’ simile ad una fiaccola che rischiara l'oscurità del tempo dell'oppressione e della persecuzione, un tempo che spesso si è ripetuto nella storia di Israele e nella stessa storia del cristianesimo".
Con queste parole Giovanni Paolo II ha commentato il Cantico Dn 3, 52-57 "Ogni creatura lodi il Signore" - delle Lodi di domenica della 4ª settimana - durante l'udienza generale di mercoledì 19 febbraio 2003, nell'Aula Paolo VI. Dopo la proclamazione dei versetti 3, 52-57, il Papa ha svolto la seguente catechesi:
1. "Quei tre giovani, a una sola voce, si misero a lodare, a glorificare, a benedire Dio nella fornace" (Dn 3, 51). Questa frase introduce al celebre Cantico che ora abbiamo ascoltato in un suo frammento fondamentale. Esso si trova all'interno del Libro di Daniele, nella parte giunta a noi solo in lingua greca, ed è intonato da testimoni coraggiosi della fede, che non hanno voluto piegarsi all'adorazione della statua del re e hanno preferito affrontare una morte tragica, il martirio nella fornace ardente.
Sono tre giovani ebrei, collocati dall'autore sacro nel contesto storico del regno di Nabucodonosor, il tremendo sovrano babilonese che annientò la città santa di Gerusalemme nel 586 a.C. e deportò gli Israeliti "lungo i fiumi di Babilonia" (cfr Sal 136). Pur nel pericolo estremo, quando le fiamme ormai lambiscono i loro corpi, essi trovano la forza di "lodare, glorificare e benedire Dio", certi che il Signore del cosmo e della storia non li abbandonerà alla morte e al nulla.
2. L'autore biblico, che scriveva qualche secolo dopo, evoca questo eroico evento per stimolare i suoi contemporanei a tenere alto il vessillo della fede durante le persecuzioni dei re siro-ellenistici del secondo secolo a.C. Proprio allora si registra la coraggiosa reazione dei Maccabei, combattenti per la libertà della fede e della tradizione ebraica. Il Cantico, tradizionalmente chiamato "dei tre giovani", è simile ad una fiaccola che rischiara l'oscurità del tempo dell'oppressione e della persecuzione, un tempo che spesso si è ripetuto nella storia di Israele e nella stessa storia del cristianesimo. E noi sappiamo che il persecutore non assume sempre il volto violento e macabro dell'oppressore, ma spesso si compiace d'isolare il giusto, con la beffa e l'ironia, chiedendogli con sarcasmo: "Dov'è il tuo Dio?" (Sal 41, 4.11).
3. Nella benedizione che i tre giovani fanno salire dal crogiolo della loro prova al Signore Onnipotente sono coinvolte tutte le creature. Essi intessono una sorta di arazzo multicolore dove brillano gli astri, scorrono le stagioni, si muovono gli animali, si affacciano gli angeli e soprattutto cantano i "servi del Signore", i "pii" e gli "umili di cuore" (cfr Dn 3, 85.87).
Il brano che è stato prima proclamato precede questa magnifica evocazione di tutte le creature. Costituisce la prima parte del Cantico, la quale evoca invece la presenza gloriosa del Signore, trascendente eppure vicina. Sì, perché Dio è nei cieli, dove "penetra con lo sguardo gli abissi" (cfr 3, 55), ma è anche "nel tempio santo glorioso" di Sion (cfr 3, 53). Egli è assiso sul "trono del suo regno" eterno e infinito (cfr 3, 54), ma è anche colui che "siede sui cherubini" (cfr 3, 55), nell'arca dell'alleanza collocata nel Santo dei Santi del tempio di Gerusalemme.
4. Un Dio al di sopra di noi, capace di salvarci con la sua potenza; ma anche un Dio vicino al suo popolo, in mezzo al quale Egli ha voluto abitare nel suo "tempio santo glorioso", manifestando così il suo amore. Un amore che Egli rivelerà in pienezza nel far "abitare in mezzo a noi" il Figlio suo Gesù Cristo "pieno di grazia e di verità" (cfr Gv 1, 14). Egli rivelerà in pienezza il suo amore nel mandare in mezzo a noi il Figlio a condividere in tutto, fuorché nel peccato, la nostra condizione segnata da prove, oppressioni, solitudine e morte.
La lode dei tre giovani al Dio Salvatore continua in modo vario nella Chiesa. Per esempio, san Clemente Romano, al termine della sua Lettera ai Corinzi, inserisce una lunga preghiera di lode e di fiducia, tutta intessuta di reminiscenze bibliche e forse riecheggiante l'antica liturgia romana. È una preghiera di gratitudine al Signore che, nonostante l'apparente trionfo del male, guida a buon fine la storia.
5. Eccone un passaggio:
"Tu apristi gli occhi del nostro cuore (cfr Ef 1, 18) perché conoscessimo te il solo (cfr Gv 17, 3) altissimo nell'altissimo dei cieli il Santo che riposi tra i santi che umìli la violenza dei superbi (cfr Is 13, 11) che sciogli i disegni dei popoli (cfr Sal 32, 10) che esalti gli umili e abbassi i superbi (cfr Gb 5, 11). Tu che arricchisci e impoverisci che uccidi e dai la vita (cfr Dt 32, 39) il solo benefattore degli spiriti e Dio di ogni carne che scruti gli abissi (cfr Dn 3, 55) che osservi le opere umane che soccorri quelli che sono in pericolo e salvi i disperati (cfr Gdt 9, 11) creatore e custode di ogni spirito che moltiplichi i popoli sulla terra e che fra tutti scegliesti quelli che ti amano per mezzo di Gesù Cristo l'amatissimo tuo Figlio mediante il quale ci hai educato, ci hai santificato e ci hai onorato"
(Clemente Romano, Lettera ai Corinzi, 59, 3: I Padri Apostolici, Roma 1976, pp. 88-89).
Dalla seconda lettera di S.Paolo apostolo ai Corinzi
Fratelli, siate gioiosi, tendete alla perfezione, fatevi coraggio a vicenda, abbiate gli stessi sentimenti, vivete in pace e il Dio dell’amore e della pace sarà con voi. Salutatevi a vicenda con il bacio santo. Tutti i santi vi salutano.
La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi.
2Cor 13,11-13
Paolo scrive la seconda lettera al Corinzi, (si può pensare intorno agli anni 56-57) spinto dai gravi avvenimenti che avevano scosso la comunità di Corinto. Nell’anno 56 Paolo si trovava ad Efeso (At 19) e venne a sapere che alcuni contestatori giudeo-cristiani stavano sollevando la comunità contro di lui. Vi fa una breve visita, ma è ricevuto freddamente, stanco e forse implicato troppo personalmente nel conflitto, non riesce ad aggiustare nulla, anzi la sua visita accresce piuttosto il disordine, si ripromette allora di ritornare in seguito, prendendo tutto il tempo necessario.
Mentre aspetta è pubblicamente offeso, probabilmente da uno dei suoi più vicini collaboratori (parla di un offensore e di un offeso (2,5;7,12). Sotto la spinta dell’emozione invia una lettera, che sarà giudicata troppo severa (2,3-4;8-12), in cui esige che sia riparata una tale offesa.
Meno ricca della prima in insegnamenti dottrinali, la seconda lettera ai Corinzi ha però il grande merito di introdurci nella vita interiore dell’Apostolo, nella sua mistica. E’ in questi capitoli che si può entrare nella psicologia e nel carattere appassionato di Paolo e si può affermare che per comprenderlo meglio ci si deve rifare sempre a questa lettera che può essere considerata come il suo diario intimo, le sue “confessioni”. In nessun altro scritto traspare tanto la sua personalità, caratterizzata da un contrasto di forza e di debolezza, di audacia e di riserbo, di impetuosità e di tenerezza. Lo scopriamo organizzatore e missionario, fondatore e pastore, mistico e uomo d’azione, con una coscienza profonda della sua missione apostolica.
Il brano che la liturgia ci presenta riporta gli ultimi tre versetti della lettera ed è stato scelto per la particolare benedizione finale, in cui compaiono le persone della Trinità e le loro particolari attribuzioni (la grazia, l'amore, la comunione).
“Fratelli, siate gioiosi, tendete alla perfezione, fatevi coraggio a vicenda, abbiate gli stessi sentimenti, vivete in pace e il Dio dell’amore e della pace sarà con voi”.
Dopo averli prima ammoniti severamente, Paolo esorta ora i Corinzi alla gioia, una gioia speciale che deriva dall'appartenere a Cristo indirizzandoli ad una adesione vera e sincera.
La gioia è quindi un atteggiamento di fondo che continua anche davanti alle persecuzioni e alla perdita dell'entusiasmo iniziale. Li esorta anche alla perfezione, nel senso di ritornare sulla retta via dato che essi si erano lasciati sviare da chi aveva denigrato Paolo.
E’ da notare che li invita a farsi coraggio con il verbo parakaleo, (da cui deriva anche il termine Paraclito, attribuito soprattutto allo Spirito), in cui si possono trovare anche i significati di incoraggiare, esortare.
Paolo continua invitando i Corinzi alla concordia, alla pace, ricordando con una formula liturgia (e il Dio dell'amore e della pace sarà con voi) che Dio ama coloro che vivono nella concordia e nella pace.
Paolo scrive la seconda lettera al Corinzi, (si può pensare intorno agli anni 56-57) spinto dai gravi avvenimenti che avevano scosso la comunità di Corinto. Nell’anno 56 Paolo si trovava ad Efeso (At 19) e venne a sapere che alcuni contestatori giudeo-cristiani stavano sollevando la comunità contro di lui. Vi fa una breve visita, ma è ricevuto freddamente, stanco e forse implicato troppo personalmente nel conflitto, non riesce ad aggiustare nulla, anzi la sua visita accresce piuttosto il disordine, si ripromette allora di ritornare in seguito, prendendo tutto il tempo necessario.
Mentre aspetta è pubblicamente offeso, probabilmente da uno dei suoi più vicini collaboratori (parla di un offensore e di un offeso (2,5;7,12). Sotto la spinta dell’emozione invia una lettera, che sarà giudicata troppo severa (2,3-4;8-12), in cui esige che sia riparata una tale offesa.
Meno ricca della prima in insegnamenti dottrinali, la seconda lettera ai Corinzi ha però il grande merito di introdurci nella vita interiore dell’Apostolo, nella sua mistica. E’ in questi capitoli che si può entrare nella psicologia e nel carattere appassionato di Paolo e si può affermare che per comprenderlo meglio ci si deve rifare sempre a questa lettera che può essere considerata come il suo diario intimo, le sue “confessioni”. In nessun altro scritto traspare tanto la sua personalità, caratterizzata da un contrasto di forza e di debolezza, di audacia e di riserbo, di impetuosità e di tenerezza. Lo scopriamo organizzatore e missionario, fondatore e pastore, mistico e uomo d’azione, con una coscienza profonda della sua missione apostolica.
Il brano che la liturgia ci presenta riporta gli ultimi tre versetti della lettera ed è stato scelto per la particolare benedizione finale, in cui compaiono le persone della Trinità e le loro particolari attribuzioni (la grazia, l'amore, la comunione).
“Fratelli, siate gioiosi, tendete alla perfezione, fatevi coraggio a vicenda, abbiate gli stessi sentimenti, vivete in pace e il Dio dell’amore e della pace sarà con voi”.
Dopo averli prima ammoniti severamente, Paolo esorta ora i Corinzi alla gioia, una gioia speciale che deriva dall'appartenere a Cristo indirizzandoli ad una adesione vera e sincera.
La gioia è quindi un atteggiamento di fondo che continua anche davanti alle persecuzioni e alla perdita dell'entusiasmo iniziale. Li esorta anche alla perfezione, nel senso di ritornare sulla retta via dato che essi si erano lasciati sviare da chi aveva denigrato Paolo.
E’ da notare che li invita a farsi coraggio con il verbo parakaleo, (da cui deriva anche il termine Paraclito, attribuito soprattutto allo Spirito), in cui si possono trovare anche i significati di incoraggiare, esortare.
Paolo continua invitando i Corinzi alla concordia, alla pace, ricordando con una formula liturgia (e il Dio dell'amore e della pace sarà con voi) che Dio ama coloro che vivono nella concordia e nella pace.
Dal vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, disse Gesù a Nicodèmo:
«Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio, unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna.
Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui.
Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio».
Gv 3:,16-18
In questo brano del Vangelo di Giovanni, incontriamo per la prima volta Nicodemo, un dottore della Legge, fariseo e membro del Sinedrio.. Lo troveremo ancora quando interviene in difesa di Gesù allorquando i Farisei lo volevano arrestare (7,45.51) e quando insieme a Giuseppe d’Arimatea contribuisce alla deposizione di Gesù dopo la crocifissione e lo aiuta a deporne il corpo nella tomba (19,39-42)
Nicodemo è simbolo dell’uomo che cerca Dio con cuore sincero, è incuriosito da Gesù, ne è affascinato. Sappiamo che è un uomo retto, un uomo di Legge, ma ha paura, teme il giudizio impietoso dei suoi amici farisei del Sinedrio, per cui va da Gesù di notte. Gesù lo accoglie ugualmente e lo invita a riflettere: per cambiare deve avere il coraggio di rinascere dall'alto, deve avere il coraggio di cambiare mentalità.
Cosa avrà provato Nicodemo quando Gesù gli disse:”Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio, unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna....”
C’è il verbo del dono che emerge “dare” e sarà ripreso nel Vangelo per descrivere il darsi di Gesù nella morte di croce. C’è quindi, un dono del Padre e un dono del Figlio, ma entrambi hanno come fine la liberazione dell’uomo dal male.
“Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui “
Questo versetto precisa meglio la motivazione dell'invio del Figlio nel mondo: la salvezza del mondo. Quindi si passa dai credenti che devono avere la vita eterna, al mondo intero, perché sia salvato..
«Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio».
Il messaggio di Gesù non è un messaggio qualunque: richiede una presa di posizione da parte dell'uomo. Chi non si decide a favore di Dio della Sua luce, del Suo amore, si condanna da solo. Chi non accoglie la Sua luce rimane nelle tenebre.
Sicuramente anche Nicodemo, come i discepoli e come noi oggi, ha fatto fatica a percepire l'inaudita novità di un Dio Uno e Trino. Gesù ci rivela il Padre. È l'unico che può farlo veramente; lo leggiamo nel prologo di questo vangelo: «In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio..»: è il Figlio che svela il Padre, il Risorto che toglie il velo che ci impedisce di vedere e di percepire la realtà divina di tre Persone la cui relazione d'amore coinvolge tutti noi che formiamo la Chiesa e siamo destinatari della stessa relazione d'amore divina che ci travolge e ci porta ad una prospettiva che ci riempie di speranza gioiosa: la vita eterna!
Karl Rahner (teologo gesuita uno dei maggiori protagonisti del rinnovamento della Chiesa che portò al Concilio Vaticano II) dà un immagine suggestiva per descrivere la presenza segreta ed efficace della Trinità nella storia e nella vita umana, “La nostra esistenza è come un rivolo che serpeggia in un deserto fatto di banalità, di male, di egoismi. C’è il rischio che quella steppa riesca ad essiccarlo. Ma dietro le dune grigie dei nostri giorni, sentiamo l’eco di un mare immenso. Il nostro ruscello, anche se lentamente, è destinato ad approdare nelle onde infinite di Dio. Il Cristo stesso ci estrae dalle secche, ci aiuta ad uscire dal deserto del peccato e ci fa discendere nel grande mare della pace e della luce di Dio.”
********************
“Il Vangelo di oggi , festa della Santissima Trinità, mostra – col linguaggio sintetico dell’apostolo Giovanni – il mistero dell’amore di Dio per il mondo, sua creazione.
Nel breve dialogo con Nicodemo, Gesù si presenta come Colui che porta a compimento il piano di salvezza del Padre in favore del mondo. Egli afferma: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito». Queste parole stanno a indicare che l’azione delle tre Persone divine – Padre, Figlio e Spirito Santo – è tutta un unico disegno d’amore che salva l’umanità e il mondo, è un disegno di salvezza per noi.
Dio ha creato il mondo buono, bello, ma dopo il peccato il mondo è segnato dal male e dalla corruzione. Noi uomini e donne siamo peccatori, tutti, pertanto Dio potrebbe intervenire per giudicare il mondo, per distruggere il male e castigare i peccatori. Invece, Egli ama il mondo, nonostante i suoi peccati; Dio ama ciascuno di noi anche quando sbagliamo e ci allontaniamo da Lui. Dio Padre ama talmente il mondo che, per salvarlo, dona ciò che ha di più prezioso: il suo Figlio unigenito, il quale dà la sua vita per gli uomini, risorge, torna al Padre e insieme a Lui manda lo Spirito Santo. La Trinità è dunque Amore, tutta al servizio del mondo, che vuole salvare e ricreare.
Oggi, pensando a Dio Padre e Figlio e Spirito Santo, pensiamo all’amore di Dio! E sarebbe bello che noi ci sentissimo amati. “Dio mi ama”: questo è il sentimento di oggi.
Quando Gesù afferma che il Padre ha dato il suo Figlio unigenito, ci viene spontaneo pensare ad Abramo e alla sua offerta del figlio Isacco, di cui parla il libro della Genesi (cfr 22,1-14): ecco la “misura senza misura” dell’amore di Dio. E pensiamo anche a come Dio si rivela a Mosè: pieno di tenerezza, misericordioso, pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e di fedeltà (cfr Es 34,6). L’incontro con questo Dio ha incoraggiato Mosè, il quale, come narra il libro dell’Esodo, non ebbe paura di frapporsi tra il popolo e il Signore, dicendogli: «Sì, è un popolo di dura cervice, ma tu perdona la nostra colpa e il nostro peccato: fa’ di noi la tua eredità». E così ha fatto Dio inviando il suo Figlio. Noi siamo figli nel Figlio con la forza dello Spirito Santo! Noi siamo l’eredità di Dio!
Cari fratelli e sorelle, la festa di oggi ci invita a lasciarci nuovamente affascinare dalla bellezza di Dio; bellezza, bontà e verità inesauribile. Ma anche bellezza, bontà e verità umile, vicina, che si è fatta carne per entrare nella nostra vita, nella nostra storia, nella mia storia, nella storia di ciascuno di noi, perché ogni uomo e donna possa incontrarla e avere la vita eterna. E questo è la fede: accogliere Dio-Amore, accogliere questo Dio-Amore che si dona in Cristo, che ci fa muovere nello Spirito Santo; lasciarsi incontrare da Lui e confidare in Lui. Questa è la vita cristiana. Amare, incontrare Dio, cercare Dio; e Lui ci cerca per primo, Lui ci incontra per primo.
La Vergine Maria, dimora della Trinità, ci aiuti ad accogliere con cuore aperto l’amore di Dio, che ci riempie di gioia e dà senso al nostro cammino in questo mondo, orientandolo sempre alla meta che è il Cielo.”
Papa Francesco
Parte dell’Angelus del 7 giugno 2020
1. Le iscrizioni per l’oratorio estivo 2023 continuano fino all’8 giugno, nell’orario che va dalle ore 17:00 alle 19:00 ( da lunedì a venerdì) e dalle ore 11:00 alle 13:00 (di domenica), presso l’oratorio.
2. Da lunedì, 05 giugno, sospendiamo l’adorazione eucaristica mattinale (09:45-12:00) per la pausa estiva. Mentre quella di tutti i giovedì (17:30-18:30) si mantiene.
3. L’orario estivo delle messe inizia la prima domenica di luglio che accade il 02/07.
4. Mercoledì, 07 giugno, alle ore 19:15, avremo l’incontro dei catechisti nella sala P. Luciano.
5. Il Consiglio Pastorale Parrocchiale si radunerà il 14 giugno, alle ore 19,00 nella sala P. Luciano.
Programma
L'umanità è una grande e immensa famiglia ... Troviamo la dimostrazione di ciò da quello che ci sentiamo nei nostri cuori a Natale.
(Papa Giovanni XXIII)