La festa del Corpus Domini, più propriamente chiamata solennità del santissimo Corpo e Sangue di Cristo, è una delle principali solennità dell'anno liturgico e la celebrazione, che chiudendo il ciclo delle feste del dopo Pasqua, vuole celebrare il mistero dell'Eucaristia. Questa festa è stata istituita nel lontano 11 agosto 1264, a seguito del miracolo eucaristico di Bolsena, da Papa Urbano IV, con la promulgazione della bolla “Transiturus de hoc mundo”.. Nello stesso anno il papa conferì l'incarico di scrivere l'officio per la solennità e per la relativa Messa a Tommaso d’Aquino, che compose, fra l'altro, il celebre inno eucaristico “Pange lingua”, le cui ultime due strofe (note come Tantum Ergo Sacramentum), sono attualmente cantate dai fedeli al termine di ogni celebrazione liturgica che si concluda con la benedizione eucaristica.
Nella prima lettura, tratta dal Libro del Deuteronomio, leggiamo che Dio ha messo alla prova Israele nel deserto, ma non lo ha abbandonato. La manna e l’acqua che sprizza dalla rupe durissima e arida per dissetare i figli d’Israele, sono segni della parola che “esce dalla bocca del Signore”.
Nella seconda lettura, tratta dalla prima lettera ai Corinzi, San Paolo raccogliendo le dichiarazioni di Gesù a Cafarnao, formula in modo chiaro e limpido il senso di ogni celebrazione eucaristica.
Nel Vangelo di Giovanni viene riportato il discorso tenuto da Gesù a Cafarnao davanti ad un gruppo di ebrei allibiti: …Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Attraverso l’eucaristia il credente entra in comunione col Cristo, è strappato al suo destino di morte ed inserito nel mistero della vita divina.
Dal libro del Deuteronomio
Mosè parlò al popolo dicendo:
«Ricòrdati di tutto il cammino che il Signore, tuo Dio, ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore, se tu avresti osservato o no i suoi comandi.
Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore.
Non dimenticare il Signore, tuo Dio, che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile; che ti ha condotto per questo deserto grande e spaventoso, luogo di serpenti velenosi e di scorpioni, terra assetata, senz’acqua; che ha fatto sgorgare per te l’acqua dalla roccia durissima; che nel deserto ti ha nutrito di manna sconosciuta ai tuoi padri».
Dt. 8,2-3.14b-16
Il Deuteronomio è il quinto e ultimo libro del Pentateuco e ha la funzione di concludere la storia delle origini di Israele, e di fornire una sintesi delle tradizioni di fede contenute nella Torah. È stato scritto in ebraico e, secondo l'ipotesi condivisa da molti studiosi, la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea , sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte È composto da 34 capitoli descriventi la storia degli Ebrei durante il loro soggiorno nel deserto del Sinai (circa 1200 a.C.) e contiene varie leggi religiose e sociali.
Dopo la Prima Legge, data da Dio sul Sinai, il Deuteronomio (Deuteros nomos) si presenta come la "Seconda Legge", la nuova Legge che Mosè consegna al popolo poco prima di morire e invita a tradurre l'amore per Dio nella vita sociale e familiare, non limitandosi dunque allo stretto compimento della Legge.
E’ uno dei libri più intensi di tutto l’Antico Testamento, e presenta una lettura teologica della storia del popolo eletto: Mosè, prima di morire, ricorda a Israele gli avvenimenti passati, mostrando come essi facciano parte di una economia salvifica che ha come punti centrali la promessa ai Padri, l’elezione d’Israele fra tutti i popoli della terra e l’alleanza sinaitica. Questa consapevolezza di appartenere a Dio, privilegio unico ed esclusivo, fa nascere nel popolo l’esigenza di una risposta decisa e libera a favore di Dio e della Sua legge.
Il brano che abbiamo inizia con un invito pressante rivolto da Mosè al popolo di Israele che si trova nelle steppe di Moab, pronto ad attraversare il Giordano e ad entrare nella terra promessa: “Ricordati di tutto il cammino …”La generazione uscita dall’Egitto è ormai scomparsa e davanti a Mosè si trovano soltanto quelli che sono nati nel deserto e che hanno fatto l’esperienza delle sofferenze che comportava il muoversi continuamente in un territorio inospitale. In realtà il discorso è rivolto a coloro che già si trovano nella terra di Canaan e rischiano di dimenticare le difficoltà che i loro progenitori hanno dovuto superare prima di prenderne possesso. Mosè attribuisce queste sofferenze a un’esplicita decisione di Dio, il quale anzitutto voleva non tanto “umiliare”, quanto, rendere umile” il popolo, spezzare il loro orgoglio e la loro presunzione di credere di poter attuare da soli la propria liberazione. Le difficoltà incontrate erano dunque un mezzo predisposto da Dio per verificare se essi in tali circostanze avrebbero avuto fiducia in Lui, senza lamentarsi e senza rimpiangere ”i comodi” che la schiavitù in Egitto forniva.
Nel versetto successivo si riprende lo stesso tema specificando meglio come Dio si è comportato con Israele: “Egli dunque ti ha umiliato, …. , ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore”. La manna e l’acqua che sprizza dalla rupe durissima e arida per dissetare i figli di Israele sono segni della parola che esce dalla bocca del Signore. Senza questo cibo l’uomo si svuota interiormente e si irrigidisce nella morte dell’indifferenza e della superficialità. La manna è quindi il simbolo della parola di Dio e mangiare la manna significa essere aperti alla parola di Dio, essere disposti a osservarla, fidarsi di Lui e delle benedizioni contenute nell’alleanza. Nella manna è dunque simboleggiata la forza che Dio dà a chi crede in Lui, in modo che non gli manchi né il pane materiale né quello spirituale.
In mezzo alla civiltà dei consumi e del benessere che offusca la coscienza risuona l’appello del Deuteronomio, (e mai come in questo tempo che dopo la pandemia sentiamo gli echi degli orrori della guerra giunge così opportuno) a ritrovare la fame e la sede del deserto spirituale, cioè il desiderio della parola di Dio.
Il profeta Amos aveva annunziato «Ecco, verranno giorni,- dice il Signore Dio -in cui manderò la fame nel paese, non fame di pane, né sete di acqua, ma d’ascoltare la parola del Signore».(8,11)
Salmo 147 - Loda il Signore, Gerusalemme.
Celebra il Signore, Gerusalemme,
loda il tuo Dio, Sion,
perché ha rinforzato le sbarre delle tue porte,
in mezzo a te ha benedetto i tuoi figli
Egli mette pace nei tuoi confini
e ti sazia con fiore di frumento.
Manda sulla terra il suo messaggio:
la sua parola corre veloce.
Annuncia a Giacobbe la sua parola,
i suoi decreti e i suoi giudizi a Israele.
Così non ha fatto con nessun’altra nazione,
non ha fatto conoscere loro i suoi giudizi.
Il salmo è postesilico, ed è un invito a Gerusalemme (Sion è usato come sinonimo) a glorificare, a lodare, Dio.
Gerusalemme riedificata ha visto consolidata la sua sicurezza di fronte ai popoli confinanti che ora la temono e hanno sospeso le ostilità contro di essa: “Ha rinforzato le sbarre delle tue porte (...). Egli mette pace nei tuoi confini”.
Dio ha benedetto i gli abitanti di Gerusalemme - “in mezzo a te” - e di riverbero tutti gli abitanti di Giuda. Non manca per questo la prosperità materiale: “Ti sazia con fiore di frumento”, cioè con la miglior qualità di farina.
Egli invia la sua Parola a Israele per mezzo dei profeti postesilici, ed essa si diffonde velocemente.
Ma la sua Parola oltre che essere luce per gli uomini è anche creatrice. E' per la sua parola creatrice che viene il freddo, scende la neve, la grandine, la brina, ma segue però il caldo, lo scioglimento delle nevi, lo scorrere delle acque dai nevai. Inverno, temporali, bel tempo sono sotto il comando della sua Parola. La natura non è lasciata a se stessa, ma governata da Dio a favore dell'uomo (Cf. At 14,17).
“Annuncia a Giacobbe la sua parola”; il salmista riprende il tema della parola data ad Israele per mezzo dei profeti. La legge di Mosè e i suoi decreti sono ripresentati con forza dai profeti e dai sacerdoti.
“Così non ha fatto con nessun'altra nazione...”; Israele è oggetto di un'elezione divina, che lo costituisce segno di Dio in mezzo ai popoli.
La Chiesa è invitata a lodare Dio, a glorificarlo, perché ha inviato e dato il suo Figlio, la sua Parola perfetta. Egli l'assiste fortificandola con la forza dello Spirito Santo, e la nutre con fior di frumento, cioè con il pane che non è più pane, se non nelle apparenze, essendo realmente diventato il Corpo del Signore.
Commento tratto da “Perfetta Letizia”i
Dalla prima lettera di S.Paolo apostolo ai Corinzi
Fratelli, il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo?
Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane.
1Cor 10,16-17
La Prima lettera ai Corinzi, che Paolo scrisse da Efeso nel 53-54, è una delle più lunghe fra quelle scritte da Paolo, paragonabile a quella dei Romani, ambedue infatti sono suddivise in 16 capitoli.
La lettera si contraddistingue per la molteplicità dei temi che Paolo vi affronta per chiarire dubbi o difficoltà della comunità e per correggere abusi e deviazioni. In essa l’apostolo dovrà prendere posizioni anche piuttosto critiche, che potrebbero compromettergli la simpatia dei destinatari.
Nel capitolo 10, dal quale è stato tratto questo brano, Paolo illustra con grande chiarezza e profondità il significato dell’Eucaristia, e così affronta il problema delle carni sacrificate agli idoli, e che poi venivano vendute al mercato. I cristiani più intelligenti e maturi le mangiavano senza farsi troppi problemi. Le persone più semplici se ne facevano scrupolo e si scandalizzavano davanti al comportamento più disinvolto dei primi.
Paolo raccomanda ai Corinzi di avere a cuore queste persone più deboli e di non dare loro scandalo facendosi vedere a mangiare queste carni. Il principio che offre è quello della comunione. Chi mangia la carne sacrificata agli idoli entra in comunione con essi e con chi offre loro i sacrifici. Chi mangia la carne e il sangue di Cristo entra in comunione con Lui e con tutti coloro che mangiano insieme. Così risolvendo un problema della comunità di Corinto, Paolo ci ha lasciato una delle più belle descrizioni dell'Eucarestia.
“Fratelli, il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? “
Le domande che Paolo pone sono in forma retorica, perché il suo intento è di sottolineare le proprie affermazioni. Il calice della benedizione è il calice dell'Eucarestia. La benedizione era stata utilizzata da Gesù stesso nell'ultima Cena e proveniva dalle benedizioni previste per i pasti del popolo di Israele. Il termine comunione traduce la parola greca koinonìa, che indica propriamente la condivisione, la comunanza di un bene tra un certo numero di persone. Quindi ciò significa soprattutto la comunione tra i credenti che bevono allo stesso calice e mangiano lo stesso pane, il corpo e il sangue di Cristo. Gli elementi eucaristici non sono presentati come il corpo e il sangue di Cristo, ma come dei segni che hanno il potere, nel contesto del rito che commemora la morte e la resurrezione di Cristo, di stabilire un vero rapporto di comunione con Lui. Non sono dunque simboli vuoti, ma strumenti efficaci della presenza di Cristo stesso.
“ Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane”.
Paolo ci dà una chiave di interpretazione molto importante e formula in modo limpido il senso di ogni celebrazione eucaristica: da quella che si svolgeva nella città di Corinto in Grecia a quella che oggi si compirà nelle nostre città o nei nostri piccoli centri. Attraverso il calice e il pane posti sull’altare, Cristo comunica con noi il Suo corpo, cioè la Sua vita, il Suo amore e la Sua gloria.
Dal vangelo secondo Giovanni
In quel tempo Gesù disse alla folla:
«Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».
Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?».
Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda.
Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno».
Gv 6,51-58
In questo brano, Gesù sviluppa il discorso eucaristico iniziato dopo il miracolo della moltiplicazione dei pani. Sta parlando nella sinagoga di Cafarnao e afferma che per mezzo del Figlio dell’uomo il Padre dà il vero pane dal cielo, nel quale si concretizza in modo simbolico la salvezza promessa dai profeti. In seguito alla domanda posta dai presenti, Gesù prosegue affermando che questo pane non è qualcosa di separato da Lui, ma si identifica con la Sua stessa persona; Egli infatti è stato mandato dal Padre a portare la vita a chi crede in Lui.
In seguito alle ulteriori mormorazioni dei giudei, Gesù sottolinea che per mezzo di Lui si attua l’attesa di un insegnamento conferito direttamente da Dio e infine, con chiaro riferimento all’episodio biblico della manna, Gesù si presenta nuovamente come il pane della vita. E’ con le Sue parole che ha inizio il brano che lo rende più radicale affermando: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».
Il pane che Gesù darà non solo si identifica con la Sua persona, ma è la Sua stessa carne che deve essere mangiata perché possa comunicare la vita.
Nel linguaggio biblico la carne non è altro che la persona umana, vista però in tutta la sua limitatezza e fragilità. In Gesù, Figlio di Dio e Figlio dell’uomo, il Verbo si è fatto carne, e ora dà la Sua carne in cibo all’umanità. L’identificazione del pane della vita con la “carne” di Gesù ci porta a pensare all’ultima cena in cui Gesù darà ai Suoi discepoli il pane e il vino come segno del Suo corpo.
Il brano prosegue riportando che i giudei esprimono di nuovo la loro incredulità chiedendosi: “Come può costui darci la sua carne da mangiare?”. Gesù non risponde alla loro domanda, ma prosegue il Suo discorso: “In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. “
Con queste parole Gesù, invece di chiarire il significato dell’affermazione precedente, evidenzia ancora di più la sua realtà sottolineando come per avere la vita sia necessario non solo mangiare la Sua carne ma anche bere il Suo sangue. Poi Gesù ancora precisa: : “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda.”
Con queste espressioni Egli non fa altro che ribadire quanto affermato precedentemente, sottolineando che la Sua carne è “vero” cibo e il Suo sangue è “vera” bevanda: l’effetto di questo mangiare e bere è la vita eterna che appare come una realtà già presente e al tempo stesso futura, in quanto coincide con la risurrezione che avrà luogo “nell’ultimo giorno”
Il significato della vita promessa a chi mangia la Sua carne e beve il Suo sangue viene ulteriormente specificato da Gesù con queste parole:. “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me”.
Tra Gesù e colui che mangia il Suo corpo e beve il Suo sangue, si instaura dunque un’intima comunione di vita, che si modella su quella che unisce Gesù al Padre, anzi ne è la conseguenza e lo sviluppo logico: come il Figlio, che è stato mandato dal Padre, attinge da Lui tutta la Sua vita, così chi si nutre del Figlio attinge da Lui quella stessa vita che Egli ha ricevuto dal Padre.
Gesù giunge alla fine del Suo discorso dicendo: “Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno”.
Con queste parole Gesù, riprendendo espressioni già usate precedentemente, afferma di essere Lui il pane disceso dal cielo, perché, diversamente dalla manna, Lui dà una vita che dura in eterno.
Non è difficile immaginare cosa avranno pensato i suoi uditori ….certo questo rabbi ha detto e fatto cose mai sentite e viste prima …ma ora cosa propone?!
Sono passati secoli e tante cose più razionali e scientifiche hanno fatto il loro tempo, ma quello scandalo predicato nella sinagoga di Cafarnao non cessa di essere vivo.
La persona di Gesù Cristo, donata sulla croce per la salvezza di tutta l’umanità e rappresentata nei segni eucaristici del pane e del vino, è sempre il nutrimento dei tempi escatologici, dal quale scaturisce la vita piena nella comunione con il Padre.
Il credente è invitato alla comunione con la Sapienza divina e con Cristo attraverso l’Eucaristia. Non è una comunione automatica, superficiale come purtroppo spesso avviene nelle nostre celebrazioni eucaristiche distratte, abitudinarie, tradizionali, deve essere invece una comunione che è dialogo e reciprocità.
Ricordiamolo sempre: la comunione eucaristica trasforma il credente, lo rende inno di lode, lo rende Corpo di Cristo e Sua Parola vivente :“Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui”, queste Sue parole sono scolpite nel nostro intimo più profondo, non le possiamo cancellare!
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“Oggi, in Italia e in altre Nazioni, si celebra la solennità del Corpo e Sangue di Cristo, il Corpus Domini.
Nella seconda Lettura della liturgia odierna, San Paolo risveglia la nostra fede in questo mistero di comunione . Egli sottolinea due effetti del calice condiviso e del pane spezzato: l’effetto mistico e l’effetto comunitario.
Dapprima l’Apostolo afferma: «?» Il calice della benedizione che noi benediciamo non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo non è forse comunione con il corpo di Cristo. Queste parole esprimono l’effetto mistico o possiamo dire l’effetto spirituale dell’Eucaristia: esso riguarda l’unione con Cristo, che nel pane e nel vino si offre per la salvezza di tutti. Gesù è presente nel sacramento dell’Eucaristia per essere il nostro nutrimento, per essere assimilato e diventare in noi quella forza rinnovatrice che ridona energia e ridona voglia di rimettersi in cammino, dopo ogni sosta o dopo ogni caduta. Ma questo richiede il nostro assenso, la nostra disponibilità a lasciar trasformare noi stessi, il nostro modo di pensare e di agire; altrimenti le celebrazioni eucaristiche a cui partecipiamo si riducono a dei riti vuoti e formali. Tante volte qualcuno va a messa perché si deve andare, come un atto sociale, rispettoso, ma sociale. Ma il mistero è un’altra cosa: è Gesù presente che viene per nutrirci.
Il secondo effetto è quello comunitario ed è espresso da San Paolo con queste parole: «Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo». Si tratta della comunione reciproca di quanti partecipano all’Eucaristia, al punto da diventare tra loro un corpo solo, come unico è il pane che si spezza e si distribuisce. Siamo comunità, nutriti dal corpo e dal sangue di Cristo. La comunione al corpo di Cristo è segno efficace di unità, di comunione, di condivisione. Non si può partecipare all’Eucaristia senza impegnarsi in una fraternità vicendevole, che sia sincera. Ma il Signore sa bene che le nostre sole forze umane non bastano per questo. Anzi, sa che tra i suoi discepoli ci sarà sempre la tentazione della rivalità, dell’invidia, del pregiudizio, della divisione... Tutti conosciamo queste cose. Anche per questo ci ha lasciato il Sacramento della sua Presenza reale, concreta e permanente, così che, rimanendo uniti a Lui, noi possiamo ricevere sempre il dono dell’amore fraterno. «Rimanete nel mio amore» , ha detto Gesù; ed è possibile grazie all’Eucaristia. Rimanere nell’amicizia, nell’amore.
Questo duplice frutto dell’Eucaristia: il primo, l’unione con Cristo e il secondo, la comunione tra quanti si nutrono di Lui, genera e rinnova continuamente la comunità cristiana. È la Chiesa che fa l’Eucaristia, ma è più fondamentale che l’Eucaristia fa la Chiesa, e le permette di essere la sua missione, prima ancora di compierla. Questo è il mistero della comunione, dell’Eucaristia: ricevere Gesù perché ci trasformi da dentro e ricevere Gesù perché faccia di noi l’unità e non la divisione.
La Vergine Santa ci aiuti ad accogliere sempre con stupore e gratitudine il grande dono che Gesù ci ha fatto lasciandoci il Sacramento del suo Corpo e del suo Sangue.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus 14 giugno 2020