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Giu 6, 2023

I Domenica dopo Pentecoste - Anno A - Santissima Trinità - 4 giugno 2023

Le letture della liturgia di questa domenica della Santissima Trinità, la prima dopo Pentecoste, ci fanno intravedere il volto di Dio invisibile, misericordioso e pietoso, il cui mistero è da cercare nell’infinita sua luce che si esprime nell’amore.
Nella prima lettura, tratta dal libro dell’Esodo, troviamo l’antico credo che il Signore stesso insegna a Mosè nella cornice del Sinai: “il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà». Il primato di Dio non è quello della giustizia che punisce, ma quello dell’amore che perdona.
Nella seconda lettura, tratta dalla seconda lettera ai Corinzi, S. Paolo conclude la lettera con un saluto trinitario “La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi”, che è divenuto il saluto d’ingresso della celebrazione. La Trinità entra nell’esistenza del credente offrendo la grazia di Cristo, l’amore del Padre e la comunione dello Spirito Santo.
Nel Vangelo, Giovanni ci presenta il dialogo notturno tra Gesù e Nicodemo, simbolo dell’uomo che cerca Dio con cuore sincero. A lui Gesù dice: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio, unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna...”
C’è un dono del Padre e un dono del Figlio, ma entrambi hanno lo scopo di liberare l’uomo dal male. E’ in questa luce che la divinità penetra nella vicenda umana, in quella di ogni uomo, offrendo la grazia del Cristo, l’amore del Padre e la comunione dello Spirito Santo.

Dal libro dell’Esodo
In quei giorni, Mosè si alzò di buon mattino e salì sul monte Sinai, come il Signore gli aveva comandato, con le due tavole di pietra in mano.
Allora il Signore scese nella nube, si fermò là presso di lui e proclamò il nome del Signore. Il Signore passò davanti a lui, proclamando: «Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà».
Mosè si curvò in fretta fino a terra e si prostrò. Disse: «Se ho trovato grazia ai tuoi occhi, Signore, che il Signore cammini in mezzo a noi. Sì, è un popolo di dura cervìce, ma tu perdona la nostra colpa e il nostro peccato: fa’ di noi la tua eredità».
Es 34,4b-6, 8-9

L'Esodo è il secondo libro della Bibbia e della Torah ebraica. È stato scritto in ebraico e, secondo l'ipotesi di molti studiosi, la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte. È composto da 40 capitoli; nei primi 14 descrive il soggiorno degli Ebrei in Egitto, la loro schiavitù e la miracolosa liberazione tramite Mosè, mentre nei restanti descrive il soggiorno degli Ebrei nel deserto del Sinai. Il periodo descritto si colloca intorno al 1300-1200 a.C.
Il libro dell'Esodo è suddiviso in tre grandi sezioni, corrispondenti ai tre momenti della narrazione:
La prima, (capitoli 11,1-15,21), comprende il racconto dell'oppressione degli Ebrei in Egitto, la nascita di Mosè, la fuga di Mosè a Madian e la scelta divina, il suo ritorno in Egitto, le dieci piaghe e l'uscita dal paese.
La seconda sezione (15,22-18,27) narra del viaggio lungo la costa del Mar Rosso e nel deserto del Sinai.
La terza (19,1-40,38) riguarda l'incontro tra Dio e il popolo eletto, mediante le tappe fondamentali del decalogo e del codice dell'alleanza, seguito dall'episodio del vitello d'oro e dalla costruzione del Tabernacolo
Nel brano che abbiamo, tratto dalla terza sezione, vediamo Mosè, che volendo ricomporre l’alleanza tra il popolo e Dio, “si alzò di buon mattino e salì sul monte Sinai, come il Signore gli aveva comandato, con le due tavole di pietra in mano”, perché Dio gli ridoni la legge. In questo episodio, che la Liturgia ci presenta, possiamo avere la prova che Dio è veramente un Dio di misericordia.
Nei versetti precedenti avevamo visto che per la seconda volta Dio chiama Mosè sul monte per stabilire un’alleanza con il popolo d’Israele. Quando scese dal monte la prima volta, Mosè trovò che il suo popolo si era fabbricato un vitello d’oro al quale offriva sacrifici.
L’alleanza che Dio aveva stipulato con il popolo d’Israele sul monte diceva così: “Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa.”.(Es 19:5–6) Il popolo d’Israele non aveva avuto fede in Dio durante la traversata del Mar Rosso, nel deserto si era lamentato di Lui e adesso quest’atto di ribellione del vitello d’oro avrebbe dovuto far perdere definitivamente la pazienza a Dio.
Ma Dio non solo non perde la pazienza con questo popolo caparbio, ma è disposto ad incontrare di nuovo Mosè e rinnovare la Sua alleanza. Il contenuto di questo messaggio lo troviamo nel brano di oggi:
“Allora il Signore scese nella nube, si fermò là presso di lui e proclamò il nome del Signore”.
Dio proclama il Suo nome: "Yahweh! Yahweh!“ il nome irripetibile, e spiega poi il significato di quel nome “Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà....”. Sono parole di una insuperabile dolcezza che non trova eguali neanche nel Nuovo Testamento!.
DIO è “misericordioso”, cioè è dotato di quella dolcezza e tenerezza di cui è simbolo il seno materno (rehem); egli è “disposto a far grazia” , cioè a donare gratuitamente la Sua benevolenza; è “lento all’ira” (paziente), in quanto non si adira facilmente contro i Suoi eletti, anche quando essi vengono meno ai loro doveri verso di Lui; Egli è ricco di “fedeltà”, ossia è fermo nella Sua fedeltà verso coloro che ha scelto e la conserva per mille generazioni, cioè senza limiti di tempo.
E’ proprio facendo appello alla Misericordia di Dio, che Mosè curvandosi fino a terra disse:
«Se ho trovato grazia ai tuoi occhi, Signore, che il Signore cammini in mezzo a noi. Sì, è un popolo di dura cervìce, ma tu perdona la nostra colpa e il nostro peccato: fa’ di noi la tua eredità». Lo prega per il popolo di Israele, che è si gente di “dura cervice”, ma è sempre la sua gente, e di continuare a camminare ed abitare con il Suo popolo e fare di loro la Sua eredità.
Ciò che appare in primo piano è la bontà e misericordia, di Dio che Lo rende simile a una madre che tratta con tenerezza i suoi figli. Questo aspetto è trattato anche da Osea (11,1-4) che parla dell’amore di Dio per il suo popolo con note di affetto durevole, di una passione inquieta e di una tenerezza profonda. Anche secondo l'autore del libro profetico di Giona, troviamo un Dio così pietoso capace di ricredersi dei castighi minacciati alla città di Ninive., la città empia e sanguinaria di Assiria
Anche Gesù nella parabola del Figliol prodigo dipinge a parole la misericordia di Dio nella figura del padre pietoso che aspetta il figlio degenere , lo accoglie, lo riveste della dignità persa, riportandolo alla dignità di "figlio"

Salmo Dn 3
Benedetto sei tu, Signore, Dio dei padri nostri.
A te la lode e la gloria nei secoli.
Benedetto il tuo nome glorioso e santo.
A te la lode e la gloria nei secoli.
Benedetto sei tu nel tuo tempio santo, glorioso.
A te la lode e la gloria nei secoli.
Benedetto sei tu sul trono del tuo regno.
A te la lode e la gloria nei secoli.
Benedetto sei tu che penetri con lo sguardo
gli abissi e siedi sui cherubini.
A te la lode e la gloria nei secoli.
Benedetto sei tu nel firmamento del cielo.
A te la lode e la gloria nei secoli

Questo salmo è "Il Cantico, tradizionalmente chiamato "dei tre giovani". E’ simile ad una fiaccola che rischiara l'oscurità del tempo dell'oppressione e della persecuzione, un tempo che spesso si è ripetuto nella storia di Israele e nella stessa storia del cristianesimo".
Con queste parole Giovanni Paolo II ha commentato il Cantico Dn 3, 52-57 "Ogni creatura lodi il Signore" - delle Lodi di domenica della 4ª settimana - durante l'udienza generale di mercoledì 19 febbraio 2003, nell'Aula Paolo VI. Dopo la proclamazione dei versetti 3, 52-57, il Papa ha svolto la seguente catechesi:
1. "Quei tre giovani, a una sola voce, si misero a lodare, a glorificare, a benedire Dio nella fornace" (Dn 3, 51). Questa frase introduce al celebre Cantico che ora abbiamo ascoltato in un suo frammento fondamentale. Esso si trova all'interno del Libro di Daniele, nella parte giunta a noi solo in lingua greca, ed è intonato da testimoni coraggiosi della fede, che non hanno voluto piegarsi all'adorazione della statua del re e hanno preferito affrontare una morte tragica, il martirio nella fornace ardente.
Sono tre giovani ebrei, collocati dall'autore sacro nel contesto storico del regno di Nabucodonosor, il tremendo sovrano babilonese che annientò la città santa di Gerusalemme nel 586 a.C. e deportò gli Israeliti "lungo i fiumi di Babilonia" (cfr Sal 136). Pur nel pericolo estremo, quando le fiamme ormai lambiscono i loro corpi, essi trovano la forza di "lodare, glorificare e benedire Dio", certi che il Signore del cosmo e della storia non li abbandonerà alla morte e al nulla.
2. L'autore biblico, che scriveva qualche secolo dopo, evoca questo eroico evento per stimolare i suoi contemporanei a tenere alto il vessillo della fede durante le persecuzioni dei re siro-ellenistici del secondo secolo a.C. Proprio allora si registra la coraggiosa reazione dei Maccabei, combattenti per la libertà della fede e della tradizione ebraica. Il Cantico, tradizionalmente chiamato "dei tre giovani", è simile ad una fiaccola che rischiara l'oscurità del tempo dell'oppressione e della persecuzione, un tempo che spesso si è ripetuto nella storia di Israele e nella stessa storia del cristianesimo. E noi sappiamo che il persecutore non assume sempre il volto violento e macabro dell'oppressore, ma spesso si compiace d'isolare il giusto, con la beffa e l'ironia, chiedendogli con sarcasmo: "Dov'è il tuo Dio?" (Sal 41, 4.11).
3. Nella benedizione che i tre giovani fanno salire dal crogiolo della loro prova al Signore Onnipotente sono coinvolte tutte le creature. Essi intessono una sorta di arazzo multicolore dove brillano gli astri, scorrono le stagioni, si muovono gli animali, si affacciano gli angeli e soprattutto cantano i "servi del Signore", i "pii" e gli "umili di cuore" (cfr Dn 3, 85.87).
Il brano che è stato prima proclamato precede questa magnifica evocazione di tutte le creature. Costituisce la prima parte del Cantico, la quale evoca invece la presenza gloriosa del Signore, trascendente eppure vicina. Sì, perché Dio è nei cieli, dove "penetra con lo sguardo gli abissi" (cfr 3, 55), ma è anche "nel tempio santo glorioso" di Sion (cfr 3, 53). Egli è assiso sul "trono del suo regno" eterno e infinito (cfr 3, 54), ma è anche colui che "siede sui cherubini" (cfr 3, 55), nell'arca dell'alleanza collocata nel Santo dei Santi del tempio di Gerusalemme.
4. Un Dio al di sopra di noi, capace di salvarci con la sua potenza; ma anche un Dio vicino al suo popolo, in mezzo al quale Egli ha voluto abitare nel suo "tempio santo glorioso", manifestando così il suo amore. Un amore che Egli rivelerà in pienezza nel far "abitare in mezzo a noi" il Figlio suo Gesù Cristo "pieno di grazia e di verità" (cfr Gv 1, 14). Egli rivelerà in pienezza il suo amore nel mandare in mezzo a noi il Figlio a condividere in tutto, fuorché nel peccato, la nostra condizione segnata da prove, oppressioni, solitudine e morte.
La lode dei tre giovani al Dio Salvatore continua in modo vario nella Chiesa. Per esempio, san Clemente Romano, al termine della sua Lettera ai Corinzi, inserisce una lunga preghiera di lode e di fiducia, tutta intessuta di reminiscenze bibliche e forse riecheggiante l'antica liturgia romana. È una preghiera di gratitudine al Signore che, nonostante l'apparente trionfo del male, guida a buon fine la storia.
5. Eccone un passaggio:
"Tu apristi gli occhi del nostro cuore (cfr Ef 1, 18) perché conoscessimo te il solo (cfr Gv 17, 3) altissimo nell'altissimo dei cieli il Santo che riposi tra i santi che umìli la violenza dei superbi (cfr Is 13, 11) che sciogli i disegni dei popoli (cfr Sal 32, 10) che esalti gli umili e abbassi i superbi (cfr Gb 5, 11). Tu che arricchisci e impoverisci che uccidi e dai la vita (cfr Dt 32, 39) il solo benefattore degli spiriti e Dio di ogni carne che scruti gli abissi (cfr Dn 3, 55) che osservi le opere umane che soccorri quelli che sono in pericolo e salvi i disperati (cfr Gdt 9, 11) creatore e custode di ogni spirito che moltiplichi i popoli sulla terra e che fra tutti scegliesti quelli che ti amano per mezzo di Gesù Cristo l'amatissimo tuo Figlio mediante il quale ci hai educato, ci hai santificato e ci hai onorato"
(Clemente Romano, Lettera ai Corinzi, 59, 3: I Padri Apostolici, Roma 1976, pp. 88-89).

Dalla seconda lettera di S.Paolo apostolo ai Corinzi
Fratelli, siate gioiosi, tendete alla perfezione, fatevi coraggio a vicenda, abbiate gli stessi sentimenti, vivete in pace e il Dio dell’amore e della pace sarà con voi. Salutatevi a vicenda con il bacio santo. Tutti i santi vi salutano.
La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi.
2Cor 13,11-13

Paolo scrive la seconda lettera al Corinzi, (si può pensare intorno agli anni 56-57) spinto dai gravi avvenimenti che avevano scosso la comunità di Corinto. Nell’anno 56 Paolo si trovava ad Efeso (At 19) e venne a sapere che alcuni contestatori giudeo-cristiani stavano sollevando la comunità contro di lui. Vi fa una breve visita, ma è ricevuto freddamente, stanco e forse implicato troppo personalmente nel conflitto, non riesce ad aggiustare nulla, anzi la sua visita accresce piuttosto il disordine, si ripromette allora di ritornare in seguito, prendendo tutto il tempo necessario.
Mentre aspetta è pubblicamente offeso, probabilmente da uno dei suoi più vicini collaboratori (parla di un offensore e di un offeso (2,5;7,12). Sotto la spinta dell’emozione invia una lettera, che sarà giudicata troppo severa (2,3-4;8-12), in cui esige che sia riparata una tale offesa.
Meno ricca della prima in insegnamenti dottrinali, la seconda lettera ai Corinzi ha però il grande merito di introdurci nella vita interiore dell’Apostolo, nella sua mistica. E’ in questi capitoli che si può entrare nella psicologia e nel carattere appassionato di Paolo e si può affermare che per comprenderlo meglio ci si deve rifare sempre a questa lettera che può essere considerata come il suo diario intimo, le sue “confessioni”. In nessun altro scritto traspare tanto la sua personalità, caratterizzata da un contrasto di forza e di debolezza, di audacia e di riserbo, di impetuosità e di tenerezza. Lo scopriamo organizzatore e missionario, fondatore e pastore, mistico e uomo d’azione, con una coscienza profonda della sua missione apostolica.
Il brano che la liturgia ci presenta riporta gli ultimi tre versetti della lettera ed è stato scelto per la particolare benedizione finale, in cui compaiono le persone della Trinità e le loro particolari attribuzioni (la grazia, l'amore, la comunione).
“Fratelli, siate gioiosi, tendete alla perfezione, fatevi coraggio a vicenda, abbiate gli stessi sentimenti, vivete in pace e il Dio dell’amore e della pace sarà con voi”.
Dopo averli prima ammoniti severamente, Paolo esorta ora i Corinzi alla gioia, una gioia speciale che deriva dall'appartenere a Cristo indirizzandoli ad una adesione vera e sincera.
La gioia è quindi un atteggiamento di fondo che continua anche davanti alle persecuzioni e alla perdita dell'entusiasmo iniziale. Li esorta anche alla perfezione, nel senso di ritornare sulla retta via dato che essi si erano lasciati sviare da chi aveva denigrato Paolo.
E’ da notare che li invita a farsi coraggio con il verbo parakaleo, (da cui deriva anche il termine Paraclito, attribuito soprattutto allo Spirito), in cui si possono trovare anche i significati di incoraggiare, esortare.
Paolo continua invitando i Corinzi alla concordia, alla pace, ricordando con una formula liturgia (e il Dio dell'amore e della pace sarà con voi) che Dio ama coloro che vivono nella concordia e nella pace.
Paolo scrive la seconda lettera al Corinzi, (si può pensare intorno agli anni 56-57) spinto dai gravi avvenimenti che avevano scosso la comunità di Corinto. Nell’anno 56 Paolo si trovava ad Efeso (At 19) e venne a sapere che alcuni contestatori giudeo-cristiani stavano sollevando la comunità contro di lui. Vi fa una breve visita, ma è ricevuto freddamente, stanco e forse implicato troppo personalmente nel conflitto, non riesce ad aggiustare nulla, anzi la sua visita accresce piuttosto il disordine, si ripromette allora di ritornare in seguito, prendendo tutto il tempo necessario.
Mentre aspetta è pubblicamente offeso, probabilmente da uno dei suoi più vicini collaboratori (parla di un offensore e di un offeso (2,5;7,12). Sotto la spinta dell’emozione invia una lettera, che sarà giudicata troppo severa (2,3-4;8-12), in cui esige che sia riparata una tale offesa.
Meno ricca della prima in insegnamenti dottrinali, la seconda lettera ai Corinzi ha però il grande merito di introdurci nella vita interiore dell’Apostolo, nella sua mistica. E’ in questi capitoli che si può entrare nella psicologia e nel carattere appassionato di Paolo e si può affermare che per comprenderlo meglio ci si deve rifare sempre a questa lettera che può essere considerata come il suo diario intimo, le sue “confessioni”. In nessun altro scritto traspare tanto la sua personalità, caratterizzata da un contrasto di forza e di debolezza, di audacia e di riserbo, di impetuosità e di tenerezza. Lo scopriamo organizzatore e missionario, fondatore e pastore, mistico e uomo d’azione, con una coscienza profonda della sua missione apostolica.
Il brano che la liturgia ci presenta riporta gli ultimi tre versetti della lettera ed è stato scelto per la particolare benedizione finale, in cui compaiono le persone della Trinità e le loro particolari attribuzioni (la grazia, l'amore, la comunione).
“Fratelli, siate gioiosi, tendete alla perfezione, fatevi coraggio a vicenda, abbiate gli stessi sentimenti, vivete in pace e il Dio dell’amore e della pace sarà con voi”.
Dopo averli prima ammoniti severamente, Paolo esorta ora i Corinzi alla gioia, una gioia speciale che deriva dall'appartenere a Cristo indirizzandoli ad una adesione vera e sincera.
La gioia è quindi un atteggiamento di fondo che continua anche davanti alle persecuzioni e alla perdita dell'entusiasmo iniziale. Li esorta anche alla perfezione, nel senso di ritornare sulla retta via dato che essi si erano lasciati sviare da chi aveva denigrato Paolo.
E’ da notare che li invita a farsi coraggio con il verbo parakaleo, (da cui deriva anche il termine Paraclito, attribuito soprattutto allo Spirito), in cui si possono trovare anche i significati di incoraggiare, esortare.
Paolo continua invitando i Corinzi alla concordia, alla pace, ricordando con una formula liturgia (e il Dio dell'amore e della pace sarà con voi) che Dio ama coloro che vivono nella concordia e nella pace.

Dal vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, disse Gesù a Nicodèmo:
«Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio, unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna.
Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui.
Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio».
Gv 3:,16-18

In questo brano del Vangelo di Giovanni, incontriamo per la prima volta Nicodemo, un dottore della Legge, fariseo e membro del Sinedrio.. Lo troveremo ancora quando interviene in difesa di Gesù allorquando i Farisei lo volevano arrestare (7,45.51) e quando insieme a Giuseppe d’Arimatea contribuisce alla deposizione di Gesù dopo la crocifissione e lo aiuta a deporne il corpo nella tomba (19,39-42)
Nicodemo è simbolo dell’uomo che cerca Dio con cuore sincero, è incuriosito da Gesù, ne è affascinato. Sappiamo che è un uomo retto, un uomo di Legge, ma ha paura, teme il giudizio impietoso dei suoi amici farisei del Sinedrio, per cui va da Gesù di notte. Gesù lo accoglie ugualmente e lo invita a riflettere: per cambiare deve avere il coraggio di rinascere dall'alto, deve avere il coraggio di cambiare mentalità.
Cosa avrà provato Nicodemo quando Gesù gli disse:”Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio, unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna....”
C’è il verbo del dono che emerge “dare” e sarà ripreso nel Vangelo per descrivere il darsi di Gesù nella morte di croce. C’è quindi, un dono del Padre e un dono del Figlio, ma entrambi hanno come fine la liberazione dell’uomo dal male.
“Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui “
Questo versetto precisa meglio la motivazione dell'invio del Figlio nel mondo: la salvezza del mondo. Quindi si passa dai credenti che devono avere la vita eterna, al mondo intero, perché sia salvato..
«Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio».
Il messaggio di Gesù non è un messaggio qualunque: richiede una presa di posizione da parte dell'uomo. Chi non si decide a favore di Dio della Sua luce, del Suo amore, si condanna da solo. Chi non accoglie la Sua luce rimane nelle tenebre.
Sicuramente anche Nicodemo, come i discepoli e come noi oggi, ha fatto fatica a percepire l'inaudita novità di un Dio Uno e Trino. Gesù ci rivela il Padre. È l'unico che può farlo veramente; lo leggiamo nel prologo di questo vangelo: «In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio..»: è il Figlio che svela il Padre, il Risorto che toglie il velo che ci impedisce di vedere e di percepire la realtà divina di tre Persone la cui relazione d'amore coinvolge tutti noi che formiamo la Chiesa e siamo destinatari della stessa relazione d'amore divina che ci travolge e ci porta ad una prospettiva che ci riempie di speranza gioiosa: la vita eterna!
Karl Rahner (teologo gesuita uno dei maggiori protagonisti del rinnovamento della Chiesa che portò al Concilio Vaticano II) dà un immagine suggestiva per descrivere la presenza segreta ed efficace della Trinità nella storia e nella vita umana, “La nostra esistenza è come un rivolo che serpeggia in un deserto fatto di banalità, di male, di egoismi. C’è il rischio che quella steppa riesca ad essiccarlo. Ma dietro le dune grigie dei nostri giorni, sentiamo l’eco di un mare immenso. Il nostro ruscello, anche se lentamente, è destinato ad approdare nelle onde infinite di Dio. Il Cristo stesso ci estrae dalle secche, ci aiuta ad uscire dal deserto del peccato e ci fa discendere nel grande mare della pace e della luce di Dio.”

********************

“Il Vangelo di oggi , festa della Santissima Trinità, mostra – col linguaggio sintetico dell’apostolo Giovanni – il mistero dell’amore di Dio per il mondo, sua creazione.
Nel breve dialogo con Nicodemo, Gesù si presenta come Colui che porta a compimento il piano di salvezza del Padre in favore del mondo. Egli afferma: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito». Queste parole stanno a indicare che l’azione delle tre Persone divine – Padre, Figlio e Spirito Santo – è tutta un unico disegno d’amore che salva l’umanità e il mondo, è un disegno di salvezza per noi.
Dio ha creato il mondo buono, bello, ma dopo il peccato il mondo è segnato dal male e dalla corruzione. Noi uomini e donne siamo peccatori, tutti, pertanto Dio potrebbe intervenire per giudicare il mondo, per distruggere il male e castigare i peccatori. Invece, Egli ama il mondo, nonostante i suoi peccati; Dio ama ciascuno di noi anche quando sbagliamo e ci allontaniamo da Lui. Dio Padre ama talmente il mondo che, per salvarlo, dona ciò che ha di più prezioso: il suo Figlio unigenito, il quale dà la sua vita per gli uomini, risorge, torna al Padre e insieme a Lui manda lo Spirito Santo. La Trinità è dunque Amore, tutta al servizio del mondo, che vuole salvare e ricreare.
Oggi, pensando a Dio Padre e Figlio e Spirito Santo, pensiamo all’amore di Dio! E sarebbe bello che noi ci sentissimo amati. “Dio mi ama”: questo è il sentimento di oggi.
Quando Gesù afferma che il Padre ha dato il suo Figlio unigenito, ci viene spontaneo pensare ad Abramo e alla sua offerta del figlio Isacco, di cui parla il libro della Genesi (cfr 22,1-14): ecco la “misura senza misura” dell’amore di Dio. E pensiamo anche a come Dio si rivela a Mosè: pieno di tenerezza, misericordioso, pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e di fedeltà (cfr Es 34,6). L’incontro con questo Dio ha incoraggiato Mosè, il quale, come narra il libro dell’Esodo, non ebbe paura di frapporsi tra il popolo e il Signore, dicendogli: «Sì, è un popolo di dura cervice, ma tu perdona la nostra colpa e il nostro peccato: fa’ di noi la tua eredità». E così ha fatto Dio inviando il suo Figlio. Noi siamo figli nel Figlio con la forza dello Spirito Santo! Noi siamo l’eredità di Dio!
Cari fratelli e sorelle, la festa di oggi ci invita a lasciarci nuovamente affascinare dalla bellezza di Dio; bellezza, bontà e verità inesauribile. Ma anche bellezza, bontà e verità umile, vicina, che si è fatta carne per entrare nella nostra vita, nella nostra storia, nella mia storia, nella storia di ciascuno di noi, perché ogni uomo e donna possa incontrarla e avere la vita eterna. E questo è la fede: accogliere Dio-Amore, accogliere questo Dio-Amore che si dona in Cristo, che ci fa muovere nello Spirito Santo; lasciarsi incontrare da Lui e confidare in Lui. Questa è la vita cristiana. Amare, incontrare Dio, cercare Dio; e Lui ci cerca per primo, Lui ci incontra per primo.
La Vergine Maria, dimora della Trinità, ci aiuti ad accogliere con cuore aperto l’amore di Dio, che ci riempie di gioia e dà senso al nostro cammino in questo mondo, orientandolo sempre alla meta che è il Cielo.”
Papa Francesco
Parte dell’Angelus del 7 giugno 2020

 

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Pro Memoria

L'umanità è una grande e  immensa famiglia ... Troviamo la dimostrazione di ciò da quello che ci sentiamo nei nostri cuori a Natale.
(Papa Giovanni XXIII)

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