Le letture liturgiche di questa domenica sono quanto mai attuali perchè contribuiscono a dimensionare i nostri problemi, proponendoci valori più alti che danno più senso e significato alla vita.
La prima lettura, tratta dal libro del Qoelet, riporta i versetti celeberrimi che tutti ad orecchio conoscono “Vanità delle Vanità…tutto è vanità”. Le cose della terra non danno sicurezza, sfumano in un attimo, ed è vano, alla luce della fede contare su di esse.
Nella seconda lettura, San Paolo continuando la sua lettera ai Colossesi, ci ricorda che nel battesimo è avvenuta in noi una profonda trasformazione: il modo di vivere che abbiamo “rivestito” è quello stesso di Cristo e pertanto dobbiamo rivolgerci alle “cose di lassù”. Non possiamo tornare a vivere da idolatri, assolutizzando i beni di questo mondo.
Nel Vangelo, Luca racconta di come Gesù, per far comprendere come le ricchezze siano passeggere, racconta la parabola del ricco stolto, che dopo un abbondante raccolto, si preoccupava solo di come doveva conservarlo. Il possesso dei beni terreni è in realtà illusorio: perchè ci si illude di possederli, ma in fondo non si possiedono ed è la morte che rivela in modo evidente questa verità. Gesù non vuole inculcare in chi lo ascolta il timore di una morte improvvisa, ma indicare che il fondamento sicuro dell’esistenza è Dio solo. In Lui acquista significato anche l’uso delle cose, per se stesse buone se non saranno più strumento di divisione, ma di comunione. L’uomo non le deve tenere egoisticamente per sé, ma trasformale in “mezzi” d’amore.
Dal libro del Qoèlet
Vanità delle vanità, dice Qoèlet, vanità delle vanità: tutto è vanità. Chi ha lavorato con sapienza, con scienza e con successo dovrà poi lasciare la sua parte a un altro che non vi ha per nulla faticato. Anche questo è vanità e un grande male.
Infatti, quale profitto viene all’uomo da tutta la sua fatica e dalle preoccupazioni del suo cuore, con cui si affanna sotto il sole? Tutti i suoi giorni non sono che dolori e fastidi penosi; neppure di notte il suo cuore riposa. Anche questo è vanità!
Qo 1,2; 2,21-23
Il libro del Qoèlet, o Ecclesiaste è stato scritto in ebraico intorno al 250 a.C , quando la Palestina, sottomessa ai Tolomei (successori di Alessandro Magno) cominciava a sentire l’influsso ellenistico. La presentazione che porta la firma di Salomone, è solo un espediente letterario per dare più valore al testo, che è stato scritto da un pio giudeo, rimasto anonimo, che riporta le parole di un saggio. (Qoèlet vuol dire uomo che ha da dire una parola forte come predicatore, oratore sapiente) Il discorso di Qoèlet è di volta in volta solenne, travolgente, intimo, confidenziale, vivace, calmo, propenso a sintetizzare il pensiero in un proverbio, in un detto. Il libro presenta un Salomone disilluso nelle sue molte esperienze di ricerca della felicità, ma pur vincente, pronto a dire parole che hanno il sapore di una consegna del meglio di sé.
Lo scopo generale del libro è stato quello di aiutare gli Israeliti a non lasciarsi afferrare dal benessere proposto dalla cultura ellenistica in cui si trovavano al tempo del dominio dei Tolomei.
Il libro ha avuto anche lo scopo di non far guardare con nostalgia al tempo in cui Israele era politicamente grande con Salomone, perché Salomone afferma che il nucleo della pace, del godere giustamente delle cose presenti, sta nel vivere alla presenza di Dio, a cui seguirà la ricompensa eterna nell’aldilà.
La frase iniziale del brano è quella in cui si compendia tutta la riflessione dell’autore: “Vanità delle vanità, dice Qoèlet, vanità delle vanità: tutto è vanità” Essa è una dichiarazione di principio: tutto è “vanità” e questo termine significa propriamente “vapore, che si disperde nell’aria”, “alito” e designa qualcosa di vuoto, effimero, senza consistenza. Qui l’autore dice per la prima volta, il suo nome, Qoèlet, che riappare altre sei volte nel seguito del libro (1,2.12; 7,27; 12,8.9.10) . Dopo aver affermato di essere giunto al punto di disperare in cuor suo per tutta la fatica che aveva sostenuto sotto il sole, ne dà questo motivo: “Chi ha lavorato con sapienza, con scienza e con successo dovrà poi lasciare la sua parte a un altro che non vi ha per nulla faticato. Anche questo è vanità e un grande male". Se uno si impegna a fondo nella vita, può ottenere dei buoni risultati in campo materiale, ma alla morte, tutto quello che ha accumulato non gli serve più, anzi deve lasciarlo magari a uno che invece non ha saputo impegnarsi nella vita e non ha messo da parte nulla. L’autore aggiunge ancora un’altra sua considerazione: Infatti, quale profitto viene all’uomo da tutta la sua fatica e dalle preoccupazioni del suo cuore, con cui si affanna sotto il sole? Tutti i suoi giorni non sono che dolori e fastidi penosi; neppure di notte il suo cuore riposa. Anche questo è vanità! Anche durante la sua vita, l’uomo paga il suo successo in campo economico con preoccupazioni e affanni, al punto tale che perde persino la possibilità di riposare nella notte.
Qoèlet conclude che anche questo è una grande vanità, perché sacrifica per le cose materiali quel poco di piacere che potrebbe avere in questa vita.
L’insegnamento di Qoèlet è concreto; si svolge, come in questo brano, a considerare le situazioni della vita. L’autore può sembrare, ad un osservatore poco attento, un pessimista, ma non è affatto così; è solo uno che è alla continua ricerca e meditazione su ciò che lo circonda.
Il libro contribuì certamente a mantenere aperti gli Israeliti all’attesa messianica, intesa come attesa di Colui che avrebbe portato luce dall’alto.
Questo libro è importante anche per noi cristiani per non finire, sottoposti alle tante pressioni del mondo di oggi e a correre dietro al vento... Ci ricorda le cose terrene, ci fa percepire il loro limite, e invitandoci al distacco da esse, prepara in un certo senso la via ai “beati i poveri” del vangelo.
Salmo 89 - Signore, sei stato per noi un rifugio di generazione in generazione.
Tu fai ritornare l’uomo in polvere,
quando dici: «Ritornate, figli dell’uomo».
Mille anni, ai tuoi occhi,
sono come il giorno di ieri che è passato,
come un turno di veglia nella notte.
Tu li sommergi:
sono come un sogno al mattino,
come l’erba che germoglia;
al mattino fiorisce e germoglia,
alla sera è falciata e secca.
Insegnaci a contare i nostri giorni
e acquisteremo un cuore saggio.
Ritorna, Signore: fino a quando?
Abbi pietà dei tuoi servi!
Saziaci al mattino con il tuo amore:
esulteremo e gioiremo per tutti i nostri giorni.
Sia su di noi la dolcezza del Signore, nostro Dio:
rendi salda per noi l’opera delle nostre mani,
l’opera delle nostre mani rendi salda.
Il salmo illustra la condizione precaria della vita dell'uomo esposta alle sofferenze del quotidiano unitamente a quelle dei rivolgimenti storici causati per le lotte di potere. Il salmista procede con un tono sapienziale, rischiarato dalla consapevolezza della brevità dei giorni dell'uomo. Questa consapevolezza è tanto importante che egli la invoca per tutti gli uomini: “Insegnaci a contare i nostri giorni e acquisteremo un cuore saggio”.
La composizione del salmo molto probabilmente è avvenuta nel tempo di pace relativa quando Antioco V ridiede la libertà religiosa ad Israele (163 a.C.).
Il salmista si rivolge a Dio come rifugio di Israele. Rifugio certo, perché Dio non è una creazione dell'uomo, egli, infatti, da sempre esiste: “Prima che nascessero i monti e la terra e il mondo fossero generati, da sempre e per sempre tu sei, o Dio”; "Mille anni, ai tuoi occhi, sono come il giorno di ieri che è passato".
Il salmista ha il vivo ricordo di tracotanti superbi entrati nel tempio di Gerusalemme credendo di affermarsi su Dio: Tolomeo III e Tolomeo IV erano entrati nel tempio offrendo sacrifici ai loro dei (ca. 220-221 a.C.); Antioco IV Epifane lo saccheggiò e vi fece sacrifici a Giove (ca. 169-167 a.C).
Ma l'uomo è un nulla di fronte a Dio, che per l'antico peccato lo fa ritornare polvere (Gn 3,19): “Tu fai ritornare l'uomo in polvere”. L'ira di Dio travolge i superbi: “Tu li sommergi: sono come un sogno al mattino, come l'erba che germoglia; al mattino fiorisce e germoglia, alla sera è falciata e secca”; “Sì, siamo distrutti dalla tua ira”; “Tutti i nostri giorni svaniscono per la tua collera”.
L'ira di Dio è rivolta a portare l'uomo al ravvedimento. E' saggezza sapere che la collera di Dio non è una finta, ma una realtà dura che incombe sui ribelli. E' saggezza temere la collera di Dio e non sfidarla, come già fece il faraone (Es 9,30): “Chi conosce l'impeto della tua ira e, nel timore di te, la tua collera?”.
Il salmista si colloca tra tutti gli uomini, ma anche presenta fin dall'inizio la sua appartenenza ad Israele: “Signore, tu sei stato per noi un rifugio...”; e per Israele invoca pace e gioia dopo giorni e anni di afflizione: “Ritorna, Signore: fino a quando? Abbi pietà dei tuoi servi!...Rendici la gioia per i giorni in cui ci hai afflitti".
Commento di P.Paolo Berti .
Dalla lettera di S.Paolo apostolo ai Colossési
Fratelli, se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio; rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra.
Voi infatti siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio! Quando Cristo, vostra vita, sarà manifestato, allora anche voi apparirete con lui nella gloria.
Fate morire dunque ciò che appartiene alla terra: impurità, immoralità, passioni, desideri cattivi e quella cupidigia che è idolatria.
Non dite menzogne gli uni agli altri: vi siete svestiti dell’uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova per una piena conoscenza, ad immagine di Colui che lo ha creato.
Qui non vi è Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro, Scita, schiavo, libero, ma Cristo è tutto e in tutti.
Col 3,1-5, 9-11
Paolo, continuando la sua lettera ai Colossesi, dopo aver chiarito il vero senso del battesimo, in questo brano passa a considerarlo nella realtà della vita di ogni giorno. Per l’apostolo l’etica del cristiano non è altro che coerenza alla nuova realtà presente in lui per la solidarietà con la vita del risorto, afferma infatti: se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio.
L’esistenza del cristiano qui in terra ha già in sé un tocco misterioso e divino: è, infatti, già comunione ineffabile con il Cristo glorioso e, attraverso Lui, con il Padre infatti afferma: …la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio! Ciò che è visibile per il momento è solo la loro morte, perché la loro nuova vita, in quanto partecipazione alla vita di Cristo in Dio, non è visibile agli occhi del corpo. Ma “Quando Cristo, vostra vita, sarà manifestato, allora anche voi apparirete con lui nella gloria.“ Paolo ha già spiegato che la risurrezione dei morti non avrà luogo al momento del ritorno di Gesù, ma è già avvenuta, e sottolinea che solo quando egli verrà, la loro nuova vita sarà manifestata, in quanto anch’essi parteciperanno alla Sua gloria.
Nonostante siano già morti e risuscitati con Cristo, i credenti devono ancora portare a termine il loro passaggio attraverso la morte, senza del quale non possono ottenere pienamente la nuova vita in Cristo.
Paolo poi ammonisce: “Fate morire dunque ciò che appartiene alla terra: impurità, immoralità, passioni, desideri cattivi e quella cupidigia che è idolatria …”
Quaggiù sulla terra tutto questo ora non appare e rimane celato ai nostri occhi umani perchè viviamo il già e il non ancora. Sarà la parusia a svelare un giorno, nel giorno di Cristo Gesù, la portata arcana che la vita dei cristiani aveva già in questo mondo.
Negli ultimi versetti riportati in questo brano. Paolo ricorda che ci siamo svestiti dell’uomo vecchio con tutti i suoi errori, e ora viviamo rivestiti dell’uomo nuovo, che si rinnova continuamente per una piena conoscenza, ad immagine di Colui che lo ha creato.
Questo stato però non è raggiunto una volta per tutte, ma deve continuamente essere ricercato, puntando a una conoscenza sempre più approfondita di Dio per diventare simili a lui. La vita cristiana si distingue dunque per il suo dinamismo interno, che porta ad approfondire sempre più il rapporto con Dio.
Questa crescita nella fede ha una conseguenza comunitaria: Qui non vi è Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro, Scita, schiavo, libero, ma Cristo è tutto e in tutti.
Nella comunità, l’ideale da raggiungere è l’unità, che presuppone la rimozione di tutte le barriere che dividono le persone in vista di una vera uguaglianza. Questa unità sarà un giorno la particolarità dell’umanità rinnovata. Essa però deve essere anticipata nella vita della comunità, che diventa così un segno efficace della potenza di Dio che opera nella storia umana.
Dal Vangelo secondo Luca
In quel tempo, uno della folla disse a Gesù: «Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità». Ma egli rispose: «O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?».
E disse loro: «Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede».
Poi disse loro una parabola: «La campagna di un uomo ricco aveva dato un raccolto abbondante. Egli ragionava tra sé: “Che farò, poiché non ho dove mettere i miei raccolti? Farò così – disse –: demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; ripòsati, mangia, bevi e divèrtiti!”. Ma Dio gli disse: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?”. Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio».
Lc 12, 13-21
Questo brano tratto dal Vangelo di Luca fa parte della lunga descrizione del viaggio di Gesù, dalla Galilea fino a Gerusalemme, in cui l’evangelista mette la maggior parte delle informazioni che è riuscito a raccogliere su Gesù e che non si trovano negli altri vangeli.
Il brano inizia riportando una richiesta che uno della folla fa a Gesù: “Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità”. Il problema è attuale anche oggi, la distribuzione dell’eredità tra i familiari sopravissuti è una questione delicata e, molte volte, è occasione di dispute e di tensioni interminabili. C’è da tener presente però che a quel tempo, l’eredità aveva anche a che fare con l’identità delle persone (1 Re 21,1-3) e con la sopravvivenza (Nm 27,1-11). Il problema maggiore era la distribuzione delle terre tra i figli del defunto padre. Con una famiglia grande, c’era il pericolo che l’eredità si dividesse in piccoli pezzi di terra che non avrebbero più potuto garantire la sopravvivenza di tutti. Per questo, onde evitare il disfacimento dell’eredità e mantenere vivo il nome della famiglia, il primogenito riceveva il doppio degli altri figli (Dt 21,17). Gesù risponde: ”O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?”. Rifiutando così il ruolo di mediatore e li ammonisce dicendo: «Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede».
La cupidigia, l'accumulo dei beni materiali, l'eredità, la fama, il potere, non entrano nella scala dei valori di Gesù, poiché, quando il guadagno occupa il cuore, l’uomo non sa come distribuire l’eredità con equità e con pace. Poi Gesù racconta una parabola per aiutare le persone a riflettere sul senso della vita:
“La campagna di un uomo ricco aveva dato un raccolto abbondante. Egli ragionava tra sé: “Che farò, poiché non ho dove mettere i miei raccolti?”
L’uomo ricco appare davvero ossessionato per suoi beni che erano aumentati improvvisamente per il raccolto abbondante. Pensa solo a costruire magazzini più grandi per raccogliere “tutto il grano e i suoi beni”. Non è la prima volta che nel Vangelo ritroviamo qualcuno che “ragiona tra sé”. Spesso capita se avanziamo la pretesa di essere nel giusto anche dinanzi a Dio. Il ragionare tra sé non porta alla condivisione del cuore, ma a trasformare la benedizione in maledizione: il dono di Dio, la Sua benedizione diviene qui strumento di morte. Quest’uomo è stato fortunato e, nella sua fortuna, ha scelto la solitudine, la crescita del proprio io.
“ Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; ripòsati, mangia, bevi e divèrtiti!”.
Questo ricco si stava preparando un comodo programma di vita, ma evidentemente privo di amore!
La parabola del ricco “stolto” condanna proprio questo assurdo comportamento; egli ricorda che i beni, lungamente agognati, non liberano dalla morte, ma addirittura compromettono la vita perché privano della tranquillità e soprattutto impoveriscono il cuore impedendogli di aprirsi verso gli altri nella carità e nell’amore.
Gesù continua commentando: “Ma Dio gli disse: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?”.
Il Signore lo definisce “stolto” perché quest’uomo non ha capito la vita perché non l’ha vissuta. In realtà quello che lui ha vissuto è un suo sogno personale, la realtà della vita non l’ha certo compresa e non l’ha accettata giustamente. Perché la vita dell’uomo non si fonda sull’avere, non si riduce all’avere, ma è dono da accogliere con riconoscenza e con gioia nella grazia del Signore.
Il protagonista della parabola era così impegnato a farsi ricco che non ha avuto né il tempo né l’energia per arricchire davanti a Dio. Questo ricco della parabola si è illuso di aumentare i suoi guadagni e non si è accorto di ciò che stava perdendo.
“Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio”.
Gesù chiarisce questo concetto poco dopo, nello stesso Vangelo di Luca: " fatevi borse che non invecchiano, un tesoro inesauribile nei cieli, dove i ladri non arrivano e la tignola non consuma. Perché dove è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore.(Lc 12, 33-34).
Il pensiero della morte, inevitabile per tutti, poveri e ricchi, è importante per scoprire il vero senso della vita. Rende tutto relativo, poiché mostra ciò che perisce e ciò che rimane.
Chi cerca solo di avere e dimentica l’essere, perde tutto nell’ora della morte. Quest'uomo ricco aveva dimenticato l'essenziale: nessuno è padrone della propria vita come dei propri beni, perché, pensiamoci bene, tutto ci è stato dato in prestito, tutto, e per prima cosa la vita che dobbiamo restituire, a Chi ce l’ha donata con tanto di interessi!
Ci dobbiamo rendere conto che la felicità non sta nel possesso dei beni, ma di mettere a frutto ciò che abbiamo su questa terra, finché ci stiamo, amando Dio e il nostro prossimo come noi stessi.
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“Il Vangelo di questa domenica ci richiama l’assurdità di basare la propria felicità sull’avere. Il ricco dice a se stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni…riposati, mangia, bevi e divertiti! Ma Dio gli dice: Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai accumulato, di chi sarà? (cfr Lc 12,19-20).
Cari fratelli e sorelle, la vera ricchezza è l’amore di Dio condiviso con i fratelli. Quell’amore che viene da Dio e fa che noi lo condividiamo tra noi e ci aiutiamo tra noi. Chi ne fa esperienza non teme la morte, e riceve la pace del cuore. Affidiamo questa intenzione, l’intenzione di ricevere l’amore di Dio e condividerlo con i fratelli, all’intercessione della Vergine Maria.”
Papa Francesco Angelus 4 agosto 2013