Con questa celebrazione iniziamo il nuovo anno accanto a Maria, Madre di Dio e Madre nostra. Questa ricorrenza liturgica, strettamente collegata con il titolo mariano di Theotókos, dogma mariano solennemente proclamato dal concilio di Efeso il 22 giugno dell'anno 431, celebra la tematica della Divina Maternità di Maria, ed è la festa più antica in suo onore.
La liturgia odierna, è anche connessa alla celebrazione della pace, istituita da papa Paolo VI l’8 dicembre 1967[1] .
La pace è il grande dono atteso e annunziato dagli angeli nel cantico della notte di Natale e questo tema ci viene proposto oggi dalle letture liturgiche.
La prima lettura, tratta dal Libro dei Numeri, riporta la formula di benedizione che veniva pronunciata dai sacerdoti sul popolo eletto per attirate la benevolenza di Dio.
Nella seconda lettura, San Paolo, scrivendo ai Galati, svela il piano di Dio che ha voluto che Suo Figlio nascesse da una donna, e sotto la legge, perché tutti diventassimo Suoi figli e vivessimo riconciliati nella libertà e nell’amore.
Il Vangelo di Luca ci parla dei pastori che vanno a Betlemme e rendono omaggio al divino bambino e subito dopo, pieni di gioia, annunciano a tutti il lieto evento.
E’ nel nome di Maria, Madre di Dio e madre degli uomini, che dal 1 gennaio 1968 si celebra in tutto il mondo la “giornata della pace”. La pace, in senso biblico, è il dono messianico per eccellenza, è la salvezza portata da Gesù. La pace è anche un valore umano da realizzare sul piano sociale e politico, ma affonda le sue radici nel mistero di Cristo. E’ stato Lui a dire: Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. “ E’ questo il senso della pace che ognuno di noi deve sentire prima nel proprio cuore per poterla poi augurare agli altri!
Dal libro dei Numeri
Il Signore parlò a Mosè e disse: “Parla ad Aronne e ai suoi figli dicendo: “Così benedirete gli Israeliti: direte loro:
Ti benedica il Signore e ti custodisca.
Il Signore faccia risplendere per te il suo volto
E ti faccia grazia.
Il Signore rivolga su di te il suo volto e ti conceda pace.”
Così porranno il mio nome sugli Israeliti e io li benedirò”.
Nm 6,22-27
Il libro dei Numeri, il quarto libro della Bibbia, è stato scritto in ebraico e, secondo molti studiosi, la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte. La tradizione ebraica e varie confessioni religiose cristiane, ritengono persino che sarebbe stato scritto da Mosè in persona, ma la maggioranza degli esegeti moderni ritiene che tutto il Pentateuco sia in realtà una raccolta, formatasi in epoca post-esilica, di vari scritti di epoche diverse. “Numeri” è il titolo che l'antica traduzione greca ha dato a questo libro perché contiene elenchi e censimenti degli Israeliti in cammino verso la "Terra promessa".
È composto da 36 capitoli descriventi la storia degli Ebrei durante il loro soggiorno nel deserto del Sinai (circa 1200 a.C.). Infatti molti eventi del Libro avvengono nel deserto, principalmente tra il secondo ed il quarantesimo anno del vagabondare degli Israeliti. I primi 25 capitoli riportano le esperienze della prima generazione d’Israele nel deserto, mentre il resto del libro descrive le esperienze della seconda generazione.
Il brano che abbiamo inizia con queste parole:
“Il Signore parlò a Mosè e disse: “Parla ad Aronne e ai suoi figli dicendo: “Così benedirete gli Israeliti: direte loro …”
Diversamente da quanto avviene in altri testi in cui la parola o l’ordine è dato a Mosè e ad Aronne insieme, qui Mosè riceve l’incarico di affidare un compito specifico proprio ad Aronne e, per mezzo suo, a tutto l’ordine sacerdotale. La facoltà di benedire il popolo è presentata qui come una prerogativa che compete ai sacerdoti (V. Lv 9,22) e non ai re, come appare in due testi dove sono Davide (V. 2Sam 6,18) e Salomone (1Re 8,14.55-61) a benedire il popolo, o ai leviti (Dt 10,8).
Ancora una volta si fa risalire all’epoca del deserto, con tutta l’autorevolezza della mediazione mosaica una consuetudine dell’epoca in cui è stato composto il libro.
È probabile però che la formula di benedizione qui riportata sia antica perché ha avuto un gran rilievo sulla preghiera di Israele (V. Sal 4,7 e 67,2). La benedizione divina riguardo tutto il popolo e ciascuno dei suoi membri.
“Ti benedica il Signore e ti custodisca.”
La benedizione (berakah) invocata da Dio rappresenta una parola efficace che conferisce benessere e felicità. Come conseguenza della benedizione divina si chiede a Dio di “custodire” Israele. Questo verbo esprime non tanto la protezione del Signore contro un immediato pericolo, ma soprattutto la sua premura per Israele in ogni momento della sua esistenza.
La benedizione prosegue con una invocazione:
” Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia”.
Il volto splendente del Signore è un’immagine per indicare il sorriso con cui si rivolge al Suo popolo. L'immagine del volto luminoso di Dio è frequente nei salmi anche come invocazione (Sal 31,17; 80,4.8.20; 119,135).
Il sorriso del Signore è auspicio di prosperità, di benevolenza e di protezione e la “grazia” consiste appunto nella benevolenza di Dio verso il suo popolo.
La benedizione continua poi con una terza richiesta:
“ Il Signore rivolga su di te il suo volto e ti conceda pace.”
Si riprende qui quanto era già stato espresso nel versetto precedente, con l'auspicio che il volto di Dio resti rivolto verso Israele, segno di attenzione e di benevolenza, perché in caso contrario il popolo cade nella disperazione: La benevolenza e l'attenzione di Dio sono premessa del dono della “pace” (shalôm). Questo termine in ebraico ha un significato molto profondo perchè indica non semplicemente l’assenza di guerra, ma soprattutto la pienezza di vita, cioè quello stato di grazia in cui si è liberi dalla necessità e dal male; nelle forme di saluto diventa augurio di una vita serena, equilibrata nella felicità materiale e spirituale.
Il brano termina con queste parole:
“Così porranno il mio nome sugli Israeliti e io li benedirò”.
Questa espressione vuol dire rendere Dio presente e benevolo in mezzo al popolo.
Si comprende perchè questo testo sia stato adottato, nella recente riforma liturgica, come ampliamento (libero) della benedizione del sacerdote nel congedare il popolo dopo la Messa.
Salmo 67 (66) Dio abbia pietà di noi e ci benedica
Dio abbia pietà di noi e ci benedica,
su di noi faccia splendere il suo volto;
perché si conosca sulla terra la tua via,
fra tutte le genti la tua salvezza.
Gioiscano le nazioni e si rallegrino,
perché tu giudichi i popoli con rettitudine,
governi le nazioni sulla terra.
Ti lodino i popoli, Dio,
ti lodino i popoli tutti.
Ci benedica Dio e lo temano
tutti i confini della terra.
Il salmista presenta come Dio abbia benedetto il suo popolo con un raccolto abbondante: “La terra ha dato il suo frutto”. Ma questo non chiude il salmista nell’appagamento dei beni dati dalla terra, poiché egli manifesta, fin dall’inizio del salmo, il desiderio di un ben più alto dono: quello della presenza del Messia. Per tale presenza il popolo sarà rinnovato e si avrà che tutti i popoli giungeranno a conoscere il vero Dio e a lodarlo: “Su di noi faccia splendere il suo volto; perché si conosca sulla terra la tua via, la tua salvezza fra tutte le genti ”. Il salmista conclude il salmo ripresentando il suo desiderio dei tempi messianici: “Ci benedica Dio; il nostro Dio, ci benedica Dio e lo temano tutti i confini della terra”. Noi, in Cristo, desideriamo vivamente una terra rinnovata dalla conoscenza di Cristo e dall’azione del suo Spirito, e dobbiamo, nella viva appartenenza alla Chiesa, adoperarci incessantemente per questo.
Commento di P.Paolo Berti
Dalla lettera di S.Paolo ai Galati
Fratelli, quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l'adozione a figli.
E che voi siete figli lo prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio il quale che grida: Abbà, Padre!
Quindi non sei più schiavo, ma figlio; e se figlio, sei anche erede per grazia di Dio.
Gal 4,4-7
Paolo scrive la lettera ai Galati probabilmente da Efeso tra il 54 e il 57 e lo fa per controbattere ad una predicazione fatta da alcuni ebrei cristiani dopo che l'apostolo aveva lasciato la comunità: questi missionari avevano convinto alcuni galati che l'insegnamento di Paolo era incompleto e che la salvezza richiedeva il rispetto della Legge di Mosè, in particolare della circoncisione. Paolo condanna tale orientamento, proclamando la libertà dei credenti e la salvezza per mezzo della fede.
In questo brano in particolare Paolo delinea la svolta che si è verificata con l’avvento di Cristo ed inizia affermando: “quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l'adozione a figli.”
Per l’apostolo è chiaro, che Gesù è fin dall’eternità il “Figlio di Dio”, che è nato non solo “da donna”, assumendo così fino in fondo un’umanità limitata e sofferente, ma anche “sotto la Legge”, al punto tale da portarne in modo unico e drammatico la maledizione (Gal 3,13) così la sua vita è stata contrassegnata dalla solidarietà più piena con la situazione di tutta l’umanità. In questo cammino di abbassamento Cristo però non ha mai cessato di essere Figlio, e se Egli si è messo sullo stesso piano dell’umanità peccatrice, lo ha fatto, non per adeguarsi ad essa, ma “per riscattare quelli che erano sotto la Legge”, cioè per portare a termine, come Dio un giorno aveva fatto con il popolo di Israele schiavo in Egitto, una grande opera di liberazione, i cui destinatari non sono soltanto i giudei, ma anche i pagani. Egli ha potuto raggiungere il Suo scopo facendo sì che essi ricevessero l’adozione a figli, cioè diventassero partecipi della Sua stessa qualità di Figlio. Il Figlio di Dio ha dunque manifestato pienamente la Sua “potenza” quando, risuscitando dai morti, ha comunicato a tutti gli uomini la Sua filiazione divina (Rm 1,3).
Paolo sottolinea poi l’efficacia della missione del Figlio affermando ancora : “E che voi siete figli lo prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio il quale che grida: Abbà, Padre!” La filiazione divina perciò comporta la presenza e l’opera dello Spirito, che viene designato come “Spirito del suo Figlio”, e come tale è stato “mandato” da Dio “nei nostri cuori”.
La filiazione divina dei credenti appare dal fatto che lo Spirito, presente in essi, grida “Abbà, Padre”:
E’ da notare che il termine Abbà era normalmente usato dai bambini in Palestina per rivolgersi al loro papà, mentre i giudei si rivolgevano a Dio con formule più solenni e rispettose, come Abì (Padre mio) o Abinû (Padre nostro). L’iniziativa di pregare Dio con l’appellativo di Abbà è solo di Gesù, quando ha dato ai suoi discepoli il comando di rivolgersi a Dio chiamandolo “Padre nostro”, coinvolgendoli così nel rapporto che Egli, in quanto unico Figlio, ha con il Padre.
Nel versetto finale: “Quindi non sei più schiavo, ma figlio; e se figlio, sei anche erede per grazia di Dio” Paolo afferma che il credente deve prendere atto della sua nuova situazione in cui, ormai libero dal peccato, è divenuto figlio di Dio ed erede delle promesse.
Dal vangelo secondo Luca
In quel tempo, i pastori andarono senza indugio e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia. E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro. Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori. Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore. I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com'era stato detto loro.
Quando furono compiuti gli otto giorni prescritti per la circoncisione, gli fu messo nome Gesù come era stato chiamato dall'angelo prima che fosse concepito nel grembo.
Lc 2,16-21
Questo breve brano tratto dal Vangelo di Luca riprende la seconda parte del racconto della nascita di Gesù, nella quale viene raccontata la visita che i pastori, avvisati dall’angelo, hanno fatto al bambino Gesù. La scelta del testo per la solennità della Madre di Dio è significativa perché cade proprio l'ottavo giorno dopo la nascita del figlio Gesù, che ricorda il rito della circoncisione e dell'imposizione del nome al bambino.
Il brano inizia riportando che
“i pastori andarono senza indugio e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia.
Invitati dagli angeli a rallegrarsi per la nascita del Salvatore e sollecitati a verificarne il segno, i pastori si muovono ”senza indugio, affrettandosi”, come Maria nell'episodio della visitazione, anch'essi spinti in obbedienza alla parola che è stata loro annunciata. Citando per prima Maria, nel nominare le persone che i pastori incontrano, Luca ci mostra ancora una volta la sua grande venerazione per la Madre di Gesù.
“E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro. Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori.”
E' importante notare gli atteggiamenti dei pastori: prima ascoltano, poi si muovono e trovano il segno. A questo punto lo guardano e diventano a loro volta annunciatori, riferendo quanto avevano udito.
Si può comprendere che Luca non sta parlando solo dell'esperienza dei pastori di Betlemme, ma del diffondersi del vangelo. Coloro che accoglieranno la predicazione degli apostoli e faranno esperienza dell'incontro con Gesù e crederanno, potranno comunicare a loro volta questa buona notizia.
“Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore.”
Solo Maria non parla, ma conserva in se stessa tutte queste cose meditandole nel suo cuore. Maria non si perde in vane parole, ma pone se stessa e tutta la sua vita in sintonia con quanto Dio aveva detto e stava operando nella storia del suo popolo mediante quel bambino che lei stessa aveva generato.
Luca conclude annotando che i pastori, dopo aver visto il bambino e aver riferito il messaggio che avevano udito, “se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com'era stato detto loro”. Non solo perciò per quello che avevano udito, ma anche per quello che avevano visto con i loro occhi, a conferma di quanto era stato detto loro.
Il brano si conclude menzionando il rito della circoncisione (attraverso il quale il Bambino è inserito ufficialmente nel popolo di Dio) e l'imposizione del nome, a cui Luca dà un risalto particolare:
"Gli fu messo nome Gesù come era stato chiamato dall'angelo prima che fosse concepito nel grembo”.
Il nome nella Bibbia è la realtà stessa della persona che lo porta: tanti Gesù nella storia di Israele avevano portato questo nome, ma nessuno poteva dire di attuarne in pieno il significato: Yehôsua‘ “YHWH salva” il Signore salva. Ora, in questa circoncisione appare il vero Salvatore che recupera a sé nell’alleanza del Suo sangue quel popolo e quell’umanità a cui Egli si sta unendo attraverso il rito della circoncisione. Gesù entra nel tempio non per essere consacrato ma per consacrare, non per essere purificato ma per purificare, non per essere assorbito e dissolto dalla nostra creaturalità, ma per assumere e salvare la nostra umanità così da renderci come Lui figli ed eredi.
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“Oggi, ottavo giorno dopo il Natale, celebriamo la Santa Madre di Dio. Come i pastori di Betlemme, rimaniamo con lo sguardo fisso su di lei e sul Bambino che tiene tra le braccia. E in questo modo, mostrandoci Gesù, il Salvatore del mondo, lei, la madre, ci benedice. Oggi la Madonna ci benedice tutti, tutti. Benedice il cammino di ogni uomo e ogni donna in questo anno che inizia, e che sarà buono proprio nella misura in cui ciascuno avrà accolto la bontà di Dio che Gesù è venuto a portare nel mondo.
In effetti, è la benedizione di Dio che dà sostanza a tutti gli auguri che vengono scambiati in questi giorni. E oggi la liturgia riporta l’antichissima benedizione con cui i sacerdoti israeliti benedicevano il popolo. Ascoltiamo bene, recita così: «Ti benedica il Signore e ti custodisca. Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia. Il Signore rivolga a te il suo volto e ti conceda pace». Questa è la benedizione antichissima.
Per tre volte il sacerdote ripeteva il nome di Dio, “Signore”, stendendo la mani verso il popolo radunato. Nella Bibbia, infatti, il nome rappresenta la realtà stessa che viene invocata, e così, “porre il nome” del Signore su una persona, una famiglia, una comunità significa offrire loro la forza benefica che scaturisce da Lui.
In questa stessa formula, per due volte si nomina il “volto”, il volto del Signore. Il sacerdote prega che Dio lo “faccia risplendere” e lo “rivolga” verso il suo popolo, e così gli conceda la misericordia e la pace.
Sappiamo che secondo le Scritture il volto di Dio è inaccessibile all’uomo: nessuno può vedere Dio e rimanere in vita. Questo esprime la trascendenza di Dio, l’infinita grandezza della sua gloria. Ma la gloria di Dio è tutta Amore, e dunque, pur rimanendo inaccessibile, come un Sole che non si può guardare, irradia la sua grazia su ogni creatura e, in modo speciale, sugli uomini e le donne, nei quali maggiormente si rispecchia.
«Quando venne la pienezza del tempo», Dio si è rivelato nel volto di un uomo, Gesù, «nato da donna». E qui ritorniamo all’icona della festa odierna, da cui siamo partiti: l’icona della Santa Madre di Dio, che ci mostra il Figlio, Gesù Cristo, Salvatore del mondo. Lui è la Benedizione per ogni persona e per l’intera famiglia umana.
Lui, Gesù, è sorgente di grazia, di misericordia e di pace.
Per questo il santo Papa Paolo VI ha voluto che il primo gennaio fosse la Giornata Mondiale della Pace… Non pensiamo che la politica sia riservata solo ai governanti: tutti siamo responsabili della vita della “città”, del bene comune; e anche la politica è buona nella misura in cui ognuno fa la sua parte al servizio della pace. Ci aiuti in questo impegno quotidiano la Santa Madre di Dio”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 1 gennaio 2019